Fosca
di Iginio Ugo Tarchetti
Commetto io un’indiscrezione nel pubblicare queste memorie? Credo di no;
né una titubanza piú lunga, giustificherebbe ad ogni modo la mia colpa. Colui
che le ha scritte è ora troppo indifferente alle cose del mondo, troppo sicuro
di sé, perché abbia a godere dell’elogio o a soffrire del biasimo che può
derivargliene. Egli sa per quale strana combinazione questo manoscritto è
venuto in mio potere, né ignora il disegno che io aveva concepito di publicarlo.
Gli basterà che io vi abbia tolte quelle indicazioni che potevano compromettere
la fama di persone ancora viventi, e che il segreto della sua vita attuale sia
stato rispettato. Se l’autore di queste pagine può ancora trovare nella solitudine e nell’egoismo
in cui si è rifuggito, qualche parte di ciò che egli fu un tempo, non gli
farà forse discaro che altri abbiano a versare, nel leggere queste memorie,
quelle lacrime che egli ha certo versato nello scriverle.
Milano, 21 gennaio 1869
I
Mi sono accinto piú volte a scrivere queste mie memorie, e uno strano
sentimento misto di terrore e di angoscia mi ha distolto sempre dal farlo. Una
profonda sfiducia si è impadronita di me. Temo immiserire il valore e l’aspetto
delle mie passioni, tentando di manifestarle; temo obbliarle tacendole. Perché
ella è cosa quasi agevole il dire ciò che hanno sentito gli altri — l’eco
delle altrui sensazioni si ripercuote nel nostro cuore senza turbarlo — ma
dire ciò che abbiamo sentito noi, i nostri affetti, le nostre febbri, i nostri
dolori, è compito troppo superiore alla potenza della parola. Noi sentiamo di
non poter essere nel vero.
Ho pensato spesso con gioia alla rovina che il tempo va facendo alle mie
memorie; piú spesso vi ho pensato con dolore. Dimenticare! È uccidersi, è
rinunciare a quell’unico bene che possediamo realmente e impreteribilmente, al
passato. Ché se si potessero dimenticare soltanto le gioie, forse l’oblio
potrebbe essere giustamente desiderato; ma dei nostri dolori noi siamo superbi e
gelosi, noi li amiamo, noi li vogliamo ricordare. Sono essi che compongono la
corona della vita.
Il passato è la misura del tempo che abbiamo percorso, la misura di quello
che ci rimane a percorrere. Perciò noi lo teniamo caro, perché ci fa fede dell’accorciarsi
progressivo dell’esistenza. Un’avidità febbrile di morire affatica
inconsciamente gli uomini. Chi vorrebbe tornare indietro un’ora, un minuto, un
istante nella sua vita? Nessuno; e pure si ama, e si rimpiange questo passato
che si ha orrore di rinnovare.
Scrivere ciò che abbiamo sofferto e goduto, è dare alle nostre memorie la
durata della nostra esistenza. Scrivere per noi per rileggere, per ricordare in
segreto, per piangere in segreto. Ecco perché scrivo.
Vi fu un tempo in cui avrei voluto fare un libro delle cose che sto per
raccontare: un’inclinazione che i casi della mia vita avevano combattuto per
tanti anni, ma né dominata né vinta, mi aveva trabalzato già tardi, già
vecchio d’ingegno e di cuore, nel mondo della publicità e delle lettere. Io
non vi aveva potuto portare che le memorie di una gioventú ricca di molte
passioni, di una vita lungamente e orribilmente angosciata. Ove l’arte avesse
trovato in me valore pari alla grandezza del soggetto, il racconto che mi
accingeva a scrivere mi avrebbe forse procurato un successo clamoroso. Nondimeno
me ne astenni. Gettare nel fango della publicità il segreto de’ miei dolori,
sacrificarlo alle vuote soddisfazioni della fama sarebbe stata debolezza indegna
del mio passato. Io scrivo ora per me medesimo. Non avrei mai osato violare la
sola religione che è sopravvissuta alla rovina della mia fede, la religione
delle mie memorie.
Su questo vecchio quaderno su cui ho tentato già tante volte d’incominciare
il mio racconto, vi sono molte cancellature che non posso piú decifrare. Temo
che il tempo abbia pure cancellate dalla mia anima non poche delle sue
rimembranze.
Questi fogli su cui la mia anima si è arrestata tante volte, trattenuta da
un terrore che non poteva vincere, mi accompagnano già da cinque anni nelle mie
faticose peregrinazioni. Sulla maggior parte di essi vi è scritto nulla; pure
sembra che il mio pensiero vi abbia tracciato delle cifre misteriose e solenni,
tanto vi ho meditato sopra, guardandoli. E li svolgo nell’ansietà di
leggerli, e osservo con melanconia i piccoli acari della carta che fuggono lungo
le loro pieghe ingiallite.
Sí, sono oramai cinque anni! Le cause del mio terrore non hanno cessato di
esistere, perché il mio cuore non è di quelli che dimenticano, ma, comunque
sia, questo terrore è dissipato. Mi sento ora il coraggio di ricordare e di
scrivere. Ora che tutto deve essere finito!
Mi guardo spesso d’intorno come fossi rimasto solo nel mondo, come se le
illusioni che mi avevano accompagnato sin qui fossero state cose vive e
sensibili, come dovessi rivederle al mio fianco. Era venuto innanzi solo nella
vita, e non mi era accorto mai di esser solo. Ma ora! Ho provato la solitudine
della società, e l’ho spesso cercata con ardore, l’ho cercata anzi sempre;
quella è nulla. È la solitudine delle passioni che è orribile!
Non so se gli altri uomini abbiano seguito un passaggio cosí rapido e cosí
violento come il mio, dal periodo della fede a quello della disperanza; se sieno
passati ad un tratto dalla vita operosa della gioventú, alla vita inerte e
sconsolata della vecchiezza. Credo nondimeno che molti vi sieno entrati con
calma, quelli che amarono serenamente e con calma.
Io era nato con passioni eccezionali. Io non avrei mai saputo né amare né
odiare a metà; non avrei potuto abbassare i miei affetti fino al livello di
quelli degli altri uomini. La natura mi aveva reso ribelle alle misure comuni e
alle leggi comuni. Era dunque giusto che anche le mie passioni avessero cause,
modi, svolgimenti, fini eccezionali.
Ho avuto due grandi amori, due amori diversamente sentiti, ma ugualmente
fatali e formidabili. È con essi che si è estinta la mia gioventú; è per
essi.
Scrivendo queste pagine, io non ho altro scopo che di interrogare le mie
memorie ancora una volta per non doverle interrogare mai piú. Io innalzo questo
monumento sulle ceneri del mio passato, come si compone una lapide sul sepolcro
di un essere adorato e perduto.
Ho presa una grande risoluzione.
Prima di ritirarmi dal mondo, prima di isolarmi in mezzo alla folla —
isolamento assai piú penoso che nelle vaste solitudini della natura — ho
voluto ricordare ancora una volta, ricordare con pienezza e con fede. Io sono
ora in pace con me stesso. Le agitazioni profonde della mia anima, le
irrequietezze febbrili della mia mente sono cessate. Io ne comprendo ora le
cause. Molti uomini non si trovano bene colla vita perché non hanno ancora
scoperto il loro punto d’equilibrio.
Il difficile è trovare il centro della propria anima!
Non scriverò che di un solo di questi amori. Non parlerò dell’altro che
pel contrasto spaventoso che ha formato col primo. Quello non è stato che un
amore felice. Raccontarlo, sarebbe lo stesso che ripetere la storia di tutti gli
affetti, e non v’è creatura che abbia amato sí poco da non conoscerla. O si
abbandona, o si è abbandonati — spesso desiderosi, spesso contenti dell’abbandono.
Tal cosa è il cuore umano.
Piú che l’analisi di un affetto, piú che il racconto di una passione d’amore,
io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. — Quell’amore io non l’ho
sentito, l’ho subito. Non so se vi siano al mondo altri uomini che abbiano
superato una prova come quella, e nelle circostanze in cui io l’ho superata;
non so se vi sarebbero sopravvissuti.
Esprimo questo dubbio, perché mi avvenne spesso di chiedere a me medesimo:
"come, in che guisa vi sono io sopravvissuto?"
Sento nondimeno che qualche cosa si è guastato nella mia testa: io non ho
piú cognizione di tempo, non ho piú ordine nelle mie idee, non ho piú
lucidità nelle mie memorie. Questi cinque anni sono passati come un istante e
come un’eternità, inosservati, oscuri, senza suddivisioni di giorni e di
epoche. Quelle feste, quegli anniversari che formavano le gioie piú pure della
mia vita quand’era fanciullo, sono essi ritornati ogni anno? E come non li ho
avvertiti? Cosa ho fatto in questo lungo spazio di tempo? Perché non ho piú
amato?…
Non so piú pensare, non so piú fermarmi lungamente sopra un’idea, non
vedo piú le linee che separano il vero dal paradossale. Tutto mi sembra ora
logico, naturale, possibile. Tutti i miei pensieri si urtano, si confondono, si
perdono in un vortice che turbina incessantemente nella mia testa. È là che
tutto va a finire. Sento che la coscienza di me si è confusa. Quando avrò
scritto la storia di questo amore, dovrei scrivere ancora quella dei cinque anni
che vi sono succeduti; sarebbe una storia terribile. Dovrei scriverne un’altra
piú terribile ancora; sarebbe la storia delle mie visioni, il racconto dei
sogni che hanno popolato le mie notti durante quel tempo.
Radunerò qui i documenti, le lettere, le note che ho conservato.
Ricostruirò questo edificio colle sue stesse rovine.
Ora sono ben calmo e tranquillo; ora che ho incominciato a non diffidare piú
di me medesimo. La mia indifferenza mi assicura che le sorgenti del mio
entusiasmo sono esaurite. Una cosa mi conforta e mi inorgoglisce, il sentimento
della mia freddezza— perché il mio cuore è freddo, terribilmente freddo.
Spero e pur temo dimenticare. Una notte triste ed oscura ha incominciato a
distendersi sul mio passato.
Le onde che la virtú del sole aveva sollevate e convertite in belle nubi d’oro,
ricadono in pioggia attraversando le fredde latitudini dell’aria, ricadono
come lagrime della natura.
Quando il fuoco della gioventú si è spento, svanisce a poco a poco anche il
tepore delle ceneri; esse rimangono là ad attestare dove la fiamma ha un giorno
avvampato, fino a che il soffio gelato del tempo non viene anch’esso a
disperderle.
II
Sarebbe inutile riandare sugli anni che hanno preceduto gli avvenimenti che
sto per raccontare. Io non voglio afferrare che un punto della mia vita, non
voglio metterne in luce che un istante. Chi oserebbe affacciarsi allo spettacolo
intero della sua esistenza, spiare nelle sue pieghe tenebrose, e ritesserne
tutta la storia?
La mia gioventú trascorse piena, ricca, feconda. La fortuna, a dir vero, non
m’era stata assai prodiga de’ suoi favori; ma che cale alla gioventú della
fortuna? Quella è l’età della forza, del coraggio, della baldanza; è allora
che si raccolgono a piene mani i frutti che maturano nel giardino della vita,
che si accosta alle labbra la coppa inebriante della felicità; a quell’età
si fruisce di un bene che non si conosce e non si esperimenta mai piú nell’avvenire,
mai piú — la mite e affettuosa indulgenza degli uomini.
Non ho mai potuto indovinare se la mia natura fosse piuttosto incompleta che
esuberante; ma in qualunque modo, egli era ben certo che io mi innalzava sul
livello delle nature comuni. La ripugnanza che ho sentito, e che sento ancora
per tutto ciò che è convenzionale, per tutto ciò che è metodico, non
proveniva già dalla mia educazione, ma da una disposizione speciale del mio
carattere. Non mi importava di essere da piú o da meno degli altri uomini, mi
bastava di esserne diverso.
In tutta la mia vita ho operato come ho pensato — convulsivamente. Dicono
che i leoni si trovano in uno stato di febbre continuo. Ignoro quale medico
abbia potuto accertarsi di questo fenomeno, come avrebbe fatto al capezzale di
un infermo; ma sia ciò vero o non vero, sia la mia natura debole o forte, non
vi è dubbio che io ho provato sempre una specie di agitazione febbrile e
convulsa simile a quella.
Io mi sono divorato la vita. Io non potrei misurare la mia età colla stregua
ordinaria del tempo.
Aveva ventotto anni allorché successero gli avvenimenti che sto per
raccontare. La rivoluzione mi aveva trascinato già da tempo nelle sue file,
quasi mio malgrado. Deviato da’ miei studi, combattuto nelle mie inclinazioni,
mi era indotto a rimanere nell’esercito ove aveva ottenuto grado di ufficiale.
Io vi militava da cinque anni, allorché colpito da una grave malattia di cuore
dovetti chiedere una lunga licenza, e ritirarmi nel mio villaggio natale. Gravi
rovesci di fortuna mi avevano impedito di camparmi la vita in altro modo che
coll’essere inscritto nei ruoli di un reggimento, e far pompa del mio costume
di capitano. E dico ciò perché allora la guerra era cessata, e mi vergognava
spesso di quell’inazione ricompensata sí largamente. Io riscuoteva un lauto
assegnamento sulle casse dello Stato.
Non parlerò adesso dei dolori che avevano provocata quella mia malattia.
Essi appartengono ad un’altra epoca della mia vita; furono il frutto di una
passione che, ove non mi fosse inspirata dal piú nobile dei sentimenti, avrebbe
coperto di onta il mio passato. Nondimeno quei dolori furono enormi, e se non
ebbero il potere di uccidermi, è perché tal potere è spesso negato al dolore.
In capo ad un anno aveva richiesta l’attività, non già che la mia salute
fosse migliorata, ma perché mi sarebbe stato impossibile rimanere piú a lungo
nel mio paese natale. Quella vita di solitudine e di meditazione avrebbe finito
coll’uccidermi. Chi ha vissuto un tempo nelle grandi città non può piú
adattarsi alla vita dei villaggi; non può impicciolire le sue vedute, le sue
idee, le sue abitudini fino alle proporzioni meschine, e spesso ridicole, che
dà alle proprie la gente delle campagne. Io ho considerato sempre i piccoli
villaggi come centri d’ignoranza, di barbarie, spesso anche di corruzione.
Sono essi, a mio credere, che arrestano il corso della civiltà, che si pongono
tra le ruote del suo carro. Se tutti i punti abitati della terra fossero Londra,
Pietroburgo, Parigi, Roma, Berlino, il quesito la cui soluzione affatica da
secoli l’umanità sarebbe risolto all’istante.
Né la monotonia di quella vita era il meno doloroso de’ miei tormenti. Io
conosceva tutte le vie di quel paese, tutte le case, tutti gli abitanti —
viuzze strette e fangose, catapecchie anguste e miserabili, contadini rozzi e
cocciuti. Mi dava pena il vederli, piú pena il sentirli. La stessa natura non
aveva che attrattive assai deboli. Vicino ai villaggi anche la natura sembra
patire, è rozza e pigmea, soffre d’impotenza e di rachitismo; si direbbe che
le manchi qualche cosa, come la forza e il profumo. I boschi di Boulogne, di
Volksgarten, di Thiergarten non si trovano che vicino a Parigi, a Vienna, a
Berlino.
L’uomo risente, come le piante, l’influsso dell’atmosfera in cui vive.
Io mi vedeva isterilire, immiserire, deperire. Fosse effetto della malattia,
fosse influenza di quel soggiorno triste ed uggioso, io mi era interamente e
miseramente trasformato. Una malinconia profonda, una disperanza piena di gelo e
di scetticismo si erano impadronite di me. Non sentiva piú alcun rammarico del
passato, né alcuna trepidanza dell’avvenire. Questo avvenire lo aveva in
certa guisa prevenuto. Me ne era formata l’imagine la piú triste, la piú
nera, la piú desolante; aveva forzato la mia anima ad accettarlo senza
lagnarsene, e cosí m’era posto in pace con l’unico oggetto che avesse
potuto ancora atterrirmi, col fantasma sconosciuto di questo avvenire.
Ho pensato spesso, durante questi anni, a quei giorni pieni di desolazione e
di sconforto, a quel lungo inverno di cinque mesi trascorso tra le pareti di
poche stanze, senza veder altro volto d’uomo che il mio. Mi sono ricordato
ancora di tutto ciò che aveva allora colpito in qualche modo i miei sensi: le
larghe finestre a vetrate coperte di ragnateli, il pigolio dei passeri che
beccavano nei canali delle gronde, lo stillare delle nevi che si scioglievano,
il rumore degli zoccoli ferrati dei contadini sul selciato fangoso della via —
uniche sensazioni, uniche voci che mi avvertivano come vi erano esseri che
vivevano d’intorno a me, come io stesso viveva in mezzo ad esseri vivi e
sensibili. Ho conservato memoria di quei giorni in un diario scritto sotto l’impressione
di quei dolori segreti di cuore, che non giova ora qui riportare.
Allorché mi allontanai da quel luogo, e sostato nella prima città che
incontrai nel mio viaggio, confrontai il mio volto con quello di altri uomini,
mi chiesi con spavento se io era ancora lo stesso di un tempo, se era diventato
dissimile da loro, se sarei sopravvissuto a quel giorno.
Aveva imparato a disperare troppo precocemente.
Allora non prevedeva l’aurora luminosa che doveva sorgere ancora sulla mia
gioventú, e che doveva tramontare sí presto!
III
Ho parlato del mio paese natale.
Mi duole che queste pagine non sieno destinate a venire alla luce, per poter
rendere publico un odio che conservo da lunghi anni nel cuore, l’unico che il
tempo e la riflessione non abbiano fatto che avvalorare ed accrescere.
Io amo la terra, questa grande madre, questa gran patria comune; io l’amo
tutta senza distinzione di suoli e di climi; l’amo come una parte di me, io
che non sono che una porzione minima di lei stessa.
Io ho sentito spesso le sue attrazioni, l’appello che ella fa a’ suoi
atomi, le sue creature; agli uomini, le sue particelle animate. A primavera,
quando il sole la dardeggia de’ suoi raggi; in quel periodo di febbre, di
ardenze, di fecondità, quando dal suo seno pieno di amore erompono le famiglie
degli insetti e delle erbe, quando ella sorride di un sorriso pieno d’incanti
e di fiori, io ho sentito spesso con una specie di furore il desiderio di
rientrare nel suo seno; io mi sono prosteso per abbracciarla; ho sentito che
essa mi chiamava, e ho gridato: "Tu mi vuoi, tu mi chiami, — io vengo, io
vengo". Sí, io amo la terra, questa bella terra; io son certo che essa
sarà lieve sulla mia fossa, quando stringerà dolcemente il mio petto colle sue
braccia di selci e di radici; ma vi è in essa un punto che io odio, ed è quell’angolo
freddo e uggioso dove son nato.
È di là che ho cominciato a gettare uno sguardo sul mondo, e a vederlo
triste ed ingrato, è là che non ho potuto aver mai né una nobile gioia, né
un nobile dolore; è là che conobbi gli uomini che mi hanno insegnato ad odiare
gli uomini; è là finalmente, che non ho potuto amare.
Avrei voluto levarne le ceneri de’ miei cari, perché l’ultimo anello che
mi congiungeva alla mia patria fosse anche spezzato.
Fui torturato lungo tempo da un’idea insistente e malinconica: mi pareva
che quelle reliquie adorate non potessero aver pace là sotto, perché, io
stesso, io sento che le mie ossa fremerebbero se sepolte sotto quelle zolle
abborrite.
IV
Non so dire come ne partii per venire a Milano. Non so spiegarmi questa
risoluzione, perché non aveva piú alcuna forza di volontà quando vi venni.
Era sul finire d’aprile, e mi ricordo di aver fatto a piedi attraverso la
campagna un tratto di strada assai lungo. Due allodole gorgheggiavano nel cielo
che mi sembrava alto, sereno, sconfinato piú di quanto non mi fosse mai parso
dapprima. Esse si erano tanto innalzate che il mio occhio non arrivava a
vederle, erano lontane l’una dall’altra, e a giudicarne dal canto, parevano
immobili — si sarebbe detto che avessero trovato lassú dove posarsi. Il loro
gorgheggio aveva qualcosa di affettuosamente intimo, pareva una serie di domande
e di risposte; ed era sí melodioso, sí calmo, sí limpido che mi ricordo d’averlo
udito ancora ad una grande distanza dal luogo ove l’aveva sentito la prima
volta. Certo perché calmo e limpido, non perché vigoroso. Vi è uno strano
mistero di luce in quel canto. Il mio orecchio poteva forse udirlo per la stessa
ragione che il nostro occhio discerne il letto algoso di un lago attraverso le
sue acque alte e tranquille, e non vede quello del torrente, le cui onde basse
ed impetuose, ma torbide, scorrono con impeto al mare.
Aveva anche raccolto lungo la strada un mazzetto di tussilaggini gialle —
gli unici fiori che abbelliscono quei vigneti sterili e desolati — e lo
conservo tuttora nella mia scatola dei fiori disseccati.
Ho segnato tutti i periodi solenni della mia vita con dei fiori. Ne conservo
una quantità di mazzetti che sono come le pietre miliari del cammino percorso
nella mia esistenza, e li porto meco come l’unico tesoro che io possiedo al
mondo.
Ho sempre sentito una specie di rispetto per queste piccole e fragili
creature di un giorno, anche una specie di fede.
Un anno a Milano, in un’ora di profondo sconforto, una donna che
passeggiava meco al mio fianco tenendo in mano una rosa, mi precedette di alcuni
passi, e sfogliandola, e gettandone i petali dinanzi a me, mi disse
scherzosamente: — Spargo dei fiori sul vostro cammino. — All’indomani un
avvenimento inatteso mi restituiva la gioia e la pace.
Allorché giunsi in quella città, io non aveva né progetti, né idee, né
speranze di giorni migliori. Vi era venuto, direi quasi, inconsciamente. Sapeva
che fra due mesi sarei stato richiamato al reggimento e che di là avrei meglio
potuto sollecitare questo richiamo. Forse era stato tale il movente del mio
viaggio.
Appena arrivatovi, cercai con ansietà di un amico che certa comunanza di
sventure mi aveva reso da tempo assai caro. Egli abitava in una casa signorile e
assai vasta, dove era però quasi sconosciuto. Bisognava chiedere di lui. Battei
perciò ad un uscio del primo piano, e venne ad aprirmi una donna giovane e
bella. Mi parve che rimanesse colpita in modo singolare dal mio aspetto; né io
lo fui forse meno del contrasto che formavo col suo. Essa era sí serena, sí
giovane, sí fiorita; e il mondo pareva dover essere stato fino allora cosí
benigno con lei, che io la guardai un istante senza parlare, compreso d’una
meraviglia dolce e profonda.
— Di chi cercate, in grazia?
Profferii il nome del mio amico.
— Al secondo piano.
Avrei giurato di aver sentito già piú volte quella voce, di averla sentita
bambino, ne’ miei sogni… La guardai come si fa a persona che parci di
conoscere. Nell’allontanarmi sentii che un lembo del mio soprabito era stato
chiuso tra le due imposte dell’uscio. Ella se ne avvide e fu sollecita a
riaprire.
— Perdonate.
M’inchinai. Non risposi nulla, ma tornai ad affissarla sí stranamente, che
essa mi guardò quasi spaventata. Sentii quello sguardo penetrarmi penosamente
nell’anima.
"Sí felice, sí florida, sí bella!" esclamai tra me stesso
salendo la scala; "oh dolce creatura! se tu mi porgessi quella tazza che l’età
e gli affanni hanno allontanato forse per sempre dalle mie labbra, come potrei
rifiorire anch’io, e sorridere ancora alla vita! Ma la gioventú è dei
giovani, e le gioie non sono che dei felici!"
Giunto sul pianerottolo, mi rivolsi, e vidi ch’ella era rimasta immota sull’uscio,
e mi accompagnava dello sguardo, e pareva commossa e pensosa. Aveva ella
compreso che io era sventurato, e aveva sentito il bisogno di confortarmi del
suo affetto e della sua compassione?
Dirò cosa antica come l’amore. Bastarono quello sguardo e quella mestizia.
Da quel momento le nostre sorti furono gettate. Io l’aveva vinta con l’unica
attrattiva che vi era in me, — quella da cui le donne sono prese assai
raramente, ma cui, ove lo sieno, inorgogliscono spesso di cedere senza
resistere, perché comprendono di mettersi cosí sulla via di una missione che
le santifica — l’attrattiva della sventura.
Trovai il mio amico, e mi installai nel suo appartamento.
Ebbi da lui notizie di quella donna. Suo marito era giovine e avvenente,
occupava una carica distinta in un’amministrazione governativa; non erano
ricchi, ma parevano agiati e felici; avevano un figlio; essa si chiamava Clara:
quando non agucchiava presso una piccola finestra che guardava nel cortile,
leggeva romanzi sul suo balcone, seduta in mezzo a’ suoi vasi di fuxie e di
gerani; suonava anche il pianoforte e cantava.
Passai quella prima notte in una specie di delirio; lessi l’epistolario di
Foscolo — l’uomo antico — e rividi in un’allucinazione le scene passate
della mia vita. Mi pareva che tutto fosse finito lí, con quel giorno, con
quella fuga, coll’incontro di quella donna; travedeva non so quali gioie nell’avvenire.
Fui riscosso per tempo dal suono di un piano-forte che veniva dal piano
sottostante. Apersi la finestra e mi affacciai dal mio balcone. Era un mattino
lucido, caldo, sereno, il sole si versava sulla via che brulicava di passeggieri
affaccendati. Le carriuole dei lattivendoli stridevano sulle loro ruote
malferme, i vetturini facevano scoppiettare le loro fruste, gruppi di fanciulli
s’inseguivano schiamazzando; ogni cosa era vita, luce, moto, allegrezza. Da
lungo tempo non aveva assistito a quello spettacolo del ridestarsi di una gran
città. Abbassando lo sguardo sul balcone di sotto, vi scorsi Clara che mi stava
guardando. Essa era seduta in mezzo a’ suoi vasi in un abito semplice e
negletto; ma le sue fuxie non erano ancora in germe, e non v’era altro di
fiorito intorno a lei che alcune pianticelle di primule e di azzalee.
L’amore, la piú complessa e la piú potente di tutte le passioni, è ad un
tempo la piú facile e la piú semplice nel suo nascere. Un uomo e una donna si
incontrano, si vedono, si guardano — e basta. Da che cosa era egli stato mosso
quello sguardo? Che cosa vi era in esso? Che cosa diceva? Nessuno lo sa.
Nondimeno tutti gli amori incominciarono con uno sguardo.
Rientrai nella stanza ebbro. Non di amore, no; non amava ancora, non ne
sperava; ma assetato di conforti, di compianto, di lacrime. Avrei desiderato una
donna, non per chiederle le sue carezze, ma per piangere sul suo seno. L’uomo
è piú profondo nell’amore, la donna nella tenerezza; si piange meglio sul
seno di una donna.
Non so se gli altri uomini abbiano súbiti abbandoni, súbiti impeti, súbite
risoluzioni come ho io. In me vi è nulla di lento, di ordinato, di normale. La
mia è una natura a molle, a sbalzi; una natura sempre alterata.
Le scrissi, e le gettai dal balcone un biglietto contenente queste sole
parole:
"Io sono infelice, io sono malato, io soffro".
Il biglietto cadde a’ suoi piedi. Essa lo vide, esitò un istante, poi si
curvò, lo raccolse, e fuggí nella sua camera.
Non ricomparve piú lungo il giorno. Alla sera la vidi un istante sul
balcone, e osservai che aveva gli occhi soffusi di lacrime.
Da quel momento la mia illusione non ebbe piú freno. Essa aveva pianto per
me, essa aveva accettato in certo modo il compito che io le aveva chiesto di
consolarmi.
Fui assalito da una smania febbrile di vederla, di sentire la sua voce, di
averla vicino a me, di gettarmi a’ suoi piedi, di dirle lacrimando tutta la
povera storia della mia vita.
Avessi avuto un oggetto toccato da lei, portato da lei, un suo nastro, un suo
abito, avrei passato la notte guardandolo, me ne sarei sentito meno diviso.
Cosí fu in ogni tempo della mia anima. Passai sempre dall’apatia all’adorazione
senza soffermarmi sull’amore. Perché riposarsi a metà? Perché non mirare
agli ultimi limiti? Le grandi cose sono estreme — le grandi anime adorano o
odiano.
Erano cominciate allora le pioggie lente e monotone della primavera; pioveva
tutto il giorno, e le finestre del suo balcone erano chiuse. Io la sentiva
suonare e cantare sotto di me. Era caso, era divinazione? Essa ripeteva sempre
alcune arie che mi erano care, e che mi rammentavano le scene piú dolci della
mia vita. Non uscivo piú di casa per non allontanarmi da lei. Là, in quella
stanza, le ero vicino; non la vedevo, ma sapevo di esserle vicino.
E poi, la sentiva!
Le scrivevo tutto il giorno, le scrivevo cose strane, immense, inaudite. Ero
spaventato di me medesimo. Spesso la notte balzava dal letto e mi gettava sul
pavimento come per tenderle le braccia, come per esserle piú d’appresso. La
mia anima, vuota da tanto tempo, si era gettata con furore su quella preda. Se
la sua pietà non fosse venuta a salvarmi, io mi sarei divorato il cuore.
La rividi. Il bel tempo era ritornato, aprile era finito, e maggio fioriva.
Risentii tutte le febbri della primavera, quel fuoco ardente che il sole di
maggio trasfonde nelle fibre, nelle vene, nel cuore. I fiori sbocciavano, gli
uccelli riprendevano le loro canzoni, le fanciulle — fiori umani —
scherzavano lungo le aiuole; dappertutto l’inno all’amore era cantato.
Un giorno nel salire la scala, vidi le sue stanze aperte, essa era sola;
corsi verso di lei, e mi precipitai alle sue ginocchia. Essa fece atto di
fuggire; io rimasi immobile col volto celato tra le mani. Mi si appressò
piangendo, si curvò verso di me, e mi disse singhiozzando:
— Abbiate pietà, andate, lasciatemi.
— No, io morirò qui, io soffro.
— Oh mio Dio! povero giovine!
— Mi odiate?
Essa mi strinse al suo seno, e mi coprí di baci e di lacrime.
— Vi amo, vi amo, ma lasciatemi.
Fuggii come un demente.
Alla notte fui assalito dalla febbre; ebbi strane visioni, feci dei sogni
puerili: vedeva delle farfalle e degli angeli, dei paesi che non aveva mai
visto; mia madre, piú giovane di molti anni, piangeva vicino al mio capezzale,
ed era vestita di un abito grigio che io l’aveva veduta portare da bambino.
Allo indomani era malato.
Le riscrissi:
"Io sono malato, io non guarirò se non vi vedo, venite".
E essa venne.
Venne per due lunghe settimane, ogni giorno, dissimulando, come poteva, il
suo segreto; divisa tra l’angoscia del mio stato e il rossore dell’inganno
che le costava la sua pietà.
Fu la sua pietà, che la condusse all’amore; in quei giorni le nostre anime
si unirono.
Piú tardi io le scriveva ancora:
"Oh mia vita! Vieni a confortarmi. Vieni qui, lontano da cotesta casa
dove non possiamo essere felici. Ho affittato una cameretta chiara, solitaria,
serena, piena di sole. La riempirò tutta di fiori per te. Ma vieni. I nostri
cuori hanno bisogno di palpitare l’uno sull’altro. Cosí si muore".
E essa venne ancora.
La pietà l’aveva condotta all’amore; fu l’amore che la condusse alla
colpa.
In quei giorni si unirono le nostre vite.
V
Fummo felici, ineffabilmente felici.
Passammo attraverso una serie di sensazioni nuove, ardenti, vertiginose. Mai
due anime avevano combaciato cosí pienamente, mai due nature si erano
congiunte, fuse, identificate in una sola come le nostre.
Clara aveva indole forte, giusta, severa; vi era nulla di fatuo, nulla di
fiacco, nulla di puerile nel suo carattere; e pure nessuna donna fu mai piú
affettuosa, piú dolce, piú arrendevole, piú accarezzevole, piú eminentemente
donna.
Aveva venticinque anni; era alta, pura, robusta, serena. Scopersi piú tardi
il segreto di quel fascino immediato che aveva esercitato sopra di me. Essa
rassomigliava a mia madre. Mia madre poteva aver avuto la stessa bellezza e la
stessa età quando io nacqui.
Una volta amanti, ci abbandonammo con una specie di dolce disperanza alla
nostra passione; non avemmo piú limiti; ella pure era tal natura da non
conoscerne. Avremmo quasi desiderato di soffrire, di porre il nostro amore come
ostacolo alla nostra felicità, al nostro avvenire, per rendercene meritevoli.
Ci sentivamo struggere dalla smania di sacrificare qualche cosa l’uno all’altra.
Cosí eravamo troppo immeritatamente felici. Non potevamo dare un prezzo a
quelle gioie; le sentivamo troppo intense, troppo profonde!…
Ci raccontammo tutta la nostra vita. Ci trasfondemmo l’uno nell’altra
senza rossore, senza dissimulazioni, senza esitanze. Essa aveva vissuto poco nel
mondo, aveva sposato a sedici anni un uomo che le era indifferente, non aveva
mai amato, nessuno le aveva mai chiesto dell’affetto, adorava suo figlio. In
quella vita di isolamento e di disamore era nondimeno felice.
Come tutte le donne veramente ingenue s’era data a me senza fingere, senza
esitare; essa aveva pensato a lungo alle conseguenze della sua colpa; aveva
lottato a lungo; ma una volta decisa, si era abbandonata senza ritegno. Non so
se ella ne arrossisse e ne gemesse in segreto; il suo contegno non lasciò mai
penetrare in me questo dubbio, essa non mi parve mai che felice. Mi diceva
spesso con aria di credulità e di spavento, affatto puerile: — Sono cosí
felice che ho paura di morire.
Il suo rimpianto piú acerbo era di non avermi conosciuto prima; non si
doleva dell’avvenire che il tempo ed i suoi legami ci avrebbero, o tardi o
tosto, attraversato, ma del passato che avevamo vissuto lungi l'uno dall’altro,
senza conoscersi, senza sapere che esistevamo, di quei bei giorni della prima
gioventú che non avevamo potuto trascorrere assieme.
— Oh, s’io t’avessi conosciuto allora! quanto sarei stata felice di
darti questo mio cuore puro ed intatto, di offrirti tutta la mia gioventú,
tutta la mia freschezza — giovinetta, anch’io era bella!… Come tu avresti
saputo formare il mio cuore, come t’avrei amato, come t’avrei ubbidito!
Tali le parole che essa mi diceva soventi. Ella soffriva di non poter legare
a me le prime e le piú pure memorie della sua esistenza.
Come aveva preveduto, la mia salute era rifiorita, io era ritornato forte,
lieto, sereno; ma mi pareva aver tolto a lei tutto ciò che aveva aggiunto a me
stesso. Essa non avvizziva, ma deperiva con lentezza. Si era come tramutata, non
era piú quella di un tempo. Mi pareva fosse divenuta piú alta, piú gentile,
piú flessibile; la vedeva come fosse stata un’immagine di se stessa.
Spesso essa mi diceva scherzosamente: — Ho voluto essere il tuo medico, e
ho trascurato un po’ troppo me medesima. — Non so come avvenisse, ma è ben
certo che ella mi aveva data la sua forza e la sua salute assieme col suo
affetto. L’amore fa spesso di tali miracoli.
Del resto io non dirò come e quanto noi fossimo felici. Triste quella
felicità che si può dire! Io mi era serbato fino allora eccezionalmente puro,
essa eccezionalmente ingenua. Ci eravamo amati, ella per pietà, io per
gratitudine; la stima, la simpatia, la conoscenza profonda delle nostre anime,
piú che la nostra stessa gioventú, ci avevano condotti alla passione. Ella a
venticinque anni, io a ventotto, eravamo ancora due fanciulli. In un gran centro
di corruzione come cotesto, noi eravamo rimasti illibati, puri, vergini, ricchi
di illusione e di fede — e la felicità e la grandezza di un tale amore non
possono essere raccontati.
VI
Perché noi ci amavamo diversamente da tutti gli altri. I nostri piaceri piú
ardenti consistevano spesso in alcune fanciullaggini senza nome, in alcune
puerilità che ci avrebbero fatto sorridere se non ci fossimo amati sí
ciecamente.
Una delle sue soddisfazioni piú vive era di far colazione con me, di
mangiare con me dei confetti, di mangiarne molti, e tutti metà per uno; di
ravviarmi i capelli, di guardare, come i bambini, la sua immagine riflessa nelle
mie pupille.
Conoscevamo tutti i piú piccoli sentieri di queste praterie tristi e
monotone. Vi facevamo delle lunghe passeggiate; quando si toglieva la mantiglia
e il cappello, ne piantava gli spilli in qualche foglia d’ellera abbarbicata
ad un salice, e nelle nostre scorrerie venture andavamo poi a cercarli. Non sono
piú di pochi mesi che sono riuscito ancora, dopo quattro anni, a trovarne due
irrugginiti dalle pioggie e dal tempo.
Ci sedevamo spesso lungo i ruscelli a veder scorrere l’acqua; e strappavamo
alcuni steli di erba che avevano in fondo una cannuccia tenera di sapore quasi
dolce, e ce ne offrivamo a vicenda, dicendoci scherzevolmente:
— Assaggia questo.
— Oh, il mio è molto piú saporito!
— Questo è eccellente.
— Eccone uno che è squisitissimo.
E ridevamo, ed esclamavamo di noi stessi: "che fanciulli!"
Fuori di Porta Magenta, vi è dal lato destro della via un bel torrente, e un
ponticello di tavole non piú largo di due spanne. Le piaceva di andare su e
giú di quel ponte. Lí vicino avevamo anche trovato una capanna disabitata, il
cui uscio era aperto; e vi passavamo volontieri alcune ore benché fosse piena
di topi e di lucertole. La chiamavamo il nostro tabernacolo.
Tutti i contadini ci conoscevano e ci facevano mille dispetti. Alcuni
fanciulli ci gridavano dietro: — oh gli amorosi! gli amorosi!
Una domenica, vistici sedere in un prato, alzarono una tavola che chiudeva lo
sbocco d’un canale d’irrigazione.
— Mi pare d’esser tutta in un bagno!
— Ed io!
Prima che fossimo balzati in piedi, il prato era interamente allagato; le sue
sottane, il suo scialle erano immollati; salvai a stento il suo cappello e i
suoi guanti che galleggiavano. Essa ne rideva come una pazza. Quante volte ci
siamo ricordati di quell’avvenimento!
Quella donna sí forte, sí ricca di buon senso, in alcune cose sí seria,
aveva tutte le velleità, tutti i gusti pazzi e bizzarri di una bambina. — La
mia non è che una rivendicazione; — diceva ella qualche volta mezzo tra il
serio e il faceto — non mi hanno lasciato il tempo di essere una fanciulla, e
me ne rivendico adesso. Meglio esserlo a venticinque anni che mai!
E lo era in fatto, e me ne dava tutte le prove possibili. La mia stanza era
divenuta un caos, piena di uccelli, di fiori, di nastri, di frastagli di carta,
di cartocci di confetti, di scatole. Essa vi metteva tutto a soqquadro. Chiudeva
di giorno le imposte, e vi accendeva tutte le candele. Spesso diceva sentire il
bisogno di gridare, di gridar forte, di urlare, — non posso fare a meno, mi
sento una cosa nel petto, qui — ; e gridava, e si turava la bocca colle mani.
Mi portava delle farfalle, e mi mandava a regalare delle nidiate d’uccelli
che era obbligato ad allevare per non dispiacerle. Nell’ultimo inverno che ci
conobbimo, mi portò ella stessa un gattino bianco nel manicotto.
Tutto ciò mi pareva allora assai puerile; pure ho pensato soventi a queste
cose, anche in anni nei quali aveva già conosciuto piú positivamente e piú
spaventosamente la vita, e ho dovuto sempre esclamare: — Felici coloro che
amarono a questo modo!
VII
In quell’abisso di felicità, in quell’ebbrezza che s’era impossessata
delle nostre anime, io mi era quasi dimenticato di me stesso. Non erano che due
mesi che ci amavamo, allorché ricevetti dal comandante del mio reggimento un
ordine cosí concepito:
"Siete stato richiamato in attività, e per un riguardo allo stato
cagionevole della vostra salute, applicato allo stato maggiore del quarto
dipartimento. È necessario che raggiungiate fra dieci giorni la vostra
destinazione".
Rimasi come colpito dalla folgore.
VIII
Rinuncio a descrivere lo strazio della nostra separazione. Il nostro dolore
fu grande quanto lo erano state le nostre gioie; vero, profondo, ineffabile come
lo era stata la nostra felicità. Ricopio qui testualmente la prima lettera che
io diressi a Clara un giorno dopo la mia partenza, e che può darmi anche oggi
la misura del mio amore e delle mie lacrime:
"Oh, mia vita! Eccoci separati, eccoci lontani l’uno dall’altra.
Ieri ancora io era tra le tue braccia, oggi sono solo, lontano, misero,
sconsolato, perduto. Che dirti? Come esprimerti il mio dolore? Tu sola, tu che
mi ami cogli stessi trasporti disperati, tu puoi sapere dalle tue lacrime l’amarezza
e la frequenza delle mie.
Mi pare di trovarmi sotto l’incubo di un sogno orrendo da cui non posso
svegliarmi; non posso credere alla realtà di una sciagura cosí grande. Mi pare
che ad ogni istante io debba riscuotermi da questo vaneggiamento angoscioso, e
rivedermi di nuovo vicino a te. In tutti i miei grandi dolori ho provato questa
specie di pietosa incredulità che me li rendeva meno terribili. Allora, come
adesso, mi domandava: "È egli vero? è ciò realmente accaduto?" E lo
sapeva, e lo so che ciò è vero, che ciò è accaduto.
