dai "Racconti
fantastici"
Un osso di
morto
di Iginio Ugo Tarchetti
Lascio a chi mi legge l'apprezzamento del fatto inesplicabile
che sto per raccontare.
Nel 1855, domiciliatomi a Pavia, m'era dato allo studio del
disegno in una scuola privata di quella città; e dopo alcuni mesi di soggiorno
aveva stretto relazione con certo Federico M. che era professore di patologia e
di clinica per l'insegnamento universitario, e che morì di apoplessia
fulminante pochi mesi dopo che lo aveva conosciuto. Era uomo amantissimo delle
scienze, e della sua in particolare — aveva virtù e doti di mente non comuni
— senonché, come tutti gli anatomisti ed i clinici in genere, era scettico
profondamente e inguaribilmente — lo era per convinzione, né io potei mai
indurlo alle mie credenze, per quanto mi vi adoprassi nelle discussioni
appassionate e calorose che avevamo ogni giorno a questo riguardo. Nondimeno —
e piaceami rendere questa giustizia alla sua memoria — egli si era mostrato
sempre tollerante di quelle convinzioni che non erano le sue; ed io e quanti il
conobbero abbiamo serbato la più cara rimembranza di lui. Pochi giorni prima
della sua morte egli mi aveva consigliato ad assistere alle sue lezioni di
anatomia, adducendo che ne avrei tratte non poche cognizioni giovevoli alla mia
arte del disegno: acconsentii benché repugnante; e spinto dalla vanità di
parergli meno pauroso che non fossi, lo richiesi di alcune ossa umane che egli
mi diede e che io collocai sul caminetto della mia stanza. Colla morte di lui io
aveva cessato di frequentare il corso anatomico, e più tardi aveva anche
desistito dallo studio del disegno. Nondimeno aveva conservato ancora per molti
anni quelle ossa, ché l'abitudine di vederle me le aveva rese quasi
indifferenti, e non sono più di pochi mesi che, colto da subite paure, mi
risolsi a seppellirle, non trattenendo presso di me che una semplice rotella di
ginocchio. Questo ossicino sferico e liscio che, per la sua forma e la sua
piccolezza io aveva destinato, fino dal primo istante che l'ebbi, a compiere
l'ufficio d'un premi-carte, come quello che non mi richiamava alcuna idea
spaventosa, si trovava già collocato da undici anni sul mio tavolino, allorché
ne fui privato nel modo inesplicabile che sto per raccontare.
Aveva conosciuto a Milano nella scorsa primavera un
magnetizzatore assai noto tra gli amatori di spiritismo, e aveva fatto istanze
per essere ammesso ad una delle sue sedute spiritiche. Ricevetti poco dopo
invito di recarmivi, e vi andai agitato da prevenzioni sì tristi, che più
volte lungo la via era stato quasi in procinto di rinunciarvi. L'insistenza del
mio amor proprio mi vi aveva spinto mio malgrado. Non starò a discorrere qui
delle invocazioni sorprendenti a cui assistetti: basterà il dire che io fui sì
meravigliato delle risposte che ascoltammo da alcuni spiriti, e la mia mente fu
sì colpita da quei prodigi, che superato ogni timore, concepii il desiderio di
chiamarne uno di mia conoscenza, e rivolgergli io stesso alcune domande che
aveva già meditate e discusse nella mia mente. Manifestata questa volontà,
venni introdotto in un gabinetto appartato, ove fui lasciato solo; e poiché
l'impazienza e il desiderio d'invocare molti spiriti a un tempo mi rendevano
titubante sulla scelta, ed era mio disegno di interrogare lo spirito invocato
sul destino umano, e sulla spiritualità della nostra natura, mi venne in
memoria il dottore Federico M. col quale, vivente, aveva avuto delle vive
discussioni su questo argomento, e deliberai di chiamarlo. Fatta questa scelta,
mi sedetti ad un tavolino, disposi innanzi a me un foglietto di carta, intinsi
la penna nel calamaio, mi posi in atteggiamento di scrivere, e concentratomi per
quanto era possibile in quel pensiero, e raccolta tutta la mia potenza di
volizione, e direttala a quello scopo, attesi che lo spirito del dottore
venisse.
Non attesi lungamente. Dopo alcuni minuti d'indugio mi
accorsi per sensazioni nuove e inesplicabili che io non era più solo nella
stanza, sentii per così dire la sua presenza; e prima che avessi saputo
risolvermi a formulare una domanda, la mia mano agitata e convulsa, mossa come
da una forza estranea alla mia volontà, scrisse, me inconsapevole, queste
parole:
"Sono a voi. Mi avete chiamato in un momento in cui
delle invocazioni più esigenti mi impedivano di venire, né potrò trattenermi
ora qui, né rispondere alle interrogazioni che avete deliberato di farmi.