Oh tu mi conforti santamente! Ho compreso, sai, lo sforzo che tu facevi ieri
per nascondermi le tue lacrime. Povera Clara! Tu non volevi che io piangessi, e
non sai quanto ho pianto stanotte. Sí, ho pianto dirottamente, dirottamente, e
ho ringraziato Iddio di questo conforto. Non è debolezza il piangere, ed anche
ove lo fosse, è una debolezza dolce e divina che non umilia l’uomo forte.
Tu non sai quanto io sono superbo di soffrire per te, per noi, pel nostro
amore. Come dev’essere dolce il poter dire alla donna che si ama: "Tu mi
costi un sacrificio, un dolore, una viltà; per te ho sacrificato le mie
ricchezze, la mia fama, la mia vita". Ho compreso come si possa commettere
anche un delitto per ingigantire nella nostra coscienza questo sentimento, per
accrescerne il valore; ho capito come si possa scendere fino alla degradazione
la piú umiliante. È lo stesso sentimento che a voi, donne, fa spesso
sacrificare — quasi volonterose, quasi superbe del sacrificio — la fama di
oneste all’affetto dell’uomo che amate. E credi, o Clara, credi che è
questa sola — sia pur ella deplorabile — la misura dell’amore che unisce l’uomo
alla donna.
Non nascondermi dunque le tue lacrime, e non volere che io ti nasconda le
mie. Le tue lacrime! Ah, io le sento, sí le sento, esse ripiombano qui sul mio
cuore; chi sa quante tu ne hai versate oggi, ora, in questo istante. Povera
anima!
Ti scrivo quattro ore dopo esser giunto in questa città; non avrei potuto
farlo prima. Dio lo sa come sono partito, come sono arrivato qui, come mi trovo
in questa stanza di albergo. Mi sono gettato sul letto, e ho dormito quattro ore
di un sonno pesante e affannoso. Ora mi sono alzato, mi sono affacciato alla
finestra, ho guardato i tuoi ritratti, le tue lettere, tutto ciò che ho portato
meco di te, e ho cominciato a comprendere qualche cosa della mia nuova
posizione. Dio mio! Dio mio! Io non so come potrò sopravvivere a questa prova!
Eravamo troppo felici, o Clara, non era possibile che quello stato durasse;
la nostra felicità stessa ci spaventava, sentivamo qualche cosa nel cuore che
ci diceva che essa doveva finire.
Non ti atterrire di questa parola "finire", no, la nostra felicità
non è finita, tu lo sai, tu senti al pari di me che un amore come il nostro non
può finire che colla morte, ma saremo felici in altro modo, con altra misura,
con altro prezzo. Non ti vedrò piú tutti i giorni, non saprò piú cosa tu fai
a tutte le ore, non riceverò piú i tuoi fiori, non vedrò piú il tuo balcone,
non sentirò piú la tua voce adorata, lo strascico del tuo abito, i tuoi passi,
il tuo respiro; la mia povera stanza resterà solitaria per lungo tempo, non
echeggierà piú delle nostre grida; pure queste nostre gioie non ci saranno
vietate interamente né per sempre. Esse erano troppo dolci perché potessimo
gustarle ogni giorno; il nostro amore è troppo grande perché possiamo
rinunciarci per tutta la vita.
E non sono già quelle gioie che mi allettano, che mi rendono cosí terribile
la tua lontananza, non è la tua persona, la tua bellezza, la tua gioventú, le
tue grazie: sei tu, mio angelo, tu sola; il tuo nobile cuore, la tua anima pia e
delicata, il tuo spirito vergine e colto. È la donna-anima che ho amato in te,
essa sola; e sono superbo di affermare anche nella solennità di questo istante,
la purezza del sentimento che ci ha congiunti.
Perché tu conosci la mia vita, tu hai letto nelle piú ascose profondità
del mio cuore; io era degno di te, io lo sono ancora, io lo sarò sempre. Senza
questa coscienza, non avrei osato pretendere alla santa fraternità delle nostre
anime; non oserei ora sfidare senza fremere questo avvenire misterioso che ci
attende. Riposo tranquillo sul tuo amore, poiché esso non è di quelli che
passano; riposa tu tranquilla sul mio. Ti assicuri il mio giuramento. Oh, Clara,
io sarò sempre degno di te!
Vi è un pensiero che mi affanna, la certezza del tuo dolore: non di quello
che senti ora, ma di quello che sentirai quind’innanzi. Io comprendo, piú che
tu non pensi, lo stato della tua anima. Tu ti sei data a me per pietà; la mia
gratitudine ti ha mostrato un cuore che non hai potuto non amare perché era
troppo simile al tuo; la tua gaiezza, la tua gioventú, hanno gettato sui nostri
abbandoni un velo che ce ne nascondeva il lato colpevole; finché io era vicino
a te, tu potevi essere felice, ma ora… Oh, mia vita, non pensare a te stessa;
che la solitudine non ti faccia adoperare per evocare delle ricordanze quella
forza che tu ponevi a dimenticare, che essa non ti tragga a pensare a dei legami
che ti farebbero infrangere quelli che ti uniscono a me! Abbi pietà ancora,
ancora, fino a che l’edificio innalzato dal tuo amore non sia interamente
compiuto.
Ecco, o cara, lo sgomento incessante che viene ad aggiungersi a questo dolore
già immenso. Non è la fede in te che mi manchi, ma quella nell’avvenire;
diffido non di te, ma della forza delle cose, del tempo. Confortami, costringimi
a credere, non a sperare. In un amore come il nostro bisogna credere; lo sperare
è nulla.
Voleva dirti… Vi è negli affetti, come in tutto, un linguaggio
convenzionale, delle frasi troppo ripetute perché abbiano ancora un valore,
pure, come esprimersi diversamente? Voleva dirti che io morrei perdendoti. Lo
sento in me, ne ho la certezza profonda, fredda, calma, incrollabile; e ciò
forma la mia gioia: io sono dunque ben certo di non perderti che morendo.
Non so se ti ho detto abbastanza che ti amo, come ti amo, sino a qual punto
ti amo. Ti ricordi? Ci disperavamo spesso tutti e due di questa impotenza, ma
ora è ben altra cosa. In quei giorni non potevamo dircelo, ma potevamo in
qualche modo provarcelo. Tu leggevi in me, ma adesso?… È ora che io sento
piú che mai il bisogno di aprirti il mio cuore, di dirti tutto ciò che vi è
nell’anima mia. Io ti amo, o Clara, io t’amo fino all’adorazione, fino
alla follia, fino a quel punto estremo delle nostre facoltà, oltre il quale vi
sarebbe la morte, la cessazione, il nulla.
Come non amarti cosí? Sei tu che mi hai ridonato alla vita; tu che mi hai
restituito la salute, la forza, la gioia, la gioventú, il coraggio. Tutto ciò
che io sarò, lo dovrò a te, senza di te io sarei stato piú nulla. Tu mi hai
tenuto luogo di madre, di sorella, di amica, di patria — sí, anche di patria,
poiché è per amor tuo che adoro cotesto angolo di terra; — tu sei stata, tu
sei ancora il mio mondo, tu lo sarai sempre. Dovessi tu ripudiarmi, respingermi,
io sento che non potrei mai disconoscere questo debito, né ribellarmi alla
santità di questa memoria.
E ti dico ciò perché tu sappia fino a qual punto puoi calcolare sul mio
affetto, fino a qual punto sulla mia gratitudine.
Ascolta ora il mio giuramento. Io non vivrò che di te, che per te;
dimenticherò che vi sono al mondo altre creature, sarò onesto per essere degno
del tuo amore. Eleverò questo affetto fino al culto di una religione. Ogni sera
mi raccoglierò per pensare a te, ogni quindici giorni verrò a vederti. La
distanza che ci separa non è sí grande da rendermelo impossibile. Il nostro
santuario — quella stanzetta ove fummo tanto felici — è ancor nostro, ne ho
meco le chiavi: non vi saranno piú i nostri fiori, i nostri uccelli che ho
lasciato volar via; ma vi ritroveremo ancora noi stessi, le nostre gioie, la
nostra felicità, il nostro entusiasmo, i nostri cuori ardenti e immutabili.
Potremo essere ancora felici, o mia buona Clara, potremo essere ancora felici!
Ed ora, addio. Non por mente al disordine delle mie idee, perché la mia
testa è quasi perduta. Ti scrivo come in un sogno, e mi porto spesso le mani al
cuore per comprimerne i battiti. Oh potessi essere vicino a te, o mio angelo,
vicino a te, e morire a’ tuoi piedi!"
IX
Oh Clara, perché mi hai tu abbandonato!
Eccomi solo, piú solo ancora di prima, giacché non ho nemmeno piú meco le
illusioni che prima di conoscerti mi rendevano cara la speranza. Io ho
sopravvissuto al nostro amore, alla tua perdita, alla rovina della mia fede, a
tutto, io che credeva di morire pel tuo abbandono. Con te sarei passato nella
vita, buono, amato, pio, dolcemente mesto, indulgente; non avrei lasciato forse
dei fiori sul mio sentiero, ma lo avrei cosparso di benedizioni e di lacrime. La
fortuna mi ti ha negato — fu un lampo — i primi passi della mia esistenza
erano sbagliati; io doveva correre rovinosamente fin verso il suo termine. Ho
bevuto un sorso della coppa, e basta; ora è finito.
Finito!
L’amore muore. Ecco il grido terribile che si innalza da quel sepolcro nel
quale ho composto per sempre le ceneri del mio passato. Perché non rimpiango te
sola, ma la mia fede, quella fede che non potrò trovare mai piú; e senza la
quale dovrò passare nel mondo senza attaccarmi piú a nulla, e irridere a
quelle cose che ho creduto un tempo le sole sante e nobili della vita.
Nondimeno non ti condanno, né la mia voce si alzerà mai contro di te; il
mio cuore, tu non lo sai, ma il mio cuore ti benedice in segreto.
Ti ho incontrata sulla mia via, in un’epoca in cui la mia anima dolorava e
i miei piedi sanguinavano per l’asprezza del cammino, e tu mi hai preso per
mano, e mi hai condotto in un sentiero fiorito e delizioso. E perché non dovrei
benedirti? Tu non avevi contratto un debito di amore eterno con me; la società,
la natura stessa lo vietavano. Mi avevi amato per pietà, avevi voluto rifarmi
uomo, ridonarmi la forza e l’ingegno, ritemprarmi al fuoco di una passione;
ebbene il tuo mandato era compiuto, tu dovevi abbandonarmi, era giusto. Altri
doveri ti richiamavano sulla via dalla quale io ti aveva allontanata. Tuo
marito, tuo figlio!
Indarno il mondo vorrebbe farmiti credere disprezzevole, indarno lo vorresti
tu stessa. Tu sapevi che io non avrei cessato di adorarti finché ti avessi
stimata, e tentasti mostrarmi il tuo cuore nudo di ogni virtú, indicarmi la
condanna disonorante che pendeva sulla tua condotta. No, Clara, io non ti
apprezzerò meno per questo. Io non farò caso delle leggi degli uomini, perché
so che il cielo ha donato all’amore delle leggi piú generose, piú salde,
piú ragionevoli. Ciò che noi consideriamo come la piú gran colpa possibile
nella donna — l’adulterio — non è spesso che una rivendicazione dei
diritti piú sacri che le ha dato la natura, e che la società le ha conculcato.
Nel tuo caso era ancora di piú; era un sacrificio grande e sublime. Io solo
posso saperlo. No, non temere, o Clara, vi è nell’amore una solidarietà che
non si smentisce. Fossi tu le mille volte colpevole, io ti amerei ancora
doppiamente perché so che lo saresti per amor mio.
Ogni qualvolta ripenso a te, mi corrono alle labbra le miti parole di Cristo:
"Ti sarà molto perdonato, perché hai molto amato".
X
Ho voluto accennare brevemente a questa passione d’amore che fu la piú
vera e la piú grande della mia vita, per mettere in maggior luce il contrasto
di idee e di sentimenti che quell’affetto doveva produrre nella mia anima, in
seguito ai fatti che imprendo a raccontare. Durante lo svolgimento di questi
fatti l’amore di Clara perdurò vivo e ardentissimo; e non fu che alla vigilia
della loro catastrofe terribile che ne fui abbandonato.
È nelle leggi della Provvidenza che l’unione dell’uomo e della donna
debba essere passeggiera, e la nostra separazione non fu che una conseguenza di
questo decreto inesorabile della natura; ché se le leggi umane hanno potuto
imporre a questa associazione una durabilità a vita, l’esperienza ci mostra
che le leggi del cuore e le leggi provvidenziali ne trionfano sempre
segretamente.
Il matrimonio è l’unione di due creature che si tollerano, e si amano
qualche volta di amicizia, mai l’unione di due anime che si amano perennemente
di amore.
Questa eternità dell’amore è un’aspirazione degli uomini che si sono
quasi illusi di conseguirla imponendosene le apparenze. Se l’amore fosse
durevole, la felicità sarebbe ricondotta in un mondo da cui fu forse bandita
per sempre.
Da cinque mila anni l’umanità piange sulla caducità dell’amore.
XI
Allorché io giunsi a * * *, nonostante il dolore di quella separazione
improvvisa, poteva quasi dirmi felice. Allora io era ancora pieno di fede; era
guarito da una malattia che aveva creduto mortale, aveva trovato uomini e cose
benigne; e pareva che la fortuna avesse voluto porgermi di nuovo una mano
amichevole. Quella prima lettera che di là aveva scritta a Clara, non era che
una prova della mia felicità. I miei dolori erano di quelli che sopravanzano in
dolcezza tutte le gioie possibili della vita, quelli che intessono i fiori piú
belli nella corona della gioventú, la sola età dell’esistenza in cui si
sappia veramente amare e soffrire.
La piccola città di * * * — ne taccio il nome perché potrei smarrire
queste pagine, e ho caro che niuno conosca il luogo dove ho sofferto, e dove vi
è una tomba su cui posso recarmi qualche volta a piangere — è una città
angusta e monotona, posta vicino al letto di un fiume quasi sempre asciutto. I
dintorni sono una specie di landa, una pianura sabbiosa ed estesissima, tanto
poveramente coltivata da non vedervi che pochi olmi tortuosi e pochi filari di
gelsi intisichiti. Capitandovi a caso, si crederebbe di aver messo piede in una
steppa o in una savana piuttosto che in un lembo di pianura rasente le alpi. Né
gli uomini erano allora piú cortesi della natura. Ogni socievolezza, ogni agio
della vita, o meglio ogni esuberanza di agio, vi era bandita. Da quella città a
Milano corre per lo meno tanto quanto da Milano a Londra. Un villaggio qualunque
di Lombardia potrebbe offrire un soggiorno meno sgradevole di quella piccola
città, per la cui posizione strategica vi s’era posta la sede di un
dipartimento militare.
Alzatomi, e scritta quella lettera a Clara, consumai il resto di quel primo
giorno a girovagare per le vie e ad osservare i dintorni monotoni di quel paese.
Benché scoprissi in quel deserto una specie di oasi, un vecchio giardino
incantevole, doppiamente incantevole perché abbandonato da anni all’opera
distruttrice del tempo e a quella liberamente riparatrice della natura, fui
lieto dell’esito di quell’esame, che, come ho detto, era non poco
sconfortante. Una città fragorosa mi avrebbe distolto da quella passione per
cui aveva d’uopo di raccoglimento e di pace; una natura piú ricca mi avrebbe
fatto sentire con maggiore intensità il dolore della sua lontananza, giacché
le piú belle memorie del nostro affetto si legavano in qualche modo alla
natura.
Fui lieto di poter raccogliere e versare in me stesso tutta la mia fiamma, di
alimentarla col suo fuoco medesimo, di non poter perdere né menomare alcuna
delle sensazioni che avrebbe risvegliata in me l’opera assiduamente attiva di
quel pensiero.
Chiudermi in una stanza, e popolarla dei fantasmi del mio amore — era il
mio voto. Vivere a me, e a lei. — Vivere solo.
Io comprendeva che le sarei stato tanto piú dappresso, quanto piú mi sarei
trovato lontano da ogni altra creatura.
Allora era ancora capace di creare intorno a me dei mondi.
XII
All’indomani mi recai a visitare il colonnello, capo del servizio a cui era
stato destinato.
Egli era uomo di circa sessant’anni, esile e piccolo di statura; il suo
carattere aveva in sé nulla di forte e di maschio, ma l’abitudine del comando
e della disciplina avevano dato ai suoi modi un’impronta francamente energica
e militare. Come in gran parte delle nature deboli, quell’assenza di forza era
compensata da molta dolcezza d’animo, e da una specie d’ingenuità che
rasentava quasi l’ignoranza, tanto era straordinaria in un uomo di quell’età
e di quella professione. Aveva indole allegra e vivacissima. Lo si poteva dire
un cattivo soldato, ma era un abile matematico, un eccellente disegnatore,
espertissimo di tutte le scienze attinenti alla guerra; e, cosa straordinaria in
ogni classe d’uomini, doppiamente straordinaria fra militari, era uomo
eccezionalmente onesto.
Un’avventura successami due anni prima, per la quale io aveva arrischiata
la mia vita con un’estrema temerità, e l’aveva avuta salva in modo
singolarissimo — avventura troppo impressa nelle mie memorie, perché mi giovi
l’affermarla ora su queste pagine — mi aveva creato nell’esercito una
specie di strana reputazione; la mia malattia, i miei casi avevano contribuito a
circondare il mio nome di un prestigio in parte lusinghiero, e a risvegliare un
interesse affettuoso per la mia persona.
Fu forse a tale prevenzione che io fui debitore dell’accoglienza amichevole
che ricevetti dal colonnello.
— Noi ci troviamo qui — diss’egli dopo avermi parlato a lungo di molte
cose — come fossimo in un villaggio di Barberia; siamo poco meno che tra i
Pellirosse. Dubito se avrete trovato un alloggio dove acconciarvi onestamente e
comodamente.
— Sono tuttora all’albergo — io dissi.
— All’albergo! E come vi avete mangiato?
— Non so…; parmi pessimamente.
Il colonnello sembrò un poco meravigliato di quel mio dubbio; guardò il suo
orologio, e riprese:
— Non mancano che pochi minuti alle cinque. Vi invito a pranzare con me, in
mia casa, accettate?
— Accetto — risposi io inchinandomi.
Dopo qualche istante uscimmo.
— Noi facciamo una piccola mensa in famiglia — continuò egli lungo la
via. — Propriamente parlando, non posso dire di aver famiglia, ma ho meco una
mia parente che ne tiene le veci, benché la poveretta sia di salute cosí
cagionevole da darmi piú pensieri che non me ne tolga. È una mensa abbastanza
modesta. Qui non vi sono che pessimi elementi di cucina, la verdura sopratutto
è demoralizzata; ma almeno vi si mangia, vedrete… Già, alla mia età, il
bisogno di un pranzo discreto è inesorabile. Avrete della compagnia; vi vengono
due maggiori, un colonnello, un dottore di reggimento, due medici borghesi;
siamo in otto in tutto. I medici poi — egli riprese — affluiscono a casa mia
come in un ospitale. Mia cugina è la malattia personificata, l’isterismo
fatto donna, un miracolo vivente del sistema nervoso, come si espresse
ultimamente un dottore che l’ha visitata. Ve la farò conoscere. Avrei potuto
mandarla poco lungi di qui, presso una famiglia che ne avrebbe avuto gran cura,
giacché ella è rimasta sola al mondo, ma non so separarmene; a sessant’anni
si vive di abitudini; e poi quest’aria morta le giova, e anche questo paese di
Pellirosse non le dispiace.
Giungemmo in breve alla sua abitazione.
Il pranzo fu allegro, eccellente, condito di molta maldicenza, di frizzi, e
di quelle frasi equivoche e poco castigate che s’ascoltano per solito tra
militari.
Vicino a me era un coperto intatto e ne feci l’osservazione.
— È il posto della signora Fosca — mi disse uno dei commensali.
— Di mia cugina; — aggiunse il colonnello — essa tiene il letto sette
giorni della settimana, e anche oggi non sta meglio del solito. Mi dispiace che
non l’abbiate veduta, è della voracità di una mosca.
Allorché ci fummo alzati da tavola, egli mi si piantò dinanzi colle gambe
sparate, e colle mani incrociate dietro la schiena, e mi chiese:
— E cosí, come avete pranzato?
— Ottimamente.
— Davvero?
— Diamine, a meraviglia!
— E che ve ne pare di questo locale?
— Magnifico.
— Di questa nostra società?
— Ne sono lusingato — diss’io.
— Francamente, senza complimenti, da amici — riprese egli drizzandosi e
riunendo le sue gambe colla vivacità dello scatto di una molla; e levandosi la
mano destra di dietro la schiena, e porgendomela, aggiunse:
— Se volete far parte della nostra mensa, se volete aggregarvi a noi… non
avete a temere per la vostra borsa, la base fondamentale della nostra
associazione è l’economia. Già… È un sentimento di carità che mi
consiglia a farvi questa proposta… E anche di simpatia — continuò
porgendomi l’altra mano. — Pensateci bene, noi vi parliamo per esperienza…
in questo paese di Pellirosse…
Era un’offerta che non poteva in alcun modo declinare.
Accettai benché a malincuore.
XIII
Conobbi però assai presto che non aveva che a rallegrarmi di questa specie
di legame da cui, a primo aspetto, era stato messo un poco in pensiero. I
compensi erano maggiori dei danni, la piú schietta cordialità vi temperava le
soggezioni della disciplina; e d’altronde il paese offriva realmente nulla. I
miei commensali poi erano tutta gente dabbene, un poco millantatori, un poco
fatui — difetti di soldato — ma in fondo in fondo onesti e leali.
Se v’era cosa atta a lusingarmi era questa, che tutti erano pieni di
benevolenza per me, e gareggiavano nel rendermi qualche servigio. Un medico di
reggimento, in special modo, m’aveva posto non poca simpatia, e mi voleva seco
assai spesso. Era uomo maturo d’anni e di senno, ma giovine di cuore; in
alcune cose, come tutti gli uomini un po’ piú che mediocri, fanciullo; in
fatto di princípi, virtú rara tra medici, credente. Non tardai a mettergli
affetto io pure; e fu la sola persona che richiedessi e ripagassi d’amicizia
in quel luogo.
La cugina del colonnello non s’era ancor fatta vedere. La malattia
continuava a trattenerla nelle sue stanze. Io m’era avvezzato già da parecchi
giorni a chiederne notizie a suo cugino, e a ripetergli alcune frasi di
condoglianza che erano ben lungi dall’esprimere un dispiacimento sentito,
giacché era naturale che non potessi molto dolermi de’ suoi mali, non
conoscendola; ma l’etichetta ha spesso esigenze ancor piú ridicole.
Il suo posto rimaneva costantemente vuoto, ma nondimeno il suo coperto era
sempre apparecchiato; in uno de’ suoi bicchieri v’era tutti i giorni un
fiore fresco; e, cosa che mi preoccupava non poco, benché non sapessi
immaginare le ragioni — e non ve n’erano — quel posto vacante rimaneva
sempre vicino al mio, ora da un lato, ora dall’altro, ma sempre vicino. Ciò
mi metteva in pensiero, mi pareva che mi mancasse qualcosa, non mi trovava a mio
agio, mi sembrava che essa avrebbe dovuto entrare da un istante all’altro per
venirsi a sedere al mio fianco.
Questa preoccupazione era però esclusivamente mia, i miei commensali non si
davano alcun pensiero di quell’ammalata, e parevano considerare quello stato
di cose come naturalissimo. Tutto al piú si limitavano a dire a fin di tavola:
— Anche oggi la signora ci ha lasciati soli!
Per me trovava strano che ogni giorno si apparecchiasse per lei, e ogni
giorno la si aspettasse, come se la sua malattia fosse stata cosa da poterla
abbandonare da un’ora all’altra; né avrei osato chiedere spiegazioni al
medico, col quale, come ho detto, era già entrato in qualche intimità, se un
avvenimento inatteso non mi avesse posto nell’obbligo di farlo.
Un giorno, durante il pranzo, fui colpito da urla acute e strazianti che
provenivano dalle stanze della signora. Quelle grida echeggiarono sí fortemente
e sí improvvisamente nella nostra camera, che io trasalii, e quasi per istinto
feci atto di alzarmi e di voler accorrere in suo aiuto.
Il colonnello sorridendo un po’ tristamente, e stringendomi la mano come
per ringraziarmi di quell’intenzione, mi prevenne, e mi disse:
— Non vi sgomentate, è mia cugina, essa patisce di convulsioni nervose, è
cosa da nulla, fra pochi minuti le saranno cessate.
Uno dei medici si alzò da tavola un po’ a malincuore, e senza mostrare di
darsene molto pensiero, entrò nell’appartamento di Fosca. Le sue cameriere
non avevano dimostrato maggior premura di lui. Degli altri commensali nessuno si
era mosso, o aveva dato il menomo segno di meraviglia.
A me era stato impossibile frenare la mia emozione. Non solo quelle grida
erano orribilmente acute, orribilmente strazianti e prolungate, ma io non aveva
immaginato mai che vi potesse essere qualche cosa di simile nella voce umana; o
essendovi, non mi pareva possibile che l’uomo da cui era uscito una volta un
tal grido potesse vivere ancora.
Ho esperimentato, prima e dopo quel giorno, fino a qual limite possa giungere
il dolore nella natura umana, e ne ho intese tutte le rivelazioni vocali
possibili, ma non mi avvenne mai di sentirlo manifestare con un linguaggio cosí
orrendamente spaventoso come quello. Oggi ancora, dopo cinque anni, io risento
ne’ miei sogni l’eco di quelle grida terribili.
— Vedo che siete un poco preoccupato da quell’avvenimento — mi disse il
medico allorché fummo usciti assieme da quella casa. — Confessate…
— Voi prevenite la mia domanda — interruppi io ansiosamente. — Ne fui
commosso nel piú profondo dell’anima; perché dovrei nascondervelo? Non so
come non si potesse esserne commossi. Ma che malattia ha dunque quella donna?
— Tutte.
— Tutte! Spiegatevi.
— È una specie di fenomeno, una collezione ambulante di tutti i mali
possibili. La nostra scienza vien meno nel definirli. Possiamo afferrare un
sintomo, un effetto, un risultato particolare, non l’assieme dei suoi mali,
non il loro carattere complessivo, né la loro base. Possiamo curarla come
empirici, ma non come medici. È una malattia che è fuori della scienza; l’azione
dei nostri rimedi è paralizzata da una serie di fenomeni e di complicazioni,
che l’arte non può prevedere. E l’arte medica, voi lo sapete, non è che
una povera cosa — si va innanzi per induzioni.
— Ma quelle grida? — io dissi.
— Ciò è il meno, convulsioni isteriche. Già… il fondamento de’ suoi
mali è l’isterismo, un male di moda nella donna, un’infermità viziosa che
ha il doppio vantaggio di provocare e di giustificare. Quella creatura è d’una
irritabilità portentosa, ha i nervi scoperti, — (mi ricordo di questa
espressione: "i nervi scoperti"). — La menoma contrarietà, il
menomo urto bastano a provocare quella catastrofe che oggi vi ha tanto
spaventato. Del resto è cosa di tutti i giorni. Fu un caso che non sia piú
avvenuta da qualche tempo in quell’ora.
— Suo cugino non sembra però molto impensierito da questo stato di cose.
— È naturale. Non vi è rimedio.
— Ella vi soccomberà dunque presto?
— Non credo, la sua macchina è sí debole che non ha forza di produrre una
malattia mortale.
— Strano!
— Ne abbiamo esempi ogni giorno; ogni trionfo è l’effetto di una lotta;
occorrono elementi atti a lottare; in un corpo come quello non vi è lotta;
tutti quei mali si paralizzano; i forti e i robusti giuocano sempre una partita
assai seria colla infermità, i deboli se ne schermiscono. Con una salute come
quella si vive spesso fino a ottant’anni.
— È una teoria consolante pei deboli, — io dissi; — ma come ha potuto
buscarsi tutti quei mali?
— Nessuno lo sa.
— Il suo passato?
— Lo ignoro.
— È giovine?
— Venticinque anni
(L’età di Clara!)
— È bella?
Il mio amico sorrise con aria di mistero, e si portò un dito alle labbra
come per impormi il silenzio.
— Non credete che essa sia l’amante del colonnello?
— Non credo — diss’egli.
E sorrise da capo, e piú vivacemente.
In quell’istante eravamo giunti alla porta della sua casa. Conveniva
separarsi.
— La vedrete fra poco — continuò egli — giudicherete voi stesso della
sua bellezza. Bisognerà che vi mettiate sulle difese.
E nell’allontanarsi mi ripeté con aria scherzevole:
— Badate al vostro cuore: tenetevi in guardia!
Perché un tale avvertimento e perché offerto in tal guisa?
Non sapeva comprendere il vero significato di quelle parole.
XIV
Era però curiosissimo di conoscere quella donna.
Al domani il colonnello mi aveva detto:
— Mia cugina ha bisogno di voi. Avreste per lei qualche libro di lettura
amena, non scientifico; qualche romanzo?
— Vedrò di procurargliene alcuni.
— Quella donna divora i libri, è un tarlo da libri, legge come noi
fumiamo. Io non so piú a chi raccomandarmi, qui non v’è nemmeno un gabinetto
di lettura; in questo paese di Tartari, di Pellirosse…
Gli portai la Nuova Eloisa di Rousseau, l’Uomo singolare e le Confessioni
alla tomba di Lafontaine. Mi rimandò subito quest’ultimo, dicendosi
spaventata del titolo. Poco dopo ebbi anche gli altri. Nella Nuova Eloisa trovai
molti passi controsegnati in margine con matita, e una striscia di carta postavi
per segnacolo, su cui vi era scritto da un lato Sursum, e dall’altro
Excelsior.
I passi controsegnati rivelavano, assieme alla natura intima dei suoi
patimenti, una intelligenza robusta, fina, perspicace. Quella donna aveva dell’ingegno.
Ella non poteva essere poco infelice, giacché era capace di conoscere la
propria infelicità. Gli infelici ignoranti fruiscono di una propria
beatitudine, in confronto dei dottamente infelici. Era naturale che desiderassi
ancora piú vivamente conoscerla.
In tutta la mia vita — fosse caso, fosse attrazione — non fui mai
circondato che da sventurati; sull’orizzonte della mia gioventú i miei occhi
non hanno mai incontrato altro spettacolo che quello desolante della miseria; io
stesso non mi sono nutrito che de’ suoi frutti piú amari, e spesso ho dovuto
divorarmi il cuore perché non aveva nemmeno quelli; pure non ho mai saputo
ribellarmi a questo sentimento di simpatia irresistibile che la natura mi ha
posto nell’anima per tutti gli infelici.
Ho trovato sempre un buono in ogni sventurato, un perverso in ogni prospero.
In questo dolore immeritato di tanti uomini, ho veduto sempre un segreto di
predilezione per parte della Provvidenza, delle fila misteriose che uscivano
fuori della vita e si perdevano nell’eternità dell’ignoto. Tutti lo hanno
veduto, tutti lo hanno sentito. Se vi è qualche cosa oltre la vita, è pegli
infelici. Cristo lo ha detto: "Beati coloro che piangono perché saranno
consolati".
XV
Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca.
Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti
uniti e ad un’ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla
spicciolata) e mi trovai solo con essa.
Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come
vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, cosí vi sono bruttezze
che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per
difetti di natura, per disarmonia di fattezze, — ché anzi erano in parte
regolari, — quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi
non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto
sulla sua persona ancora cosí giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva
lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una
sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo
colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti,
lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la
sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi,
grandi, velati — occhi d’una beltà sorprendente. Non era possibile credere
che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua
bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta,
aveva potuto forse esser piaciuta. La sua persona era alta e giusta; v’era
ancora qualcosa di quella pieghevolezza, di quella grazia, di quella
flessibilità che hanno le donne di sentimento e di nascita distinta; i suoi
modi erano cosí naturalmente dolci, cosí spontaneamente cortesi che parevano
attinti dalla natura piú che dall’educazione: vestiva colla massima eleganza,
e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la sua
orribilità era nel suo viso.
Certo ella aveva coscienza della sua bruttezza, e sapeva che era tale da
difendere la sua reputazione da ogni calunnia possibile; aveva d’altronde
troppo spirito per dissimularlo, e per non rinunziare a quegli artifici, a
quelle finzioni, a quel ritegno convenzionale a cui si appigliano ordinariamente
tutte le donne in presenza d’un uomo.
Me le era presentato da me stesso nell’entrare. Allorché fui seduto a
tavola, ella venne a prender posto vicino a me, e mi disse con dolcezza:
— Vi vedo solo, e mi permetto di farvi un poco di compagnia. Desiderava di
conoscervi, e di ringraziarvi personalmente dei libri che mi avete mandato. Mio
cugino mi aveva parlato di voi, e avrei voluto vedervi un po’ prima. Ma come
fare? Sono sempre cosí malata!
Fui colpito dalla soavità della sua voce, piú ancora di quanto nol fossi
stato dalla sua bruttezza.
— Ora mi sembrate però guarita — risposi io.
— Guarita! — esclamò ella sorridendo — mi pare di no. L’infermità
è in me uno stato normale, come lo è in voi la salute. Vi ho detto che ero
malata? Fu un abuso di parole. Ne faccio sempre. Per esserlo converrebbe che io
uscissi dalla normalità di questo stato, che avessi un intervallo di sanità.
Ho voluto tenermi chiusa parecchi giorni nella mia stanza, ecco tutto; ne aveva
le mie ragioni; ho attraversato un periodo di profonda malinconia.
Vedendo che la conversazione minacciava sí presto di trascinarci nel campo
delle confidenze, mi astenni dal risponderle.
— Non sapete — ella riprese dopo un istante di silenzio e con tuono
diverso di voce — che quel romanzo di Rousseau mi ha entusiasmata? Ne
conosceva il soggetto, e ne aveva avuto sott’occhi alcuni sunti, ma non l’aveva
mai letto.
— Avete avuto troppo premura di restituirmelo, è libro che vuol essere
meditato.
— È vero, se il meditarvi sopra non fosse cosa pericolosa.
— Parmi anzi utile.
— Utile sí, certamente. Voleva dire pericolosa per la nostra pace, per noi
donne, per… me. Vi sono delle letture che mi fanno male.
— Voi sapete — io dissi per tenermi da capo sulle generali — che
Rousseau, cosí virtuoso nei suoi libri, ha esposto cinque figliuoli alla ruota
di Parigi?
Essa mostrò di non aver compreso quell’artificio; accennò del capo come
avesse voluto dire: "Altro è l’uomo, altro le sue opere", e
riprese:
— Credo che il meditare sui libri e il rileggerli sia cosa sommamente
inutile, anzi sommamente nociva; a meno che in tutta la vita non se ne leggesse
che uno solo, e questo fosse tale da instillarci princípi retti e da
fortificarvici. Di libri educativi non ve ne può essere che uno, pena la
contraddizione, giacché ogni uomo ha vedute opposte, o per lo meno diverse. Il
leggere molti libri, il meditare su molti non ha altro effetto che quello di
renderci dubbiosi sulle nostre idee, incerti nei nostri pensamenti; non si sa
piú a che cosa credere, e spesso si finisce col non credere piú a nulla. Sono
convinta che ogni libro che non diverte, fallisce il suo scopo; che ogni libro
che fa pensare, nuoce. L’obiettivo d’ogni lavoro letterario dovrebbe essere
la fantasia — non la testa che si guasta, non il cuore che sanguina — ma l’immaginazione
che si esalta e gioisce. Non avete mai provato l’ebbrezza dell’immaginazione?
— Qualche volta. Ma credete che i suoi piaceri siano innocenti?
— O non vi è innocenza, o lo sono. Credo che possiamo non commettere una
colpa, ma non possiamo non immaginarla. Non vi è azione senza idea di azione;
bisognerebbe escludere il merito di fare o non fare. I traviamenti dell’immaginazione
sono naturali, spontanei, direi quasi obbligatori; son essi che costituiscono il
valore morale delle nostre azioni.
— Queste teorie hanno tanto di specioso quanto hanno poco di vero; — io
dissi — ma, se non sono in errore, vostro cugino vi ha accusata con me di far
un abuso della lettura.
— Sorvolo sui libri — rispose ella mestamente — come sarei sorvolata
sulla vita, se la vita fosse stata per me. Ho letto una volta di un fiore la
sommità del cui calice è sparsa di un polline dolce e salutare, e il fondo di
un polline amaro e velenoso; le farfalle che vi si fermano troppo, vi muoiono;
cosí è di tutte le cose; cosí è della vita. Non leggo né per imparare, né
per pensare — abborro i libri di morale e di metafisica — leggo per
dimenticare, per conoscere quali sono le gioie che il mondo dispensa ai felici e
per goderne quasi di un eco. È tutto ciò che io posso fruire dell’esistenza;
fuggire dalla realtà, dimenticare molto, sognare molto. Voi comprendete —
aggiunse ella con aria di mesta ironia — il bisogno che io ho di attenermi a
questo sistema, non avete che a guardarmi.
— E perché — risposi io confuso e commosso da quelle parole. — Se
siete inferma, guarirete; la vita ha dolcezze per tutti, ne ha di quelle assai
intime che né gli uomini, né le sventure ci possono togliere — il piacere di
beneficare.
— Beneficare! — interruppe essa — ho provato. Ho gettato i miei
gioielli e i miei abiti di seta dinanzi ad una folla di infelici che mi
laceravano il cuore collo spettacolo della loro miseria. È dolce, ma non basta.
L’esistenza non può essere tutta un sacrificio. La pietà non è che amore
passivo, amore morto.
— È però sempre un aspetto dell’amore — io dissi — né lo possiamo
credere un affetto solitario se lo vediamo ricompensato dalla gratitudine.
— Credo piú presto alla gratitudine dell’amore che a quella del
beneficio — rispose ella.
Io tacqui. Successe un istante di silenzio. Ad un tratto — o volesse ella
vendicarsi dei tentativi che io aveva fatto per deviare la conversazione da quel
soggetto, ora che me ne vedeva infervorato, o si dolesse realmente d’esservisi
lasciata andare — proruppe in uno scroscio di risa, e disse:
— Sono pazza io! In che discorso vi ho mai trascinato! Capisco che con me
si può camminare impunemente anche su questa china sdrucciolevole; ad ogni modo…
È molto tempo che siete arrivato qui? Avete veduto tutta la città? Vi piace?
— Da pochi giorni… e ho girovagato un poco per le vie. Sono del parere di
vostro cugino…
— Un paese di Barberia?
— E di Pellirosse!
Sorridemmo tutti e due, e credo l’una e l’altro per cortesia.
— Siete stato al giardino?
— Una volta.
— E al castello?
— Vi è un castello?
— Diamine! Avete visto il paese ad occhi chiusi. Ho pregato mio cugino di
condurmivi stasera. Se volete farci l’onore di accompagnarci…
— Molto volentieri, ve ne ringrazio — e diceva la piú solenne menzogna
del mondo. — Dacché ho lasciato Milano, sono vissuto in un isolamento il piú
rigoroso, ho paura di ammalarmi di solipsia; ma come uscir fuori di questo
paese? La campagna è una landa, una brughiera; non vi è un’ombra, non vi ho
ancora veduto un giardino, un fiore; io che vo’ pazzo dei fiori come le
femmine. Sta bene che siamo in agosto…
Fosca si alzò senza dir nulla, entrò nella stanza vicina, e ritornò subito
dopo, tenendo in mano un mazzetto piccolissimo di fiori che mi offerse senza
parlare.
Quell’atto mi sorprese e mi turbò nel piú profondo dell’anima. La sua
offerta era stata fatta tanto opportunamente, e con tanta delicatezza che ne fui
colpito. Ella s’avvide forse del mio turbamento, e si affrettò a dire come
per togliermi d’imbarazzo:
— Anch’io amo molto i fiori, e se fossi sana vorrei coltivarne; ma se ne
trovano parecchi che sono ingrati, e mi procurano delle terribili emicranie coi
loro profumi. Anche la società dei fiori è qualche volta pericolosa.
E vedendo che m’era alzato, e aveva preso il mio cappello per uscire,
aggiunse avvicinandosi alla finestra che era aperta:
— Guardate, abbiamo lí, nel palazzo di fronte, una serra magnifica, delle
petunie, una collezione di cardenie…
Cosí dicendo ci eravamo appoggiati al parapetto. In quel momento passava
sulla via, e proprio in faccia a noi, un convoglio funerario.
Ella lo vide, impallidí, retrocesse, si cacciò le mani nei capelli, emise
un urlo terribile, e cadde rovesciata sul pavimento.
Le sue cameriere accorsero, e la trasportarono nelle sue stanze in preda alle
convulsioni piú violente.
Io uscii da quella casa, quasi insensato.
XVI
Credeva che questo avvenimento le avrebbe impedito di uscire, e ne sarei
stato lieto, giacché avevo ricevuto in quel giorno una lettera da Clara, e mi
sentiva l’anima tutta ripiena di lei. Avrei bensí desiderato di recarmi in
quel giardino, ma avrei voluto andarvi solo; aveva bisogno di pensare, di
ricordare, di fantasticare a mio talento.
In quel momento la compagnia stessa di Clara mi sarebbe forse stata meno
piacevole della sua memoria. Piú volte a Milano aveva cercato qualche pretesto
onde allontanarmi da lei, allo scopo di ritirarmi nella mia stanza e pensarci
liberamente. L’amore ha spesso bisogno di ripiegarsi su se medesimo.
In quel giorno Fosca venne invece a sedersi a tavola vicino a me; e benché
apparisse estremamente sofferente, si adoprò a tenerci lieti, e a rinfocare la
conversazione con mille artifizi ingegnosissimi ogni qualvolta mostrava di
languire.
Il suo spirito non era superficiale, la sua intelligenza era assai piú
profonda di quanto non so lo sia ordinariamente un’intelligenza di donna: essa
aveva del talento, e una distinzione di modi affatto speciale. Non poteva però
indovinare se quel suo dissimulare tali virtú, quell’aria di non avvertirle
fosse vera inconsapevolezza, o artifizio.
Uscimmo come s’era convenuto. Il colonnello avendo incontrato per via un
suo amico, si accompagnò con esso, e mi disse:
— Siete un cattivo cavaliere; mia cugina non è troppo sicura delle sue
gambe, datele il braccio.
Cosí rimasi solo con essa.
Dacché aveva lasciato Clara non avevo piú dato il braccio ad una donna; ed
erano parecchi anni che, lei toltane, non m’era trovato in questa specie di
contatto con una di loro. Camminammo per qualche tempo senza parlare. Fosca era
assai mesta.
— Stamattina vi ho forse spaventato, — mi diss’ella con dolcezza — ne
fui afflitta per voi, molto afflitta; ma chi l’avrebbe preveduto? Fu una
sorpresa cosí triste! Non ho molta paura di morire, ve lo giuro, benché sappia
che non ho piú gran tempo a vivere; ma ho paura di tutto ciò che accompagna e
segue la morte: quel vedersi chiusi tra quattro tavole, quel sentirsi buttare la
terra addosso, quel disfarsi… tutto ciò è troppo orribile! Se si potesse
morire improvvisamente, nella pienezza della gioventú e della salute, e se la
morte fosse un annichilimento istantaneo, io l’avrei implorata di già come
una benedizione!
— Ma questi pensieri vi fanno male — io le risposi. — Perché pensare a
queste cose? Non vedo nella vostra salute motivo di tanta apprensione, — e
anche qui sapeva di mentire. — Mi avete fatto pena, è vero, ma non mi avete
spaventato, perché sapeva che non v’era in ciò alcun pericolo.
— Ve l’avevano già detto?
— Sí.
— Mi avevate già sentita?
— Sí.
— Eppure…
S’interruppe e tacque.
Continuammo a camminare in silenzio. Io era tutto immerso nell’egoismo del
mio amore. Pensava a Clara, non poteva distaccarne il mio pensiero. L’aver una
donna al mio fianco, una donna vestita con eleganza, che posava il suo braccio
sul mio, — un braccio fino, esile, leggiero — che mi toccava collo strascico
del suo abito; e camminare con essa in un luogo solitario, sotto gli alberi, era
cosa che accresceva del doppio la mia illusione. Non solo io non poteva
arrestare il mio pensiero su Fosca, ma la mia mente si valeva di lei come di una
guida in quella ricerca smaniosa delle sue memorie. Che quella donna fosse poi
brutta, orribilmente brutta, non ci pensava. Sapeva tanto illudermi da
dimenticarlo.
Una cosa sopratutto contribuiva a tenermi saldo nella mia illusione, una
specie di profumo delicato, molle, voluttuoso che emanava dalla sua persona, e
che aveva spesso sentito vicino a Clara. Gli abiti di seta riscaldati dal sole
esalano questa fragranza elettrizzante. Coloro che hanno passeggiato in giorni
estivi con un’amante lo sanno; essi non passeranno mai dappresso ad una donna
vestita di seta senza sentire quel profumo, e senza ricordarsi di quei giorni.
Oltre a ciò le donne hanno un profumo a sé — non so come la scienza non
abbia avvertito questo fenomeno che non sfugge all’amore — tutto ciò che
esse toccano è profumato, tutti i luoghi per cui passano ritengono qualche poco
della loro fragranza. Non ho mai potuto ricordarmi bene di mia madre, che
perdetti fanciullo, se non baciando un fazzoletto che mi è rimasto di lei, e
che ritiene ancora dopo tanti anni le reliquie del suo profumo di santa.
Era troppo tardi per recarci a visitare il castello; entrammo nel giardino.
Non aveva veduto mai prima di quel giorno un luogo cosí incantevole, cosí
pieno di maestosa orribilità. In quelle mie prime escursioni non ne aveva
visitate che alcune parti. Non v’erano né aiuole, né fiori, ma spalliere
gigantesche di carpini, viali ampi e lunghissimi fiancheggiati da ippocastani
secolari, e gruppi di olmi cadenti per vecchiezza l’uno sull’altro. Nel
mezzo vi era un lago estesissimo, la cui acqua corrotta dal ristagno e dalle
foglie che vi s’erano infracidite, non aveva piú alcuna trasparenza; a quando
a quando il vento vi faceva cadere dagli alberi i rami secchi, schiantati dal
turbine, e appena ne sollevavano le onde, tanto erano dense ed immobili. Piccoli
serpentelli d’acqua scivolavano in mezzo alle foglie delle ninfee. Dappertutto
statue mutilate, annerite dalle pioggie, coperte di musco e di acetose; cippi e
basi di colonne sepolte in mezzo alle ellere; avanzi di acquedotti, tra le cui
screpolature crescevano ranuncoli e capelveneri. Da un lato v’erano pure le
rovine di un tempio pagano, sulla cui sommità aveva posto radice un ulivo;
grosse lucertole, uscivano e entravano dalle fessure delle pareti smattonate. L’umidità
e l’ombra vi erano sí costanti che in pieno agosto vi fiorivano le viole; ed
erano tante che il suolo pareva coperto da un tappeto azzurro, se non che non
avevano profumo. Non si sentiva che il canto di una sola specie di uccelli (non
vi intesi mai altro uccello a cantare, né ne vidi d’altra sorta in tutte le
volte che mi recai a passeggiarvi), ed erano certi scriccioli non piú grandi d’una
farfalla. Il loro canto era un fischio lamentevole e pieno di malinconia. Gli
uccelli piú piccoli di quel paese ne abitavano gli alberi piú grandi.
In quel momento il sole era presso a tramontare, e vi gettava orizzontalmente
alcuni de’ suoi raggi. Le sommità delle piante erano talmente ampie, e
avevano talmente intrecciato i loro rami che vi raccoglievano e vi trattenevano
quasi tutta quella luce, come sotto un padiglione di verzura impenetrabile.
Quegli effetti di sole erano meravigliosi. La mia anima era rapita di quello
spettacolo. Se Clara fosse stata con me!… Le ultime parole che mi aveva detto
Fosca risuonavano ancora al mio orecchio come un eco, aveva ancora nel cuore
qualche cosa della sensazione che ne aveva ricevuto.
— Come! — proruppi io improvvisamente quasi per rispondere a me stesso e
a’ suoi dubbi sconfortanti — come si può pensare a morire quando tutto ciò
che ci circonda è cosí pieno di vita, è cosí bello; quando vi è ancora
tanta parte di esistenza innanzi a noi? Guardate questi alberi, questo tappeto
di viole, questo orizzonte… Non vi pare che la sola sensazione dell’esistere,
il vedere, il sentire, il toccare, il muoversi, il respirare in questo luogo sia
qualcosa che debba renderci allettante la vita?
— Perché non avete aggiunto, pensare?
— I pensieri che nascono dalla contemplazione della natura non possono non
essere che sereni.
— Voi non conoscete tutti gli abissi del pensiero.
— Forse…
— Né le sue torture.
— Queste sí, conosco però anche le sue dolcezze.
— Io non le ho mai conosciute.
— Vorrei dirvi ingiusta. Sono convinto che non vi è assoluta infelicità,
né felicità assoluta. L’eredità di beni e di mali che ci ha legato la
natura, può eccedere o difettare nella misura di questi o di quelli, ma ciascun
uomo ne ha una parte — piccola o grande, ne ha una — non vi è esistenza
cosí misera che non sia stata letificata un istante da un baleno di fugace
felicità… Poc’anzi mi parlavate dei piaceri della fantasia.
— Altro è immaginare, illudersi; altro è aver coscienza e sentimento di
un bene reale. Vi fu un tempo in cui avrei accettato qualunque miseria,
qualunque spasimo, a patto di sognare tutte le notti, di sognar sempre, di non
vivere che di questa vita di illusioni. Allora non era ancora malata. I miei
stessi mali mi hanno ora esaudita; la mia infermità mi procura ogni notte sonni
convulsivi, periodi di assopimento febbrile, nei quali ripassano innanzi a me
tutte le scene, tutte le visioni, tutte le complicazioni possibili di questo
mondo sterminato dei sogni. Ebbene, lo credereste? Non ne ho piú alcuna gioia,
spesso anzi mi disgustano, mi tediano. Noi viviamo in un mondo reale, dobbiamo
afferrare il reale, il concreto.
— Esso è sempre inferiore all’ideale.
— Non importa. Chi non preferirebbe all’immagine di un bene smisurato, il
possesso di un bene anche minimo?
— Tutto ciò è relativo; — io dissi — gli aspetti e le sorgenti della
felicità sono molteplici, chi si reputa avventurato in una maniera, chi in un’altra;
la maggior parte degli uomini lo sono in modi opposti o diversissimi. Non vi è
che un mezzo comune, facile, sicuro di essere felici.
— Quale?
— Amare.
Essa tacque, e sentii il suo braccio pesare con maggior abbandono sul mio.
— Amare! — ripeté ella dopo qualche istante. — Che cosa avete inteso
di dire? Spiegatevi.
— Credeva di essermi giovato di una parola assai semplice — dissi io. —
Se non ne comprendete il valore, le mie spiegazioni non avrebbero alcun frutto.
Ella sorrise a fior di labbra, e riprese:
— Intendete di escludere le piccole simpatie, le amicizie, gli affetti
domestici? Amare è una parola assai generica.
— Assai esclusiva all’età vostra. Non escludo gli affetti che voi dite;
ma non li considero che come una sfumatura, come una eccedenza, come la cornice
del quadro. Forse anzi m’inganno, essi hanno natura oppostissima. Dicendo
amore intendo amore.
E ripresi col pensiero rivolto a Clara:
— Intendo l’amore che sentiamo alla nostra età, noi, giovani, ardenti,
immaginosi; quell’amore che è superiore a tutto, che sfida tutto, che è
tutto; quella fusione piena di due anime che fa vivere la stessa vita, pensare
gli stessi pensieri, volere le stesse volontà, desiderare gli stessi desideri;
quel periodo di acciecamento e di ebbrezza in cui tutto è bello, tutto è
nobile e puro, tutto è felice; giacché l’amore non è che un grande
acciecamento ed una grande ebbrezza!
— Ah, sí! — esclamò ella sommessamente, e come parlasse a se stessa —
quello è l’amore.
— E credete, — continuai io senza avvedermi del male che le facevano le
mie parole — credete che la vita avrebbe qualche attrattiva se vuota di questo
sentimento che l’occupa tutta; nella fanciullezza col desiderio, nella
gioventú colla fruizione, nella vecchiezza colle memorie? Credete che questo
mondo ci parrebbe sí bello e sí buono, se non avesse questa luce e questo
profumo? Che questo stesso luogo dove siamo ora mi sembrerebbe cosí
incantevole, se non lo vedessi attraverso questo prisma abbagliante?
— Voi!… — esclamò ella — voi lo vedete…
E s’interruppe di nuovo angosciosamente.
Eravamo arrivati in quel punto nel mezzo di una crociera ove sorgeva un
monumento di marmo. Sopra una fronte di esso, rimasta intatta, erano scritti a
matita molti nomi che il tempo aveva in parte cancellati: due righe sole
parevano recenti e dicevano: 22 agosto 1863. Giulio e Teresa — amanti e sposi
felici.
Mentre Fosca me le indicava col dito, sentiva la sua persona pesare sopra la
mia con abbandono. Non era effetto di voluttà, ma prostrazione, abbattimento
improvviso. Quanto a me, quelle parole mi avevano colpito piú intimamente: la
mia situazione era tale da sentire piú al vivo quel richiamo: "amanti e
sposi", noi non eravamo che amanti, noi, io e Clara, non saremmo stati
sposi mai; il nostro stesso amore non era che una colpa, che una violazione di
quella legittima felicità di cui godevano quei due ignoti. Essi erano stati in
quell’eliso quattro soli giorni prima di noi — era allora il ventisei
agosto, me ne ricordo bene — come — come dovevano esservisi sentiti felici!
Correre lungo quei viali, nascondervisi dietro i carpini; chiamarsi, inseguirsi,
sedersi su quelle viole; oppure passeggiarvi a braccio, vicini vicini, colle
teste che si toccano, colle mani intrecciate; e parlare di cose malinconiche, di
ammalarsi, di morire… "prima io; no, prima io… assieme…". E mi
veniva in mente che quattro giorni prima era stato un bel giorno quieto, fresco,
sereno, e il sole doveva essere tramontato, come allora, in un oceano di raggi
infuocati, e quel luogo doveva essere stato bello, severo, incantevole come in
quel momento.
L’immagine di quella felicità era venuta a colpirmi nella pienezza della
mia baldanza. Non invidiava quelle due creature, ma mi faceva male il pensare
che v’erano al mondo esseri tanto piú felici di me.
Avvenne una reazione istantanea nelle mie idee; mi riebbi subito da quella
specie di allucinazione che m’aveva dominato fino allora, pensai al discorso
tenuto con Fosca, e ne sentii pentimento.
Meditava sul modo di dirglielo opportunamente, allorché essendo stati
raggiunti da suo cugino che discuteva forte col suo amico intorno ad un quesito
di strategia, essa gli disse:
— Mi sento male, torniamo a casa.
Il colonnello si rivolse senza risponderle, tutto infervorato come era nella
sua discussione.
— Vi sentite male? — le chiesi con dolcezza. — Mio Dio! forse le mie
parole… i discorsi insensati che abbiamo tenuto finora…
— Voi siete ben crudele — diss’ella.
E parve che non potesse continuare.
— Crudele, — esclamai io — e perché? Non vi comprendo.
— Voi non sapete quanto mi avete fatto soffrire. O siete incredibilmente
ingenuo, o incredibilmente cattivo. Parlarmi d’amore, di felicità, parlarmene
in tal guisa… — e si calò il velo del cappello, non so se per nascondere la
sua emozione, o per celarmi la sua bruttezza in un momento in cui stava per
trionfare della mia pietà. — Non comprendevate quanto mi dovevano far male
quelle parole?
— Perdonate, — io dissi con accento commosso — vi giuro che era ben
lungi dal sospettarlo: mi avviene spesso di parlare inconsideratamente…
E avrei voluto aggiungere: "Voi mi avete però provocato". Ma me ne
astenni.
— Sentite — diss’ella cercando la mia mano colla mano del braccio che
aveva fatto passare nel mio — una mano secca, lunga, leggiera — e
stringendola a intervalli convulsivamente. — Qualche giorno vi farò della
confidenze, vi racconterò la mia vita; voi me lo permetterete, non è vero? Ho
bisogno del vostro compianto. Avete un’aria cosí dolce, cosí buona. Ve lo
confesserò: io vi ho veduto fin dal primo momento che siete venuto in nostra
casa, vi vedeva tutti i giorni, e non usciva mai dalla mia stanza perché aveva
vergogna di voi, temeva di dispiacervi, sono cosí brutta! Mio cugino non è
cattivo, mi vuol bene, ma non mi sa comprendere; gli altri sono gente
grossolana, buoni ma rozzi — soldati! Non vi siete che voi che possa capirmi,
sopportarmi senza umiliarmi, compiangermi. Perché non v’ha alcuno tra essi
che non mi rispetti, è vero, ma in segreto mi deridono, ne sono ben certa, lo
sento. Dicono che sono dispettosa, volubile, ironica, spesso cattiva. Son essi,
è il mondo che mi ha fatta diventare cosí, mi conoscerete. Ho bisogno di
essere conosciuta, capita. Voi non potete immaginare come questi uomini che
dicono di sapere tante cose, che sembrano conoscere il mondo sí bene, e ne
ridono, sieno poi tanto ignoranti, tanto superficiali nella scienza del cuore
umano. S’illudono perché si conoscono tra loro, e si conoscono tra loro
perché sono tutti eguali! Voi siete diverso, voi; mi è bastato vedervi per
comprenderlo. Non vi domando che la vostra protezione, la vostra tolleranza. Ho
qui nel cuore tante cose che mi fanno male, perché non le posso mai dire; e poi
lo vedete, sono malata, sono anche brutta, assai brutta, dovete aver compassione
di me… quella compassione amorevole, generosa, sincera che non ho trovato mai,
mai, e di cui sento tanto bisogno. Non mi rifiuterete la vostra pietà, ditelo,
non me la rifiuterete!
— Buona creatura — esclamai io profondamente commosso — sí, avrete
tutta la mia amicizia, tutta la mia confidenza; avrò anch’io tante cose a
dirvi; sarò felice di avere un’amica…
E trovandomi imbarazzato a continuare, strinsi calorosamente la mano che ella
aveva posto nella mia.
— La vostra mano è ardente.
— Ho la febbre, l’ho sempre.
— Sentite, — riprese ella dopo qualche istante — ho bisogno di
giustificarmi con voi, sento che ne ho il diritto e il dovere. Se oggi stesso,
il primo giorno in cui vi ho veduto, ho osato tenere con voi alcuni discorsi che
nessun’altra donna avrebbe tenuto, e ho voluto quasi provocarli, l’ho fatto
perché la mia bruttezza mi garantiva contro tutti i pericoli di una simile
discussione, e anche contro il sospetto di essermivi abbandonata per uno scopo
biasimevole. La mia deformità ha almeno questo vantaggio.
— Ora — proseguí Fosca, vedendo che non eravamo piú che a pochi passi
dalla sua casa — dovete promettere di perdonarmi la prima colpa che ho
commesso a vostro riguardo.
— Quale! una colpa!
— Promettetelo prima.
— Con tutta l’anima.
— Quella di avervi fatto uscire con me. È una ferita che ho recato al
vostro amor proprio; e so quanto ciò vi possa essere dispiaciuto. Non tentate
di farmi credere il contrario.
— Non lo farò, — io le dissi (giacché mi vedeva posto nel caso di dire
una nuova menzogna) — non lo farò perché me lo proibite, ma…
Essa mi guardò e sorrise tristemente, come avesse voluto dirmi:
"È vero, perciò non lo farete".
In quel momento avevamo raggiunto il colonnello ed il suo amico che si erano
fermati alla porta ad aspettarci.
— Sapreste dirmi — mi chiese il colonnello col volto arrossato dalla
discussione avuta col suo compagno — se fu De-Fauchée l’inventore delle
capsule a secco, o piuttosto se non fu lui che le ha perfezionate?
— Egli ne fu l’inventore.
— Lo sapete positivamente?
— Positivamente.
— Al diavolo! — disse il suo amico.
— Benissimo! — esclamò il colonnello, fregandosi le mani — sei
bottiglie di madera guadagnate!
XVII
Mi ritirai nella mia stanza tristissimo; era assai malcontento di me, e
sentiva che aveva il dovere di indagare severamente la mia condotta. Il
risultato di quell’esame non poteva che mettermi in maggior ira contro me
medesimo; mi era contenuto come un ragazzo, come un collegiale. Fosca aveva
avuto ragione ad approfittare della mia semplicità; essa non aveva fatto che
cedere alle mie provocazioni. Se il mio contegno era stato tale con lei di cui
avrei abborrito l’affetto, quale sarebbe stato con una donna avvenente, il cui
amore avrebbe lusingato la mia vanità? Come mi sentiva colpevole verso Clara!
Come era umiliato della mia debolezza!
Un altro pensiero metteva a tortura l’anima mia. Quella donna era realmente
buona, realmente ingenua? O non era che un essere infinto, astuto, corrotto?
Aveva ella voluto abusare della mia semplicità, sorprendermi, condurre all’amore
per la via della compassione; o le sue intenzioni erano pure, e questa mia
stessa semplicità l’aveva invogliata della mia amicizia, della mia sola
amicizia? Infelice lo era, e assai: le miserie sue dovevano essere infinite; né
era strano che ella potesse desiderare un’anima in cui versarsi, desiderarla
con tale intensità di desiderio, e invocarne la pietà con tale abbandono.
Oltre a ciò Fosca non era una donna comune. Il suo spirito era assai colto,
la sua intelligenza assai vasta; e la sua stessa infermità, la sua bruttezza
erano tali circostanze che concorrevano a formare un’eccezione. Le sue
passioni, i suoi sentimenti, le sue idee dovevano anche essere eccezionali; ed
era forse sotto questo aspetto che bisognava giudicarne. Nondimeno quell’aprirmi
subito l’anima sua; quell’abbandonarsi cosí a me nel primo giorno che mi
vedeva, quel richiedermi disperatamente della mia amicizia…
Diffidavo dell’amicizia di una donna, e mi doleva non poco di aver
accettato quella di lei. Io sapeva che noi non possiamo sottrarci mai agli
istinti, e che tra un uomo e una donna giovani, che vogliono violentare la
natura amandosi di amicizia, non può esistere che un affetto monco,
artificiale, violento, spesso ridicolo, perché non conduce che ad un amore già
nudo d’ogni illusione e d’ogni attrattiva. L’amicizia ci ha fatto veder
tutta l’indiscretezza della sua intimità, ci ha spogliati di ogni velo; non
si può piú essere né amici veri, né amanti veri; ed è cosí che la natura
si vendica spesso dell’oltraggio che ha ricevuto.
Avrei dato un anno della mia vita per potermi sottrarre a quella promessa,
per poter infrangere quel legame. Se tutto ciò non fosse avvenuto!
Prevedeva che quella donna si sarebbe posta fra me e la mia felicità,
avrebbe attraversato il mio avvenire. Non sapeva immaginare le ragioni di questo
timore, ma il cuore me lo diceva, né il mio cuore mi aveva mai ingannato.
Cercai in quella notte di prendere una risoluzione pronta ed efficace, di
fuggirla, di essere crudele. Ma Dio mio! Come potevo io essere crudele? Io non
era mai stato nella mia vita che semplice, che affettuoso, che buono!
XVIII
V’era però un mezzo ben certo di rendere impossibile ogni altro legame, e
di distruggere quello che avevamo già contratto — evitare di trovarmi solo
con lei. Fuggirla era follia; l’avessi pur potuto, non l’avrei dovuto; tale
estremo era inopportuno, né ella il meritava, né suo cugino ci sarebbe passato
sopra senza volerne sapere le cause.
Ella avrebbe potuto leggere nell’anima mia il pentimento che io sentiva di
quel primo abbandono, e la risoluzione decisa di dimenticarlo; il mio contegno
doveva essere sufficiente a ciò, né il suo orgoglio le avrebbe permesso di
chiedermene una spiegazione.
Riuscii per alcuni giorni ad evitare di trovarci soli — cosa che non ebbe a
costarmi poca fatica, perché ella, dal canto suo, poneva in opera ogni
strattagemma possibile per ottenere uno scopo contrario. Aveva ella indovinato
le mie intenzioni? Non lo lasciava apparire. Forse ad arte, giacché in tal caso
il suo amor proprio le avrebbe dovuto imporre la stessa severità di contegno a
mio riguardo.
Non era piú stata malata, né aveva lasciato passare una sola occasione per
vedermi. All’indomani di quella passeggiata, ciascun commensale aveva trovato
un fiore sul suo coperto; inutile dire che il mio era il piú bello. Tutte le
cure, tutte le preferenze possibili erano per me. Ella sapeva porre tant’arte
in dissimulare questa predilezione, che nessuno se n’era avveduto, ma era tal
cosa che a me non poteva sfuggire. Ne era commosso, ma me ne doleva amaramente.
Da principio mi era sembrato tollerasse quella mia apatia con animo
indifferente, in seguito mi avvidi che incominciava ad immalinconire, e ne
soffriva.
Una sera in cui eravamo seduti dappresso — fosse caso, fosse disegno —
accostò tanto il suo braccio al mio da toccarlo e da premerlo; io mi ritrassi
un poco: bastò quest’atto a cagionarle una crisi nervosa delle piú violente.
Che poteva io fare? Sentiva pietà di lei, vedeva il suo cuore e ne soffriva;
ma l’egoismo del mio amore, la mia felicità, la natura stessa facevano tacere
in me quel sentimento. Io ero divenuto piú fermo che mai nel disegno di
respingere quell’affezione.
Una sera il colonnello mi aveva detto:
— Domani usciremo in carrozza assieme, vi farò vedere una pariglia che non
avete ancora veduto, andremo al castello.
— Volontieri.
All’indomani rimasi penosamente sorpreso nel veder Fosca apparecchiata ad
accompagnarci. Eravamo soltanto noi tre, e aspettavamo che ci si annunciasse che
la vettura era pronta. Indugiando i domestici in ciò, il colonnello salí sulle
furie, e discese egli stesso nel cortile. Rimanemmo soli, in piedi, l’uno di
fronte all’altra. Nessuno di noi osava rompere quel silenzio angoscioso.
Ad un tratto, Fosca afferrò con atto disperato le mie mani che io teneva
riunite sul petto, e vi nascose il volto esclamando con voce supplichevole:
— Oh Giorgio, oh Giorgio!
Finsi di essere sorpreso, di non comprendere.
— Che avete? — le chiesi io con freddezza — vi sentite forse male? Che
è avvenuto?
— Ah! — gridò ella respingendo le mie mani con violenza, e guardandomi
con espressione di affettuoso rancore. E prorompendo in lacrime fuggí nella sua
camera.
Suo cugino fu assai sorpreso di questo incidente.
— Che hai? Che accadde?
— Nulla, un’emicrania improvvisa, insoffribile: sto male, non uscirò
piú, sono disperata. Vorrei morire, morire!
— Morire! Sei pazza! — esclamò il colonnello.
E avvicinandosi a me che ero rimasto immoto sull’uscio, mi disse:
— Abbiate pazienza, mio caro, voi vedete che mia cugina sta male; non ho
cuore a lasciarla sola; andremo un altro giorno a visitare quel castello.
XIX
Quella situazione non poteva durare. Al domani, mentre ci trovavamo a tavola,
dissi a suo cugino:
— Ho ricevuto lettere da Milano che rendono indispensabile una mia gita in
quella città; vi sarei obbligato se poteste concedermi una licenza di tre
giorni.
— Accordato — rispose il colonnello. — Se me ne aveste fatto domanda in
ufficio, vi avrei forse risposto di no, ma a tavola! Come fare! Voi conoscete il
mio debole, e ne approfittate. Fate conto di partire domani? E con qual
convoglio?
— Con quello delle quattro.
— Bisognerà far anticipare il vostro pranzo.
— Non occorre, pranzerò alla locanda.
— Che diavolo! — esclamò il colonnello. — Perché alla locanda? Non ne
vedo la necessità.
E diede ordine che si apparecchiasse alle tre per me solo.
Avevo fatto quella domanda per riabbracciar Clara, anzi tutto; poi per aver
tempo a riflettere sopra una risoluzione piú fruttuosa, e fors’anche a
consigliarmi con lei. Se avessi veduto modo di abbandonare quella casa, tutto
sarebbe stato finito; ma la mia mente non giungeva a trovare per ciò un
pretesto ragionevole.
Al domani, come aveva preveduto, trovai Fosca che mi aspettava nella sala da
pranzo. Essa vi s’era fatta portare un suo piccolo tavolino d’ebano, e vi
stava lavorando di ricamo.
Quella sua costanza, quel difetto di amor proprio che mi pareva scorgere nel
suo carattere, quell’ostinazione a volermi imporre il suo affetto, fecero sí
che io la vedessi sotto un aspetto ancora piú triste di quanto non me la avesse
già fatta vedere la sua bruttezza. Ne fui offeso e disgustato. Se non era che
in quell’istante il pensiero della mia felicità mi rendeva lieto e
indulgente, sarei stato veramente cattivo con lei. Ma si può essere cattivi
quando si ama? Se tutti gli uomini amassero, se l’esistenza fosse una
giovinezza perenne, la questione del bene e del male sarebbe risolta, il trionfo
della virtú sarebbe assicurato: noi non spiccheremmo piú dall’albero della
vita che i dolci frutti del bene.
Mi contenni nondimeno con molta freddezza. Fosca non parlò mai; io divorava
in silenzio. Di quando in quando alzavo gli occhi e la guardavo. Era facile
accorgersi che ella soffriva orribilmente, e faceva violenza a se stessa per
contenersi. Vedeva in lei come qualche cosa che stesse per prorompere, come una
fiamma che stesse per avvampare; non mi tenevo affatto sicuro di poter uscire da
quella casa senza subire le spiegazioni che tanto temeva.
L’orologio suonò le ore.
— Tre e mezza, — io dissi — non ho tempo a perdere.
Ella alzò gli occhi, e mi chiese:
— Andate a Milano?
— Sí.
— Vi divertirete?
— Spero.
— Mi sembrate molto contento.
— Non ho motivo di essere triste.
— Quando ritornerete?
— Fra tre giorni.
— Vi ricorderete di me?
— Perché no! Ricordandomi di questa città, di vostro cugino… mi
ricorderò anche di voi…
Essa chinò il capo. Io mi alzai, e presi il mio cappello. Fosca fece atto di
volermi accompagnare nell’anticamera.
— Restate, — io le dissi — non lo permetto.
E stesi la mano quasi per impedirlo.
Essa la strinse tra le sue sí fortemente che ne sentii quasi dolore. Se la
portò al cuore e se la premette sul petto con atto convulsivo; poi, prima che
io avessi potuto rimettermi da quella sorpresa, abbandonò la mia mano, mi
gettò le braccia al collo e mi coperse il volto dei suoi baci, il cui ribrezzo
mi fece restare agghiacciato ed immobile.
— Cessate, — io le dissi, sciogliendomi con dolcezza da quell’abbracciamento
— cessate per carità; vi vedranno, pensate…
— No, no, — interruppe ella — mi vedessero, e che monta? Oh Giorgio!
pietà di me, pietà di me! Io vi adoro.
Si gettò a terra con atto disperato, e mi abbracciò le ginocchia. Il suo
volto era tutto pieno di lacrime.
— Mi disprezzerete! Ebbene, non importa; purché mi soffriate, purché mi
permettiate di vedervi, di dirvi il mio amore, di raccontarvi i miei patimenti,
di piangere con voi. Se non l’avessi confessato io che vi amava, voi non me l’avreste
detto mai, nessuno me l’avrebbe detto perché hanno tutti orrore di me. Oh,
abbiate compassione! amatemi, amatemi; si ama un cane, una bestia… e perché
non amerete me che sono una creatura come voi?…
(Mi ricordo ancora di queste parole terribili: "si ama un cane, una
bestia…".)
— Alzatevi, alzatevi — io le dissi con voce tremante. — Le vostre
parole mi turbano, mi straziano il cuore. Calmatevi, ricomponetevi. Ora, lo
vedete, io debbo partir subito, non posso dirvi tutto ciò che vorrei. Il vostro
affetto mi commuove, la vostra simpatia mi lusinga… veramente… ma ora… Vi
scriverò da Milano, vi scriverò lungamente, subito… vi dirò tante cose;
datemi un indirizzo, un nome…
— Il mio nome di ragazza?
— Avete marito?
— L’ebbi.
— (Mio Dio!)
Mi diede un indirizzo.
— Mi scriverete davvero? — diss’ella col volto raggiante di gioia —
davvero? — mi scriverete? Oh grazie, grazie!
— Non ne dubitate, domani stesso. Ora restate qui, siete agitata,
potrebbero indovinare…
Mi accompagnò fino alla soglia dell’uscio, mi guardò con tenerezza
ineffabile, mi stese le mani, mi baciò un lembo dell’abito, tornò a
ripetere:
— Grazie, grazie della vostra pietà! Pregherò per voi. Siate benedetto!
siate benedetto!
Uscii col cuore lacerato.
XX
"Come sono belle le campagne che corrono di là a Milano! Le ho
attraversate come in un sogno. Quando si viaggiava in carrozza, a giornate, si
vedeva un lembo di terra alla volta, ora la nostra vista può abbracciarne in
poche ore estensioni smisurate. L’uomo si affanna sempre piú a conquistare la
terra.
Le pianure della Lombardia sono serene come il suo cielo, liete e fiorenti
come le sue donne; quel cielo è fatto apposta per quelle campagne, non sta bene
che lí, con un altro suolo non armonizzerebbe. Non so perché mi piacciano
adesso le pianure, a me cui non sono piaciute mai, a me nato e cresciuto tra le
montagne. Ma chi non amerebbe i luoghi dove è stato felice e dove lo può
essere ancora? La Lombardia è all’Italia ciò che sono le praterie all’America,
— gli Elisi, i Campi felici.
Ho passato sei ore in una specie di dolce rapimento, colla testa fuori dello
sportello, coll’anima perduta nella natura. Un viaggio in ferrovia è una
corsa attraverso la natura: si provano le stesse vertigini del volare. Dopo che
la scienza ha creato questo mezzo di locomozione si può quasi dire che l’uomo
ha delle ali.
Che bella fantasmagoria di alberi, di fiumi, di case, di paesaggi! Come l’orizzonte
pareva girare intorno a me, quasi mi fossi trovato in circolo magico! Ho veduto
su nell’alto, nell’alto, una lunga fila di gru che erano appena visibili.
Dove andavano? Chi dirigeva la loro corsa? Chi lo sa dire! — Dove va a finire
il corso della mia vita?
Ho viaggiato con alcune fanciulle, e con due vecchi che non mi levavano mai
gli occhi d’addosso. Essi comprendevano senza dubbio che vi era in me qualche
cosa di straordinario, l’aspettazione di una grande felicità. Mi sentiva
voglia di voltarmi, e di dir loro: "Signori non sapete che io sono molto
felice?" Ma ho avuto pietà della loro vecchiezza!
Eccomi di nuovo in questo piccolo santuario. Esso è ancora tutto ripieno di
lei, vi è ancora tutto il suo profumo. Se mi avessero condotto qui ad occhi
chiusi, avrei gridato subito: "Clara, Clara!" perché avrei sentito la
sua presenza.
Ho trovato un suo capello, e ho baciato e ribaciato il guanciale che riteneva
ancora l’impronta della sua testa. Quanti ragnateli! Ho visto un millepiedi
sulla parete. Il micio del vicino ha veduto l’uscio aperto ed è entrato ad
accarezzarmi le gambe colla coda, l’ho riveduto come un vecchio amico. Quell’ellera
che veste la parete esternamente si è abbarbicata alla persiana, e ha cacciato
dentro, per le gretole, alcuni rami coperti di fogliuzze quasi bianche, perché
non avevano luce. È una pianta sempre viva, e ne ho tratto un presagio
lusinghiero.
Sono le quattro dopo mezzanotte: passeggio, piango e sorrido. Ripeto spesso,
protendendo le braccia: "Oh Clara, vieni, vieni!"
Non posso coricarmi: ancora otto ore, — a domani: ancora otto ore!
Ho aperto le finestre; il cielo è chiaro e sereno. Che scintillio di stelle!
che silenzio! Oh mio Dio, come siete grande!"
Tale è un brano delle memorie che io scrissi in quella mia prima gita a
Milano, e che ricopio ora dal mio giornale.
XXI
Aggiungo qui la lettera che diressi in quella notte a Fosca:
"Vi scrivo appena arrivato qui. Siete il mio primo pensiero, benché il
piú doloroso. Vi scrivo col cuore lacerato. Se il sagrifizio di dieci anni
della mia vita potesse evitare a me il dolore di mandarvi questa lettera, e a
voi quello di riceverla, vi giuro che accetterei questo rimedio con gioia.
Procurate di ascoltare con calma quello che sto per dirvi.
Io non posso amarvi perché il mio cuore non è piú mio; non posso
ingannarvi perché né io ne sono capace, né voi lo meritate. Il rispetto che
ho per voi è piú potente della pietà che mi domandate, e mi impone di essere
sincero. Un inganno vi umilierebbe, umilierebbe me stesso. Io amo perdutamente,
io sono perdutamente riamato. Se aggiungessi parole a descrivere la mia
felicità, apparirei troppo crudele verso di voi; nondimeno è necessario che vi
facciate un’idea dell’intensità del mio amore per averne una dell’imponenza
de’ miei doveri. Sappiate soltanto che il mio amore non ha, come il suo, né
limite, né nome, né esempio; giudicate di ciò che io debbo a lei, di ciò che
ella deve a me, di ciò che noi dobbiamo al nostro affetto e a noi stessi.
Prima di confessarmi il vostro amore, mi avevate richiesto della mia
amicizia; ora che io debbo respingere questo secondo legame, reclamerete ancora
i diritti di quella prima offerta? Credete che la pura amicizia non è possibile
tra noi, come non lo è mai tra un uomo e una donna giovani. Essa non farebbe
che rendere la nostra posizione piú imbarazzante, piú equivoca, piú
pericolosa. È necessario che noi ci separiamo interamente. Consideriamo la
nostra conoscenza come una sventura; tentiamo di sopportarla con forza, e di
rimediarvi con coraggio.
Voi avete avuto marito, mi diceste; voi sapete dunque che cosa è un dovere,
lasciate che io lo compia. Voi sapete anche che cosa è la felicità, lasciate
che provi anch’io ad essere felice — non lo sono mai stato!
La ragione vi offre un mezzo assai facile per riconciliarvi col mio rifiuto.
Supponete che la donna che io amo foste voi, come giudichereste il mio
abbandono? Una viltà, una bassezza, un delitto. Mi disprezzereste. Ora, dareste
voi il vostro amore ad un uomo cui aveste dato il vostro disprezzo? La
necessità della nostra separazione è evidente, altrettanto che inesorabile.
Comprenderete che se ho insistito per avere un vostro indirizzo e per
scrivervi, era allo scopo di farvi conoscere il piú presto possibile questi
miei sentimenti e di sottrarmi ad una situazione piena di pericoli. Se questa
mia promessa ha creato in voi delle illusioni che ho dovuto togliervi,
perdonatemi, perché non avrei potuto fare altrimenti.
Sentite, — e chiamo il cielo in testimonio della veracità delle mie parole
— se il mio cuore fosse stato libero, non vi avrei forse amata di tutto il mio
amore, perché credo che la natura non abbia posto delle leggi di simpatia assai
tenaci tra noi, ma vi avrei nondimeno amata. Il vostro cuore e il vostro talento
mi vi avrebbero resa assai cara, piú ancora le vostre sventure. Avrei accettato
con gioia il mandato di proteggervi e di confortare la vostra esistenza di
qualche piacere. Ora è troppo tardi; io non appartengo piú a me stesso. Debbo
essere crudele per essere giusto; e voi non potete disconoscerlo.
Siete anzi voi che mi dovete secondare in un’opera cosí difficile. È
necessario che io conservi la mia stima, voi la vostra pace, ella le sue
illusioni. Faccio appello alla vostra generosità, al vostro cuore. Non vi è
miglior mezzo di guarire dell’amore, che amando. Non mi dovete odiare, perché
non l’ho meritato. Il bene chiama il bene: stimandomi, avrete cara la mia
stima, e vi adoprererete a meritarla.
Io non posso cessare di frequentare la vostra casa, lo sapete; la mia
lontananza creerebbe dei sospetti pericolosi alla vostra tranquillità. Fate che
io non vi debba essere motivo di afflizioni, che possa vedervi con sicurezza, e
stringervi la mano senza timore. Ogni altro rapporto tra noi è impossibile.
Se questa lettera vi pare fredda, è segno che sono riuscito a nascondervi il
dolore che mi lacera il cuore. Si è ingrati di tutto al mondo, mai però di un
affetto, perché è il solo beneficio che non ci umilia, e che lusinga la nostra
vanità. Potete dunque calcolare sulla mia gratitudine.
Voi avete pronunciato nel lasciarmi delle parole che mi hanno fatto piangere
perché mi hanno fatto conoscere il vostro cuore. Lasciate che io le ripeta ora
per voi: Siate benedetta, siate benedetta!".
Uscii io stesso dopo la mezzanotte ad impostare quella lettera. Sentiva che
era stato ben crudele nella mia stessa pietà. Affrettarmi tanto a
disingannarla!… I sentimenti che aveva espressi in quelle pagine erano
sinceri, ma io li aveva attinti dal mio egoismo piú che dalla mia compassione.
Ciò che mi stava a cuore era la mia felicità, era togliere di mezzo quell’ostacolo
che ne aveva minacciate le dolcezze.
Non so se la felicità abbia potere di renderci egoisti, o se l’egoismo sia
una condizione assoluta della felicità. Ma come mi sentiva mutato dacché era
felice!
XXII
Vorrei aggiungere qui alcune altre pagine del mio giornale, su cui ho voluto
ricordare le gioie del mio primo incontro con Clara.
Ma perché ritornare su quella parte del mio passato? Esso è sepolto assai
profondamente. E poi, io non amo piú quelle gioie, io le odio. Sono esse che mi
hanno ingannato sulla natura e sui fini della vita. Una vita tutta di dolori mi
avrebbe conservato pio, severo, inflessibile; avrebbe almeno riempiuto d’orgoglio
questo cuore, che ora è ripieno di nulla. Quelle gioie ne hanno invece oscurate
le virtú, perché un’esistenza virtuosa non può essere altro che una serie
di sacrifici non interrotta. Le dolcezze del mondo sono bandite da una vita
veramente utile, e veramente benefica. Gli alberi che dànno frutti hanno fiori
modesti e spesso inodori; i grandi fiori, quelli ricchi di petali e di profumi,
non sbocciano quasi mai che sulle piante sterili e velenose.
La virtú non ha fiori, ma ha frutti.
XXIII
La felicità di cui aveva goduto in quei tre giorni aveva infuso in me —
ordinariamente sí timido — un poco di quella baldanza, di quella fiducia di
se stessi che hanno tutti gli uomini prosperi. Sapevo che all’indomani del mio
arrivo non avrei potuto evitare di trovarmi solo con Fosca, e me le presentai
con coraggio.
Adesso non so dire come ella fosse mutata, ma allora lo comprendeva. Il
pallore e la magrezza del suo volto erano già tali che parevano non poter
aumentare, pure in quel giorno mi colpirono piú vivamente del solito. Gli occhi
— la sola beltà di quel viso — erano come arrossati dal piangere e dal
vegliare, e un cerchio orribilmente livido pareva ingrandirne le orbite. Le
labbra quasi pavonazze aggiungevano qualche cosa di spaventevole alla sua
fisionomia. Del resto non v’era alcun disordine nel suo acconciamento, che era
come sempre elegante e accurato. Le sue fattezze erano riposate, e quasi
sorridenti.
— Ho ricevuto la vostra lettera, e vi ringrazio — mi disse ella con
calma.
E porgendomi la destra, aggiunse:
— Spero che mi sarà almeno lecito di stringervi la mano.