Nondimeno vi ho obbedito per compiacervi, e perché aveva bisogno io stesso di
voi; ed era gran tempo che cercava il mezzo di mettermi in comunicazione col
vostro spirito. Durante la mia vita mortale vi ho date alcune ossa che aveva
sottratte al gabinetto anatomico di Pavia, e tra le quali vi era una rotella di
ginocchio che ha appartenuto al corpo di un ex inserviente dell'Università, che
si chiamava Pietro Mariani, e di cui io aveva sezionato arbitrariamente il
cadavere. Sono ora undici anni che egli mette alla tortura il mio spirito per
riavere quell'ossicino inconcludente, né cessa di rimproverarmi amaramente
quell'atto, di minacciarmi, e di insistere per la restituzione della sua
rotella. Ve ne scongiuro per la memoria forse non ingrata che avrete serbato di
me, se voi la conservate tuttora, restituitegliela, scioglietemi da questo
debito tormentoso. Io farò venire a voi in questo momento lo spirito del
Mariani. Rispondete".
Atterrito da quella rivelazione, io risposi che conservava di
fatto quella sciagurata rotella, e che era felice di poterla restituire al suo
proprietario legittimo, che, non v'essendo altra via, mandasse da me il Mariani.
Ciò detto, o dirò meglio, pensato, sentii la mia persona come alleggerita, il
mio braccio più libero, la mia mano non più ingranchita come dianzi, e
compresi, in una parola, che lo spirito del dottore era partito.
Stetti allora un altro istante ad attendere. La mia mente era
in uno stato di esaltazione impossibile a definirsi.
In capo ad alcuni minuti, riprovai gli stessi fenomeni di
prima, benché meno intensi; e la mia mano, trascinata dalla volontà dello
spirito, scrisse queste altre parole:
"Lo spirito di Pietro Mariani, ex inserviente
dell'Università di Pavia, è innanzi a voi, e reclama la rotella del suo
ginocchio sinistro che ritenete indebitamente da undici anni. Rispondete".
Questo linguaggio era più conciso e più energico di quello
del dottore. Io replicai allo spirito:
"Io sono dispostissimo a restituire a Pietro Mariani la
rotella del suo ginocchio sinistro, e lo prego anzi di perdonarmene la
detenzione illegale; desidero però di conoscere come potrò effettuare la
restituzione che mi è domandata". Allora la mia mano tornò a scrivere:
"Pietro Mariani, ex inserviente dell'Università di
Pavia, verrà a riprendere egli stesso la sua rotella".
"Quando?" chiesi io atterrito.
E la mano vergò istantaneamente una sola parola:
"Stanotte".
Annichilito da quella notizia, coperto di un sudore
cadaverico, io mi affrettai ad esclamare, mutando tono di voce ad un tratto.
"Per carità... vi scongiuro... non vi disturbate...
manderò io stesso... vi saranno altri mezzi meno incomodi...". Ma non
aveva finito la frase che mi accorsi, per le sensazioni già provate dapprima,
che lo spirito di Mariani si era allontanato, e che non v'era più mezzo ad
impedire la sua venuta.
È impossibile che io possa rendere qui colle parole
l'angoscia delle sensazioni che provai in quel momento. Io era in preda ad un
panico spaventoso. Uscii da quella casa mentre gli orologi della città
suonavano la mezzanotte: le vie erano deserte, i lumi delle finestre spenti, le
fiamme nei fanali offuscate da un nebbione fitto e pesante: tutto mi pareva più
tetro del solito. Camminai per un pezzo senza sapere dove dirigermi: un istinto
più potente della mia volontà mi allontanava dalla mia abitazione. Ove
attingere il coraggio di andarvi? Io avrei dovuto ricevervi in quella notte la
visita di uno spettro: era un'idea da morirne, era una prevenzione troppo
terribile.
Volle allora il caso che aggirandomi, non so più per qual
via, mi trovassi di fronte a una bettola, su cui vidi scritto a caratteri
intagliati in un'impannata, e illuminati da una fiamma interna: "Vini
nazionali" e io dissi senz'altro a me stesso: "Entriamovi, è meglio
così, e non è un cattivo rimedio; cercherò nel vino quell'ardimento che non
ho più il potere di chiedere alla mia ragione". E cacciatomi in un angolo
d'una stanzaccia sotterranea domandai alcune bottiglie di vino che bevetti con
avidità, benché repugnante per abitudine all'abuso di quel liquore. Ottenni
l'effetto che aveva desiderato. Ad ogni bicchiere bevuto il mio timore svaniva
sensibilmente, i miei pensieri si dilucidavano, le mie idee parevano
riordinarsi, quantunque con un disordine nuovo; e a poco a poco riconquistai
talmente il mio coraggio che risi meco stesso del mio terrore, e mi alzai, e mi
avviai risoluto verso casa.
Giunto in stanza, un po' barcollante pel troppo vino bevuto,
accesi il lume, mi spogliai per metà, mi cacciai a precipizio nel letto, chiusi
un occhio e poi un altro, e tentai di addormentarmi. Ma era indarno.