— Diamine! Non abbiamo cessato di essere amici, e poi…
— Oh, — interruppe ella sorridendo — voi vi dimenticate già di ciò
che mi avete scritto: "Credete che la pura amicizia non è possibile tra
noi…"
— Allora si trattava d’altra cosa. Ora… Io intendo l’amicizia nel
senso convenzionale della parola; un legame che non ha diritto ad alcuna
intimità, e si limita a pochi rapporti superficiali.
— In questo senso, va bene.
— Accettereste dunque sinceramente questa specie di amicizia?
— Sinceramente.
— Grazie!
— Sempreché — riprese ella dopo qualche momento — non aveste a mutar
consiglio da oggi a domani, e ad evitare di trovarvi solo con me, come avete
fatto dopo il nostro primo abboccamento. Anche allora mi avevate fatto una
promessa simile a questa.
— Era un’altra questione — io dissi. — Comprenderete che io prevedeva
allora ciò che è successo, e che quel contegno non aveva altro scopo che di
evitarlo.
— Voi non sapete come ne sono mortificata.
— Di che?
— Di ciò che è successo.
— Perché? Non ne è il caso. La vostra simpatia mi onora, e la vostra
sensibilità non forma che l’elogio del vostro cuore.
— Quanto siete indulgente! — diss’ella con un sorriso pieno di ironia.
Era disgustato di quella freddezza. Comprendeva che essa voleva mostrarsi
indifferente al mio rifiuto, e che il suo amor proprio umiliato gliene dava
tutti i diritti; pure, mi faceva pena il vederla irridere a quell’affetto che
aveva creduto sí serio e sí veemente.
— Vi siete divertito a Milano?
— Assai.
E lo dissi apposta con enfasi.
— Confessate che quella donna, lei… la mia rivale, — riprese essa
marcando queste parole con un sorriso, — abita a Milano, e che vi siete andato
per rivederla.
— Era facile indovinarlo. Non è cosa che indichi in voi una penetrazione
molto profonda.
— Sono sí ingenua sul conto vostro! E vi ritornerete?
— Prestissimo.
— Se ne avrete licenza.
— S’intende.
— Ah! ah! — esclamò ella sorridendo — dirò io una parola a mio
cugino. Dipenderà tutto da lui. Scommetto che avrete bisogno della opera mia.
— Signora! — io dissi vivacemente — non comprendo le intenzioni che vi
consigliano a farmi questa offerta, e mi astengo dal rispondervi.
— Rifiutereste perfino la mia mediazione?
— Non vi avrei creduta capace di offrirmela!
— Siete geloso della mia dignità! Ciò mi piace. Ma avrei fatto volontieri
una bassezza per voi. Che volete? È un capriccio. Amate molto quella donna?
— Ve l’ho detto, alla follia.
— È bella?
— Un angelo.
— È buona?
— Un angelo.
— Perché non la sposate?
— Ha marito.
— Ah! E la stimate?
— La stima è una condizione dell’amore.
— Non è vero, ma non importa. Vi renderà dunque molto felice?
— Tanto che temo morirne.
— Sono contenta — diss’ella.
Tacemmo per qualche istante tutti e due. Essa lacerava colle dita l’estremità
di un fazzolettino di garza che s’era annodato al collo, e guardava fisso a
terra senza batter palpebra.
— Sentite, — le dissi io dopo qualche momento — io soglio porre in
tutte le mie azioni una franchezza con cui mi vanto di non aver mai avuto la
debolezza di transigere. Questo dialogo pieno di ironia mi umilia, questo
ferirsi scambievolmente non è né leale, né onesto, soprattutto è indegno di
noi. La nostra situazione è ora ben definita. È necessario che non torniamo
piú su questo argomento.
— È ciò che io desiderava.
— Ne sono felice. Spero che non avremo piú motivo di parlare di noi.
— Potete anche sperare che non ci vedremo piú.
— Sia, — diss’io esitando — sarebbe affliggente, ma utile.
Ella si alzò, s’inchinò freddamente, ed uscí senza guardarmi.
Non l’avrei io realmente piú veduta? Ne dubitava.
XXIV
Però, ripensandoci, era lieto di queste spiegazioni. Esse mi davano almeno
il diritto di dimenticarla, e mi scioglievano da quel debito di pietà che mi
pareva aver contratto verso di lei. Buona, mite, soffrente, l’avrei avuta cara
e compianta; fredda, ironica, sprezzante, non avrei piú sentito per essa che
dell’indifferenza. Ciò che mi teneva in pensiero era l’impossibilità di
darmi ragione della mutabilità del suo contegno, dell’incoerenza della sua
condotta. Per quanto mi arrovellassi non poteva comprendere la natura di quel
carattere, non riusciva a metterlo bene in luce. Fino a quel momento era stato
incerto tra l’ammirazione e il disprezzo — gli estremi della sua condotta
esigevano apprezzamenti estremi — dopo quel dialogo, freddo, caustico,
artificioso, non sentiva nemmeno piú il bisogno di giudicarla — essa mi era
perfettamente indifferente.
Perciò alla sera, quando mi fu detto che ella era ammalata, ascoltai quella
notizia con freddezza, e l’abitudine di non vederla piú per molti giorni fu
causa che me ne dimenticassi interamente.
Avrebbe ella serbato la sua promessa? Incominciava a crederlo. A tavola non
si apparecchiava nemmeno piú per lei, e nessuno ne riparlava. Il suo posto era
stato occupato da un nuovo commensale. Ella era andata ad abitare un altro
appartamento lontano dalla sala da pranzo; e siccome non vedevamo piú, come
prima, entrarne ed uscirne i medici e le cameriere, non v’era piú nulla che
potesse richiamarla al nostro pensiero, e ciascuno di noi se ne era facilmente
dimenticato.
Confesso qui di aver nutrito per essa un sentimento che mi sono rimproverato
assai spesso. Io odiava quasi quella donna. Allora ne attribuiva la cagione a
ciò, che mi pareva che ella avesse voluto farsi giuoco della mia sensibilità;
piú tardi compresi che le cause ne erano differenti. Vi è nulla di piú
ridicolo di una emozione non divisa. Nulla è piú atto a renderci inamabile una
persona che non possiamo amare che il vederla usare a nostro riguardo i modi e
il linguaggio di un amore appassionato. La nostra ripugnanza cresce in
proporzione dello zelo che ella pone a superarla. Nessuna legge in natura è
piú inesorabile di quelle che reggono le simpatie e le antipatie. Non è vero
che l’amore sia una questione di sentimenti, esso non è che una questione di
nervi, di fluidi, di armonie animali: l’identità dei caratteri, la stima lo
fortificano, non lo creano. Noi siamo spesso ingannati da queste cause
apparenti, perché l’identità del carattere non è che un effetto dell’identità
della costituzione.
Chi non vorrebbe dare all’amore un’origine piú spirituale e piú nobile?
Ma non è possibile! Bensí egli può essere un impulso ad azioni nobili. L’amicizia
gli è superiore, perché non è esclusiva. Io, come qualunque altro uomo, fui
qualche volta preferito da donne giovani e avvenenti che non ho potuto riamare,
nemmeno d’amor fisico; aveva ripugnanza per ciò che avrebbe formato l’altrui
felicità, e ne soffriva. Avrei potuto strapparmi il cuore, ma non avrei potuto
sentir nulla per esse.
Cosí era di Fosca — se non che la sua bruttezza la poneva anche fuori di
questa legge.
XXV
Un giorno — ne erano trascorsi piú di venti dacché l’aveva veduta l’ultima
volta — suo cugino non comparve a tavola — tutta la casa era in disordine e
i camerieri ci avvertirono che Fosca, peggiorata improvvisamente, si trovava in
pericolo di vita; ci fossimo perciò accontentati di un pranzo improvvisato alla
meglio.
Quella notizia mi giungeva cosí inattesa, e mi trovava cosí disarmato da
quella lunga dimenticanza, che mi sentii colto da un súbito terrore, quasi
avessi dovuto essere io la causa della sua morte. La mia debolezza mi induceva a
credermi colpevole, e mi creava dei rimorsi che non avrei dovuto sentire.
Sarebbe ella morta per me? Questo pensiero mi trapassava il cuore come una
lama di coltello.
XXVI
Nella sera di quel giorno medesimo ricevetti una visita del dottore che aveva
conosciuto in sua casa.
— Devo parlarvi premurosamente d’una cosa che vi riguarda — diss’egli
entrando e sedendosi. — Vi prego anzitutto a non tacciarmi d’indiscrezione
se, mio malgrado, sono venuto a conoscenza di un segreto del vostro cuore —
dico del vostro cuore tanto per modo di esprimermi — e se ho voluto accettare
un mandato che in altre circostanze avrei rifiutato volentieri; comprenderete
fra poco che era mio dovere di farlo.
— Dite, dite — esclamai io ansiosamente.
— Ecco, mi spiegherò con poche parole, abbiamo il tempo misurato. La
signora Fosca, la cui salvezza è in questo momento assai dubbia, mi ha
raccontato ieri quanto è successo tra lei e voi — è una confidenza che ella
mi ha fatto spontaneamente. Voi avete respinto il suo affetto — né ciò mi fa
meraviglia, né credo che io avrei fatto diversamente — pure questo rifiuto ha
bastato a dare uno sviluppo decisivo alla sua infermità. Quella donna si lascia
morire per voi, e…
— Per me! — interruppi io — e si lascia morire… Non si tratta dunque
d’una malattia?
— Ma sí, — diss’egli impazientemente — di una cosa e dell’altra.
La sua vita è attaccata a un filo, la sua salute è cosí cagionevole che
basterebbe un lieve sforzo di volontà ad ucciderla, come ne basterebbe uno
contrario a salvarla. Non posso farmi comprendere di piú da voi, non siete
medico, e d’altronde questo caso è quasi anche fenomenale in medicina. Vorrei
che mi credeste ciecamente. Quella donna non aveva certo una vita assai lunga d’innanzi
a sé — si tratta d’un male inguaribile — ma se tranquilla, se calma,
avrebbe potuto vivere forse ancora qualche anno. La passione che ha concepito
per voi, il dolore e l’umiliazione del vostro rifiuto saranno forse
sufficienti a cagionarle la morte. Vediamo talora le stesse cause produrre
effetti ancora piú pronti in costituzioni sane e robuste.
— Le stesse cause! — ripetei io — ma credete realmente che ella abbia
sentito per me una di queste passioni serie e inguaribili? Credete che un amore
appena concepito, appena confessato, non corrisposto, possa elevarsi in un
attimo a questo grado di passione? Egli è che io non ho potuto comprender nulla
del carattere di quella donna. Non riesco a spiegarmi la sua condotta, mi trovo
di fronte a lei come di fronte ad un mito.
— Che cosa vorreste capire del carattere di una creatura che vive
continuamente sotto l’influenza di una malattia nervosa, la piú complicata,
la piú assoluta, la piú fenomenale? Bisognerebbe che conviveste con lei dieci
anni, per afferrare, nei pochi e rarissimi momenti di calma, il fondo vero e
naturale del suo carattere. Sapreste dirmi come è fatto il letto di un fiume
che scorre sempre torbido e gonfio? La sua arditezza vi sarà sembrata strana,
la sua prontezza ad amarvi incomprensibile, lo capisco facilmente; pure io vi
dico che l’onestà di quella donna malata vale per lo meno l’onestà di
cento donne sane. È la malattia dell’amore, è l’irritabilità elevata all’ultima
potenza. Voi altri spiritualisti vivete costantemente in un mondo pieno di
ubbie, non capite nulla della natura umana; avete fatto dell’onestà della
donna una questione di virtú e di carattere, mentre non è quasi mai che una
questione di nervi e di temperamento. Se Lucrezia avesse avuto una costituzione
meno linfatica, un sistema nervoso meno languido, se fosse stata malata d’isterismo,
credete che la monarchia dei Tarquini?…
— Via, — diss’io interrompendolo — sapete che abborro da queste
teorie materialistiche, che non le voglio accettare, per quanto la ragione si
ostini a ripetermi che sono le vere. Mi avete detto che il nostro tempo è
limitato, sentiamo cosa posso fare per quella donna.
— Una cosa semplicissima.
— Cioè?
— Venire da lei.
— Da lei! Quando?
— Subito.
— E come?
— Sapete che io abito nella stessa casa; l’appartamento di Fosca comunica
col mio mediante un uscio che è chiuso, ma che mi sarà facile aprire,
ancorché non ne abbia la chiave. Ella lo sa; le ho parlato di questo progetto,
è lei che mi ha pregato di comunicarvelo. Basterà che io dia ordine di
lasciarla sola perché anche suo cugino si astenga del venirci. Credo che non vi
sia altro mezzo di salvarla, e immagino che non vorrete astenervi dall’usarne.
— Ma, e poi?
— Quando la sua malattia sarà tornata allo stato normale, vedremo. Intanto…
— Dovrò prometterle di amarla?…
— S’intende, e con quanta maggior dolcezza potrete.
— È una cosa terribile.
— Lo immagino — diss’egli prendendo il suo cappello. — Ve ne aveva
avvertito io, ve ne ricordate?
— E perché me ne avevate avvertito? Forse che ella ha fatto altrettanto
con altri? Come avevate fatto a prevedere?…
— La sua condotta è irreprensibile, — diss’egli — ed è ciò che
forma il mio stupore; io solo posso comprendere ciò che le costa questa
condotta! Ma in quanto a ciò che è successo con voi lo aveva immaginato. Noi
siamo gente rozza, tipi grossolani, non era il caso, ci vogliono altre donne per
noi. Essa ha una mente colta, uno spirito delicato e romantico; voi eravate l’uomo
fatto a posta; l’ho detto a me stesso appena vi ho veduto: ecco l’uomo!
Figuratevi, conosco quella donna da cinque anni. Voi siete un bel giovine, e la
bellezza è cosa che si sconta quasi altrettanto come la bontà. Buoni e belli!
Guai a coloro che vengono al mondo colla macchia di questo peccato originale!
— Me ne era accorto, — proseguí egli intanto che io mi apparecchiava ad
uscire — ma siccome non me ne dicevate nulla, non voleva forzarvi a farmi
questa confidenza. Capiva che non era cosa da far venire il ruzzo di contarla.
Quella volta che andaste a Milano, ella stette assai male, credeva che la
morisse; ebbe un assalto di nervi terribile, poi si riebbe subito nel giorno che
ritornaste. Ma spicciatevi, — aggiunse il dottore guardando il suo orologio
— se farà d’uopo attenderete nella mia camera.
Uscimmo assieme. Dio sa in quale stato d’animo io mi trovava!
XXVII
Mi convenne attendere due ore nelle stanze del medico, e per maggior cautela
in un buio perfetto. Se non era che la luna era in quella notte piena e
chiarissima, non avrei potuto distinguere certi ossicini e certi teschi di cui
il dottore aveva ornato simmetricamente il suo caminetto, come di altrettanti
ninnoli; e che in quel momento, e visti cosí in quella penombra, non era ciò
che vi fosse di piú adatto a mettere in calma il mio spirito, e a prepararmi a
quello strano appuntamento.
Sentiva di là la voce fioca e dolce dell’inferma, e il cicalare sommesso
del medico con suo cugino.
Era vicina la mezzanotte, allorché intesi Fosca dire alla sua cameriera:
— Mi sento bene, e ho bisogno di dormire, e di esser sola; va pure, e non
venire se non ti chiamo.
La cameriera se ne andò, lietissima di quella concessione. Il medico si
accomiatò dal colonnello, dicendogli:
— Riverrò domattina per tempo, occorre anzi tutto che non la si disturbi,
son certo che passerà una notte quieta. Non si dimentichi di prendere la
valeriana. Buona sera!
— Buona sera!
E l’udii aprir l’uscio ed uscire.
Vi fu un breve momento di silenzio.
— Buona notte, — le disse per ultimo suo cugino — me ne vado perché tu
possa dormire. Appena alzato verrò a vederti, e se non ti sentissi bene fammi
chiamare, non avere riguardi, diavolo!…
— Sta certo, addio.
— Addio.
Ed uscí egli pure.
Il medico risalí l’altro braccio della scala, e rientrò nella stanza.
— Siamo a tempo, — diss’egli — attendiamo però qualche minuto per
maggior sicurezza. Intanto…
Prese uno scalpello di cui si serviva per le sezioni anatomiche, e svitò con
destrezza le viti della serratura. L’uscio fu subito aperto.
— Ecco i miei amici — diss’egli mostrandomi i teschi che erano sul
caminetto e facendovi passare dinanzi la fiamma della candela. — Essi vi
faranno compagnia, intanto che io resterò fuori a giuocare la mia partita di
tarocchi; non vi daranno disturbo, sono gente quieta. Aspettate qualche momento
ad entrare; e abbiate giudizio, — aggiunse mezzo tra il serio e il faceto —
io sarò di ritorno fra un paio d’ore.
Rimasi solo, in preda ad una tristezza inesprimibile.
Mi pareva che la fortuna si prendesse giuoco di me (e dico la fortuna,
poiché mi ha ripugnato sempre il riferire i miei mali alla Provvidenza, come a
cosa che mi è dolce reputar equa e benefica), tante e tanto stranamente
dolorose erano le circostanze in cui allora mi trovava. Lontano dalla donna che
amava piú della mia vita, che non avrei riveduto forse mai piú, il cui amore
aveva ritemprato la mia fede e il mio ingegno; adorato da lei, buona, bella,
simile in tutto a me, riflesso dell’anima mia, doveva darmi ad una creatura
che quasi abborriva, usare con lei i modi dell’affetto, ripeterle le stesse
espressioni che aveva dette a Clara, versare in essa la piena del mio cuore
tumultuante!… Oh se fosse stato per Clara che io mi trovava lí, in quella
camera, se fosse stata essa che io stava per riabbracciare, di quanta felicità
sarebbe stata innondata la mia anima! E pensava ai primi giorni del nostro
amore, a quella prima volta che l’aveva attesa nel mio stanzino, pazzo, ebbro,
delirante; al tremito che aveva provato al contatto della sua mano, al fruscio
del suo abito, al suono della sua prima parola…
Entusiasmi svaniti per sempre, inganni, errori, illusioni — unico vero,
unica grandezza della vita — egli è da gran tempo che io vi ho perduti; né
ritrovo oggi tampoco le traccie delle vostre rovine, o un eco delle vostre gioie
per rammentarvi e per piangervi.
Se avessi esitato ancora qualche istante ad entrare nella camera di Fosca,
non vi sarei andato piú; me ne sarebbe venuto meno il coraggio. Vi entrai
risoluto.
Al lieve rumore dell’uscio trasalí, e rivolse il capo dalla mia parte.
— Son io, Giorgio, non temete.
— Oh mio Dio! oh mio Dio!
E si coprí il volto con un lembo del lenzuolo. Singhiozzava cosí coperta e
fremeva.
Mi sedetti al suo capezzale, e mi guardai dintorno. La stanza era piena di
fiori, il letto era bianco come neve, e pareva tutto di pizzo, una lampada posta
in un angolo emanava una luce debole, ma chiara e trasparente come luce di notte
lunata. L’amore avrebbe trovato là il suo tempio.
Si scoperse il volto ad un tratto, mi guardò a lungo con espressione di
affetto ineffabile, poi mi disse:
— Sapeva che sareste venuto.
Vidi lucere una lacrima sui di lei occhi, e mi sforzai a sorriderle. Levò un
braccio di sotto le coltri, io le porsi una mano che si portò alle labbra e
baciò convulsivamente.
— Si fanno tali follie prima di morire — diss’ella.
— Non pensate a morire.
— Dacché siete qui non ci penso piú, sono guarita. Mi perdonate di avervi
pregato di venire?
— Non vi perdono però di averlo fatto sí tardi.
— Oh Giorgio! — esclamò ella con aria di gratitudine e di rimprovero —
io leggo nel vostro cuore.
Stette un momento silenziosa, poi si animò improvvisamente, ed esclamò con
entusiasmo:
— Io vi adoro.
Prese un mazzetto di mughetti che era sul tavolino, e lo avvicinò alle mie
labbra.
— Perché?
— Baciatelo.
— Perché?
— Baciate questi bei mughetti.
Ubbidii. Si portò subito il mazzolino alle labbra, lo baciò con trasporto,
e lo riavvicinò alle mie. Compresi il suo desiderio.
Mi curvai sopra di lei, e la baciai sulle guancie.
Chiuse gli occhi, e rimase assorta ed immobile. Meravigliai che non mi avesse
reso quel bacio.
— Dammi del tu, — riprese improvvisamente riscuotendosi.
— Con tutta l’anima.
— Chiamami col mio nome.
— Fosca.
— Di’: Giorgio e Fosca.
Lo dissi.
— Dimmi: ti amo.
— Ti amo.
— Baciami.
La baciai con finto trasporto.
— Oh Giorgio!
Proruppe in lacrime, e si coperse il volto colle mani. Passammo quasi una
mezz’ora senza parlare. Quello sforzo l’aveva esaurita. Mi guardava in
silenzio, io la guardava in silenzio. La notte era sí quieta che sentivamo gli
oscillamenti gravi e misurati del pendolo di un grosso orologio di una torre che
sovrastava alla casa.
— Come stai? — le chiesi io finalmente.
— Bene e male ad un tempo. Tu mi comprendi. Se morissi ora sarei felice:
ciò non annullerebbe le angoscie di tutta la mia vita, è vero, ma il morire
felice sarebbe già per me un bene insperato.
— Sarai piú felice vivendo.
— Mi amerai se viva?
— Sí…
— Non dirlo, non dirlo; cioè, sí, dillo. Povero giovine! — aggiunse
ella prendendo le mie mani — io comprendo l’importanza del sacrificio che ti
impongo. Io lo so che tu non puoi sentire per me che della pietà, ma ho caro d’illudermi,
e ho caro il sentimento che ti spinge a far nascere in me queste illusioni. Una
volta credeva che la pietà fosse poca cosa, che non si potesse non sentirla,
perché io aveva pietà di tutto ciò che soffriva, fosse anche stato un povero
uccello, un povero cane, una povera bestia qualunque; ma piú tardi ho imparato
come gli uomini siano avari anche di compassione, perché la compassione è il
riflesso di un dolore altrui, e diventa un dolore proprio. Io so apprezzare la
tua pietà, io te ne sono grata perché sento che in te è ancora piú meritoria
dell’amore.
Volli risponderle; ella mi posò un dito sulle labbra, e riprese sorridendo:
— Taci, taci, mi dirai piú tardi delle bugie, ti costringerò a dirmene
tante! Prendi la lampada, mettila qui, voglio vederti bene.
Posai la lampada sul tavolino. Ella mi fissò in volto con aria rapita, e mi
disse:
— Come sei bello, Dio! come sei bello!
Ella stessa non mi parve in quel momento sí brutta, come mi era sembrata nei
primi giorni della nostra conoscenza. La sua testa era affondata nel guanciale
per modo che non si poteva indovinarne le sproporzioni, i suoi capelli neri,
folti, lucentissimi, le scendevano scomposti per le spalle e ne incorniciavano
il viso, la cui pallidezza e la cui magrezza erano estreme; i suoi grandi occhi
neri erano inumiditi dalle lacrime, e brillavano stranamente al riflesso della
luce della lampada; soltanto la fronte smisuratamente grande e sporgente rompeva
l’armonia fantastica delle linee scorrette di quel volto.
Mi ricorse al pensiero una Madonna che ho pregato molto da fanciullo, il cui
volto di cera bianca, i cui capelli di crine nero, i cui occhi di vetro
smerigliato, soliti a mandare strani riverberi alla luce dei ceri della chiesa,
la rendevano assomigliante a Fosca, benché d’una rassomiglianza senza vita e
senza espressione.
Forse ella si avvide dell’effetto che produceva in me quell’esame del suo
volto. Si affrettò ad abbassare il paralume della lampada, e a soggiungere:
— Non voglio che tu mi veda! sono sí brutta!
— Non è vero.
— Oh non adularmi cosí.
— La bontà ti rende bella.
(E in quel momento era forse sincero).
— Tu apprezzi questa bellezza?
— Piú di tutto.
— Credi che il mio cuore è buono?
— Se lo credo!
— Come battono i cuori buoni? Li sai tu distinguere dai cattivi? Senti il
mio.
Mi prese una mano e se la posò sul petto.
— E il tuo? Oh il tuo cuore!
— Esso ti ama, Fosca, ti ama.
— Come… una sorella?
— Sí, come un’affettuosa sorella.
— Ah!
— Come vuoi. Ti ama come tu vuoi. Dagli un altro nome, è sempre amore.
— Grazie, Giorgio, grazie. Io ti voleva dimenticare, sai, io era ben
ingrata, era anche ben sciocca. Credere di poterti dimenticare! Voleva morire
senza vederti… poi, non ho avuto la forza… quel giorno fui cosí cattiva con
te!
— Non dirlo, son io che fui cattivo.
— Tu no, oh no, Giorgio, tu non puoi esserlo. Egli è che la mia malattia
mi rende trista; il sapere che sono brutta, che sono malata, che nessuno mi può
amare… Che povera creatura son io! Non ci hai mai pensato? Non ti venne mai in
mente d’immaginare quanto io debba essere infelice! Ci sono dei giorni in cui
questo pensiero mi strazia, e dico a me stessa: dunque sarò sempre cosí
sventurata? Dunque non vi sarà mai nulla per me? Mi odieranno tutti? Mi
derideranno tutti? Oh Giorgio, mio buon angelo, tu non sai quanto ciò sia
terribile per una donna, per me, per un essere sensibile e sventurato come son
io!
S’interruppe singhiozzando.
— Calmati, non piangere, te ne scongiuro, ciò ti farà male.
— Quel giorno pensava a queste cose, e perciò fui cattiva; lo sembrai
ancora di piú, perché non lo sono, e mi sforzava di apparirlo. Ma tu mi hai
perdonato!
— Oh, tu sei sí buona! Nulla io ho a perdonarti, nulla!
Suonarono le due ore all’orologio.
— Come passa presto la notte; il tempo vola quando si è felici — diss’ella.
— Fino a quando resterai qui?
— Fino a quando vorrai.
— Fino a domattina?
— Sí.
— Cosa faremo?
— Parleremo, ma forse ciò ti affatica.
— Un poco.
— Penseremo.
— Metti la tua testa qui, cosí, vicino alla mia, dammi la tua mano.
Dormiamo?
— Come vuoi.
— Sogniamo?
— Sí.
Tacemmo tutti e due. Ella chiuse gli occhi, e parve raccogliersi e dormire.
Passammo cosí un’ora che mi parve un’eternità. Ogni qual volta io faceva
atto di muovermi, ella trasaliva e stringeva piú forte le mie mani. Pareva
leggesse nel mio pensiero, tremava ad ogni idea spiacevole che mi passava nella
mente, e mormorava il mio nome.
Si riscosse al rumore di certi carri che passavano sulla via.
— Sei tu, sei tu; —mi disse con gioia — non dormiva ma sognava. Mi
pareva di essere ancora fanciulla, e che tu fossi il mio angelo custode, quell’angelo
che allora pregava tutte le sere, e che immaginava dovesse vegliare la notte al
mio capezzale; mi sembrava che tu avessi delle ali bianche. Ti ricordi quando si
era fanciulli? Pensare che allora non ti conosceva, non ti amava! Quando si era
fanciulli!…
— Eri piú felice allora?
— Sperava di divenirlo, e perciò lo era. Dio! Come me ne ricordo bene in
questo momento! Al mattino, quando ci si svegliava per tempo, e si sentivano
passare i primi carri come adesso, e abbaiare i cani da lontano, e si vedeva
entrare il primo filo di luce per la finestra. Che senso singolare misto di
paura e di gioia! Hai provato anche tu queste cose? Te ne sovvieni?
— Sí, e me ne sovvengo anch’io.
— Qualche giorno ti conterò tutta la mia vita sai, voglio che tu conosca
il mio passato. Aveva incominciato adesso a scrivere per te alcune memorie, e
voleva che ti fossero consegnate dopo la mia morte, ma non ho potuto continuare;
stavo cosí male! Ora non voglio che tu le veda; e poi ora non devo morire. Io
sono guarita. Apri le imposte delle finestre, voglio vedere le stelle. Cosí,
solleva le cortine.
Il cielo era chiaro e sereno; ma l’aurora aveva già incominciato a
spuntare, e non si vedevano che poche stelle pallide e quasi bianche. La brezza
del mattino si cacciava innanzi alcune nubi assai basse, e con tale impeto che
la luna, ora velata da esse, ora scoperta, pareva correre a precipizio pel
cielo. Di lontano si sentivano trillare i grilli nelle praterie.
— Ritorna vicino a me — mi diss’ella. — Siediti ancora. Non lasciarmi
cosí presto. Già giorno! Che bel cielo! Che belle stelle! Credi che sieno
tanti mondi?
— Senza dubbio.
— E che li abiteremo un giorno?
— Ma! Forse!
— Che cosa siamo noi! Che cosa è la vita! — esclamò ella tristemente.
E quasi avesse voluto cercare nella certezza del mio amore un compenso allo
sconforto di quel pensiero, aggiunse con impeto:
— Oh amami, amami! Abbi compassione di me! Mi ami tu realmente?
— Sí.
— Mi amerai sempre?
— Sí.
— Giuralo.
Esitai un istante.
— D’un affetto puro… di un affetto fraterno!… — diss’ella.
— Lo giuro.
— Non avrei voluto esigere da te un giuramento diverso: io ne conosco l’importanza,
né vorrei legarti cosí a me, quantunque sappia che la mia morte te ne
scioglierebbe assai presto. Non voglio che tu sia infelice pel mio egoismo. La
natura ha dato a tutti gli uomini un solo mezzo per rendere felici gli altri —
amarli — io col mio amore non li posso rendere che piú miseri. Tu ami molto
quella donna? — mi chiese ella con accento pieno di mestizia.
— Non me lo chiedere, Fosca, non me lo chiedere.
— E perché? Non ho io caro che tu sia felice? Ti ama ella?
— Lo spero.
— È bella?
— A me piace.
— È alta?
— Come te.
— Come si chiama?
— Clara.
— Ebbi un’amica di collegio che si chiamava cosí. È morta a quattordici
anni. Era una bella fanciulla, col naso aquilino, bruna, rideva sempre… È
bruna anch’essa?
— Sí…
— Ha i capelli come i miei?
— Dello stesso colore.
— Tanti cosí?
— Non so.
— Guarda le mie trecce — diss’ella sciogliendosi i nastri di una
cuffietta che ne teneva riunite due dietro la testa, e gettandole giú pel letto
con aria di trionfo.
— Ti piacciono?
— Sono meravigliose — diss’io, prendendone una tra le mani.
E lo erano realmente.
Ella sorrise con aria vanitosa, lieta di quella specie di superiorità che
era quasi certa di avere su Clara, e disse:
— Te ne voglio dar una. Strappala.
— Strapparla!
— Sí, strappala, strappala, tira — diss’ella con calore agitandosi.
— Ma è impossibile. E poi ciò ti ucciderebbe… in questo momento.
— Ebbene, strappami un capello, uno soltanto, ciò non mi farà male.
— Ma…
— Via, è un capriccio, — diss’ella — accontentami.
Ne strappai uno che mi avvolsi attorno al dito.
— Hai ragione — diss’ella. — Un capello solo è nulla, ma una treccia
sarebbe di triste presagio. Quando gli amanti si regalano i capelli, è segno
che l’amore sta per finire. Sono una cosa assai malinconica i capelli. Non ci
hai mai pensato? Quando sarò vicina a morire, ti regalerò le mie trecce. Oh
mio Dio! — esclamò ella dopo qualche momento di silenzio — è già giorno
chiaro e bisognerà che tu te ne vada. Riponi la lampada in quell’angolo, là,
spegnila.
Allo spegnersi della fiammella della lampada, la stanza parve cambiare d’aspetto;
molti oggetti che erano in luce rientrarono in una semi-oscurità, e molti che
non lo erano apparvero piú chiari e piú illuminati. Tornai a sedermi vicino a
Fosca che mi buttò le braccia al collo piangendo. La luce del giorno me la
mostrava adesso in tutta la sua orridezza.
— Tu mi lascerai ora, — esclamò ella con aria desolata — oh mio buon
amico, oh mio povero Giorgio! Ti ricorderai tu di me? Oh mio Dio!
— Non ti affliggere, non ti affliggere, Fosca, io non ti dimenticherò mai.
— Perché, vedi, non potrò rivederti piú finché non sarò guarita. Cosa
ne direbbe il medico? Stanotte era necessario che io ti vedessi, ma dopo!
Ebbene, ti scriverò, sei contento?
— Sí, ne sarò felice.
— E poi, fra pochi giorni incomincerò ad alzarmi, e ti vedrò quando
verrai solo al mattino. Poi guarirò, poi faremo delle passeggiate…
— Tu hai sorelle? — mi chiese ella sorridendo in mezzo alle sue lacrime.
— Sí.
— E le baci?
— Qualche volta?
— Baciami come loro.
La baciai.
— Non cosí, non cosí, baciami come un’amante!
Si sollevò un poco sul letto, e mi strinse al suo seno con forza. Mi volse
la testa verso la luce, si scostò un poco, e mi guardò con entusiasmo.
— Voglio vederti ancora… piú bene, cosí, cosí… Oh mio amore! Oh mio
bello!
Mi riabbracciò con delirio, e ricadde spossata sul guanciale.
— Addio — le dissi io.
— Non partire, non lasciarmi ancora.
— Ma è tardi!
— Resta, resta.
— Verranno a vederti, ci sorprenderanno.
— Ebbene, parti, ma lasciami qualche cosa di tuo, un oggetto portato da te,
il tuo fazzoletto.
Glielo diedi.
— Va’ ora, va’ — diss’ella. — Fuggi, fuggi… Questa emozione mi
ha vinta, la malattia mi riassale; dovrò gridare, verranno a vedermi, corri…
Non intesi piú nulla. Riattraversai fuggendo le stanze del dottore che
dormiva vestito sopra un divano, e nei cui teschi mi parve di rivedere
riprodotta e moltiplicata l’immagine spaventosa di Fosca.
Intendeva ancora dalla via le sue grida acute e terribili.
XXVIII
Trovo nel mio giornale questo frammento scritto in quel giorno medesimo:
"Sono triste, muto, prostrato, annichilito. Appena oso credere alla
realtà di una sciagura cosí grande. Fu inganno suo? Fu artificio anche
cotesto? Io non lo so, io non so altro se non che mi sono legato per sempre a
quella donna. Mi sono lagnato col medico, e gli ho espressi i miei dubbi sulla
gravità di quella malattia, e sulla indispensabilità di quella visita fatale.
Se ne offese, e mi disse che Fosca sarebbe forse già morta se io non ci fossi
andato, e che fra pochi giorni sarà invece guarita.
Terribile e strana creatura in tutto!
Ho ripensato alle cause della mia felicità presente, mi sono posto ancora di
fronte al mio passato. Che cosa era io, or fa un anno? Che cosa sarebbe stato di
me se Clara non mi avesse amato? La deduzione che ne ho tratto è sconfortante,
ma giusta; io fui amato per compassione; non ho il debito di amare quella donna
per lo stesso motivo? Sono disgustato dalla felicità. Se non avessi fatto
appello ai miei dolori di un tempo, essa non mi avrebbe mai detto quali sieno i
miei doveri verso quella donna. Il dolore è piú severo e piú giusto.
Non è questa mia felicità che io rimpiango — io l’amo la felicità, è
vero, ma l’amo come una donna che si disprezza — rimpiango bensí quella di
Clara, il bisogno di ucciderla manifestandole il vero, o di offenderla
segretamente tacendoglielo. Perché le rivelerò io questa infedeltà forzata?
Gliela nasconderò io? E mi crederà ella? Sarà ella generosa? Diffido dell’amore,
giacché piú egli è profondo, e piú è mostruosamente egoista. L’amore è
la fusione e la conciliazione di due egoismi che si soddisfano a vicenda.
Non sarei atterrito da questo affetto se credessi alla sua purezza. Avrei
anzi accettato volentieri questa missione, per quanto ella sia dolorosa, e non
avrei avuto scrupolo di serbarne il segreto, ma cosí è impossibile. Io vedo le
lotte di Fosca; le sue contraddizioni sono troppo eloquenti, la sua malattia le
ha tolto tutte quelle forze che qualche volta ci fanno trionfare delle passioni;
il suo amore è amore.
Io rido di coloro che credono la nostra volontà avere un potere illimitato
sulle nostre passioni, che asseriscono esistere in noi una forza sempre
superiore agli istinti, sempre capace di dominarli. Io non ho esperimentate le
passioni perverse; non oso investigare se la società punisca nei malvagi la
natura o l’uomo; mi limito a compiangerli: ma le passioni non turpi — quelle
che sono come un’esuberanza viziosa delle virtú — le ho provate, né avrei
meglio potuto resistere loro, di quanto lo potrebbe una verruca all’impeto di
un’onda dell’oceano. Chi mi mostra la bilancia su cui pesare la potenza
della volontà e quella delle passioni? Chi è che ha parlato dell’arbitrio?
Chi mi insegnerà a combattere la natura colla natura? me stesso con me stesso?
Dov’è questa forza misteriosa di cui ragionano costoro?
Io non la sento. È in me, o è fuori di me? D’onde viene? Ove posso
trovarla? Io era nato per amare, e ho amato; se nato per uccidere, avrei forse
ucciso. La responsabilità sarebbe stata uguale. Tutto ciò che avrei potuto
fare, è ciò che ho fatto e che faccio — vergognarmi della mia natura!"
XXIX
Sí, nel segreto del mio cuore io giustificava Fosca. Se volendolo l’avesse
potuto, il suo amore sarebbe stato puro. Ella avrebbe voluto amarmi come una
sorella; ella comprendeva la sublimità di questo affetto, e soffriva di non
poterlo conservar tale. Ciò era tutto, in lei non vi era dunque alcuna colpa.
Queste pagine che mi scrisse durante la sua malattia ne erano la prova piú
evidente:
"Mio Giorgio — Ti scrivo subito oggi benché il medico me l’abbia
vietato. Non posso credere alla mia felicità, a me stessa. Poterti scrivere!
Avere una persona cui poter dire ciò che si pensa, ciò che si sente, ciò che
si soffre! E sapere che queste sensazioni, questi sentimenti, queste sofferenze
sono condivise!… Non l’avrei mai sperato, non l’avrei mai sperato!
Anche prima di essere certa del tuo amore ho voluto illudermi che tu
accettassi e avessi care le mie confidenze, ho voluto provare un’ombra di
questa gioia, ti ho scritto quasi tutti i giorni; ma mio Dio! sapeva bene che tu
non avresti letto quelle pagine, che io mi illudeva, null’altro, che io mi
illudeva. Se tu sapessi cosa vuol dire avere il cuore cosí pieno! E pure…
Ti dirò una cosa che ti farà sorridere. L’anno scorso aveva una coppia di
canarini, il maschio è morto quest’inverno — non so come avvenisse,
incominciò ad arruffarsi, a tremare, a sonnecchiare, a non mangiar piú, e un
mattino lo trovai irrigidito sul fondo della gabbia. Ebbene, la femmina, venuta
la primavera, ha fatto tuttavia il suo nido, e se avessi veduto con che cura!
Non aveva uova e nondimeno covava sempre, covava tutto il giorno, e pigolava in
quel metro affettuoso che hanno tutti gli uccelli quando allevano i piccini.
Anche oggi che siamo in estate, non si è ancora ricreduta di questa illusione.
Quante volte questo povero uccello mi ha fatto pensare a me stessa, e mi ha
fatto piangere!
Però tu non vedrai queste pagine, perché allora non mi amavi, perché esse
appartengono ancora ad un’epoca del mio passato che ho bisogno di dimenticare
per sempre. Se potessi dimenticarlo!
Tu mi devi perdonare le angoscie che ti ho cagionato ieri; devi perdonare le
mie dubbiezze, le mie esigenze, le mie contraddizioni. Adesso ti scrivo col
cuore calmo, e conosco ciò che vi era di reprensibile nel mio contegno, allora
non lo poteva. Ho sofferto molto a vederti partire, ma oggi mi sento quieta e
felice. Tu non puoi comprendere la sorpresa, dirò quasi lo sbigottimento che
provo in me stessa nello scrivere queste parole che non ho mai potuto né dire,
né scrivere: "Mi sento felice!".
Tant’è, bisognerà bene che tu mi conosca, ho promesso di raccontarti la
mia vita e lo farò. Il medico mi ha detto che non potrò alzarmi prima di otto
giorni, utilizzerò questo tempo nel farti il mio racconto. Oggi non lo potrei,
ti scrivo con molta fatica.
Se sapessi quanto mi è caro il tuo fazzoletto; lo tengo sempre sul cuore,
dormo con lui; ho qui ancora i fiori che tu hai baciato; e alzando un poco la
testa posso vedere la sedia su cui ti sei seduto: vi ho fatto metter sopra un
mio abito perché non vi si segga piú nessun altro. Oh mio Giorgio, mio
adorato! mio mio! È egli vero?
Non posso scriverti di piú, mi duole il braccio; e poi non so nemmeno se
potrai decifrare i miei caratteri. Sono felice e ti adoro, ecco tutto, non
potrei dirti altro. Ieri, mentre salivi la scala, ho sentito la tua voce. Dio,
che spasimo! Amami, Giorgio, amami. Il tuo cuore non ha che a pensare all’immensità
della mia miseria per trovare in sé la forza di amarmi.
Voglio avere un altro oggetto toccato da te, ho bisogno che tu mi dia qualche
altra particella della tua personalità. Ti acchiudo un mio piccolo nastro,
bacialo e rimandamelo.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ho passato tutto il giorno a sognare, e perciò non ti scrivo che stasera. Ho
avuto caro che oggi abbia piovuto. Una volta la pioggia mi metteva malinconia;
adesso mi rallegra. Forse perché ora sono felice, mi piace che la natura sia
malinconica? Non lo so. Quando si è felici si amano i piccoli dolori e le
piccole contrarietà — forse per ombreggiare meglio le nostre gioie e per
darvi un risalto maggiore.