Mi sentiva assopito, irrigidito, catalettico, impotente a
muovermi; le coperte mi pesavano addosso e mi avviluppavano e mi investivano
come fossero di metallo fuso; e durante quell'assopimento incominciai ad
avvedermi che dei fenomeni singolari si compievano intorno a me.
Dal lucignolo della candela che mi pareva avere spento, che
era d'altronde una stearica pura, si sollevavano in giro delle spire di fumo sì
fitte e sì nere, che raccogliendosi sotto il soffitto lo nascondevano, e
assumevano apparenza di una cappa pesante di piombo: l'atmosfera della stanza,
divenuta ad un tratto soffocante, era impregnata di un odore simile a quello che
esala dalla carne viva abbrustolita, le mie orecchie erano assordate da un
brontolio incessante di cui non sapeva indovinare le cause, e la rotella che
vedeva lì, tra le mie carte, pareva muoversi e girare sulla superficie del
tavolo, come in preda a convulsioni strane e violente.
Durai non so quanto tempo in quello stato: io non poteva
distogliere la mia attenzione da quella rotella.
I miei sensi, le mie facoltà, le mie idee, tutto era
concentrato in quella vista, tutto mi attraeva a lei; io voleva sollevarmi,
discendere dal letto, uscire, ma non mi era possibile; e la mia desolazione era
giunta a tal grado che quasi non ebbi a provare alcuno spavento, allorché
dissipatosi a un tratto il fumo emanato dal lucignolo della candela, vidi
sollevarsi la tenda dell'uscio e comparire il fantasma aspettato.
Io non batteva palpebra. Avanzatosi fino alla metà della
stanza, s'inchinò cortesemente e mi disse: "Io sono Pietro Mariani, e
vengo a riprendere, come vi ho promesso, la mia rotella".
E poiché il terrore mi rendeva esitante a rispondergli, egli
continuò con dolcezza:
"Perdonerete se ho dovuto disturbarvi nel colmo della
notte... in quest'ora... capisco che la è un'ora incomoda... ma...".
"Oh! è nulla, è nulla — io interruppi rassicurato da
tanta cortesia, — io vi debbo anzi ringraziare della vostra visita... io mi
terrò sempre onorato di ricevervi nella mia casa..."
"Ve ne son grato — disse lo spettro — ma desidero ad
ogni modo giustificarmi dell'insistenza con cui ho reclamato la mia rotella, sia
presso di voi, sia presso l'egregio dottore dal quale l'avete ricevuta;
osservate."
E così dicendo sollevò un lembo del lenzuolo bianco in cui
era avviluppato, e mostrandomi lo stinco della gamba sinistra legato al femore,
per mancanza della rotella, con un nastro nero passato due o tre volte
nell'apertura della fibula, fece alcuni passi per la stanza onde farmi conoscere
che l'assenza di quell'osso gl'impediva di camminare liberamente.
"Tolga il cielo — io dissi allora con accento d'uomo
mortificato — che il degno ex inserviente dell'Università di Pavia abbia a
rimanere zoppicante per mia causa: ecco la vostra rotella, là, sul tavolino,
prendetela, e accomodatela come potete al vostro ginocchio."
Lo spettro s'inchinò per la seconda volta in atto di
ringraziamento, si slegò il nastro che gli congiungeva il femore allo stinco,
lo posò sul tavolino, e presa la rotella, incominciò ad adattarla alla gamba.
"Che notizie ne recate dall'altro mondo?" io chiesi
allora, vedendo che la conversazione languiva, durante quella sua occupazione.
Ma egli non rispose alla mia domanda, ed esclamò con aspetto attristato:
"Questa rotella è alquanto deteriorata, non ne avete fatto un buon
uso".
"Non credo — io dissi, — ma forse che le altre
vostre ossa sono più solide?"
Egli tacque ancora, s'inchinò la terza volta per salutarmi;
e quando fu sulla soglia dell'uscio, rispose chiudendone l'imposta dietro di
sé. "Sentite se le altre mie ossa non sono più solide".
E pronunciando queste parole percosse il pavimento col piede
con tanta violenza che le pareti ne tremarono tutte; e a quel rumore mi scossi
e... mi svegliai.
E appena desto, intesi che era la portinaia che picchiava
all'uscio e diceva: "Son io, si alzi, mi venga ad aprire".
"Mio Dio! — esclamai allora fregandomi gli occhi col
rovescio della mano. — Era dunque un sogno, nient'altro che un sogno! che
spavento! Sia lodato il cielo... Ma quale insensatezza! Credere allo
spiritismo... ai fantasmi..." E infilzati in fretta i calzoni, corsi ad
aprire l'uscio; e poiché il freddo mi consigliava a ricacciarmi sotto le
coltri, mi avvicinai al tavolino per posarvi la lettera sotto il premi-carte...
Ma quale fu il mio terrore quando vi vidi sparita la rotella,
e al suo posto trovai il nastro nero che vi aveva lasciato Pietro Mariani!
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