Devo dunque parlarti di me? scriverti qualche cosa della mia vita? Non so
come incominciare.
Quando era piccina aveva un’abitudine comune a tutti i fanciulli, e di cui
veniva rimbrottata assai spesso. Chiudeva gli occhi, e vellicandoli leggermente
col rovescio della mano, vedeva dei ghirigori, delle scintille, degli oggetti d’ogni
forma e d’ogni colore, delle figurine, ma tutte in modo confuso, intricato,
variabile. Mi succede ora intellettualmente lo stesso fenomeno, se tento di
affacciarmi alle memorie del mio passato.
E sí che il mio passato fu assai povero di tutte quelle gioie che formano
ordinariamente per le donne una causa di dolci rimpianti — amori, adulazioni,
vanità soddisfatte — io ho provato nulla, o quasi nulla di tutto ciò. La
maggior parte degli uomini amano inconsciamente il passato per la sola ragione
che è passato, io credo di averlo caro per lo stesso motivo.
Io nacqui malata: uno dei sintomi piú gravi e piú profondi della mia
infermità era il bisogno che sentiva di affezionarmi a tutto ciò che mi
circondava, ma in modo violento, subito, estremo. Non mi ricordo di un’epoca
della mia vita in cui non abbia amato qualche cosa. Mi asterrei dal raccontarti
ora alcune particolarità di questa mia disposizione morbosa, se non fosse che
ciò deve spiegarti le molte anomalie che dovrai riconoscere piú tardi nel mio
carattere. La mia potenza di affettività non aveva né modi, né limiti; era
una febbre, una espansione, un’irradiazione continua; avrei potuto amare tutto
l’universo senza esaurirmi.
E parlo di affetti, non di amore, ché a quell’età non avrei potuto
sentire altro che affetti; se quel bisogno di amore fosse perdurato sí violento
fino alla gioventú, mi avrebbe trascinata a qualche eccesso colpevole.
Tutti i fanciulli si affezionano ai primi oggetti che possiedono, sopratutto
alle cose che vivono od hanno apparenza di vita; ma le loro predilezioni sono
superficiali, mutabili; sono meglio che affetti, un’affettuosa curiosità di
conoscere. L’intensità era invece la maggiore dote della mia; amava le cose
che amano i fanciulli, ma come le amerebbero gli uomini.
Mi ricordo spesso — e te lo racconto per farti sorridere — di una piccola
sciagura che m’accadde a sette anni, e che mi fu causa di una malattia quasi
mortale. Avevo un micio ed un canarino; erano tutta la mia affezione, non avrei
saputo dire quale amava di piú. — Il micio mangiò il canarino — immagina
tu il mio dolore! Uno l’aveva perduto, l’altro non lo poteva piú amare,
doveva abborrirlo. Me ne corrucciai tanto, che ne fui malata due mesi.
Non ho mai amato le bambole, aveva avversione a tutto ciò che non era vivo;
amava le piante ed i fiori perché mi parevano cose viventi. Non so dirti ciò
che provava alla vista di un cespo di viole, di un bulbo di giacinto, di una
pianticella di primule. Le sradicava, e le tramutava spesso di vaso per averle
tra le mani, per vederne le radici, per guardarle bene; se morivano, ne
conservava gli steli disseccati. Di tutte le sensazioni incerte e confuse di
quella età, questa è stata sempre per me la piú inesplicabile — questo
strano amore che aveva per le piante. Mi avviene ancora oggi di pensarvi alcune
volte, senza poterne punto comprenderne la natura.
L’attaccamento che sentiva per le mie compagne, per i fanciulli, per le
persone di casa, mi era spesso motivo di grandi tormenti. Esigeva dal loro
affetto piú di quello che era possibile concedermi; quindi quelle contrarietà
me le facevano credere indifferenti, apate, ingrate; ne soffrivo come soffrirei
ora d’un vero abbandono e d’una vera ingratitudine. Una mia nutrice che io
amava assai dovette allogarsi in mia casa, e rimanervi fino a che io non ebbi
toccato i dodici anni, giacché mi era ammalata ad ogni tentativo che si era
fatto di separarmene.
A quell’età fui posta in collegio, e mi vi innamorai di una mia compagna.
Fu una passione vera, ostinata, tenace, quale non poteva sentirla che io. Quella
fanciulla, che ora è donna maritata, non comprendeva nulla della profondità e
dell’indole di quell’affetto; e quantunque mi riamasse, lo faceva sí
freddamente che io ne era desolata. Era — benché buona — una ragazza vacua
e leggera come le altre; era bellissima, e fu forse la sua beltà che mi trasse
inconsciamente ad amarla. Mi ricordo, che mi alzava di notte per andarla a
vedere mentre dormiva, e passava molte ore vicino al suo letto, coi piedi nudi,
colla sola camicia, tutta tremante di freddo. Le rubava i suoi nastri e le sue
pezzuole pel solo motivo che erano sue, la scongiurava colle lacrime a dirmi che
mi voleva bene, a lasciarsi baciare. Ma ella era spesso senza pietà. Non solo
quella delusione non mi guarí della mia malattia, ma mi fu anzi fatale, perché
mi fece comprendere che avrei trovato difficilmente in altri cuori quell’affetto
ardente e senza limiti che sentivo nel mio.
Fui levata di collegio dopo pochi mesi, e non aveva ancora quattordici anni
che fui presa d’amore per un uomo di quaranta, un giudice di mandamento, un
amico di mio padre che veniva in nostra casa tutte le sere. Allora, strana cosa!
non aveva simpatia che per uomini molto attempati. Benché giunta all’epoca
della pubertà, non era piú sviluppata di quanto lo sia una fanciulla robusta
di dieci anni: egli mi trattava come una bambina, e mi faceva spesso ballare
sulle sue ginocchia; le sue carezze e i suoi baci, ogni suo atto di
famigliarità, mi cagionava un turbamento dolce e incomprensibile.
L’amava alla follia, benché non comprendessi nulla della natura di questo
sentimento, e avessi quasi paura di lui. Era un uomo alto, serio, con una gran
barba nera: ora che ci penso non so come a quell’età avessi potuto
innamorarmi di un tal uomo, pure fu una passione quasi decisiva per la mia vita.
Ebbi il coraggio di scrivergli una lunga lettera che egli mostrò a’ miei
parenti. Mio padre rise, ma mia madre ci vide dentro il germe di una passione
seria, e lo pregò a non venir piú in nostra casa. Nell’uscire, egli m’incontrò
sull’uscio, mi prese pel mento e mi disse: "Mia cara piccina, vorreste
incominciare troppo male e troppo per tempo; non avete avuto paura de’ miei
quarant’anni? Se mia moglie avesse veduto la vostra lettera, vi avrebbe
mandato a regalare un bel pulcinella". Mi strinse una guancia tra le dita,
ed uscí sorridendo.
Mi ammalai di dolore e di vergogna: vissi per due anni malaticcia,
pensierosa, raccolta, appassionata della solitudine e dei libri. In quel periodo
di raccoglimento mi formai l’intelletto ed il cuore; vi era entrata fanciulla,
e ne uscii donna.
Ma sono già assai stanca, mio caro Giorgio, proseguirò domani. Addio,
addio.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ove sono rimasta? Eccomi a riprendere.
Mio padre e mia madre mi adoravano, e si adoravano. Erano due creature
stranamente ingenue, stranamente buone. Si erano fatti all’amore diciassette
anni prima di sposarsi; erano vecchi tutti e due, e non avevano avuto altri
figli. Questo nome di Fosca che a te sarà parso assai singolare, è comunissimo
in quella provincia delle Romagne dove son nata, e me l’avevano dato perché
era stato quello d’una bisavola che non ho conosciuto.
L’affetto che mia madre aveva per me la rendeva sí cieca a’ miei
difetti, che l’educazione che ella mi diede fu affatto impotente a
correggermene. La sua illusione piú costante, quella che non si smentí mai,
nemmeno dopo che le malattie m’ebbero deformata come tu vedi, era che io fossi
bellissima. Parlava di me alle sue amiche come di un prodigio di avvenenza, e si
spaventava dei pericoli che circondavano la mia bellezza. La verità era che le
attrattive della gioventú supplivano in parte al difetto di quelle della
natura; non ero né brutta, né spiacevole, ma non ero bella; e fu la
convinzione che ella aveva infuso a me fino da piccina, che mi rese doppiamente
terribile il dovermi ricredere di un errore cosí dolce.
Tu non sai cosa voglia dire per una donna non essere bella. Per noi la
bellezza è tutto. Non vivendo che per essere amate, e non potendolo essere che
alla condizione di essere avvenenti, l’esistenza di una donna brutta diventa
la piú terribile, la piú angosciosa di tutte le torture. Nella vita dell’uomo
non vi è miseria paragonabile a questa. L’uomo, ancorché deforme, ancorché
non amato, ha mille divagazioni, ha mille compensi; la società gli è
indulgente; non potendo mirare all’amore, egli mira all’ambizione; ha uno
scopo; ma la donna non può mai uscire dalla via che le hanno tracciato il suo
cuore e la sua vanità, non può tendere ad altro fine che a quello di piacere e
di essere amata. Non vi è che la maternità che possa compensarla qualche volta
della privazione dell’amore, ma questa ne è il frutto, ed è spesso negata
alla bruttezza.
Mio caro Giorgio, tu comprenderai ciò che io ti voglio dire: io ho provato
questo tormento in tutta la sua estensione; io piú che molte altre infelici,
giacché la mia sensibilità era disgraziatamente ancora piú mostruosa della
mia laidezza. Sí, della mia laidezza; avrò il coraggio di giudicarmi senza
pietà, e di chiamare le cose col loro nome. Se tu sapessi… io ho odiato molto
me medesima, ho odiato molto la mia disavvenenza, ma non mai tanto quanto ho
detestato e detesto ancora il mio cuore. Sono le sue esigenze che mi hanno reso
doppiamente terribile il peso della mia deformità.
Allora io non era però cosí brutta, e se quella strana illusione che mia
madre aveva fatto nascere in me coi suoi elogi non avesse dapprima lusingata,
poi ferita improvvisamente la mia vanità abbandonandomi, avrei potuto
rassegnarmi alla mia fortuna che non era delle piú tristi, e forse anche
appagarmene. Il disilludermi mi costò invece molti dolori. Giunta ad un’età
in cui la bellezza doveva esser tutto, riconosceva di non essere bella; quell’illusione
non aveva durato che per tutto quel tempo in cui non sarebbe stato necessario di
averla.
Ti ricordi di aver avuto sedici anni? Hai provato anche tu quella febbre,
quelle smanie, quelle inquietudini incomprensibili che accompagnano quell’età?
Hai sentito anche tu il bisogno di straziarti il cuore con mille sventure
immaginarie, di crederti vittima di persecuzioni che non soffrivi, di
fantasticare una felicità impossibile per godere crudelmente di disilluderti?
Hai provato tu pure quel bisogno che ti spingeva a cercare una chiesa per
pregarvi e per piangervi? La mia vita fu cosí povera anche di amicizia che non
ho ancora potuto penetrare nel cuore di un’altra creatura: non so cosa abbiano
provato le altre donne a quell’età, ma ciò che ho provato io è fuori di
ogni espressione. Il bisogno di essere amata era il segreto di tutte le mie
sofferenze, io lo comprendeva. La natura non mi aveva dotata soltanto di un
cuore sensibile, ma di una costituzione inferma, nervosa, irritabile; io non
poteva avere né quella forza passiva che dà l’apatia, né quella castità
naturale che dà la robustezza: l’amore doveva essere il mezzo e lo scopo di
tutta la mia esistenza.
Non tardai a convincermi che non poteva inspirare dell’affetto. Tutte le
donne scelgono, io doveva lasciarmi scegliere. E questa piccola rinuncia che era
necessario fare al mio amor proprio, non sarebbe pur stata assai crudele se
qualcuno mi avesse almeno preferita ed amata. Vissi invece fino a vent’anni,
senza aver inspirata la benché menoma affezione; senza aver ottenuto, nemmeno
per gioco o per pietà, il conforto di una parola amorevole.
La condizione delle donne del volgo ha ciò di preferibile, che l’amore tra
esse non obbedisce a leggi di etichetta; possono non essere amate veracemente, e
tuttavia godere delle apparenze dell’amore, e spesso anche de’ suoi
vantaggi. L’educazione non ha reso il loro cuore cosí esigente come il
nostro; esse non sentono il bisogno di sacrificargli le dolcezze di un affetto
colpevole. Non vi è confronto tra l’infelicità che la bruttezza può
cagionare ad una donna ricca, e quella che può cagionare ad una donna povera;
gli occhi del mondo non si rivolgono mai su quest’ultima — il codice dell’onore
non colpisce che la donna ricca.
Mio caro Giorgio, dirti ciò che ho sofferto in quegli anni sarebbe
impossibile. Coll’amore mi mancava tutto; quando non si è amate, la vanità
non ha piú motivo di essere, l’ambizione non ha piú scopo, tutte le nostre
piccole passioni svaniscono ad una ad una, come quelle che attingevano tutta la
loro vitalità dall’amore, e non potevano sussistere senza di esso.
Mi abbandonai con furore alla passione del meditare e del leggere —
passione che non mi ha lasciata piú da quel tempo — e vi trovai qualche
conforto, non foss’altro quello di dimenticarmi a tratto a tratto, e di
sollevarmi sulla triste realtà che mi circondava. Ma la lettura è fatale in
ciò, che quella dimenticanza apparente ci ripiomba ancora piú disarmati nelle
memorie che tentavamo dimenticare; che l’idea fissa dalla quale sembra
distoglierci trova invece mille conferme, mille argomenti di essere, nelle
pagine medesime che leggiamo. Portare le passioni nella solitudine è lo stesso
che volerne essere dominati. E poi, non è la lettura, non è la solitudine che
possono guarirci dell’amore, le donne non ne guariscono mai, le nature
superiori ne muoiono.
Non poteva sperare nulla dagli uomini, mi rivolsi a Dio; è ciò che noi
tutte finiamo di fare; se non che io l’aveva fatto troppo presto. Divenni
religiosa; entrai in quel periodo di ascetismo sincero, esaltato, profondo, che
tutte le donne di cuore, ancorché felici, hanno o tosto o tardi provato e
superato. Mi pareva di poter dare cosí uno scopo alla mia vita. Nelle nature
buone e generose l’amore non è egoista, egli non è tanto un desiderio di
rendere felici se stessi, quanto un bisogno di rendere felici gli altri; non è
spesso che una smania di sacrificarsi all’altrui felicità: ora mi pareva che
il sagrifizio che avrei fatto a Dio della mia gioventú avrebbe dovuto
soddisfare in qualche modo quella sete di amore che mi struggeva da tanto tempo
senza rimedio. Molte donne furono condotte a Dio da questa illusione. Hanno esse
trovato pace? È ciò che io non ho potuto esperimentare.
Un giorno mi recai sola a visitare un convento che era poco lungi dalla
città, isolato, sopra un colle, come un nido di colombe, quieto, solitario,
sereno. Mi sedetti sui gradini della porta. Gli alberi del cortile sorpassavano
colle loro cime l’alta muraglia di cinta, e sembravano affacciarsi per
mormorarmi un invito ad entrare: da quell’altura si vedeva la campagna tutto
all’intorno, e la città simile ad un immenso alveare: sulla porta erano
scritte le meste parole della Bibbia, "Sacro all’amore e al dolore";
tutto era pace e silenzio.
Rimasi colà assai tempo. Nel ritornare l’eco di un salmeggiare improvviso
che veniva dalla chiesa parve volermi richiamare.
Era di sera; il sole tramontava, gli uccelli si raccoglievano sugli alberi…
colsi una pratellina, e ne strappai i petali ad uno ad uno: "Sí e no, sí
e no", l’ultimo era "sí". Decisi. All’indomani manifestai il
mio progetto a mia madre. Ne fu spaventata. Si pose a piangere e mi disse: —
Mia cara figliuola, tu ci vuoi far morire; pensare a lasciarci!… noi che non
viviamo che per te! Entrare in un convento, alla tua età! una bella fanciulla
come sei tu, colla tua dote!
Che poteva io fare? Non mi amava forse mia madre? Non aveva io il debito di
riamarla? Mia madre!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ieri sera non ho potuto né proseguire, né mandarti ciò che aveva scritto.
Oggi sono tentata a non continuare. Mi pareva di aver tante cose a raccontarti,
e vedo che finisco col raccontarti nulla. Forse che io non ho sofferto? No, egli
è che le cause delle mie sofferenze sono tutte intime, sono tutte morali, e tu
puoi meglio immaginarle che io dirtele. E poi, come si può dire un dolore? come
una gioia?
Ho domandato spesso a me medesima se l’apatia e l’egoismo, e talora
quella melata crudeltà che li maschera, non sieno altro che una conseguenza di
quelle leggi che regolano l’individualità, di quell’impossibilità assoluta
di comunanza tra un essere e l’altro che ci tiene divisi e isolati, e forma di
ciascun individuo un centro irremovibile nel gran mondo delle sensazioni.
Dolori, speranze, affetti, tripudi, tutto è essenzialmente individuale. Sembra
che da tutte le leggi della natura si sollevi una voce che ci grida:
"Nessuno può addossarsi la soma dei tuoi dolori, o versarti le dolcezze
delle sue gioie; nessuno può togliere od aggiungere un atomo al tuo essere: non
riporre le tue cure che in te stesso".
Credetti finalmente di essere amata.
Un mattino trovai sul mio balcone un mazzo di fiori che vi era stato gettato
dalla via. Sopra una cartolina che v’era nascosta dentro erano scritte queste
parole: "Vi amo. Lodovico". Chi era questo incognito? Era giovine,
bello, veramente innamorato di me? Non lo sapevo, nondimeno era felice, era
pazza; v’era un uomo che mi aveva detto: "Vi amo"; ciò era già per
me un avvenimento sí grande, che l’ordine delle mie idee ne era interamente
sconvolto.
Risolsi di tentare ogni mezzo per scoprire chi fosse lo sconosciuto che mi
aveva indirizzato quel biglietto. Aveva già osservato da parecchi giorni che un
giovine forestiero passava assai spesso sulla via, e sollevava gli occhi alle
mie finestre con aria d’imbarazzo; ma egli era sí bello, sí elegante, e
pareva esser anche sí ricco, che io non avrei mai osato illudermi che egli vi
passasse per me. Io l’aveva d’altronde guardato sí poco e con tanta
timidezza, che non era possibile che egli avesse tanto letto nell’anima mia da
risolversi a scrivermi quelle parole. Mi pareva follia l’abbandonarmi a quella
speranza.
Nondimeno mi convinsi a poco a poco che — fosse egli stato o no l’autore
di quel biglietto — quell’incognito mi amava. Era cosí facile l’indovinarlo.
Egli non passava che per vedermi — ciò era evidente. In quanto a me, non
aveva già piú altro pensiero che il suo. Essere amata da quel giovine mi
pareva felicità cosí grande, che ne era quasi atterrita. La sua bellezza
sembravami ancora superiore all’ideale che mi era formata di un amante.
Un giorno ripassò sotto le mie finestre cavalcando, mi guardò e mi mostrò
con aria d’intelligenza un mazzetto di viole che aveva in mano. La mattina
trovai quei fiori sul mio balcone. Dentro vi era un altro biglietto su cui era
scritto: "Mi amate? Lodovico". Non v’era dubbio. Era lui, e mi
amava. Immagina tu, o Giorgio, l’anima mia!.
In quel tempo, mio cugino, che era maggiore, e aveva ottenuto un anno di
disponibilità, conviveva colla mia famiglia. Egli era orfano da giovinetto, e
mio padre, che era poco piú attempato di lui, lo aveva caro come un fratello.
Alcuni amici suoi e di mio padre si radunavano alla sera nella mia casa; erano
persone serie, gravi, mature, appassionate di discussioni politiche; e né io
né mia madre solevamo far loro maggior compagnia di quel tanto che ce lo
imponevano le convenienze. Mio cugino mi disse un giorno: — Come avviene che
non ti si vede mai? sembra che tu ci sfugga: hai forse paura dei nostri anni e
della nostra serietà? vuoi vederti intorno dei giovani? Lasciane il pensiero a
me; porterò qui una calamita piú attraente —. E alla sera fui per svenire
allorché lo vidi entrare nella sala collo sconosciuto che mi aveva gettato quei
due biglietti.
Egli lo presentò a mio padre come il conte Lodovico di B… veneto ed
emigrato. Disse averlo conosciuto già da parecchi giorni al gabinetto di
lettura; parlò con entusiasmo del suo ingegno, accennò alle persecuzioni
politiche che lo avevano costretto ad emigrare, e aggiunse che si sarebbe forse
trattenuto piú mesi nella nostra città, e ci avrebbe onorato alcuna volta
delle sue visite. Come seppi piú tardi, egli era stato ragguagliato da mio
cugino intorno al mio carattere, alla mia posizione e alla mia fortuna, cosa che
per altro non aveva fatto nascere in me alcun sospetto sulla lealtà della sua
condotta. Egli era sí spiritoso e sí amabile, che i miei parenti ne furono
presto entusiasti; mio cugino ed i suoi amici non potevano piú far a meno di
lui, e lo sollecitavano a venire in nostra casa tutte le sere. In capo a pochi
giorni noi avevamo preso a considerarlo come una persona della nostra famiglia.
È assai difficile che io possa farti una pittura esatta del suo carattere;
mi giovo di questa parola "carattere", perché è quella che risponde
meglio al mio concetto, non già che egli ne avesse uno. Non aveva alcun
principio, non aveva alcuna opinione; si piegava subito ai princípi e alle
opinioni degli altri, qualunque esse fossero; e con tal calore e con tale
accortezza, che nessuno lo avrebbe creduto non sincero: passava dall’uno all’altro
estremo colla stessa facilità, e colla stessa apparenza di convinzioni. Era
cattivo per indole, qualche volta arrendevole e buono per debolezza. Non aveva
idea di dignità personale, non si curava che di simularla e di parerne
estremamente geloso. Qualunque bassezza non gli sarebbe sembrata umiliante;
qualunque ostacolo mortale non lo avrebbe distolto dal compiere un’azione
proficua a’ suoi interessi. Era incapace di sentire uno scrupolo. Tutta la sua
condotta non era subordinata che ad una cosa sola, al codice; egli aveva
commesso di turpe tutto ciò che è possibile commettere senza venir colpiti
dalla legge — mille volte nella sua vita aveva rasentato il carcere, e non vi
era mai entrato. Dire che cosa era stata la sua vita non è possibile, forse
egli stesso non lo avrebbe potuto. Aveva errato di paese in paese, vivendo
splendidamente delle sue industrie di avventuriere, assumendo qui un nome, là
un altro, atteggiandosi a martire politico, aprendosi mille vie col suo talento,
col suo coraggio, colla sua avvedutezza — sempre fortunato, sempre felicemente
ingannatore.
La sua bellezza doveva aver contribuito non poco a questo successo. Egli era
alto della persona, ben fatto, giovine, fiorente, biondissimo; aveva aspetto e
maniere distinte, aveva aria di bontà e di dolcezza straordinarie, era sempre
calmo, sempre sereno e pareva non conoscere che il sorriso. A queste qualità
aggiungeva un talento mediocre che aveva l’arte di far apparire un talento
superiore. Era intelligente di musica e scriveva versi. Le sue composizioni
musicali e le sue poesie erano una specie di salvacondotto, una specie di
commendatizia di cui si giovava per accreditarsi presso le famiglie che lo
ospitavano, od iniziavano qualche rapporto con lui. Egli non indugiava mai a
mettere in luce queste due qualità, e sopratutto in modo sí naturale e sí
semplice, che nessuno ne avrebbe mosso rimprovero alla sua modestia.
Mio caro amico. Oserò darti un consiglio che ti parrà strano, che forse ti
farà sorridere, ma che nondimeno è assai giusto. Diffida di coloro che fanno
mestiere di far versi, diffida in genere degli artisti e dei letterati mediocri.
Durante il tempo che vissi con mio marito ho avuto agio di avvicinarne un gran
numero, né ho trovato in alcuna altra classe della società caratteri d’uomini
piú tristi e piú abbietti. Un mezzo letterato, un mezzo poeta, un mezzo
artista mi fanno orrore. Hanno tutte le passioni sfrenate e biasimevoli dei
grandi caratteri, senza averne una sola virtú. Ne hanno la vanità, l’orgoglio,
l’ambizione, l’egoismo, senza un solo dei loro pregi che li temperi, senza
un raggio di quella bontà improvvisa e passeggiera che ha il genio. Molti
confondono l’ingegno col cuore; nulla di piú ezroneo. È provato che(gli
uomini piú eminenti nella vita pubblica furono quasi sempre i piú tristi nella
vita privata. Cristo lo ha detto: " Il cielo è pei semplici". L’onestà
non fu mai né il retaggio, né il privilegio della sapienza.
Tale era in poche parole l’uomo che divenne mio marito.
Io mentirei se ti dicessi che lo sposai non amandolo, mentirei pure se
asserissi di averlo amato quanto ne era capace. Non lo conosceva quale era, ma
aveva come un presentimento delle sue viltà, una specie d’intuizione
misteriosa che impediva alla mia anima di abbandonarsi intieramente alla sua.
Forse il mio amore mi aveva resa impotente a comprendere alcune delle sue
bassezze che la mia coscienza aveva comprese senza che io lo sapessi, e di cui
non lasciava trapelare al mio cuore che un’idea vaga e confusa. Io subiva d’altronde,
come tutte le altre donne, quella malia prepotente e incomprensibile che
esercitano su di noi gli uomini di carattere violento, e spesso anche perverso.
Lo avrai osservato, è cosa comune. Le donne, ancorché non cessino di essere
cortesi coi buoni e coi miti, cedono sempre di preferenza agli uomini audaci,
prepotenti, pronti all’offesa, disprezzatori degli altri, vanagloriosi di sé;
in una parola, ai peggiori degli uomini. Le piú grandi passioni sentite da
donne furono quasi sempre per uomini abbiettissimi. Mi è avvenuto piú volte di
chiedere a me stessa, vedendo qualche donna giovine, gentile, bella, elegante:
"A chi apparterrà il suo cuore! chi godrà del suo affetto? Un uomo
celebre, un uomo di genio? un bell’uomo? No, un piccolo mostro, uno sciocco,
un cattivo". Oh, mio Giorgio, noi siamo pure le tristi e incoerenti
creature!
Non avendo voluto cedere alle istanze de’ miei genitori che lo avevano
scongiurato rimanere con essi, mio marito mi condusse a Torino. Ci accasammo in
quella città, dove, diceva egli, aveva avuto rapporti con uomini politici, i
quali lo avrebbero aiutato a conseguire una posizione elevata ed una fortuna
ragguardevole. Mi fu assai facile avvedermi fino da principio che egli non mi
amava, tanto erano artificiose le prove che si affannava a darmi del suo
affetto. E non solo non mi amava, ma pareva aver disgusto di me, e sforzarsi a
violentare il suo cuore e la sua natura per non dimostrarmelo. Lungi dal
comprendere lo scopo di questa dissimulazione, io, nell’immensità del mio
dolore, gliene era grata. Sapeva di non essere bella, immaginava che l’intimità
e la convivenza mi avessero fatta apparire a’ suoi occhi ancora piú brutta di
quanto lo era, e gli avessero destato nell’animo una súbita avversione per
me. In questo caso la sua finzione era mossa da un sentimento di delicatezza ch’io
non avrei saputo apprezzare abbastanza; era un sacrificio di cui io gli doveva
essere riconoscente. Ho serbato lungo tempo questa illusione, e mi sono sforzata
a trattenerla, giacché, quantunque non amata, mi era caro il pensare che lo era
stata un tempo, che la mia bruttezza soltanto lo aveva diviso da me, e che io
poteva ancora stimarlo. In quel bisogno che io sentiva di giustificare ad ogni
costo la sua condotta, quante cose ho attribuito alla mia bruttezza!
Soltanto un mese dopo il nostro matrimonio egli mi aveva annunziato che il
governo austriaco aveva posto sequestro sulle sue rendite, per cui diventava
necessario esigere da mio padre la riscossione di una parte della mia dote; e m’aveva
parlato di questa sventura come di cosa di cui non avrebbe mai saputo darsi
pace. Lieta che ciò l’accostasse di piú a me, sollecitai da’ miei parenti
il pagamento di una somma che costituiva una parte ragguardevole della loro
fortuna. Però questo avvenimento non parve renderlo né piú cauto, né piú
previdente, né tanto meno piú affettuoso. Le sue abitudini erano anzi
peggiorate. Egli rimaneva assente una parte della notte, e non rientrava che al
mattino; spesso passavano giorni intieri senza che ci vedessimo; intraprendeva
alcuni brevi viaggi senza avvertirmi, e tornatone, mi diceva semplicemente:
"Scusa, ho dovuto partire sul momento, un affare di premura…". In
una parola era evidente che egli non si occupava punto di me, né sentiva forse
tampoco quella specie di attaccamento che nasce dalla convivenza e dall’abitudine.
Aveva però slanci di tenerezza, radi ma vivi; e in quei momenti pareva si
dolesse con se stesso della propria freddezza, e si scusava meco de’ suoi
torti. Appariva in ciò sí sincero, che io non solo tornava a perdonarlo e ad
amarlo, ma mi struggeva di trovare in me qualche colpa onde giustificarlo delle
sue.
Una sera, in uno di questi momenti di abbandono, mi confessò d’aver fatto
una grave perdita al giuoco, non osare chiedere altro denaro a mio padre,
trovarsi, non pagando, poco meno che disonorato. Io fui felice di potergli dare
tutti i miei gioielli, i miei abiti piú ricchi, tutto ciò che possedevo di
prezioso, onde sottrarlo alle conseguenze di quella perdita. Me ne pagò con una
settimana di amore, di assiduità, di tenerezze, e ritornò poi subito alle
abitudini di prima.
Ma sarebbe racconto assai lungo il voler dire tutte le torture mie e tutta la
ingratitudine di lui, tutte le astuzie con cui giunse a poco a poco a spogliarmi
interamente della mia fortuna.
Un giorno — mi s’era mostrato già da tempo agitatissimo — entrò
improvvisamente nella mia camera col volto estremamente turbato; mi disse di non
aver mai avuto il coraggio di confidarmelo, ora essere necessario, benché
troppo tardi; aver egli contratto da celibe alcuni debiti ascendenti a somme
enormi, piú di metà la fortuna della mia casa, aver sperato poterli pagare coi
capitali che il sequestro impreveduto rendeva ora inalienabili, e aver perciò
firmato cambiali la cui scadenza imminente gli apriva le porte del carcere:
preferire uccidersi. E levata una pistola, fece atto di esplodersela al viso.
Tu avrai già indovinato ciò che io ho fatto. Mio padre e mia madre vennero
essi a trovarmi piangendo. Mi chiesero se egli mi amava, io dissi di sí; se ero
felice, io dissi ancora di sí: essi acconsentirono a spogliarsi quasi
interamente della loro fortuna, perché io fossi felice e tranquilla con lui.
Felice!
Quel sacrificio che doveva legarlo maggiormente a me, sembrò invece
allontanarmelo; e ciò era naturale, giacché non v’era piú possibilità di
altre speculazioni a mio riguardo, né occorreva fingere piú oltre. Incominciai
allora a comprendere qualche cosa del suo carattere e a tentare di resistere a
quel bisogno di affetto ineluttabile che mi trascinava verso di lui; ma era
indarno: io non poteva conciliarmi a quella fede, crederlo sí cattivo e sí
infinto, non poteva cessare di amarlo. M’era fatta quasi una religione del mio
amore, e mi ostinava ad abbassarmivi benché lo sapessi incorrisposto. Ogni cosa
che ci costa molto la si ama, benché riluttanti; e nell’ostinazione di un
dolore o di un sacrificio, vi è un’acre voluttà che è spesso altrettanto
soave quanto la gioia.
Poche settimane dopo questo ultimo avvenimento mi disse che attendeva da
Venezia una sua cugina, che me l’avrebbe fatta conoscere, e l’avrebbe
pregata di fermarsi a pranzo con noi; le facessi buon viso. All’indomani mi
presentò diffatti una donna giovane e avvenentissima, cui volle che baciassi e
trattassi con intimità pari alla sua. Non sospettai di nulla, e fui lieta della
compagnia di quella sconosciuta che era venuta ad interrompere per un istante la
tediosa monotonia della mia vita. Mi parve che quella donna mi ponesse affetto,
e provasse un interesse singolare per me. Ricevetti nel giorno seguente un suo
biglietto, in cui mi diceva:
"Devo parlarvi di cose che riguardano il vostro avvenire, vi aspetterò
in mia casa (via Borgo Nuovo, N. 7). Che vostro marito nol sappia, o tutto
sarebbe inutile. Se avete cara la vostra felicità, venite".
Vi andai col cuore tremante. Appena entrata la mi buttò le braccia al collo,
con atto di espansione rozzo ma sincero; e mi disse: — Povera creatura, voi
siete rovinata, voi siete stata ingannata, tradita… Non sapete? Quell’uomo,
vostro marito, non è né il conte di B…, né il marchese di C… — che so
io? — Egli si è tosto fatto chiamare con tutti i titoli possibili. — Egli
non è altro che un barattiere, un cavaliere d’industria, un cattivo soggetto.
Io, che non sono mai stata sua cugina, so dirvi che egli è un fiore di
briccone, che ha moglie in Dalmazia e due figli: io ve ne darà la vita e i
miracoli. Ho conosciuto suo padre, dalmato anch’esso, impiegato nella polizia
austriaca a Zara; ho conosciuta sua moglie, una povera ragazza che egli ha
ingannato come voi, e abbandonato come abbandonerà voi pure. Se volete sapere
tutte le sue furfanterie, le ho sulle dita. Non vi fidate, lasciatelo, tornate a
casa vostra. So che vi ha già estorto delle somme considerevoli ; me lo disse
lui stesso, fra poco vi spoglierebbe di tutto il resto. Egli passa la sua vita
in mezzo alle donne e alle carte; e non ha un’oncia di cuore, non crediate di
poterlo correggere. Ve lo confesserò, io sono stata una sua amante; l’aveva
lasciato già da un pezzo, allorché la settimana scorsa mi fece un sonetto pel
mio giorno onomastico, e con ciò tornò a metter piede in mia casa. Fu lui
stesso che mi parlò di voi; e in che modo! Se lo aveste sentito! mi fece
nascere la curiosità di conoscervi, e ho tanto insistito, che mi ha
accontentato. Povera creatura! mi avete fatto compassione: ho detto tra me
stessa: "Le dirò tutto", e vi ho scritto di venire. Tornate a casa
vostra, credete a me; quell’uomo vi farà morire; non siete voi quella che
possa resistergli; colla vostra salute, col vostro carattere. Io ne ho riso, io
non sono donna da lasciarmi malmenare cosí, ma voi! Ho voluto dirvi tutte
queste cose. Ho fatto una buona azione e mi sono vendicata, sono contenta.
Nel tornare a casa lo trovai che scendeva le scale.
— D’onde venite? — mi chiese egli con asprezza.
— Da vostra cugina; — risposi io — ella mi aveva mandato a chiamare per
raccontarmi tutto ciò che sa di voi e per darmi alcuni consigli in proposito.
— Va bene! — diss’egli aggrottando le ciglia — lo aveva preveduto.
Che sciocca!
— Non avete a dir nulla a vostra giustificazione?
— Nulla. Immagino che ella vi avrà detto la verità. Venite nella mia
stanza, e ne parleremo.
— Voi sapete dunque tutto; — diss’egli — non me ne dispiace; quella
donna, a pensarci bene, mi ha reso un servizio. Sarò sincero con voi. Mi doleva
d’ingannarvi piú oltre. Se un uomo che vende la sua bellezza, come la vendete
voi tutte, è un cattivo soggetto, io ne sono uno pessimo… Ma ciò non ha a
che fare; è questione di apprezzamento. Fra me e voi è corso un contratto. Voi
mi avete dato il vostro danaro, io vi ho dato la mia avvenenza, la mia
gioventú, il mio talento. (Non voglio mancarvi di rispetto in questo istante,
ma voi sapete, Fosca, che non siete bella). Eravamo pari: ebbene, abbiamo
vissuto insieme undici mesi, il nostro commercio andava bene. Ora questo
contratto non ci conviene piú? sciogliamolo. Mi sembra che non occorra
disgustarci per questo. Voi tornerete a casa vostra, vostro padre e vostra madre
sono due eccellenti creature, e vi riceveranno a braccia aperte. Io tornerò a
vagabondare pel mondo e a distrarmi. Già… fu un errore. Non era nato per la
vita di famiglia io. Badate che siamo in debito di un semestre di fitto di casa.
Ve ne avverto per vostra norma. Io parto sul momento. A rivederci.
Cosí mi separai da mio marito. Rimpatriata, trovai la mia famiglia quasi
povera. Al rimorso di averne sacrificato il benessere al mio egoismo, si
aggiungeva il dolore di scorgere che la salute dei miei genitori s’era
alterata di molto per quei dispiaceri. Erano invecchiati quasi ad un tratto,
erano diventati pensierosi, tristi, diffidenti. Quelle due creature sí
semplici, sí ingenue, sí affettuose, avevano subito una disillusione troppo
grande e troppo inaspettata. Essi non avevano neppure mai immaginato che avesse
potuto esistere al mondo un uomo come mio marito; ciò sarebbe stato superiore
di gran lunga al concetto piú triste che avevano potuto farsi degli uomini, ed
era naturale che ne fossero colpiti sí al vivo. Una sola cosa consolava me ed
essi di quella sventura. Io stava per diventar madre. Io avrei avuto uno scopo
nella mia vita; essi, un affetto nuovo, una nuova divagazione; sentivamo tutti e
tre che questo avvenimento ci avrebbe fatto dimenticare il passato di cui lo
consideravamo quasi come un compenso.
Erano trascorsi cinque mesi dal giorno della nostra separazione, allorché
una sera d’inverno, mentre stavamo seduti al caminetto conversando, ecco
aprirsi l’uscio improvvisamente, e comparire mio marito. Egli era tutto
alterato e in cattivo arnese.
Io innalzai un grido di spavento. Mio padre gli si avvicinò tremante per
emozione e per ira, e gli chiese:
— Cosa volete?
— Vengo a riprendere mia moglie, — rispose egli — noi non siamo divisi
formalmente, ne ho tutto il diritto.
— Vostra moglie ha cessato di appartenervi da tempo.
— V’ingannate, la legge mi dà facoltà di obbligarla a seguirmi.
— Essa non si moverà di qui, uscite.
— Mi costringete ad usare la violenza? Ciò mi dispiace.
Mi si avvicinò, e afferratami pel braccio, fece atto di trascinarmi verso la
porta. Io resistetti, scivolai, e caddi percuotendo del seno sopra una sedia.
Egli mi lasciò libera e mi disse: — Vi siete fatta male? Perdonate madonna:
non era mia intenzione.
Mio padre era vecchio ed impotente a difendermi. Eravamo soli in casa.
— Volete del denaro? — gli chiese egli.
— Non accetto danaro da alcuno, ma ho tuttora alcuni crediti su vostra
figlia che mi dovete soddisfare.
— Passate nella mia camera.
Nel ritornare si affacciò all’uscio e mi disse:
— Fosca, non vi ho mai voluto male, ve lo giuro, non avrei voluto rendervi
infelice, ma era predestinato. Io sono un miserabile. Ora vivete tranquilla, non
mi rivedrete mai piú.
Ed uscí. Mio padre gli aveva dato quasi tutto il denaro che gli rimaneva. La
nostra fortuna era pressoché rovinata.
L’emozione e la caduta affrettarono l’istante che aveva tanto desiderato.
Sentiva che stava finalmente per diventar madre. Nel mio stesso dolore io era
felice. Questa nuova sciagura aveva affrettato il premio di tutte le mie
sofferenze, il conforto e la gioia della mia vita. Ohimè! Io non aveva
preveduta la piú grande, la piú crudele, la piú orribile di tutte le
sciagure.
Mio figlio viveva, ma io non poteva diventar madre.
La natura mi era stata anche in ciò sí matrigna, che aveva posto ai piaceri
del mio amore il prezzo della mia vita. Non solo mi aveva privato della bellezza
perché non provassi mai le gioie di un affetto corrisposto, ma mi aveva reso
anche deforme perché non godessi nemmeno di quelle piú pure della maternità,
che sole avrebbero potuto salvarmi. Sí, o Giorgio, un figlio mi avrebbe
salvata. La solitudine delle mie passioni mi ha invece rovinata, perduta!
Ma a che prolungarti questo racconto? Io scampai miracolosamente ad una morte
quasi sicura. Lasciai il letto dopo un anno di malattia, incadaverita, consunta
come mi vedi. Mio padre morí di crepacuore; mia madre, che non era vissuta che
per lui, lo seguí poco dopo. Di mio marito non seppi piú nulla. Io mi riunii a
mio cugino che, per avermi fatto conoscere lui l’autore di tutte le mie
sventure, nella sua generosità se ne credeva quasi responsabile. Ed ecco la mia
storia.
Se io potessi dirti ora la vita che ho vissuto in questi quattro anni di
isolamento, tu ne saresti atterrito. Fino allora io era stata una fanciulla,
aveva conosciuta nulla del mondo; i miei dolori, benché grandi, erano stati in
certo modo compensati da quelle illusioni, che l’inesperienza e la gioventú
avevano ancora il potere di crearmi; possedeva ancora il segreto della fatua
felicità dei giovani — sapeva sperare; ora tutto era mutato, tutto l’edificio
era caduto; io era rimasta sola colle mie passioni, colle mie infermità, colle
mie debolezze; con tutte quelle miserie che la natura ha dato alla donna, senza
il compenso di una sola delle sue gioie.
Ti ho detto come l’amore fosse una condizione della mia vita, come questo
bisogno fosse esigente e irrefrenabile fino dai primi anni della mia
fanciullezza; immagina tu cosa doveva essere allora, cosa è adesso. Io non fui
amata piú mai, non sperava piú di esserlo, poiché ove pure la mia
disavvenenza non lo avesse reso impossibile, il mio cuore non era tale da darsi
ad un uomo comune. Cosí tutto era contraddizione in me, tutto era urto ed
antitesi: il cuore, la natura, l’isolamento, le infermità mi spingevano all’amore;
la bruttezza, l’orgoglio, le esigenze dell’onore, il dovere me ne
trattenevano. Mai lotta piú lunga e piú crudele fu combattuta in un’anima.
Ho io finito adesso? ho io vinto? Tu solo puoi rispondermi, o Giorgio, tu
solo!".
XXX
In quel frattempo, prevedendo il dolore che avrebbe cagionato piú tardi a
Fosca una mia gita a Milano, mi v’era recato furtivamente, e nel giorno stesso
in cui ella mi mandava questi ultimi cenni sulla sua vita, riceveva da Clara la
lettera seguente:
"Ti ho accompagnato col pensiero fino a * * *. Sono le tre dopo
mezzanotte, e tu vi arriverai in questo momento. Ho voluto coricarmi subito
appena ti ho lasciato, e alzarmi adesso per scriverti e per veder spuntare il
giorno. Dico che ho voluto accompagnarti col pensiero, perché dormendo ero
sicura di sognarti. Oramai vi sono sí avvezza, e mi par cosa sí naturale, che
se passassi una notte sola senza sognarti ne sarei spaventata.
Non puoi credere la strana impressione che mi fa questo trovarmi alzata in
quest’ora. Che silenzio, che raccoglimento! Pensare che mai nella mia vita ho
passato quest’ora svegliata! È una cosa semplicissima; pure è un’idea che
mi colpisce. Io vivo adesso in un istante che era venuto migliaia di volte nella
mia esistenza, e in cui non aveva mai vissuto. Sono anche contenta di poterti
scrivere in questo momento, perché ora tu dormi e mi pare che tu mi appartenga
di piú. Non so cosa pagherei per vederti dormire! Non ho mai potuto comprendere
perché si trovi sí gran piacere a veder dormire una persona che si ama; forse
perché possiamo vederla, guardarla, pensarci liberamente, senza bisogno di
dissimulare le sensazioni che ne proviamo; perché la vediamo come disarmata,
mansueta, migliore? O piuttosto non avviene egli perché in quell’abbandono
apparente della vita materiale, vi è una trasparenza che ce ne lascia veder l’anima?
Quando vedo dormir mio figlio ne sono quasi sicura.
A proposito di mio figlio, ho trovato mezzo di inserire anche il tuo nome
nelle orazioni che gli faccio dire tutte le sere. Giorni fa, passando con lui
presso un venditore di immagini di chiesa, ecco lí una litografia colorita di
ruggine di ferro e di rosso di mattone, che rappresentava S. Giorgio a cavallo
in atto di combattere il drago. Quel cavallo, quel drago lo hanno colpito
vivamente. Glie l’ho comprato, e gli ho detto che essendo quello il santo il
quale uccide i draghi che mangiano i cattivi fanciulli, conveniva ricordarsene
tutte le sere nelle sue orazioni. Se le sue preghiere hanno un valore, Iddio ne
terrà conto lo stesso; del resto io sono già felice di sentirlo pronunciare il
tuo nome.
Voglio andare domani a passeggiare lungo la via che va a Loreto, dove abbiamo
fatto colazione insieme ieri l’altro. Come siamo stati felici! Dio mio! Ma
veramente io sono sempre stata felice. Davvero, Giorgio! Sono nata cosí. Un’altra
donna, col mio passato si reputerebbe miserissima: io no, sento che sarei
ingiusta a lagnarmene. Prima che ti conoscessi ero felice di una felicità
mesta, passiva, inconsapevole, felice come lo sono i fanciulli, ma nondimeno lo
ero. Te lo dico perché quel debito di gratitudine che io n’ho al cielo mi par
quasi che lo esiga. Ho piacere che tu, che altri lo sappiano, come si ha piacere
a far conoscere, e a conoscere una buona azione.
Sai! Oggi a pranzo mi furono date alle frutta delle piccole pesche muscate,
simili a quelle che ci avevano dato a Loreto. Figurati, ne ho mangiato un
profluvio! Un orrore! Assaporandole, e chiudendo un poco gli occhi, mi pareva di
esserti ancora vicino.
Lui mi ha detto: — Che diavolo! Tutta quella frutta ti farà male! — Se
avesse saputo! Se avessi potuto mandartene una! Ma veramente — l’avrai
rimarcato ieri l’altro — io sono ghiotta come i ragazzi, io mangio troppo,
io divoro!
Voglio mandarti le primizie della mia età senile!
Ieri la pettinatrice mi ha detto: — Oh, signora, un capello bianco! —
Possibile! strappalo —. Era veramente un capello d’argento, e te lo mando
perché tu lo veda e lo conservi come la data di un’epoca.
Quella donna mi ha raccontato che il primo capello bianco, gettato in un
lago, si cambia in un’anguilla, e si è incaponita a sostenere questa tesi.
Vuoi credere che questa superstizione mi fa ribrezzo, e non avrei il coraggio di
fare questo esperimento? Ma sarei pazza di sapere perché e in che momento
questo capello è diventato bianco! È un’idea che mi tortura il cervello
senza rimedio.
Se potessi incanutire interamente in un giorno! Se tu, venendo qui un’altra
volta, mi trovassi invecchiata ad un tratto… una vecchietta, tutta bianca,
tutta rugosa! Come ne sarei felice!
Voglio che tu mi faccia fare una chiave della nostra stanzetta, voglio
andarvi qualche volta intanto che tu sei lontano, voglio andarvi a pregare. E
non credere che te lo dica per celia: davvero, Giorgio, se v’è un luogo dove
io sento che potrei pensare al cielo, e sentirmi piú buona, e pregare proprio
con fervore, gli è quello. È bene di avere sulla terra un luogo dove potersi
ricordare del cielo: di là la felicità vi ci ha già avvicinati. E poi, sei tu
che vieni a visitarmi, e son io che dovrei apparecchiare pel tuo ricevimento.
Vorrei gareggiare con te in questo sfoggio di apparecchi. Vedresti che ordine,
che abbondanza di fiori, che assortimento di confetti!
Riprendo a scriverti dopo una mezz’ora d’intervallo. Sono stata sul
balcone a veder spuntare il giorno. Che spettacolo delizioso!
Non l’aveva osservato chi sa da quanto tempo. Credo che un uomo disgustato
della vita non avrebbe che ad assistere allo spettacolo di un’aurora per
riamarla; almeno sono ben certa che in quel momento non avrebbe il coraggio di
morire. Una cosa orribile, una raffinatezza di crudeltà mostruosa, è l’abitudine
che si ha di giustiziare i delinquenti al mattino. Morire alla sera non deve
esser per metà sí doloroso. Ma non parliamo di questo, io amo la vita,
Giorgio, io l’amo in qualunque momento; io sono felice.
Sono rientrata perché spira un’aria acuta, frizzante, e non ho indosso che
una camiciuola sottile quanto una ragna. Se vedessi gl’inchini che si fanno i
miei fiori sotto le carezze di questo venticello balsamico! Vi sono certe
formiche colle ali che vanno su e giú per uno stelo di geranio, con una furia,
con una premura da non dirsi. Vanno, tornano, s’incontrano, ripartono, tornano
ad incontrarsi… che faccende sono mai le loro? che affari le occupano? Qual è
lo scopo di questo strano lavorio? La gente che va e viene sulla strada quanto
è lungo il giorno, e che io guardo spesso dal mio balcone, mi fa lo stesso
effetto.
Io rido sovente di queste loro preoccupazioni. Io domando a me stessa:
"Quella gente amano?". Tutto il resto mi par vano.
Vedi questa farfalluccia? Ho voluto mandartela; ronzava già da un’ora
attorno al mio lume allorché io sono andata sul balcone. Ne l’aveva cacciata
mille volte colla mano. Ora tornando l’ho trovata qui agonizzante. Ha urtato
nella fiammella ed è caduta sulla carta con un’ala bruciata. Sarei pur
curiosa di sapere il segreto di questa attrazione che la luce esercita sugl’insetti
alati. Amano la luce e muoiono di quest’amore. Che cosa sublime! Ma veramente…
quando si hanno delle ali, come non amare la luce e l’azzurro? Hai mai
osservato? Le farfalle sono molto migliori di noi. Quando si abbracciano
muoiono.
Ho raccolto questi fiori che ti mando, e che ho baciato uno per uno, perché
tu faccia altrettanto. Non è poca cosa ciò che ti mando oggi: un capello
bianco, una falena morta d’amore e un piccolo giardino. Non ti puoi lagnare.
Ho anche posto un mio bacio in un punto di questo foglio che non ti dico, e tu
devi saperlo trovare. Nella tua prima lettera mi dirai dov’è che le mie
labbra hanno toccato. Non te ne dimenticare. Ci tengo a questa prova.
Addio per ora, o caro Giorgio. È giorno fatto, e posso essere sorpresa. —
Mi ami? Dimmi, mi ami ancora? Non ti sarai mutato in questa eternità di dieci
ore che ci divide? Io non sono piú quaggiú che per te. Sai dirmi se esiste
qualche cosa fuori di noi, qualche cosa che possa dar piacere o dolore? Se vi è
una vita fuori del nostro affetto? Come ti amo, Giorgio! Dio mio, come ti amo! E
si può tanto amare? Può il cuore umano sentir tanto?"
XXXI
Pochi giorni dopo la guarigione di Fosca, io ero già quasi considerato nella
sua casa come una persona di famiglia. Ella aveva saputo trattenermi sí
accortamente presso di sé, la sua immaginazione era stata sí feconda di
pretesti a questo scopo, che suo cugino, lungi dall’adontarsene, aveva trovato
questa intimità naturalissima e me ne sapeva grado come di una cortesia. Egli
era un uomo semplice e debole. Benché la bruttezza, e piú ancora la malattia
di Fosca, rendessero impossibile e quasi assurdo ogni sospetto di rapporti
amorosi tra noi, le imprudenze di lei erano state tante e sí gravi, che avrebbe
pur dovuto avvedersene. Nell’affetto sincero e quasi paterno che egli nutriva
per sua cugina, era invece felice di quella specie di sollievo che pareva
recarle la mia compagnia, lieto di quell’interesse che io sembrava prendere
alle sue sventure.
Egli mi lasciava solo con lei nella sua camera, d’onde io non usciva spesso
che oltre la mezzanotte. Non sospettava neppure che altri avrebbero potuto
sospettare. La sua fiducia non aveva limiti. Quella cecità provvidenziale che
la natura ha dato ai mariti e agli amanti, era in lui sí piena, che ove io
avessi amato quella donna, avrei potuto abusare della sua fede colla maggiore
sicurezza possibile. Né oso dire ora quanto mi affliggessi di quell’abuso
parziale che era costretto a farne. Questo cruccio era una delle amarezze piú
acerbe di quell’affetto; poiché, quasi non avesse bastato a torturare la mia
coscienza il conoscerlo sí leale e sí ingenuo, egli mi aveva fatto alcune
confidenze che mi avevano potuto dare una misura della stima altissima in cui
teneva il mio carattere. Mi aveva raccontata tutta la vita di Fosca, quale io l’aveva
appresa da lei, e mi aveva parlato con dolore dell’affanno in cui lo poneva il
pensiero delle sue angoscie intime e della sua salute incurabile.
— Questa spina — mi aveva egli detto sovente con quel suo linguaggio
rozzo, ma schietto ed affettuoso — è ciò che non mi lascia avere un’ora in
pace. Non v’è cosa sí fuori di posto come una donna che viva con un soldato.
Portarla di qua, portarla di là… co’ suoi nervi, ella che non ha piú
salute di un invalido! Se un soldato potesse avere una casa propria come gli
altri galantuomini, meno male; ma noi siamo invece condannati a girare di paese
in paese come il giudeo che ha dato lo schiaffo al Signore. Quando ci penso, mi
accapiglierei con Domeneddio. Farci brutti e senza salute, vada; ma lasciarci
soli e senza una gioia al mondo, è troppo. I libri poi hanno finito di
rovinarla. Al diavolo i libri! Per me li ho sempre avuti cari come uno stecco in
un occhio. — Voi avete molta pazienza con lei, ve ne ringrazio. Voi siete un
giovine dabbene, un giovine intelligente, e la vostra compagnia le piace. Vi
ammiro; quando aveva la vostra età non aveva un’oncia della vostra calma, e
dirò anche del vostro giudizio. Non vi faccio altri elogi, perché gli elogi
sono della natura del vino — ubbriacano. Ho stima di voi, e potendolo, sarei
felice di giovarvi. Ecco tutto.
E mi stringeva la mano con calore; e mercè quella sicurezza che ci dava la
sua stessa intimità, rafforzava egli medesimo, senza saperlo, quei vincoli
segreti che mi legavano a Fosca.
Se io ho dovuto tradire la nobile fiducia di quell’uomo, e compensarla piú
tardi d’ingratitudine, il cielo mi è testimonio della inesorabile fatalità
che mi ha trascinato a farlo. Egli sa che di tutte le amarezze che mi provennero
da questo amore sciagurato, quella fu la piú vera e la piú profonda.
XXXII
Fosca ed io vivevamo quasi uniti come due amanti. Se io avessi potuto amarla,
sentire veramente per essa ciò che la sola pietà m’induceva a fingere di
sentire, nessuna donna avrebbe potuto essere piú felice di lei. Perché nessun’altra
avrebbe potuto amare piú intensamente. Lo stesso affetto di Clara non era né
sí assoluto, né sí profondo; non aveva né la forza, né l’abbandono, né
la continuità, né la voluttuosa mollezza del suo. La natura di Fosca era stata
in ciò privilegiata. Se il cielo le aveva negato la bellezza, lo aveva forse
fatto per temperare, col difetto di questa, l’esuberanza pericolosa di quella.
Oltre a ciò, ella pensava, agiva, amava come una persona inferma. Tutto era
eccezionale nella sua condotta, tutto era contraddittorio; la sua sensibilità
era sí eccessiva, che le sue azioni, i suoi affetti, i suoi piaceri, i suoi
timori, tutto era subordinato alle circostanze le piú inconcludenti della sua
vita d’ogni giorno. In una sola cosa era costante, nell’amare e nel
contraddirsi, quantunque nelle sue stesse contraddizioni vi fosse qualche cosa
di ordinato e di coerente, e nel suo amore un non so che di oscuro e di mutabile
che non ne lasciava comprendere la natura e lo scopo. Era ben certo che in fondo
a tutto ciò vi era un carattere, ma si poteva meglio indovinarlo che dirlo.
Passavamo quasi tutta la giornata assieme. Al mattino la vedeva da sola come
prima; alla sera suo cugino si tratteneva qualche ora con noi; poi finiva coll’uscire
e col lasciarci soli da capo. Spesso Fosca teneva il letto, e io vegliava al suo
capezzale gran parte della notte. Era impossibile ribellarsi a quelle esigenze,
impossibile allontanarsi da lei un istante piú presto di ciò che era
inesorabilmente necessario, o lasciarle apparire soltanto l’affanno in cui mi
poneva quel sacrificio.
Ciò avrebbe bastato a provocare qualche accesso terribile. Era cosa
avvenutami qualche volta nei primi giorni della nostra relazione, e n’era
rimasto sí atterrito che mi sarei assoggettato a qualunque gravissima prova per
evitarlo.
Durante quelle sue convulsioni io temeva che ella morisse, e mi sentiva
rabbrividire a questo pensiero, giacché se ciò fosse avvenuto ne sarei stato
io la causa. L’abitudine mi aveva reso in pochi giorni sí rassegnato, che io
aveva quasi cessato di credere alla possibilità di sottrarmi a quella tortura.
Il timore di ucciderla mi rendeva capace di qualunque sacrificio. Ella mi faceva
rimanere vicino al suo letto delle lunghe ore, e nelle posizioni le piú penose;
o col capo sul guanciale, o colle mani intrecciate colle sue, o col viso rivolto
verso la luce perché potesse vedermi bene. Mi conveniva chiudere gli occhi,
aprirli, fingere di dormire, sorridere, parlare, tacere, alzarmi, passeggiare,
tornarmi a sedere, secondo che ella mi diceva di fare. Una disubbidienza
commessa con garbo poteva farla sorridere, ma un atto dispettoso poteva avere
conseguenze fatali. Quando era malata molto, i miei tormenti divenivano ancora
maggiori. Ella aveva degli eccessi di tristezza e di disperazione veramente
spaventevoli. La pietà che ne sentiva mi lacerava il cuore. Spesso era assalita
da emicranie sí violente che ne diventava come pazza. Si lacerava i capelli, e
tentava di percuotere la testa alla parete. In mezzo a quelle sue urla, a quei
suoi spasimi, non si dimenticava però di me; mi avvinghiava tra le sue braccia
con forza, quasi avesse voluto cercar salvezza sul mio seno, e non mi lasciava
libero se non quando i suoi dolori l’avevano abbandonata. Io rimaneva tra le
sue braccia, inerte, muto, inorridito, cogli occhi chiusi per non vederne il
volto, atterrito dal pensiero che una mia imprudenza avrebbe provocato in lei
quelle convulsioni, durante le quali avrebbe potuto tradire inconsciamente il
nostro segreto. Nei pochi momenti di calma le leggeva qualche libro, o parlavamo
del nostro passato; e io mostrava di metter fede e interesse nei progetti strani
e impossibili che ella formava pel suo avvenire. Allora ella era spesso
ragionevole, spesso anche amabile, sempre buona; il suo dire era sí aggraziato,
sí facile, e le modulazioni della sua voce sí dolci, che a non vederla si
poteva rimanere incantati della sua compagnia.
Negl’intervalli di benessere che le lasciavano di quando in quando le sue
infermità, era vivace, lieta, qualche volta scherzosa. Alzata, era altra donna.
Lo sfarzo dei suoi abiti, i suoi profumi, i fiori di cui riempiva le sue stanze,
sembravano metterla in una luce piú serena, e circondarla d’un’atmosfera
meno lugubre. Benché que’ suoi acconciamenti sí ricchi dessero maggior
risalto alla sua bruttezza, non la rendevano però sí spaventevole. In quei
momenti v’era nella sua persona qualche cosa di vivo, di giovane, di
voluttuoso che il letto e la malattia non lasciavano apparire.
Passava quasi tutto il giorno in un suo gabinetto dove non riceveva altre
persone che suo cugino ed io. V’era colà un ampio divano di velluto turchino,
sul quale mi faceva sedere vicino a lei; mi aveva assegnato un posto alla sua
destra, ed esigeva che non mi sedessi in altro punto del divano che in quello.
Non vedendomi mai che là, diceva ella, poteva, allorché io non v’era,
sedersi al suo posto e illudersi di avermi vicino. Spesso mi teneva abbracciato
delle lunghe ore, e mi faceva ripetere parola per parola alcune frasi affettuose
che né il mio cuore mi avrebbe suggerito, né avrei avuto la forza di dirle.
Queste sue follie erano inesauribili come la mia rassegnazione, giacché tutto
ciò che avrebbe formato la felicità di un amante, formava invece la mia
tortura, né sapeva indurmi a dimostrarglielo. Mi copriva di petali di fiori, mi
faceva magiare dei bottoni di rose, o assaggiare le sue medicine che erano quasi
sempre amarissime. Talora esigeva che mi mettessi al tavolo, che le scrivessi
una lettera amorosa che mi dettava sovente ella stessa. Dopo essersi abbandonata
a tutte queste follie, era spesso assalita da una tristezza improvvisa, si
buttava a terra in ginocchio, mi diceva di perdonarla, e piangeva. Passava da un
eccesso all’altro, ad un tratto, senza cause apparenti; e non aveva alcuna
moderazione né ne’ suoi dolori, né nelle sue gioie.
Ciò che mi pareva piú incomprensibile in lei, era che non viveva che di
caffè. Non veniva a tavola che per trovarmisi vicina, e per mettere a prova la
mia pazienza, facendo passare i suoi piccoli piedi sotto i miei, perché glie li
premessi, o pizzicandomi le ginocchia sotto la tovaglia. In quei momenti sapeva
che io avrei tollerato tutto, e abusava volentieri di questa sicurezza.
Alla sera facevamo abitualmente una passeggiata in carrozza. La stagione era
ancora assai calda, e spesso non uscivamo che sull’imbrunire. Il moto della
vettura conciliava sí bene il sonno al colonnello, ed egli era sí felice di
sapere che v’era lí io per conversare con sua cugina, che non aveva posto
piede sulla predella che era già addormentato. Fosca sembrava trovare maggior
piacere in quelle strette di mano e in quei baci che mi dava di sotterfugio in
quei momenti. Quella era per lei l’ora piú felice della giornata: il sapere
che suo cugino era lí, che io avrei osato dir nulla, oppormi a nulla, rendeva
la sua arditezza ancora piú tormentosa. Le sue imprudenze erano in quei momenti
senza numero.
In quanto a me non v’erano istanti piú tristi di quelli.
Le strade che percorrevamo erano quasi tutte strade di campagna, strette,
solitarie, aperte in mezzo ai vigneti ed ai prati. Era il principio dell’autunno;
i grilli, le locuste, le piccole rane delle siepi riempivano l’aria d’una
musica piena di dolcezza e di melanconia. Il cielo era quasi sempre sereno e
stellato, l’aria impregnata di profumi. In quei momenti avrei voluto pensare a
Clara, raccogliermi e dimenticarmi in quel pensiero, ma non era possibile. Fosca
mi richiamava inesorabilmente alla realtà della mia situazione.
Ma a che scopo ricordare le angosce di quei giorni? Furono tali dolori che
non si possono né immaginare, né dire, né forse sopportare senza soccombervi.
La prova che io ho subita fu breve, ed è a ciò soltanto che ho dovuto la mia
salvezza. Venti giorni dopo la convalescenza di Fosca, io non aveva già piú
né salute, né coraggio, né speranza di sopravvivere e quella sciagura.
XXXIII
Una cosa sovratutto — e la noto qui come quella che può dar ragione dell’abbandono
in cui ero caduto, e della sfiducia che s’era impadronita di me —
contribuiva ad accrescere il mio dolore: il pensiero fisso, continuo, orrendo,
che quella donna volesse trascinarmi con sé nella tomba. Essa doveva morire
presto, ciò era evidente. Il vederla già consunta, già incadaverita,
abbracciarmi, avvinghiarmi, tenermi stretto sul suo seno durante quei suoi
spasimi, era cosa che dava ogni giorno maggior forza a questa fissazione
spaventevole.
XXXIV
Oltre a ciò mi era avveduto assai presto che il nostro amore non era piú un
segreto, e che tutto il ridicolo di una simile relazione cadeva sopra di me. Ho
detto il ridicolo, giacché per tutti coloro che non conoscevano né i casi, né
l’indole di Fosca, tali rapporti non potevano essere che argomento di
meraviglia e di riso. È difficile che il mondo attribuisca ad una passione
amorosa, altre cause ed altro scopo, tranne quelli che hanno in natura. Né è
in inganno, giacché, a dispetto nostro, la stima, il cuore, il sentimento non
sono che modi e pretesti per condurci al piacere. L’amore il piú elevato non
ha altro fine che quello che ha l’amore il piú ignobile, se non che questo
vuol andarvi direttamente, quello per vie illusorie ed obblique. Dare per pietà
ciò che si dà per egoismo, è poi sacrificio sí grande e sí raro che pochi o
nessuno lo può comprendere.
Fosca aveva una cameriera giovane e bella, fidanzata ad un domestico di suo
cugino. Mi era sembrato un giorno che ella mi avesse visto dare un bacio alla
sua padrona, nell’istante che attraversava un corridoio nel cui fondo v’era
uno specchio che rifletteva l’interno del nostro gabinetto. Non era in errore.
Una sera, nel discendere le scale, intesi che ella parlava di me al suo
innamorato in una stanzetta attigua al pianerottolo.
Mi arrestai ad origliare.
— Non sai? — gli diceva ella —ora ne sono proprio certa; la signora
Fosca fa all’amore col capitano.
— Possibile! Non lo crederei se vedessi.
— Mio caro, io ho veduto, e ci credo.
— Cosa li hai veduti fare?
— A darsi un bacio.
— Lei a lui?
— No, lui a lei.
— Ah! ah! è doppiamente incredibile! quella donna farebbe scappare il
diavolo.
— Tutti i diavoli, è addirittura orribile!
— Vorrei poi vederla in camicia.
— Cattivo.
E in mezzo alle loro risa intesi il rumore di un bacio che si erano dati
quasi per accertarsi della differenza che vi era fra i loro ed i nostri.
Mi allontanai profondamente ferito nella mia vanità, triste, mortificato.
Ma ciò non era il peggior male; tutte le persone che frequentavano la casa
del colonnello se n’erano avvedute; nessuno osava parlarmene, ma il loro
contegno me ne assicurava. Piú volte a tavola aveva sorpreso alcuni sorrisi e
alcuni sguardi di intelligenza che mi avevano trafitto il cuore. Si rideva di me
quasi apertamente, si parlava di quell’amore come di una aberrazione
mostruosa. La sola persona che non avesse penetrato questo mistero, era suo
cugino.
XXXV
A questo punto io sono tentato di desistere dallo scrivere queste mie
memorie, perché comprendo adesso tutta l’impossibilità di farlo come lo
richiederebbe l’importanza de’ miei dolori.
La parola — questa pittura del pensiero — non sa ritrarre che le passioni
comuni e convenzionali; rende i profili, ma non ha né le luci, né le ombre,
non sa mostrare né le profondità, né le salienze; le grandi gioie e i grandi
dolori non li sa dire. Le pagine che ometto qui, perché dispero di saper
esprimere con verità ciò che ho sofferto, dovrebbero contenere i dettagli piú
strazianti di questo racconto. Tutta l’orribilità di quel mio passato fu nei
due mesi che trascorsi al fianco di Fosca, ed è ciò che è impossibile
raccontare. Mi basta di segnare qui alcune epoche per poter dire piú tardi
"fu in quel giorno, fu in quell’ora, fu in quell’istante". Il
tempo cancella le date impresse dal tempo, ma quelle che il dolore ha scolpite
nei cuori degli uomini non si cancellano mai.
XXXVI
Eravamo nel mese di novembre. Fosca mi disse un giorno: — Domani andremo a
passare una giornata intiera in campagna, andremo a piangere sulle foglie che
cadono.
Il luogo dove dovevamo recarci era una fattoria a dieci miglia della città,
situata in una posizione incantevole, a piedi degli Appennini. V'era già stato
con essa altre volte, e vi andava volontieri, benché la compagnia di Fosca mi
amareggiasse di tanto quella gioia, da rendermivi quasi indifferente. Ella
invece ne era pazza; quelli erano i giorni piú lieti della sua vita. Se io
fossi stato poco piú forte, poco piú generoso, avrei potuto e dovuto essere
felice di quella felicità sí piena e sí grande di cui godeva ella stessa. Ma
io non possedeva che la virtú della tolleranza, non sapeva che rassegnarmi, e
non poteva pretendere di piú dal mio cuore.
In quel giorno ero mesto e scorato piú che mai. Mi ero avveduto che la mia
salute si alterava spaventevolmente, e che il mio coraggio, la mia forza, la mia
gaiezza svanivano a poco a poco con essa.
L'ultima volta che Clara mi aveva visto ne era rimasta atterrita, e mi aveva
detto: — Povero Giorgio, mi pare di vederti ancora quale ti vidi la prima
volta che venisti a battere all'uscio della mia casa; sei molto triste, molto
dimagrato, che hai? — E non so se fosse per pietà che le inspirasse di nuovo
il mio stato, o per affanni suoi intimi, ella era assai pensierosa e assai
mesta.
Dacché Fosca era guarita, m'era recato a vederla due altre volte, e l'aveva
sempre trovata cosí; non mi pareva piú quella. Non che mi amasse di meno, ma
non era piú lieta come prima, non mi sembrava piú felice. E perché si
affannava adesso ad accertarmi del suo amore, a giurarmi che mi amava, a
chiedermi se il suo affetto era tutta la mia vita e la mia felicità?
Ohimè! Io dubitavo. Io conosceva assai bene il cuore degli uomini. Quando
l'amore se ne va, allora si sente il bisogno di affermarlo. Noi siamo piú
costanti della natura, piú fedeli, piú coscienziosi; noi vorremmo trattenere
questo amore che la natura ci invola, ma è indarno. Come, come amare ancora
quando l'amore se n'è andato, quando il nostro cuore è rimasto deserto, e
l'oggetto delle nostre affezioni non ha piú un'attrattiva per noi? Noi possiamo
piangere su questa fralezza dell'amore, ma non possiamo arrestarlo: egli
abbandona i cuori che vi hanno troppo creduto.
Io non sospettava che Clara avesse cessato di amarmi, no; questo sospetto mi
avrebbe ucciso (almeno allora lo credeva), ma mi sentiva nell'anima mia qualche
cosa di simile al presagio di una sventura lontana; mi pareva che avrei dovuto
perderla, e l'amava di piú. Cosa portentosa, incomprensibile a me stesso;
l'amava piú ancora di prima, oltre quella misura che aveva giudicata estrema,
piú di quanto aveva creduto compatibile colla nostra natura mortale.
Tale sono stato in ogni tempo. Il pericolo non ha mai smentita quella fede
che aveva riposta negli esseri e nelle cose che mi erano care. No, non li ho mai
abbandonati. Allorché io li ho veduti sfuggirmi, mi sono avvinghiato ad essi
per gettarmi insieme nell'abisso, per precipitare in una rovina comune.
Pensava a queste cose seduto sulla riva di un torrente, poco lungi dalla
fattoria, dove era venuto insieme col colonnello e con Fosca. Dopo tante ore di
persecuzione, era riuscito a trovarmi solo un istante, ed era fuggito in quel
luogo quasi a nascondermivi. Era assetato di pace e di solitudine. In quel
giorno Fosca era stata intollerabile, mi era divenuta odiosa. Durante il
viaggio, durante la colazione, durante le nostre passeggiate nel giardino, non
mi s'era tolta dal fianco un istante. Suo cugino aveva preso un fucile ed era
andato a sparare ai colombi; ella mi aveva condotto sotto un albero, mi aveva
fatto sedere vicino a lei, e m'aveva parlato del suo amore sí a lungo e sí
calorosamente, che n'aveva l'anima piena di disperazione e di tedio. Non sentiva
piú alcuna pietà per essa, perché mi pareva di meritarne di piú io medesimo.
Aveva ora approfittato di un momento in cui ella aveva dovuto allontanarsi,
per fuggire e per andarmi a sedere sulla riva di quel torrente.
Da quanto tempo non m'era trovato piú solo in campagna, e non aveva piú
inteso la voce soave della natura! Era un luogo orribilmente incantevole; il
suolo a roccie, a borri, a dirupi, ad avvallamenti; il torrente scorreva nel
fondo di una forra in un letto di selci terse e bianchissime; querce e castagni
secolari sporgevano da una riva e dall'altra le loro braccia che si
intrecciavano; il sole vicino a declinare gettava sulla superficie dell'acqua
alcuni raggi che sembravano convertirla in tante lame d'oro e d'argento. Di
quando in quando uno sbuffo di rovaio faceva cadere una pioggia di foglie che
l'acqua travolgeva nei suoi vortici, o spingeva verso la riva; il terreno era
fiorito di ciclamini, di pratelline, di viole; una pispola cantava sopra il mio
capo; io guardava e sognava.
Era là, seduto da un'ora, allorché alzando gli occhi verso la sommità del
burrone, vidi Fosca che stava seduta guardandomi. Io la vidi e non mi mossi.
Ella si alzò, esitò un istante, poi attraversò correndo un tratto della riva
coperto di acacie e di rovi, mi raggiunse, e si lasciò cadere vicino a me senza
parlare.
— Mi sfuggi? — mi disse ella finalmente dopo un lungo silenzio.
— No, ma aveva bisogno di esser solo.
— Perché non avvertirmi?
— Temeva d'offenderti.
— Credevi meno offensivo il non dirmelo?
— Mio Dio! — io dissi — ma tu vuoi mettere il mio cuore ad una prova
ben esigente!
Ella fece atto di alzarsi.
Io sollevai gli occhi per un movimento quasi involontario, e raccapricciai
nel vedere che aveva il volto e le mani tutte coperte di sangue.
Nell'attraversare la riva correndo, s'era ferita alle spine delle acacie, s'era
lacerati i capelli, e aveva fatto a brani il suo abito.
— Resta, — io le dissi con voce commossa afferrando le sue braccia — tu
sei ferita, tu devi soffrire.
Ella si guardò le mani senza muoversi, e disse:
— Non me n'ero accorta.
Le sciolsi un fazzoletto bianco che aveva al collo, e le asciugai il volto;
andai a bagnarne un'estremità nell'acqua, e le lavai le ferite. Ella mi
lasciava fare senza dir parola: guardava il torrente cogli occhi fissi e
spalancati, e pareva assorta in una strana meditazione.
— Che hai? — le chiesi io — a che pensi?
Non mi rispose.
— Vuoi che mi getti in quell'acqua? — mi disse ella dopo un momento di
silenzio.
— Fosca, — esclamai — non essere cosí ingiusta con me; io, tu lo sai,
io ho momenti di tristezza, durante i quali posso essere qualche volta cattivo,
ma tu conosci il mio cuore.
— È perché lo conosco, perciò appunto che vorrei liberarti del peso
della mia affezione. Forse che io non vedo le tue torture?
Le strinsi la mano senza risponderle, e le dissi dopo un istante:
— Credo che tu te ne sia fatta un concetto esagerato.
— Può essere — diss'ella.
Tacemmo tutti e due per piú di un'ora.
Ella strappava convulsivamente delle manate di erba che gettava nell'acqua,
applicava delle foglie sulle sue graffiature, e le levava per vedervi le traccie
del sangue. Io guardava il fondo del torrente seminato di macchiette d'alghe che
l'acqua curvava scorrendo. Eravamo appoggiati l'uno all'altra, ma sí assorti in
noi, sí immobili, che non sentivamo piú il nostro contatto.
Il campanello di una mucca, che venne a pascolare sulla sommità della riva,
ci riscosse da quell'assopimento. Quella bestia ci affissava con aria di stupida
meraviglia; abbassava il capo, sbrucava una boccata d'erba, poi tornava a
rialzarlo, e a guardarci. Ad ogni movimento della testa, il campanello che le
pendeva dal collo mandava un suono sordo e malinconico.
Fosca mi disse:
— Perché mi guarda cosí?
— Non so — io risposi sorridendo — guarda pure me.
— Non però tanto fissamente. Ciò mi fa pena, non so il perché, ma mi fa
una gran pena, ne ho quasi paura; mandala via, Giorgio, te ne scongiuro.
E si nascose il volto tra le mani per non vederla. Io mi alzai e me le
appressai un poco agitando un fazzoletto; ella si allontanò fuggendo, e facendo
tintinnare la sua campana.
— Credi che quella bestia sia piú felice di me? — mi chiese Fosca quando
tornai a sedermele vicino.
— Se il non aver affetti e passioni, il non aver coscienza di bene e di
male può essere una sorgente di felicità, io credo che sí, — dissi. — E
in questo caso, è anche piú avventurata di qualunque uomo avventuratissimo. Ma
che ne sappiamo noi? Chi può scrutare nella loro natura?
— Ella era sola, e pareva nondimeno tranquilla. Non si amano forse tra
loro?
— Non come noi. Ciò che è strano è che l'uomo soltanto ha orrore della
solitudine.
— Tu però la cercavi poco anzi.
— Per un istante.
— Perché volevi esser solo?
— Per pensare.
— A chi?
— Dio mio!… A nessuno, a me stesso, alla natura. Non hai mai sentito il
bisogno di esser sola?
— Sí, quando soffriva… per piangere.
— Ebbene…
— Tu volevi piangere? — interruppe ella — e per me?
— Ma no; — io dissi con impazienza — buon Dio; voleva esser solo, ecco
tutto.
Fosca chinò il capo con aria mortificata, colse una viola, e mi chiese dopo
qualche momento:
— Perché rifioriscono adesso le viole e le margherite, i primi fiori che
sbucciano a primavera?
— Credo che si sbaglino, — io dissi — il tepore dell'autunno fa loro
immaginare che l'aprile sia già ritornato. Vi sono molti fiori che cadono nello
stesso errore. I lillà, i rosai, i sambuchi, tutte le piante primaticce tornano
a metter le gemme in autunno.
— È vero, — diss'ella — l'autunno e la primavera si rassomigliano. È
la stessa cosa che la gioventú e la vecchiezza. Chi sa se a ottant'anni si
risentano le passioni di quindici!
— Ma! — io dissi — è però ben certo che si riprovano le stesse
debolezze. La vita è un arco, le estremità si assomigliano perché sono
vicine. Tutto ciò che vive presenta, nel deperire e nel distruggersi, gli
stessi fenomeni che ha presentato nel nascere e nello svilupparsi; si muore come
si ha incominciato a vivere, quasi che ciò che noi chiamiamo morte non sia che
il formarsi del germe di un'altra vita.
— E queste viole bianche — diss'ella — sono viole da morto, non è
vero? Perché i fiori da morto sono tutti bianchi?
Io mi sentiva orribilmente tediato da quelle domande. Il sole tramontava in
quell'istante, l'orizzonte pareva in fiamme, i tronchi degli alberi spiccavano
vivamente da quel fondo sanguigno ed abbagliante. Io pensava a Clara. Se ella
fosse stata con me!
— Non so, — io dissi — forse perché sono i piú mesti e i piú
fragili.
— Regalami un fiore.
— Ecco.
Spiccai una primula gialla e gliela diedi.
— Che uccello è quello che canta?
— Mio Dio! Uno scricciolo.
— Come la sua voce è sottile! Che colore ha?
— Credo grigio; eccolo, guardalo lí, su quel ramo.
— Credo che sia il piú piccolo dei nostri uccelli.
— Il piú piccolo.
— Dammi un bacio.
Mi rivolsi, e la baciai con freddezza.
Se ne avvide, mi guardò e mi disse:
— Ti tormento, non è vero? Ebbene ti bacierò io sola.
Mi prese una mano che si avvicinò alle labbra. Vedendo che io non le dicevo
nulla tornò a chiedermi:
— Ti annoio forse? ti faccio soffrire? vuoi che io vada via? Rispondimi.
Io continuai a tacere. Era tutto il giorno che ella mi opprimeva cosí, il
dispetto mi aveva reso muto e crudele.
— Rispondi — ripeté ella con accento supplichevole.
— Oh, lasciami, — esclamai io con impazienza — lasciami!
Ella si alzò, e incominciò a risalire lentamente la riva. Non si era
allontanata che di pochi passi, allorché intesi un suo urlo acutissimo; mi
rivolsi, e vidi che era caduta a terra in preda ad una di quelle sue convulsioni
terribili.
Compresi troppo tardi il male che aveva fatto. Quell'accesso era uno de' piú
violenti. Di là alla fattoria vi erano dieci minuti di cammino, fra poco
avrebbe annottato, io e lei eravamo soli in quella forra.
La distesi sull'erba. Corsi a prendere acqua nella palma della mano, le
spruzzai il volto, ma indarno. Le sue grida e le sue convulsioni erano calmate a
poco a poco, ma ella era ancora svenuta. Me le sedetti vicino, aspettando in
un'ansietà mortale che rinvenisse. Scorse una mezz'ora, era quasi buio. La
mucca che avevamo veduto prima ripassò sulla sommità del burrone agitando il
suo sonaglio, e si fermò un istante a guardarci. Anch'io ebbi quasi paura di
quello sguardo. Quella donna distesa sull'erba come morta, coll'abito lacero,
col volto livido e insanguinato, a quell'ora, in quell'oscurità tetra che non
era né luce né tenebre, in quella forra profonda, sotto quei grandi alberi,
soli… v'era in quel quadro qualche cosa di sí tetro, che raccapriccio ancora
oggi a ricordarlo.
Quando m'avvidi che era inutile l'indugiare, sollevai Fosca sulle mie
braccia, e mi diressi verso la fattoria. Ella era sí magra, sí consunta che io
indovinava quasi il suo scheletro sotto le pieghe del suo abito di seta, e ne
rabbrividiva. Quanta differenza da quei giorni, nei quali aveva per vezzo
portato Clara in quel modo attorno alla nostra piccola stanza, e aveva sentito
fremere sulla mia persona le sue forme piene, pieghevoli, dense!
Il colonnello era stato assai inquieto per la nostra assenza; lo fu ancor
piú nel vederci tornare in quel modo.
Gli raccontai che, avendo udito le grida di Fosca, era corso verso il
torrente e l'aveva trovata a terra svenuta; forse nel cadere s'era offesa il
volto e le mani cogli spini.
Fu posta in carrozza, cosí priva di sensi com'era. Durante il viaggio non
abbandonò mai la mia mano che stringeva tra le sue convulsivamente.
Suo cugino mi disse:
— Mi dispiace che ella vi fa stare in una posizione molto incomoda;
poveretta, non capisce piú nulla, vi ha scambiato per me.
— Certo, — io risposi — ella crede di stringere la vostra mano.
XXXVII
Giunto a casa, incominciai a provare quella specie di leggerezza e di
benessere che precede la febbre.
Mi buttai nel letto, smanioso di addormentarmi, di non svegliarmi mai piú,
giacché non potevo piú reggere agli assalti di tutti quei pensieri che
venivano a torturare il mio cervello.
Non tardai ad assopirmi, ma passai una notte terribile; ebbi l'incubo; un
fantasma spaventevole s'era buttato sopra di me e mi stringeva, mi soffocava col
suo peso; sentivo un affanno, un caldo, una sete, un'oppressura da non dirsi; al
mattino mi svegliai come istupidito, mi sembrava di non esser desto; sentiva una
gonfiezza penosa nel cuore, e mi pareva che egli si fosse ingrossato, e che
urtasse con violenza nelle pareti del petto. Non avendo potuto alzarmi, mandai
pel medico.
— Era cosa da aspettarsi, — mi diss'egli — vi vedevo deperire ogni
giorno, e voleva avvertirvene. Me ne astenni sempre perché mi sentiva un poco
imbarazzato a farvi questa confidenza, e perché speravo che un giorno o l'altro
avreste trovato modo voi stesso di troncare quella relazione. Ora non posso
farne a meno. Bisogna che lasciate quella donna ad ogni costo; siete troppo
sensibile.
— Credete che ella ne morrebbe?
— Non è cosa da potersi prevedere. Ad ogni modo voi non fareste che
affrettarle di poco una crisi vicina, inevitabile. Capirete che è questione
assai delicata; io non posso dirvi: "Fate questo, fate quello", posso
avvertirvi di un pericolo, ecco tutto; è a ciò che si limita il mio mandato.
La vostra malattia attuale è cosa di cui guarirete in otto giorni; siete sano,
e potete trionfarne, potete farvi robusto; ma i germi del male li avete già in
voi, trascurateli, e non sarete piú in tempo. Vi ammalerete in piedi, vi
consumerete senza avvedervene; alla vostra età, colla vostra costituzione,
colla vostra indole, si muore in questo modo. Non avete nessun altro dispiacere?
— Nessun altro.
Stette un momento silenzioso, poi riprese:
— Pensateci, bisogna che scegliate fra la vostra vita e la sua; o voi o
lei, questo è il dilemma, io mi limito a formularvelo.
Mi prescrisse alcune medicine, ed uscí dicendo sarebbe ritornato assai
presto.
Passai tutto quel giorno in una profonda malinconia; v'era fuori un gran
vento, piovigginava; io guardava le gocce di pioggia stillare giú per i vetri,
e le ventole dei tetti girare da un lato e dall'altro cigolando. La notte era
vicina, incominciava ad abbuiarsi, i mobili della mia stanza sparivano a poco a
poco nell'oscurità; il rumore della via cessava, e sentiva da lontano certi
rintocchi di campane che mi stringevano il cuore di tristezza. Io era tutto
immerso nel pensiero dei miei affetti e dei miei dolori.
Ad un tratto intesi su per le scale un rumore di passi accelerati, poi un
fruscio di abiti femminili, poi sentii aprirsi l'uscio con violenza, poi Fosca
comparve come una visione nel fondo della stanza, corse verso di me, e si
lasciò cadere inginocchiata vicino al mio letto.
— Tu soffri, tu sei malato, e per colpa mia! Oh mio Giorgio, o mio angelo,
perdono, perdono!
Singhiozzava, e non poteva articolare altre parole.
— Fosca — io le dissi — che hai fatto? Alzati, alzati.
— No, finché non mi avrai perdonato.
— Ma io non ho nulla a perdonarti.
— Sí, dimmi che mi perdoni.
— Ti perdono.
— Oh grazie, grazie!
Si alzò a stento, e si abbandonò con le braccia distese attraverso il mio
letto.
— Ieri ti ho tormentato, ti ho torturato con le mie insistenze, ho abusato
troppo di te. Sí, sí, non dirmi che non è vero. Io lo so che tu sei malato
per questo, io lo sento. Oh sono stata ben egoista, ben trista! Povero Giorgio!
E tu non vuoi neppure dirmi che son io che ti ho fatto ammalare. Ma sapessi
quanto ho sofferto anch'io stanotte! Dio, quanto ho sofferto! Io ignorava che tu
eri malato; era in letto io pure, l'ho saputo adesso, mi sono subito sentita
forte, mi sono alzata, sono fuggita. Povero angelo! povero angelo! Oh, io sono
una insensata, una miserabile!
E stringeva colle mani e mordeva la coperta del letto piangendo.
— Calmati, Fosca, — io le dissi — tu lo sai, questa commozione potrebbe
esserti fatale; se i tuoi accessi… se ciò succedesse qui… pensa…
— Oh no, no, è impossibile, io soffro troppo in questo momento; e poi io
non mi appartengo piú, tutta la mia vita è in te, io non so piú di esistere.
Ma guarirai, guarirai presto, non è vero? oh guarisci, guarisci!
Si alzò, buttò in un angolo il suo scialle, e prese a camminare per la
stanza con passi rapidi. Afferrò l'estremità di un tappeto che copriva il
tavolo, e lo gettò a terra assieme ad alcuni ninnoli che vi erano sopra.
Guardò il cielo dalla finestra, si avvicinò ad una parete, vi appoggiò il
capo, e rimase in quell'atteggiamento alcuni minuti. Io la guardava istupidito.
— Non voglio che soffra tu solo, — riprese riscuotendosi ad un tratto —
no, no, non voglio.
Guardò intorno alla stanza, vide splendere sopra uno scrittoio la lama
d'acciaio d'un tagliacarte, la prese e mi si avvicinò gridando:
— Feriscimi, feriscimi: dove è che soffri? nel petto, nel cuore? ebbene
feriscimi qui, nel cuore, voglio anch'io la mia parte di dolori, sí, voglio
soffrire anch'io.
Le afferrai la mano, e le tolsi la lama che gettai a terra.
— Per carità, — esclamai io — Fosca, non ti abbandonare a questi
trasporti. Io non sto male, non ho nulla, siediti vicino a me, su questa sedia;
se veramente mi ami, se ti è cara la mia vita, la mia felicità, non mi
affliggere e non mi atterrire in questo modo.
Non disse nulla, e si sedette. La sentiva piangere e singhiozzare forte
nell'oscurità.
— Accendi un lume — io le dissi.
— No, mi vedresti, avresti orrore di me. Io ti vedo lo stesso. Non ho
bisogno di luce per vederti.
— Buon Dio! è forse la prima volta che ti vedo?
— È vero — diss'ella con tristezza.
— Ebbene, sarò io che voglio vederti — aggiunse per mitigare l'asprezza
di quella risposta.
Si alzò, accese la lampada, e tornò a sedersi vicino al mio letto.
— Come sei pallido! Come sei bello! Ah, perché sei cosí pallido!
Stette un momento a guardarmi come rapita. Alzò gli occhi, e vide un vecchio
Cristo di legno appeso alla parete.
— Tu credi? — mi chiese ella.
— Un poco.
— E preghi?
— Qualche volta.
— Vi fu un tempo in cui ho creduto anch'io, in cui ho pregato anch'io.
Quando aveva quindici anni piangeva tutte le sere pregando. In collegio c'era un
camerino dove andava a nascondermi per poter esser sola, e pregare ad alta voce
senza essere sentita. Oh quell'età! quella fede! Ora è tutto finito. Sono tre
anni che non prego piú; penso sovente al cielo, ma senza invocarlo. Due mesi or
sono nei primi giorni che ti conobbi, in una notte che c'era stato un gran
temporale, e non aveva potuto dormire, mi alzai e mi affacciai alla finestra.
Aveva cessato di piovere, il cielo s'era rasserenato come per incanto e
scintillava di miriadi di stelle, l'aria era fresca, imbalsamata, ricca di quel
profumo acre che ha la terra bagnata; e allora mi ricordai con piú forza di
Dio, e tesi le braccia al cielo quasi per chiedergli misericordia di me e della
mia giovinezza infelice; ma fu indarno, io non sentiva piú la sua voce.
— Tu non puoi non credere, — io le dissi — la tua bontà è una fede,
la tua virtú è una religione, i tuoi dolori sono una preghiera. Quanti onesti
credono di essere atei perché sono infelici! La loro infelicità sembra volerli
allontanare dal cielo, e non sanno di essere i piú credenti degli uomini! Può
la bontà non essere credente?
— Ciò è vero — diss'ella. — Oh se potessi credere ancora! Ma per te
crederò, sai, pregherò ancora per te. Sarò esaudita lo stesso. Stasera dirò
le mie vecchie orazioni, le dirò sempre, tutti i giorni; domani andrò in una
chiesa per pregarvi e per piangervi.
Mi fece passare una mano sotto il capo, volse il mio viso verso il suo; mi
guardò, e mi sorrise cogli occhi bagnati di lacrime.
— Come sei bello cosí malato, — mi disse — se tu non soffrissi vorrei
vederti sempre cosí. Farei patto di passare tutta la mia vita in questo modo,
vicino al tuo letto a guardarti.
Mi arruffò i capelli con le mani, li fece cadere a ciocche da un lato e
dall'altro del guanciale, si alzò, prese uno specchietto e mi disse:
— Guardati.
Io mi guardai e sorrisi. Baciò lo specchio, lo ripose, e tornò a sedersi.
— Ora — diss'ella — me ne andrò; mio cugino era uscito, e non sarà
tornato ancora; se lo sapesse!… Ebbene, se lo sapesse!
— Ma che monta? — riprese crollando il capo e riabbracciandomi — io ti
adoro, Giorgio, io ti adoro. Che m'importerebbe il perdere la mia pace, la mia
fama, il rendermi anche ridicola, quando ciò fosse per te? Ove è il tuo male?
Nella testa, nel cuore?
— Nell'uno e nell'altro, piú nel cuore.
— Anche il mio è lí. Mi sento una pena, un fuoco, una quantità di sangue…
Ti parrà strano che io tanto consunta soffra di troppo sangue, e pure è cosí.
Ieri mi sono sentita meglio, quelle graffiature mi avevano fatto bene. Dovresti
levarmene un poco.
Si tolse uno spillone dalla cintura, me lo diede e mi disse:
— Forami una mano, forami.
— Ma è una follia! Che idea!
— No, no; — esclamò ella con impazienza — lo voglio, te ne prego,
Giorgio!
Io allontanai il braccio, ella fu sollecita ad afferrarlo, a tirarlo verso di
sé, e a percuotere la mano che aveva libera sullo spillo. Si ferí leggermente;
una goccia di sangue cadde sul mio guanciale.
— Ora sono contenta, — disse ella, — mi fa male, mi abbrucia, sono
contenta.
— Va', va'!, — le diss'io — è tardi.
— Sí, andrò, ritornerò domani; fuggirò ancora. Oh! per pietà, non
soffrire, non esser triste; guarisci presto, guarisci presto.
Si abbassò a raccogliere lo scialle che aveva calpestato passeggiando.
Guardò tutt'intorno alla stanza, guardò il mio letto, i miei mobili, e disse:
— Che pace vi è qui dentro! Che raccoglimento! Che religione! È qui che
tu vivi, o mio Giorgio —. Si inginocchiò, e stette assorta un istante non so
in quali pensieri; si calò il velo del cappello, si alzò, e mi disse con voce
ferma e risoluta:
— Un solo bacio, uno solo, e partirò subito.
La baciai; attraverso il suo velo vidi lucere le sue lagrime.
Prese un lembo del mio lenzuolo e se lo avvicinò alle labbra; baciò anche
un piccolo libro che v'era sul tavolino. Quando fu vicina all'uscio, tornò
indietro, si fermò a piedi del mio letto, si appoggiò colle mani incrociate
sulla spalliera, mi guardò un istante; poi uscí senza parlare.
All'indomani il dottore mi trovò assai peggiorato.
XXXVIII
Dodici giorni dopo io aveva già lasciato il letto, ma il medico mi aveva
prescritto un riposo continuo. Non uscivo piú di casa, e Fosca veniva a vedermi
ogni giorno. Aveva cominciato allora a nevicare, le giornate erano brevi e
malinconiche, io passava le mie ore al caminetto, leggendo, fantasticando,
rattizzando il fuoco, guardando i passeri posarsi tutti arruffati sulle gronde
dei tetti, pensando a quell'inverno che aveva trascorso un anno prima nella mia
patria, simile in tutto a questo, se non era che ora almeno viveva sotto il
martello di un gran dolore.
I momenti che passava con Fosca erano i piú tristi di quelle mie giornate.
Le sue contraddizioni non erano mai state sí frequenti e sí estreme, la
mutabilità del suo carattere, se pure non era la sua malattia che la rendeva
sí variabile, non si era mai rivelata sí pienamente come in quei giorni.
Passava da un abbandono di dolore ad un abbandono di gioia, da un eccesso di
pietà ad un eccesso di egoismo, repentinamente, senza causa, senza pensare e
senza avvedersi del male che mi faceva. Ora che eravamo liberi, soli, sicuri di
noi, quegli incontri potevano essere assai piú pericolosi. L'amore di Fosca non
conosceva piú alcun ritegno, alcun limite. La sua virtú avrebbe avuto la forza
di imporgliene? Era la domanda che io mi volgeva spesso rabbrividendo.
Perché, soltanto la mia freddezza, la mia avversione, la mia ripugnanza
invincibile, inconcepibile, estrema, avevano avuto fino allora il potere di
conservarci puri. Fosca aveva compreso la tacita eloquenza di quel contegno; il
suo amor proprio le aveva imposto di non tradire la natura de' suoi desideri, ma
era però ben facile l'indovinarla. E se adesso ella avesse potuto superare
queste esigenze del suo amor proprio? se avesse osato… se la pietà mi avesse
vinto?…
Era ben necessario che io mi fossi risolto a non vederla piú cosí da solo,
a non vederla che raramente. Oltre ai pericoli di queste sue visite, oltre alla
fissazione terribile che si era impadronita di me e di cui ho già parlato —
che essa volesse trascinarmi con sé nella tomba — (e io la vedeva
avvicinarvisi, deperire miseramente ogni giorno) m'era pure fisso in capo che lo
spavento incussomi da que' suoi accessi nervosi, la vicinanza continua, il
contatto, quel non so che di morboso che vi era in lei, avrebbero dovuto, o
tardi o tosto, sviluppare in me la stessa malattia. V'erano momenti in cui
sentiva salirmi tutto il sangue alla testa, provava un tremito violento in tutta
la persona, sentiva un'oppressione terribile al petto, e non poteva sollevarmene
liberamente che piangendo dirottamente, e gridando. Che era ciò? Avrei io
ereditato da lei questo male? Sarebbe stato questo il premio che avrei ricevuto
della mia pietà?
Cosí io proseguiva a vivere in tali angustie, non rassegnato, non
apertamente intollerante, inerte; debole troppo per risolvermi a fuggire quella
donna, troppo geloso della mia felicità per sapergliela sacrificare
interamente.
XXXIX
Non so fino a quando avrei durato in quella irresolutezza, se la notizia di
un piú grande pericolo non fosse venuta a salvarmi.
— Che cosa avete risolto di fare? — mi chiese una volta il medico.
— Lo sapete, nulla, non ho la forza di prendere alcuna risoluzione.
— E pure converrà che vi decidiate.
— A che?
— A ciò che vi parrà meglio. Io vi dirò ora piú esattamente quale è la
vostra situazione, quale quella di lei. Voi saprete trovarvi il vostro
tornaconto.
— Spiegatevi, la mia situazione?
— È assai piú triste di quanto non lo crediate. Suppongo che in questo
amore vi sia stato finora nulla di colpevole, anzi ne sono certo.
— Nulla, nulla — io dissi.
— Non mi nasconderete però che avete incominciato a temere della sua
virtú, non meno che della vostra debolezza.
— Mi pare anzi di avervene parlato.
— E a temerne molto.
— Moltissimo, le circostanze…
— Sí, sono le circostanze — riprese egli — che creano per ciascun di
voi un pericolo di cui ignorate tutta l'estensione. Se io non ve n'ho parlato
prima, è perché sapeva che ciò allora era inutile; la difficoltà di vedervi
liberamente era una guarentigia della vostra virtú; per voi lo era la sua sola
bruttezza. Allora io ne poteva esser sicuro — lo fui anche finché avete
tenuto il letto — ma oggi è un'altra cosa. Conosco la sua malattia, giacché
non si tratta che di una malattia, e so che ella potrebbe abusare della vostra
accondiscendenza. Guardatevene. È necessario che io vi faccia una rivelazione.
— Voi mi tenete in grande ansietà.
— Sappiate che l'amore sarebbe fatale a quella donna; un errore
l'ucciderebbe. La sua sensibilità è sí profonda, la sua irritabilità sí
grande… non vi dirò altro, voi mi comprendete. Si tratta di un'infermità
comunissima, ma fenomenale pel suo sviluppo, di un'infermità spaventevole.
— Mio Dio, — io dissi — ed ella sa ciò?
— Sí.
— In questo caso, ella stessa …
— Ebbene! Ella stessa potrebbe provocare questo pericolo. Voi la conoscete,
badate che l'idea del sacrificio che ella sembrerebbe fare della sua vita, non
esalti la vostra immaginazione fino a farvelo parere sublime. La sua vita sta
per finire, ella lo sa; ella può scherzare con essa impunemente; ma riguardo a
voi è altra cosa. D'altronde non ignorate che l'amore non sta nel cuore; non
illudetevi, quella donna non sacrificherebbe la sua esistenza né a voi, né al
vostro affetto, non la sacrificherebbe che alla sua felicità.
— Ella — proseguí il medico — era assai meno malata allorché vi
conobbe. La vostra vicinanza, le vostre accondiscendenze le sono state fatali;
d'ora in poi glie lo sarebbero sempre piú. Convincetevi di una cosa, ed è che
voi l'uccidereste in ogni modo, o volendola rendere felice, o continuando a
tollerarla come avete fatto finora. L'unica via che vi rimane è di
abbandonarla.
— Ma come, — io dissi — come abbandonarla?
— Diamine! Immagino che non sarà poi impossibile — rispose egli
sorridendo. — Via, abbiate animo. Vi volete rovinare cosí? Che credete! siete
dimagrito spaventevolmente, avete addosso una febbriciatola che mi fa paura. Io
non compiango quella donna meno di voi, io ammiro la vostra generosità e ve ne
lodo; ma sacrificarvi in tal guisa è una stoltezza; i primi doveri sono quelli
che avete verso di voi medesimo. Io vi farò ottenere una licenza col pretesto
che la vostra malattia lo esige. Fra due giorni potrete partire. Vi terrò
informato di tutto. Vedremo in appresso ciò che si potrà fare, prenderemo
consiglio dagli avvenimenti. Acconsentite?
— Con tutta l'anima — io risposi.
E due giorni dopo andai ad accomiatarmi dal colonnello, cui dissi:
— Vengo a salutarvi in ufficio, perché non avrei piú tempo di venire
stassera in vostra casa; è tardi e devo apparecchiare per la mia partenza;
scusatemi presso vostra cugina, io partirò domani all'alba.
— Diavolo! — esclamò il colonnello — mi dispiace che ve ne andiate
cosí per tempo; ma per altro lato… quando si tratta di lasciare un paese come
questo, un paese di Tartari, di Pellirosse… capisco.
E mi strinse e mi scosse la mano con una ruvidezza piena di affetto.
Quanto mi faceva male ingannare quell'uomo!
XL
Quella notte non dormii; passai circa sei ore, assopito, sopra una seggiola a
bracciuoli, vicino al focolare, coi piedi incrociati sul paracenere, pensando e
fantasticando alla luce della fiamma del caminetto. Le idee piú dolci e le piú
tristi si succedevano senza posa nel mio cervello, si urtavano, si mescevano
senza lasciarmi un istante di pace. Agiva io umanamente nell'abbandonare Fosca
in quel modo? Era leale, era onesto quel fuggire cosí da lei, quell'ingannarla
in tal guisa? Era sovratutto prudente? Nulla di tutto ciò; né io poteva
mettere in calma la mia coscienza, né almeno tenermi certo che questa
risoluzione non avrebbe compromesso il nostro segreto. Se nell'apprendere questa
notizia, ella avesse rivelato, ne' suoi accessi, le cause della mia fuga? Se suo
cugino?… E poi, ella ne avrebbe certo sofferto, ne avrebbe sofferto
orribilmente, avrebbe potuto morirne! Ad ogni modo, se pur nulla di ciò fosse
avvenuto, io poteva essere almeno ben sicuro che quella donna mi avrebbe
disprezzato, e giustamente. Questa supposizione era tuttavia la meno triste che
io potessi fare.
Ma per altro lato quante considerazioni insorgevano a giustificarmi! La mia
salute, i doveri che io aveva verso Clara, la mia avversione sempre crescente,
l'impossibilità di dividermi da lei in un modo meno violento, quella specie di
influenza decisiva che il medico aveva esercitato sopra la mia volontà, tutto
ciò doveva pure aver peso in quell'apprezzamento rigoroso che io intendevo fare
della mia condotta.
E poi, quali compensi! Sarei sfuggito alle persecuzioni di Fosca, non l'avrei
veduta piú, avrei ricuperata la mia salute e la mia gaiezza, avrei riveduta
Clara, avrei passato quaranta giorni vicino a lei. Quaranta giorni!
Ciò era piú che sufficiente a confortarmi di questi scrupoli e di questi
timori. Il pensiero di riabbracciare Clara fu quello che mi tenne desto e
immerso nelle mie fantasticherie fino al mattino. Ogni qualvolta l'immagine di
Fosca veniva a collocarsi d'innanzi a me, quella di Clara insorgeva a frapporsi
e a celarmela.
Mi riscossi al suono delle ore che scoccarono alla torre della piazza. Erano
le sei, e conveniva partire. Il fuoco si era spento, io mi sentiva irrigidito e
ingranchito da quel lungo rimanere sulla seggiola. Uscii da quella stanza con
una specie di trepidazione affannosa, ma dolce: dappertutto, vicino al letto,
sul divano, nelle inarcature delle finestre, in tutti gli angoli della camera mi
pareva di veder Fosca guardarmi inesorabile e minacciosa.
Discesi sulla via, spirava un'aria gelata e tagliente; i fanali erano ancora
accesi, incominciava ad aggiornare, il cielo era grigio e nuvoloso. Alcuni
conduttori di vetture pubbliche dormivano con quel freddo, avvolti nei loro
mantelli, sul cassetto delle carrozze. Ne riscossi uno, mi cacciai nella
vettura, e mi feci condurre alla ferrovia. Vi giunsi un po' presto, ma non
importava. Attesi una mezz'ora passeggiando per la sala, parlando e sorridendo
con me stesso. Sopra uno stipite della porta rilessi le date delle gite che
aveva fatto fino allora a Milano, e che aveva avuto cura di scrivervi tutte le
volte colla matita. Erano cinque in tutto; vi aggiunsi quest'ultima: Giorgio e
Clara, 19 dicembre 1863.
Queste date esistevano ancora quattro mesi or sono. Il tempo che ha distrutto
i miei affetti, non ne aveva ancora cancellato le traccie. Uscendo dalla sala
per entrare nella vettura, mi accorsi che aveva cominciato a piovigginare. Mi
sedetti ad un'estremità del sedile presso la vetrata onde guardar la campagna
che era tutta coperta di neve; i miei scrupoli erano svaniti interamente, e mi
sentivo gaio e felice come un fanciullo. Fra sei ore sarei stato nelle braccia
di Clara; stavamo per partire, allorché intesi aprirsi lo sportello ed entrare
frettoloso un altro viaggiatore. Mi rivolsi, e rimasi fulminato: era Fosca.
Essa venne a sedersi vicino a me senza parlare. I suoi capelli erano
scomposti, le sue fattezze orribilmente alterate, il pallore del suo volto
cadaverico. Gli occhi di tutti i passeggeri si rivolsero verso di lei con aria
mista di compassione, di spavento e di meraviglia. Io stesso non l'aveva mai
veduta sotto un aspetto sí spaventoso. Se la sorpresa, se il terrore non mi
avessero reso impossibile il pensarci tosto, sarei stato ancora in tempo a
discendere con lei dalla vettura; ma non m'era balenata alla mente questa idea,
che il convoglio era già partito. Io rinunzio a descrivere tutto lo strazio di
quella situazione crudele. Ora il segreto della nostra intimità era scoperto;
non solo, ma ella aveva abbandonata la sua casa per seguirmi. Se fino a quel
giorno io aveva esperimentato la sua dolcezza, ora doveva esperimentare la sua
collera: io leggevo ora ne' suoi occhi uno sdegno represso a forza, una fermezza
di proposito che non avrei mai potuto supporre nel suo carattere; si era seduta
vicino a me, ma non per altro che come per assicurarsi che non le sarei
sfuggito. Non mi guardava, né pareva volermi chiedere alcuna spiegazione della
mia condotta. D'altronde la sua voce era abitualmente sí debole, che il rumore
delle ruote mi avrebbe impedito di sentirla.
Mi attenni all'unico rimedio che mi era possibile accettare in quel momento.
Alla prima stazione che incontrammo, mi alzai e le dissi:
— Discendiamo, ci fermeremo qui, aspetteremo il primo convoglio che
ritorni, parleremo.
Mi ubbidí senza rispondere.
Il paese dove ci eravamo fermati era un piccolo villaggio di poche case, e
distava dieci minuti di strada dalla stazione. Il convoglio non sarebbe
ripassato che fra sei ore, era necessario attendere in un luogo caldo e coperto;
non v'erano carrozze, pioveva ancora, e bisognava percorrere a piedi quel tratto
di cammino che ci separava dal paese.
Offersi il mio braccio a Fosca che lo accettò e vi si abbandonò come fosse
stata sul punto di svenire. La copersi in parte del mio mantello. La via era
tutta fango, tutta pozzanghere, e vi affondavamo fino alla caviglia; tutta la
campagna era coperta di neve; stuoli innumerevoli di corvi stavano appollaiati
sugli alberi; e saltellavano da un ramo all'altro senza discenderne. Noi
camminavamo in silenzio; io stringeva il braccio di Fosca, e sentiva la sua
persona tremare per l'emozione e pel freddo. Soltanto una grande fermezza di
volontà poteva dare a lei quella forza.
Appena giunti al villaggio, vedemmo una casa sulla cui porta era dipinta una
corona d'ellera, e nel mezzo di questa una bottiglia e un bicchiere riuniti da
una larga pennellata di minio, che voleva figurare uno zampillo di vino, il
quale pareva spicciare dal bicchiere e versarsi nella bottiglia che era piú
piccola. Entrammo in quella bettola. Era una stanza a piano terreno, piena di
carrettieri che vi stavano bestemmiando, bevendo e fumando in piedi, come
fossero stati sulle mosse per partire. Alcune tavole nere, grasse, bisunte,
erano disposte attorno alle pareti, e parevano trasudare olio; un odore
ributtante di chiuso, di liquori, di fumo di cattivo tabacco ammorbava
quell'atmosfera in modo da renderla irrespirabile. Intanto che quei carrettieri
ci stavano guardando meravigliati, ed ammiccavano degli occhi fra loro — né
io poteva non rimarcare il contrasto che il volto cadaverico di Fosca formava
con quelle loro faccie rosse, piene, abbronzite — chiesi alla padrona della
bettola, se si potesse avere una stanza appartata e accendervi fuoco.
— Non v'è altra stanza che questa, — diss'ella — ma per loro, signori,
se vogliono… metterò a loro disposizione la mia.
Salimmo per una scala di legno in una camera vasta, munita d'un ampio camino,
dove non tardò a brillare una gran fiamma. Offersi una sedia a Fosca che vi si
lasciò cadere sfinita, ne presi un'altra per me, e mi sedetti di rimpetto a lei
dall'altra parte del camino.
Eravamo soli, e poiché non era piú possibile evitare una spiegazione,
credetti meglio affrettarla e provocarla io medesimo.
— Ecco, — io dissi — o Fosca, a che cosa ci hanno condotto le vostre
follie!
Ella alzò gli occhi con lentezza, quasi con fatica; mi guardò e li
riabbassò senza rispondere.
— Spero — io continuai — che mi direte quale scopo avete avuto nel
seguirmi, quali sono i vostri progetti, quale il contegno che terrete verso
vostro cugino, allorché gli sarà nota la vostra fuga, se pure non gli è già
nota in questo istante.
— Qualunque sieno per essere le conseguenze di questa mia risoluzione —
diss'ella con calma — voi non dovrete parteciparvi in alcuna maniera.
— Mi pare però che in questo stesso momento… Voi sapete che io ho una
licenza di quaranta giorni, che andava a fruirne ora per riconquistare in parte
quella salute che mi sono rovinato per voi, e che questa vostra imprudenza mi
costringerà a rinunciarvi.
— Perché? Voi potete continuare il vostro viaggio; se in questo momento
voi siete qui, e se io sono in vostra compagnia, è perché mi avete invitata a
venirvi.
— Fosca, — io dissi con calore — spero che non vorrete spingere
tant'oltre la vostra crudeltà, da irridere perfino alla mia delicatezza. Le
ragioni che adducete non hanno maggiore logica di quelle di un fanciullo. Avete
troppo spirito per non avvedervene.
— No, — rispose ella con asseveranza — no, siete in errore. Io sono ben
risoluta a lasciarvi proseguire la vostra via, a non frappormi fra voi e la
vostra felicità. Non ho saputo che nella notte di ieri la vostra risoluzione;
era troppo tardi perché io potessi uscire di casa; sono venuta stamattina, ed
eravate già partito; se vi avessi trovato, vi avrei fatto conoscere quali erano
i miei progetti. Sono giunta ancora in tempo a vedervi e a seguirvi — a
seguirvi senza parlarvi, senza chiedervi nulla, senza pretendere alcuna cosa da
voi; immagino che non me ne contestereste il diritto. Ho con me del denaro, e vi
terrò dietro ovunque andrete: nessuno m'impedirà di abitare la stessa città,
la stessa casa, di non perdervi d'occhio un istante. Se non m'aveste invitata a
discendere, vi avrei accompagnata come un'estranea, fino a Milano. In quanto a
mio cugino, rassicuratevi, gli ho scritto di questo mio amore, gli ho confessato
come io stessa vi ho legata a me colla mia insistenza, come avete dovuto
sacrificarvi a questa passione e risolvervi ad abbandonarmi con un inganno. Gli
ho detto che siete onesto, buono, leale, che il vostro maggior dolore era quello
di tradire la sua fiducia (credo di aver indovinato un vostro sentimento);
potete essere tranquillo su ciò.
— E credete cosí di avermi tolta tutta la responsabilità che mi hanno
creata le vostre follie?
— È la seconda volta che usate questa parola "follie". Credeva
che almeno del mio cuore non avreste mai potuto dubitare, che ne avreste
rispettato il dolore.
— Ma che cosa pretendete da me?
— Nulla.
— Perché mi avete seguito?
— Ve l'ho detto.
— Ma io non vi amo, dovete pure avvedervene.
— Non importa, vi amo io.
— Non avete pensato a che cosa vi condurrà questa situazione?
— Non posso avere altro pensiero che il vostro.
— La vostra salute v'impedirà di seguirmi, non avrete forza di giungere
fino a Milano.
— Ebbene, morrò per via.
— Voi credete con ciò di farvi amare, di farvi ammirare; la vostra vanità
ha forse in questa risoluzione una parte maggiore che il vostro cuore;
disingannatevi; la mia stima, il mio affetto non attingono alcuna forza da
questa falsa costanza.
— Mi conoscete assai male — diss'ella. — Io non ho creduto al vostro
amore quando asserivate d'amarmi; come potrei lusingarmi di accrescerlo adesso
che mi sfuggite? Non ho voluto mai che illudermi. Sono io che vi ho amato, che
vi amo, che voglio amarvi. È un impegno che ho contratto con la mia coscienza.
Voglio che ci crediate, vi costringerò a crederci. Mi sono votata a voi, ho
risolto di morire per voi. Aveva bisogno di uno scopo nella vita, l'ho trovato,
lo raggiungerò. Non importa che non mi amiate, potete anche odiarmi, è
tutt'uno; anzi preferirò il vostro odio alla vostra indifferenza: ciò di cui
voglio assicurarmi è della vostra memoria; voglio costringervi a ricordarvi di
me; quando vi avrò oppresso con tutto il peso della mia tenerezza, quando vi
avrò seguito sempre e dappertutto come la vostra ombra, quando sarò morta per
voi, allora non potrete piú dimenticarmi. Ecco perché vi ho seguito.
— Ma è una aberrazione — io dissi.
— Forse, ma non monta.
— Un'aberrazione inutile…
— Non credo, vi conosco.
— Per lo meno crudele.
— Sí.
— Sapete dunque che ne soffrirò?
— Sí.
— Come potete conciliare questi due sentimenti disparatissimi: l'amore che
dite avere per me, e il desiderio di farmi soffrire?
— Non desidero di farvi soffrire. Io vorrei rendervi felice se lo potessi;
ma il mio amore è troppo piú grande delle sofferenze che può cagionarvi.
— Non vi comprendo, tutto in voi è contraddizione.
— Sí, — esclamò ella con impeto — un'orribile, una spaventosa
contraddizione.
Tacemmo entrambi per un istante.
— Avete però un mezzo — ripigliò ella con calma, e senza distogliere
gli occhi dalla fiamma che stava affissando — per sottrarvi alle mie minacce.
— Quale?
— Uccidetemi.
— Uccidervi! Che insensatezza! Ma voi sapete che non s'uccide una persona
impunemente, né senza motivi. Se mi aveste detto ciò a quindici anni, vi avrei
trovato qualche cosa di nuovo, di romantico, di commovente, ma ora! E perché
dovrei uccidervi? Perché non vi posso amare? Che colpa ne ho io se il mio cuore
non può sentire nulla per voi?
— Il vostro cuore! — diss'ella — non appellatevi al vostro cuore.
Conosco questa ipocrisia delle passioni, l'ho esperimentata. Il cuore non è
l'amore. Se il mio volto fosse stato meno brutto, se io avessi potuto correggere
le linee del mio naso, della mia bocca, della mia fronte, conseguire un poco
della freschezza e della pinguedine dell'infima donna del volgo, voi stesso, voi
mi avreste adorato. L'amicizia è bontà, ma l'amore non è che bellezza.
— Sia come volete — io dissi. — Doppia ragione perché dobbiate cessare
di perseguitarmi sí crudelmente. Posso io impormi una simpatia che la natura vi
ha negato i mezzi d'inspirarmi? Devo io subire le conseguenze di quello che vi
ho fatalmente inspirato io? Che cosa poteva fare per voi oltre a ciò che ho
fatto? Vi ho dedicato quattro mesi della mia gioventú, mi sono sacrificato
intieramente ai vostri capricci, alle vostre pretese, ai vostri nervi. Ho avuto
la forza di fingere un affetto che era ben lungi dal sentire, ho avuto la
delicatezza di dissimularvi con tutti i ripieghi possibili la mia avversione. Ho
resistito finché ho potuto; quando vidi che la mia salute n'era rovinata, e che
non poteva liberarmi da voi che fuggendo, ho risolto, benché con ripugnanza, di
giovarmi di questa astuzia. Un santo non avrebbe fatto altrimenti. Ed ora che
cosa volete da me? Che cosa esigete di piú? Ho sentito un vivo interesse per
voi, vi ho compianta, vi ho stimata. Mi obbligherete ora a parlarvi aspramente,
a far tacere perfino la mia pietà? Siete sconoscente, siete ingrata, non avete
cuore. Se mi amaste, mi lascereste in pace. Pretenderete adesso che io vi
sacrifichi tutta la mia vita? È impossibile. Quattro mesi di tali tormenti sono
un'eternità; un amore felice non potrebbe durare di piú. Voi lo sapete, voi
non potete dissimularlo: io non posso amarvi, io non posso amarvi!
— Oh, tu mi amerai, — esclamò ella con voce terribile — tu mi amerai!
Si drizzò di tutta la persona, e mi guardò con aria risoluta e minacciosa.
Io rimasi come istupidito dalla paura e dalla sorpresa. Era avvezzo a temere
quella donna, e mi meravigliava e mi doleva dell'arditezza che aveva posto in
quelle mie parole. Come aveva osato tanto? Comprendevo che ella agiva ora per
uno di quegli impeti, di quei súbiti mutamenti che erano cosí facili nel suo
carattere, e che sarebbe stato impossibile il continuare con lei una discussione
seria e tranquilla.
— Fosca!… — le dissi con accento affettuoso, e mi sentii soverchiato da
una súbita angoscia di cuore, e non potei dire di piú.
Ella si portò le mani alla fronte, se la premette fino a imprimervi le
traccie delle dita, alzò gli occhi al cielo, e si contorse le mani gridando:
— Ah! io sono disperata, io sono disperata!
Guardò attorno alla stanza con aria atterrita, vide la finestra, esitò un
istante, poi vi si avventò con impeto.
— Addio, Giorgio, addio! non mi rivedrai piú!
La raggiunsi prima che avesse potuto aprirla, la trascinai a forza vicino
alla sua sedia. Singhiozzava affannosamente senza piangere. L'abbracciai, e me
la strinsi al seno con tenerezza.
— Siedi, siedi, — io le dissi — non ti desolare cosí, farò tutto
quello che vorrai. Tu tremi, sei pallida!
— Ho freddo.
La copersi col mio mantello, e rattizzai il fuoco.
— I tuoi piedi sono bagnati, i tuoi abiti inzuppati di pioggia; accostati
alla fiamma, cosí. Datti pace, datti pace. Non sono cattivo, lo sai, non ti
farò alcun male, ti ubbidirò, ma non mi spaventare co' tuoi impeti. Abbi anche
tu compassione di me!
Tornai a sedermi, e mi celai il volto fra le mani, per nascondere le lacrime
che la pietà di lei, che il dispetto della mia fortuna mi avevano richiamato
sugli occhi.
Stemmo qualche momento senza parlare. Fosca si accorse che io piangeva.
— Tu piangi, — mi diss'ella — oh mio Dio!
Si lasciò cadere dalla sedia, e mi tese le braccia supplichevole.
— Non piangere, non piangere. Sono un'egoista, una miserabile. Lo so che ti
rendo infelice, e non ho la forza di rinunciare a te, non lo posso, ecco la mia
sciagura piú grande… Oh perdonami, perdonami! Se tu vedessi nell'anima mia!
Se tu sapessi come ti amo, come mi sei necessario! Fa' tutto ciò che vuoi di
me, sarò la tua serva, la tua schiava, ma non mi sfuggire, non mi abbandonare.
Non potrei stare quaranta giorni senza vederti, sarebbe impossibile, morrei
disperata. Ritorna, ritorna. Tu lo vedi. Io morirò assai presto, sento la morte
dentro di me; ancora un istante e sarai libero. Tu sei giovane, tu sei bello,
hai salute, hai talento, la vita ti sorride, il mondo è tuo, la felicità che
ti attende è lunga; sacrificati ancora un momento per me; quando sarò morta,
considererai questa sventura come un istante di amarezza nelle lunghe ore di
gioia che avrai goduto, mi ricorderai forse con delle lacrime. Non mi parlare di
doveri, di ragione, io non ho piú ragione, non ho piú coscienza di doveri; non
esigere da me ciò che non è piú possibile ottenere; io ti amo, ecco tutto
ciò che so dirti. Abbi carità. Ritornerai? Dimmi che ritornerai.
Si trascinò verso di me, e nascose il capo tra le mie ginocchia.
— Sí, — io le dissi — sí, torneremo assieme, ma domani dovrò pur
ripartire, non posso fare a meno di recarmi per due giorni a Milano.
— Ah! — esclamò ella. — Ebbene, ebbene non importa. Non vorrò essere
felice io sola. Avrò la forza di resistere. Ma non ti fermerai di piú,
ritornerai? Promettimelo.
— Sí, — io dissi — te lo prometto.
— Giuralo.
— Lo giuro. Ma potrò poi rivederti in casa tua? Tuo cugino…
— Spero che non avrà veduto la mia lettera, che saprà nulla. Io l'ho
lasciata sul mio tavolino da lavoro. Dacché non tengo piú il letto, egli non
viene piú nella mia camera. Sai che non esce dall'ufficio che pel pranzo. Prima
di quell'ora saremo già arrivati. La mia cameriera ne sa qualche cosa, è
prevenuta, non dirà nulla. Checché avvenisse, vedrò oggi il medico, e lo
pregherò di venirtene ad informare.
Ometto il resto di quel triste dialogo. Feci cercare una carrozza, e
ricondussi Fosca alla stazione. Il freddo, la fatica, il dolore avevano talmente
esaurito le sue forze, che dovetti quasi sollevarla sulle mie braccia per salire
con essa le due predelline della vettura del convoglio. Quivi si sedette
dirimpetto a me; volle tenere tutte e due le mie mani tra le sue, avvicinare il
suo viso al mio, baciarmi di quando in quando come fossimo stati soli. Piú ella
era sofferente, piú era affettuosa; lo spavento, l'agitazione, le lotte di
quella mattina l'avevano sfinita; non aveva quasi piú coscienza della nostra
situazione, e si abbandonava a me senza ritegno.
Chi eravamo noi? Quali rapporti correvano tra quei due esseri sí diversi?
Quella donna sí mostruosa, sí spaventevole, sí malata, poteva essere l'amante
di quell'uomo? Tali erano le domande che io leggeva negli sguardi attoniti dei
nostri compagni di viaggio.
Mi ricorderò per tutta la vita di quel giorno!
Alla sera mi sentii un poco rassicurato nel ricevere questo biglietto del
dottore:
"Ho saputo da lei quanto è successo oggi, e vi scrivo per incarico suo;
state tranquillo, la cosa non ebbe alcuna conseguenza, suo cugino ignora tutto.
Sento che intendete di ripartire domani, e che avete promesso ritornare fra due
giorni. Verrò domattina a parlarvi e a consigliarvi in proposito".
Ma quali altri consigli poteva egli darmi in quel caso?
XLI
Pochi minuti prima che io partissi, il medico venne infatti a trovarmi.
Entrò nella stanza sorridente con aria di voler fare le beffe della mia
sconfitta; e mi sarei offeso di questo contegno, se non l’avessi saputo
sinceramente interessato ai miei casi, e non fossi stato certo che egli era
appunto venuto da me per suggerirmi qualche altro rimedio.
— E cosí, — mi diss’egli sedendosi — eccovi già di ritorno. Non
avrei creduto di rivedervi sí presto. Avete avuto paura? Vi siete lasciato
ricondurre come un agnello.
— Voi conoscete quella donna, — risposi io — non crederete certo che
avrei potuto contenermi diversamente.
— Lo so, ma la cosa per se stessa è assai singolare; non vi offendete se
ne ho sorriso mio malgrado. Immagino almeno che questo vostro recarvi a Milano
per due giorni non sia che un pretesto, e che la vostra partenza sarà decisiva.
— No, ho promesso di ritornare.
— Bisogna dimenticarsene.
— Ne ho impegnato la mia parola d’onore.
— Male. Bisognerebbe dimenticarsi anche di questa.
— Non è possibile.
— Come volete. Non voglio esporvi qui le mie teorie sull’onore, ma mi
limito a farvi una domanda: "Che cosa intendete di fare?".
— Ciò che è oramai inevitabile. Ritornare, giustificare con un pretesto
qualunque la mia rinuncia alla licenza, e rimanere presso di lei fino a che non
vedrò la possibilità di fare diversamente.
— Datemi il vostro polso — diss’egli; e corrugò la fronte tastandolo.
— La vostra tosse è diminuita?
— Accresciuta.
— Dormite?
— Poco.
— Agitato?
— Estremamente.
— Fate cattivi sogni?
— Orribili.
— Fra due giorni sarete traslocato a Milano, — diss’egli
tranquillamente. — State assai male; avete bisogno di cambiar aria; questa
atmosfera vi uccide.
— A Milano! Fra due giorni.
— Sí, me ne incarico io. L’aria di quel paese vi farà bene. Farò
revocare la vostra licenza, e vi farò invece avere una traslocazione che
renderà la vostra partenza inevitabile. Ella lo comprenderà, non potrà
opporsi. Le dirò che fui io a provocarla vostro malgrado.
— Ma pensate…
— A che cosa? — interruppe egli con impazienza. — Io penso al vostro
bene, giacché voi non avete un’oncia di giudizio, e lasciate volentieri che
vi pensino i vostri amici. Dopo tutte le follie che ha fatte per voi, dopo
quella colossale di ieri, la salute di quella donna è peggiorata a tal segno,
che ella non ha piú due mesi di vita; e due altri mesi di soggiorno vicino a
lei basterebbero a dare a questa lenta infiammazione che vi divora uno sviluppo
che renderebbe impossibile arrestarla. Fate quell’apprezzamento che volete di
questa mia mediazione, che vi costringo a subire; io ho coscienza di compiere un
dovere. Me ne ringrazierete piú tardi.
E uscí prima che nella mia titubanza avessi trovato parole per eccitarlo e
per distoglierlo da questo disegno.
XLII
Io vorrei tacere qui di quegli ultimi giorni che passai con Clara a Milano;
non vorrei evocare dalle oscure profondità delle mie memorie che i soli dolori
— giacché l’evocarne le gioie è compito assai piú triste e difficile —
il mio cuore non conosce piú la via delle gioie, esso ne ha dimenticato il
linguaggio! — ma come non ricordare quegli ultimi baleni di felicità che
hanno rallegrato la nostra esistenza? I primi piaceri non sono meno dolci degli
ultimi, ma non si rammentano con la stessa trepidazione. Allora se ne speravano
altri, e piú frequenti, e piú grandi; la gioventú, la fortuna erano per noi;
v’era ancora tempo a saziarsene, ma adesso!… sono le ultime gioie quelle che
si rammentano per tutta la vita, quelle che il cuore ha legato a sé colla
stessa superstiziosa religione con cui vi ha legato la memoria di un estinto.
Non sono i piaceri che incominciano quelli che si rimpiangono, sono quelli che
finiscono.
In una natura dove tutto muore, dove tutto ci sfugge, le cose piú dilette
sono quelle che abbiamo perduto. La fortuna ci fa parere piú cari gli oggetti
che ci toglie, di quelli che ci dona, ed è forse cosí che ci riconcilia
lentamente con l’idea della distruzione e della morte; nondimeno tristi quelle
cose di cui esclamiamo: sono le ultime! Ho veduto spesso sorgere il sole con
gioia; ma talora mi sono sentito stringere il cuore, e ho stese le braccia verso
di lui nell’ora melanconica del tramonto.
XLIII
Ecco soltanto ciò che ne scrissi allora nel mio diario:
"23 dicembre 1863. — Registro questa data e queste memorie due ore
prima di ripartire da Milano. Clara mi ha lasciato in questo momento; ho il
cuore gonfio di lacrime, e vorrei piangere come un fanciullo. Perché? Non lo so
dire. Forse è un bisogno puramente fisico. Dopo i vent’anni le lacrime
ricadono nel cuore e vi si accumulano. Credo che spesso si muoia di queste
lacrime che non possono trovare una via. Perché non si piange piú dopo i vent’anni?
Sono giunto ieri, ho passato tutto il giorno con lei, qui, soli, contenti, ma
non piú contento come un tempo… Mi amerebbe ella meno? No, ella sembra amarmi
soltanto piú seriamente. Temo d’aver indovinato il segreto terribile che ella
si strugge di nascondermi. Clara non è felice.
Perché ha pianto ieri sera nel lasciarmi? ella che non ha pianto mai? Ella
sapeva pure che mi avrebbe riabbracciato oggi. Non aveva mai assaporato delle
lacrime; ne ho bevuta una delle sue. Come sono amare!
Penso quasi con dispetto, quasi con ira alla strana conformità che la
fortuna ha posto tra alcune scene di questi miei due amori cosí diversi. Che
raffronti! che analogia in queste antitesi! Oggi abbiamo passato quattro ore in
campagna, sulla neve, in mezzo al fango, come le passai ieri l’altro con
Fosca. Clara ha voluto rivedere il nostro tabernacolo, i nostri prati, i nostri
alberi, i nostri ruscelli. Ho tentato inutilmente di distorgliela da questo
progetto, ho dovuto accompagnarvela. In questa stagione! Non mi dimenticherò
mai, mai, di questa passeggiata!
Perché ella ha detto che voleva tentare di ritrovarvi se stessa? Mi ritorna
ora in mente questa frase oscura e angosciosa.
Siamo saliti in una carrozza ove eravamo già stati assieme una volta nei
primi tempi del nostro amore. Clara l’ha riconosciuta. V’era ancora nella
tappezzeria della vettura un G che ella vi aveva inciso allora con tanti trafori
di spillo. Siamo discesi fuori della città dalla parte di Morivione. Siamo
stati fino a Vaiano, abbiamo attraversato i prati correndo. Clara ha voluto
entrare nella chiesa, e si è inginocchiata un momento per pregarvi. Non vi era
dentro anima viva. Che solennità nelle chiese deserte!
Abbiamo bevuto latte in una di quelle catapecchie miserabili che si trovano
allo svolto del canale. Siamo entrati nella stalla; alcuni bambini giuocavano in
un angolo della mangiatoia, e ci guardavano attoniti e quasi spaventati; non
sapevano levarci gli occhi d’addosso. Che quiete là dentro! che caldo! Ho
chiesto a Clara:
— Vorresti vivere qui con me?
— No, — rispose ella tristamente — ho orrore della povertà.
Quella contadina ci ha detto:
— Loro signori sono già stati qui a San Giorgio, me ne ricordo.
— Quando? — chiese Clara.
— A San Giorgio, nel giorno in cui si usa andare a bere il latte in
campagna.
Allorché fummo usciti, Clara mi disse:
— Ho voluto farle ripetere due volte il tuo nome.
Ritornammo attraversando quell’argine lungo e sottile che divide i due
canali. Bisognava camminare l’uno dietro l’altro. Clara mi disse:
— Va’ d’innanzi tu, voglio vederti.
Mi rivolsi a un tratto improvvisamente, e la sorpresi con le lacrime agli
occhi.
— Tu piangi — le diss’io con ansietà. — Che hai? Perché piangi?
M’interruppe con un sorriso, e mi disse:
— È effetto del guardare la neve. Come sei poco esperto di lacrime!
Risalimmo nella vettura che ci attendeva. Il vetturino ci guardò quasi
stordito. Eravamo tutti immollati. Ci facemmo condurre a Porta Magenta, e
ripigliammo le nostre scorrerie a piedi. La nebbia si era sollevata, e il sole
splendeva di tutta la sua luce. La neve pareva fatta di tante pagliuzze d’argento,
e abbagliava. Gli alberi erano pieni di gazze e di merli, il torrente era gelato
da un lato e dall’altro della riva, e scorreva nel mezzo con lentezza; non si
vedeva né un insetto, né un filo d’erba.
Clara scorse la prima la nostra capanna, — il nostro tabernacolo, — e fu
sollecita a raggiungerla, ma l’uscio ne era chiuso, e non ci fu possibile
entrarvi.
Ella fu sí afflitta di questa contrarietà, che per poco non ne pianse.
Riattraversò il ponte di tavole su cui la neve gelata rendeva facile lo
sdrucciolare, e abbracciò un albero sotto il quale eravamo soliti ripararci dal
sole. Si sedette sulla neve in un punto in cui solevamo sederci e passare lunghe
ore sull’erba. Trovammo in una siepe alcune di quella bacche vermiglie che
producono le rose selvatiche e che hanno un sapore acre, benché quasi dolce, e
un nido ripieno di foglie secche e di neve. Quante memorie in quei luoghi,
quante memorie!
Clara esclamava tra se stessa: "Pensare che tutto sarà rifiorito a
primavera, che questi luoghi ritorneranno cosí belli come lo erano nei primi
giorni del nostro amore!".
— Ebbene, — le dissi io — questo pensiero non ti conforta?
— Ma saremo noi ancora cosí giovani, ancora cosí felici?
Non seppi risponderle. Perché ha ella concepito questo dubbio?
Nel ritornare raccolse presso la siepe di un giardino un fiore di semprevivo,
di quelli di cui si intessono le corone mortuarie.
— Gettalo via, — io le dissi — è un fiore da morto.
— Perché? — rispose ella con tristezza — se è l’unico fiore che non
avvizzisce? l’unico che non muore mai? Il fiore delle memorie è caduco, ma
questo sopravvive alla memoria. Quello è per gli affetti vivi, questo per gli
affetti sepolti.
E volle che lo accettassi, e promettessi di conservarlo per memoria di quel
giorno.
— Ritorniamo nella tua stanza, — mi diss’ella — voglio passare tutto
il giorno con te, sono pazza oggi. Ho freddo, sono irrigidita, accenderemo il
fuoco.
Durante il tragitto della carrozza incominciò a tremare e rabbrividire dal
freddo. Volle che facessi passare anch’io le mani nel suo manicotto. Vi sentii
dentro alcuni oggetti che aveva raccolto per memoria di quella passeggiata, una
foglia di ellera, un ramoscello d’albero. Percorremmo quel lungo tratto di
strada senza parlare, vicini, coperti dalla sua pelliccia, guardandoci, colle
mani cosí strette e riunite nel manicotto.
Accendemmo nella mia stanza un gran fuoco.
Non aveva mai veduto Clara sí pallida. Come era bella cosí, come era bella!
Ella aveva i piedi tutti bagnati.
— Levati i tuoi stivalini — io le dissi.
Non voleva.
— Ti ammalerai. Ubbidiscimi, te li leverò io.
Mi lasciò fare, benché quasi con dispiacere. Le sue belle calze erano anch’esse
bagnate; glie le slegai, glie le tolsi; ho veduto i suoi piedini nudi, piccoli,
torniti, rosati; li ho riscaldati tra le mie mani.
La sera ci ha raggiunti lí, vicini al fuoco. Avevamo passato tre ore nelle
braccia l’una dell’altro. Ella non aveva mai posto tanta dolcezza ne’ suoi
abbandoni. Perché era cosí mesta? Perché non sapeva dividersi da me? Perché
è tornata indietro per baciare l’uscio della nostra camera? Io torturo
inutilmente il mio cuore con queste domande.
Ha dimenticato qui la sua crocetta di brillanti: la porterò con me, gliela
restituirò ritornando.
Scrivo un istante dopo che ella è partita; guardo con tristezza la sedia su
cui si è seduta, e guardo gli ultimi tizzi del focolare che si spengono. Non l’ho
amata mai tanto come oggi. Oh! che sarebbe di me senza quella donna!"
XLIV
L'indomani era la vigilia di Natale: avevo detto a Fosca che per quel giorno
sarei ritornato, e tenni la promessa. Un biglietto del dottore che trovai nella
mia stanza mi diceva:
"So che ella vi aspetta a pranzo qui. Se vi verrete (e non farete male a
venirvi) direte al colonnello e agli altri che non siete ancora partito, che una
lieve indisposizione vi ha obbligato a rimanere. Io sarò là a farne fede.
Immagino che non avrete paura di aggravare la vostra coscienza con questa
menzogna inevitabile".
Vi andai. Tanto non avrei potuto evitare di veder Fosca, e il minor male che
mi fosse possibile sperare era appunto quello di non vederci da soli. La
certezza della mia traslocazione imminente mi infondeva una specie di coraggio
che non aveva avuto prima. Per poco non era divenuto anche audace. Affrontava
questi pericoli con calma, perché sapeva che erano gli ultimi. La mia
apparizione non produsse alcuna sorpresa nei miei commensali, giacché il
dottore ne li aveva prevenuti. Il colonnello mi strinse la mano fino a farmi
sentire un po’ troppo la pressione delle sue dita secche e nervose, e mi disse
con schiettezza:
— Sono veramente contento che non siate ancora partito; me ne dispiace per
voi, ma per me ne sono lieto. È una puerilità, un’abitudine come le altre,
lo capisco, ma in questo giorno sento anch’io il bisogno di vedermi circondato
da’ miei amici. Il Natale è la piú bella festa dell’anno. Io non sono né
turco, né cattolico — sono semplicemente un galantuomo — ma alcune delle
feste cristiane mi piacciono, mi vanno a sangue, armonizzano colle mie
convinzioni; io ci vedo dentro un significato profondo, che le apparenze ci
nascondono. La religione ne è un pretesto. Che credete? Non è già la nascita
di Cristo che noi festeggiamo oggi; noi festeggiamo la famiglia, le gioie della
vita domestica, il focolare. Se questa festa si celebrasse in agosto non avrebbe
piú una metà della sua importanza; è in questa stagione che sentiamo il
bisogno di vederci riuniti. Ecco la casa, il camino, il ceppo tradizionale, la
tavola apparecchiata. Peccato che non nevichi! Tempo fa, ho passato questo
giorno sulle montagne, in una casetta sepolta tra le valanghe, coi lupi alla
porta. Quello fu un vero Natale! E stasera rimarrete con noi? Faremo una piccola
cena.
— Volontieri, — io dissi — è una festa a cui ho legato anch’io delle
memorie.
— Ah! — continuò il colonnello mentre ci mettevamo a tavola — chi è
che non vi ha legato delle memorie? Le piú belle rimembranze della famiglia
fanno capo a questo giorno. Volete ricordarvi delle ore piú gioconde della
vostra fanciullezza, delle persone che avete amato di piú, dei vostri genitori,
dei vostri fratelli? Bisogna che pensiate al Natale, alla casa dove siete nati,
alla stanza dove potevate raccogliervi, alla fiamma del caminetto, alla notte
vegliata cicalando…
— E alle gozzoviglie… — interruppe uno dei commensali.
— Sia come volete, — continuò il colonnello — anche alle gozzoviglie.
Male per voi se in questo tacchino coi tartufi, non vedete altro che un tacchino
coi tartufi. Io ci vedo la ragione di un legame piú stretto fra noi. Dov’è
che gli uomini si trovano meglio riuniti che a tavola? È là che essi dividono
il pane ed il vino, che si dimostrano piú efficacemente il loro affetto,
offrendosi a vicenda le cose piú necessarie alla vita. A voi. Eccovi qui un
petto di pernice; permettete che ve lo offra. Crederete forse che un uomo che vi
offre un petto di pernice possa essere un vostro nemico?
Questa offerta era stata fatta a me.
— Tolga il cielo che io abbia a cadere in tale errore, — io dissi — io
considero la vostra offerta come la piú eloquente testimonianza della vostra
amicizia.
— Via, — esclamò egli — voi credete di aver proferito una facezia,
avete detto invece una grande verità. Io ho imparato a non dare alcun valore a
quei doni che sogliono farsi i ricchi, a quei piccoli sacrifici fatti e
retribuiti per convenzione. Quando io era ragazzo era molto povero, non mi
vergogno certo di confessarlo. Ebbene, la camera migliore della casa era la mia,
quei piccoli agi che poteva permetterci la nostra situazione erano per me; a
tavola mi si davano le cose piú squisite; mia madre era instancabile nell’occuparsi
di tutti questi piccoli nonnulla che potevano recarmi piacere; quello era il
vero affetto — tutto il resto è convenzionale, falso — è apparente. Se un
uomo affamato — mettiamo anche semplicemente un uomo goloso — desse a me
affamato l’unica costoletta che gli rimanesse per colazione, sento che dovrei
essergliene piú tenuto, che se m’avesse dato venti napoleoni dei quaranta che
aveva nella sua saccoccia.
— È vero, — disse Fosca — io credo…
— Chiedo scusa, — interruppe suo cugino — tu non puoi credere nulla,
non puoi essere in ciò un giudice competente; tu non puoi conoscere il valore
di una costoletta, giacché non ne hai mai mangiata una intiera in tua vita.
— Oh, oh, — esclamò il dottore — questa argomentazione è falsa.
Converrebbe indagare se un piacere debba essere misurato dalla sua entità,
piuttosto che dalla sua durata.
— Dall’una e dall’altra — diss’io,
— Sta bene, — disse il colonnello — ma piú assai dalla durata. Farò
uno sforzo di logica. Argomentiamo da un caso opposto. Supponiamo a mo’ d’esempio,
che abbiate a ricevere un colpo di bastone; voi ne sentirete dolore per uno, va
bene, ma ricevetene invece dieci, ricevetene venti… Che ve ne pare?
Persisterete a credere che il dolore dei dieci, dei venti, sia uguale a quello
dell’uno? Singolarmente sí, ma molti dolori riuniti costituiscono un dolore
piú grande. Cosí è dei piaceri. Addizioniamo i piaceri, e ne avremo uno piú
vivo e piú durevole. Forse che se noi rimanessimo qui, seduti a questa tavola
fino alla mezzanotte, e riuscissimo a riunire con una catena di piccoli piaceri
intermedi questi due grandi poli del piacere che sono il pranzo e la cena, non
avremmo sciolto con onore questa questione?
Questa proposta trovò un eco in tutti i commensali.
— Chi avremo a cena con noi? — chiese il dottore.
— Un mondo di persone, tutte le onorevoli metà dei nostri colleghi.
— Compresa la baronessa, la moglie di…
— Suo marito.
— O dell’amico di suo marito!
— Bando alla maldicenza — disse il colonnello. — In verità che se io
credo di avere una virtú, la è questa, di non veder mai ciò che non dev’esser
veduto e, vedendolo, di persuadere me stesso di non aver visto. Vi è un
beneficio grandissimo che ogni uomo è in grado di rendere ad un altro, e che è
tuttavia quello che vien reso piú raramente, l’astenersi dal dirne male.
— Ma io non aveva in animo di dirne male — disse quello tra noi che aveva
provocato questa osservazione. — Voleva far constare di un fatto. Vi sono
certe cose che saltano agli occhi. I mariti…
— Può essere — interruppe il colonnello — che i mariti vedano poco; ma
gli altri vedono troppo. Io apprezzo piú la cecità dei primi, che l’accortezza
dei secondi. La fiducia di un marito, di un padre, di un fratello è cosa che mi
commuove, doppiamente poi se tradita. Io non ho riso mai della semplicità; la
credo la piú nobile delle virtú, invece ho sempre temuto della doppiezza. La
natura ha donato all’uomo questa cecità, per dare alla colpa della donna un
rilievo ancora piú appariscente.
Io guardai Fosca il cui volto aveva incominciato ad impallidire. Il pranzo
era finito, e, se avessi potuto, le avrei suggerito volontieri di ritirarsi
nella sua camera.
— E se non fosse… — aveva ripreso il colonnello. Ma fu interrotto dall’arrivo
del sergente di posta che ci recava un fascio di lettere. Io n’ebbi una, che
conobbi tosto essere di Clara, e mi affrettai a nasconderla nel mio portafogli,
impaziente di trovarmi solo per leggerla. Dopo le follie di quel nostro ultimo
ritrovo, che cosa mi avrebbe ella detto?
Il colonnello fece atto di riconsegnare le sue al sergente perché le
riportasse in ufficio, ma avendone veduta una col suggello del Ministero, la
riprese e l’aperse. La lesse in un baleno, si rivolse a me con aria di
meraviglia e di dispiacere, mi guardò un poco come per interrogarmi, poi mi
disse:
— Siete voi, o sono quei signori del Ministero che hanno voluto farci
questa sorpresa? Siete destinato al dipartimento di Milano, e dovete raggiungere
immediatamente la vostra destinazione. Che diavolo!…
— A Milano!… — io balbettai tutto confuso — traslocato!… Veramente…
non capisco…
E alzai gli occhi verso Fosca. Vidi il suo volto impallidire, trasfigurarsi,
affilarsi. Ella stese le braccia verso di me, tentò sollevarsi, e ricadde sulla
sedia. Suo cugino, i medici, le furono tosto dintorno; guardavano ora me, ora
lei, e parevano sospettare le cause di quella sua crisi improvvisa. Successe un
istante di silenzio. Gli occhi di Fosca, spalancati, immobili, vitrei, non
cessavano di affissarmi. Ella si alzò ad un tratto agitata da una contrazione
spaventevole, corse verso di me, si afferrò a’ miei abiti e proruppe in un
grido straziante:
— O Giorgio, non mi abbandonare, o mio Giorgio! mio adorato!
Quelle parole, quell’atto erano una confessione troppo eloquente. Suo
cugino impallidí, arrossí, tornò ad impallidire; stette un istante immobile
come istupidito, paralizzato, fulminato da quella rivelazione, poi si avventò
verso Fosca guardandomi con occhi terribili, la strappò con violenza dalle mie
braccia, la trascinò verso il suo appartamento; e nel varcare la soglia dell’uscio
si rivolse, e mi disse:
— Uscite, signore; uscite di questa casa. Ci rivedremo assai presto.
Gettai gli occhi smarriti d’intorno a me; il sergente di posta, le
cameriere erano spariti; i miei commensali si erano alzati, e facevano mostra di
frugare qua e là tra i mobili per cercare i loro berretti e le loro sciabole.
Io uscii, mi cacciai giú per le scale colla disperazione nel cuore.
XLV
Non so perché fuggissi. Credo che sia istinto: si fugge da un dolore come da
un pericolo. In un attimo mi trovai fuori della città, nell’aperta campagna;
era già buio, e le strade erano deserte. Mi arrestai al crocicchio di una via,
e percossi col fodero della sciabola alcuni ramoscelli di sanguine, che
sporgevano da una siepe, per farne cadere la neve. Guardai un lume che un
contadino portava in lontananza attraverso i campi, e che pareva andar solo; lo
seguii coll’occhio finché lo perdetti di vista. Un cane magro, brutto,
patito, mi si avvicinò annusando e agitando con lentezza, quasi con fatica, la
sua coda aggomitolata; lo chiamai e mi curvai ad accarezzarlo, poi lo respinsi
percuotendolo col piede. I suoi guaiti mi riscossero da quella specie di
astrazione simile al sonnambulismo, riacquistai la coscienza di me, mi ricordai
di ciò che era successo, e mi portai le mani alle tempie, perché mi pareva che
qualche cosa stesse per spezzarmisi nella testa.
Oramai tutto era scoperto, e in che modo crudele e impreveduto! Fra poco il
nostro segreto sarebbe stato sulle bocche di tutti. Fosca, suo cugino, io piú
di ogni altro, saremmo stati fatti oggetti di scherno e di ridicolo. Lui,
quell'uomo onesto, quell’uomo eccellente, colpito della stessa pena che una
società ingiusta, fatua, goffamente crudele, avrebbe gettato sopra di me. Piú
ancora: avrei dovuto battermi con esso, forse ferirlo, forse ucciderlo; o io
stesso rimanere ferito od ucciso. Tale il premio che egli avrebbe ricevuto della
sua fiducia, io del mio sacrificio. Una fatalità inesorabile aveva posto a
legge delle nostre esistenze questo dilemma terribile.
Perché, sarei io stato sí vile da gettare sopra di lei la responsabilità
di quell’avvenimento, da dirgli come ella mi aveva imposto il suo amore? E
quando pure egli ne fosse stato convinto, avrebbe potuto sottrarsi alle esigenze
di quei pregiudizi che lo costringevano a pretendere da me una riparazione
palese come l’offesa? No, non v’era a questo riguardo alcuna via di
transizione; un duello era inevitabile.
Poiché m’ebbi definita la mia situazione in questi termini, mi sentii un
poco piú tranquillo. Il timore, l’aspettazione di un male, sono un male
maggiore di quello che si teme e si aspetta. Mi sarebbe importato poco il
morire; mi era avvezzato a questa idea fino da fanciullo, e la mia gioventú non
era stata che una lotta continua tra l’istinto tenace della vita, e la mania
assidua del suicidio; ma uccidere lui, quell’uomo che sapeva accomodarsi sí
bene cogli uomini e coll’esistenza, che era cosí onestamente felice!…
quello era un pensiero che mi lacerava il cuore.
Di Fosca non mi dava gran pena. Io non l’amava; i mali che ella aveva
cagionato parevano disgiungerci ancora di piú. La mia pietà era sí poco viva,
che il minimo de’ suoi torti bastava a farla tacere.
Le mie idee si rischiararono a poco a poco.
Non si può durare lungamente sotto l’oppressione di un gran dolore. Il
cuore, prostrato per un istante, si risolleva subito; la speranza ritorna a
sorridere, precorre gli avvenimenti, e ci addita le gioie che devono compensarci
di quegli affanni.
Rientrai nella città. Mi pareva d’essermi dimenticato di qualche cosa,
aveva nella testa l’idea confusa di un piacere vicino, di una gioia certa, ma
non sapeva quale fosse. Ad un tratto me ne sovvenni; fu un baleno: non aveva
letto ancora la lettera di Clara.
Sorrisi tra me stesso, e mi affrettai verso casa. Quella lettera mi avrebbe
compensato di tutto. E poi, la mia felicità era adesso ben certa, fra poche ore
sarei partito per Milano, sarei vissuto sempre vicino a lei, non l’avrei
abbandonata mai piú. Ora ne era ben sicuro. Come poteva io dolermi di una
sventura sí lieve, d’innanzi alle attrattive di una gioia sí grande e sí
durevole? Io sorrideva di quel dolore miserabile.
Non so se gli altri amanti sieno stati nei loro affetti tanto sublimamente
puerili quanto lo fui io. Vorrei pur leggere nel cuore degli altri uomini per
conoscere se io ho realmente amato di piú, se fui in ciò, come ho creduto e
temuto sempre, un’eccezione mostruosa e sventurata.
Non lessi mai una lettera di Clara se non alcune ore dopo averla ricevuta,
per prolungarmi coll’aspettazione il piacere di quella lettura. Spesso, appena
apertele, incominciava a leggere a rovescio, o alla trasparenza della fiamma
della candela, e guardava qua e colà in fretta alcune parole, e richiudeva
tosto quei fogli per costruire con esse qualche frase a mio talento, e
fantasticare su ciò che avrebbe potuto dirmi. Non comprendeva nulla, se non
dopo averle lette dieci o venti volte; le ritenevo a memoria, e le recitavo a me
stesso prima di addormentarmi; talora le ricopiavo imitando i suoi caratteri,
per provare in qualche modo le sensazioni che ella doveva aver provato nello
scriverle.
E aveva allora venticinque anni!
Ma in quella sera era troppo afflitto, aveva troppo bisogno di conforti, per
potermi protrarre questo piacere. L’apersi con avida impazienza; ed ecco ciò
che conteneva quella lettera terribile:
"Procura di ascoltare con calma ciò che sto per dirti. Abbi tu almeno
quella forza che io non ho, e possa non conoscere l’amarezza di quelle lacrime
disperate che io verso nello scriverti. Mio buon amico, mio Giorgio, mio angelo,
noi non dobbiamo vederci piú, noi dobbiamo lasciarci per sempre. La mia mano
vacilla, e il mio cuore s’infrange nello scrivere queste parole.
Ascolta. Sarò breve, ti dirò tutto piú concisamente che posso, giacché
ogni parola che devo dirti mi trapassa l’anima come una lama. Rovesci di
fortuna gravi e improvvisi hanno rovinato la mia famiglia. Mio marito è quasi
povero. È necessario che tutto sia mutato nel nostro sistema di vita; che io
attenda colla mia vigilanza, colla mia assiduità, forse anche col mio lavoro, a
quelle economie che mi impone il mio dovere di moglie e di madre. Mio marito
ebbe forse dei torti verso di me; io ne l’ho ben punito. Ad ogni modo, ora che
egli è infelice, sento il bisogno di riavvicinarmi a lui, e di proteggerlo col
mio affetto. La fortuna ha riunito le nostre esistenze, non posso abbandonarlo.
Tu stesso, tu mi disprezzeresti. Sono ora otto mesi che ci amiamo. La mia colpa
fu lunga, la mia dimenticanza profonda, la mia felicità immensa.
Tutta una vita non basterebbe a scontare questa felicità (poiché la
felicità è cosa che si sconta). Come potrei pretendere di essere ancora
felice? Come oserei di essere ancora colpevole? Lasciandoci ora, noi ci lasciamo
in tutta la pienezza delle nostre illusioni e della nostra fede; noi porteremo
intatte alla tomba queste illusioni che una intimità piú durevole avrebbe
scolorite o distrutte. La tua memoria riempirà tutta la mia esistenza.
Non è il caso che ci ha separati, è una predestinazione, è una volontà
superiore e imperscrutabile. La sventura che mi colpisce ha punito me di una
colpa che non potrò mai lavare abbastanza colle mie lacrime; ha tolto dalla tua
via un ostacolo che avrebbe certo attraversato a te, giovane, un avvenire che il
tuo coraggio e il tuo ingegno ti additano lusinghiero e felice.
Quando pure il mio cuore avesse potuto ribellarsi al sentimento di un dovere
che m’impone di dividermi da te, io non avrei mai potuto sottrarmi al
disprezzo di coloro che avrebbero penetrato il nostro segreto, alla condanna
disonorante di cui la società avrebbe colpito la mia condotta. Mio figlio, l’unico
scopo, l’unico affetto legittimo della mia vita, non avrebbe potuto redimersi
mai dal disonore ingiusto e crudele che gli sarebbe provenuto dalla mia colpa;
egli non avrebbe potuto arricchire il suo cuore di quel dolce sentimento che a
voi uomini già esperti della nostra fatuità, dei nostri errori, spesso anche
delle nostre bassezze, fa parere ancora nobile e cara la donna: la pura e santa
memoria di una madre.
Sí, Giorgio, io sono caduta con facilità, ma devo rialzarmi con coraggio.
Mi sono data a te con franchezza, mi ti ritoglierò con pari franchezza; mi
farò un’arma della tua stima, della tua ricordanza; adoprerò a nobilitarmi
quella stessa forza che mi darà la memoria del nostro passato.
Nella mia vita di otto mesi, io fui assai felice… Non ho mai tanto guardato
e pensato a questo tempo, come ora che i nostri cuori stanno per dividersi. Un’idea
mi conforta e mi inorgoglisce. Nessuno può toglierci questo passato, nessuno
può fare che io non t’abbia amato con tutta l’anima mia e che tu mi abbia
riamata collo stesso ardore. Questo tesoro di memoria è indistruttibile. Io l’ho
celato nelle profondità piú segrete della mia anima. È da esso che io
attingerò qualche conforto per la mia vita avvenire, misera vita, piena di
tristezza e di abbandono, ma abbellita dal sorriso de la tua rimembranza; senza
questa certezza, dove avrei io trovato la forza di abbandonarti?
Né noi dobbiamo lasciarci solo come amanti, dobbiamo lasciarci anche come
amici, ogni altra relazione tra noi sarebbe fatale; non ci potrebbe ricondurre
all’amore perché nol dovremmo, non legherebbe di piú i nostri cuori perché
ce ne mostrerebbe quei difetti che l’amore ci aveva nascosti. Quando due
creature si sono amate come noi, non possono piú amarsi come gli altri; tu
fosti tutto per me, non voglio che tu sia poco, preferisco che tu sia nulla. Le
anime come le nostre non vivono che di piaceri grandi, o di grandi dolori. Prima
di lasciarti ho voluto rivedere tutti quei luoghi che mi parlavano di te (forse
io non li rivedrò mai piú), ho voluto dare un addio a tutto ciò che il tuo
affetto mi aveva reso caro. Nell’immensità del mio dolore, io sono ora quasi
tranquilla. Io non ti perdo; ho raccolto dal nostro passato tante memorie che
una lunghissima vita non basterebbe ad esaurirle.
Ora addio. Tu lo vedi. Io ti scrivo piangendo, e non potrei scriverti di
piú; le lacrime cancellano le parole, quasi avessero sentimento di pietà e
volessero risparmiare a te il dolore di versarne altre nel leggerle. Io non
poteva ingannarti. Poteva essere ancora fra le tue braccia, ma il mio pensiero,
il mio cuore sarebbero stati lontani da te.
Il destino che ci separa è inesorabile. Se tu mi hai realmente amata, se ho
meritato qualche cosa dal tuo affetto, fa che la tua rassegnazione e la tua
virtú mi abbiano a rendere meno terribile il perderti.
Ho lasciato apposta nella tua stanza la mia crocetta di brillanti. Tienila
per memoria mia. Sarò felice se mi prometterai di portarla sempre sul tuo
cuore. Non ti avrei fatto un altro dono, non avrei osato, ma una croce è
simbolo di sacrificio, di abnegazione, di dolore; mi parve che ella avrebbe
potuto farti ricordare di me, nella sola maniera in cui desidero che tu abbia a
ricordartene. Quel giorno in cui mi lasciasti la prima volta, tu la vedesti
brillare sul mio petto, tu la baciasti; vi si vedono oggi ancora le traccie
delle nostre lacrime: ho pensato che questa memoria sarebbe stata sacra per te.
Addio ancora. Sii forte, Giorgio, sii ragionevole, non maledirmi. Pensa che
soltanto in questo modo io poteva riacquistare la stima di me medesima, non
credermi interamente perduta, e tu sii pago di aver amata una donna non affatto
indegna di te. Un abbandono piú lungo ci avrebbe disgiunti, questo sacrificio
ci riunisce. Se io fossi stata libera, mi sarei uccisa per non sopravvivere al
nostro amore; esso fu immenso, ma immenso e terribile ne fu il distacco; tu
invece conosci i legami che mi impongono di vivere. Ma se io fossi stata libera
ti avrei amato per tutta la vita.
Addio, mio adorato, mia anima, (ti chiamerò ancora una volta con questi nomi
diletti), addio per l’ultima volta, addio per sempre. Mi dicesti un tempo che
assomiglio a tua madre, amami in essa e come essa. Il mio affetto, la mia
memoria ti seguiranno fino alla tomba. Sii felice, Giorgio, sii onesto; e che il
cielo vegli sopra di te".
XLVI
La prima lettura di quel foglio non produsse in me che un senso di
sbigottimento profondo. Poggiai i gomiti sul tavolo, la testa fra le mani, e la
rilessi due o tre volte. Non poteva credere che ciò che aveva letto fosse
realmente vero.
La prima impressione che ci dà una sventura grande e inattesa è temperata
sempre da un sentimento di strana incredulità, la quale ci trae a dubitare
delle cose piú palesi e reali. Se cosí non fosse, quell’impressione avrebbe
spesso il potere di uccidere.
Mi provai a fare colle mani alcune pieghe nel mio abito, a pronunciare forte
il mio nome, perché mi pareva di non essere piú io, o di essere in preda ad
una tremenda allucinazione.
Mi alzai, e sorrisi non so di che cosa. Incominciai a camminare per la camera
a passi accelerati. Senza accorgermene aveva preso in mano la candela; la mia
ombra che si allungava sul pavimento e si piegava alla base della parete
risalendola come vi aderisse, mi seguiva su e giú per la stanza. Mi arrestai a
contemplarla, l’accorciai e la riallungai appressando e allontanando il lume:
mi fermai ad un angolo, e guardai attorno alla camera quasi spaventato, vidi
vicino a me un ragno nero che si arrampicava su pel muro, lo abbruciai colla
fiamma della candela, e lo sentii friggere e scoppiettare con una specie di
voluttà quasi crudele. Passando vicino ad uno specchio, vi scorsi riflessa la
mia persona, e mi arrestai a contemplarmi. Aveva quasi paura di me, mi pareva
che il mio volto non fosse quello, che avrei dovuto averne uno diverso.
Mi provai a sorridere, e a contrarre in mille modi le mie fattezze. Vi fu un
istante in cui mi parve che lo specchio riflettesse il viso di un’altra
persona che era dietro di me e vi si affacciava curvandosi dietro la mia spalla.
Trasalii, e feci atto di rivolgermi; il lume mi scivolò di mano, cadde e si
spense. Quel rumore, quell’oscurità improvvisa mi fecero tornare in me. Lo
riaccesi, mi sedetti, tornai a rileggere la lettera di Clara.
Ora aveva ben compreso; mi premetti le mani sul cuore, e mi abbandonai sulla
mia sedia cogli occhi chiusi, quasi sperando che qualche cosa di terribile, di
fatale sarebbe successo fra poco, che la casa ove mi trovava sarebbe rovinata,
che la terra si sarebbe aperta per inghiottirmi. Non era possibile che ogni cosa
in natura continuasse a procedere collo stesso ordine di prima. Sentiva passare
le carrozze sulla via, sentiva il cicaleccio dei passeggieri, ma tutto ciò non
avrebbe durato piú che un istante. La mia felicità era finita, tutto doveva
essere finito. In quel momento scoccarono le sette al pendolo della camera; ogni
vibrazione mi parve un colpo di coltello che mi trapassasse il cuore, e mi
contorsi e mi raggomitolai gemendo come per difendermi da quei colpi.
In quell’orribile confusione di idee che s’era formata dentro di me, una
ve n’era ben certa, ben chiara, ben definita: io aveva amato un mostro. Egli
era possibile abbandonarmi cosí? Potevano esservi in natura ragioni sufficienti
a dividere due cuori che si erano amati come i nostri? Potevano due creature che
erano state sí care l’una all’altra separarsi e sperare di sopravvivere a
questo abbandono? Avrei io mai creduto che il nostro amore avrebbe potuto
finire? Avrei io avuto il coraggio pur di pensare a ciò che ella aveva
predeciso e compiuto con sí facile risolutezza? No, né io, né nessuno. Tal
cosa non poteva essere immaginata che da un essere mostruosamente ingrato,
mostruosamente crudele. Io aveva amato questo essere. Tutto l'edificio della mia
fede era rovinato, tutto era caduto nel fango.
Mi immersi e mi smarrii in questi pensieri, di cui non comprendeva allora
tutta l'ingiustizia. Mi riscossi sentendomi toccare alla spalla; guardai: era il
dottore.
Egli si scostò un poco da me, perché la sua ombra non m'impedisse di vedere
il colonnello che era entrato con lui, e s'era arrestato in piedi nel mezzo
della camera. Si appoggiò colle mani allo schienale d'una sedia e mi disse:
— Immaginerete certo le ragioni che hanno indotto il colonnello a venire da
voi. Egli sa che vi sono amico, e mi ha permesso di accompagnarlo. Ho insistito
su ciò, perché spero che le vostre giustificazioni saranno sufficienti ad
evitare…
— Ma che diavolo dite! — interruppe vivacemente il colonnello. — Io non
vi ho dato certo questo mandato. — E proseguí avvicinandosi a me, e
piantandomisi diritto dinanzi:
— Signore, voi avete abusato bassamente della mia fiducia, siete venuto
nella mia casa per disonorarla, mi avete reso ridicolo. Capirete che ciò è tal
cosa cui non si può rimediare con delle parole. È necessario che me ne diate
una riparazione d'altro genere. Spero che non dovrò costringervi ad
accordarmela.
— Volete dire?
— Noi ci batteremo.
— Va bene. Quando?
— Domani.
— Ma… — interruppe il dottore — io credo… mi pare che se si
facessero prima alcune parole in proposito, non sarebbe gran male; sarebbe
possibile intendersi, e…
— Via, via, — riprese furiosamente il mio avversario — è inutile che
insistiate a questo riguardo. Voi non conoscete tutte le minime particolarità
di questo fatto, non sapete fino a che punto io fui ingannato. Vi fu un altro
miserabile che ha abusato di quella donna… egli lo sa, ho avuto la debolezza
di raccontarglielo. Finora ha saputo sfuggirmi, ma nutro speranza che un giorno
o l'altro c'incontreremo.
Io non risposi, e continuai a guardare la fiamma del caminetto.
— Spero — continuò egli riavvicinandomisi, dopo aver fatto alcuni giri
per la stanza — che lascerete a me lo stabilire le condizioni di questo
scontro. Voi siete il provocato, ma io sono l'offeso. Voi solo sapete fino a che
punto mi avete offeso. Abborro questi duelli ridicoli che finiscono con una
scalfittura. È necessario che ci battiamo fino a che uno di noi rimanga sul
terreno.
— Sia, — io dissi senza sollevare gli occhi — ho bisogno di uccidere un
uomo.
Il mio avversario e il dottore mi guardavano meravigliati.
— Saprete però — continuò il colonnello — che ciascuno di noi
arrischia ad un tempo la sua posizione. La disparità dei nostri gradi ci vieta
di batterci. Bisognerebbe che io o voi ci dimettessimo.
— Mi dimetterò io — dissi.
— Non vorrei però…
— Non potete impedirmi di dimettermi — replicai con calma.
— Come volete.
Mi curvai sul tavolo, scrissi la domanda della mia dimissione, e gliela
porsi.
— Restano a stabilirsi l'ora e le condizioni del duello — diss'egli —
è troppo tardi perché possiamo affidarne l'incarico ai nostri secondi. Se non
avete nulla ad opporre, ci accorderemo noi stessi a questo riguardo; il dottore
ne sarà testimonio.
Io non risposi.
— Ci troveremo domattina alle otto, dietro gli spalti del castello.
Provvederò io le armi. Non avete osservazioni a fare?
— Nessuna.
— Allora non v'è altro punto a discutere. Conto sulla vostra parola. Ci
rivedremo.
E fece atto di uscire. Quando fu presso la soglia dell'uscio tornò indietro,
e mi disse con voce piú calma:
— Qualunque sieno i nostri rapporti attuali, devo richiedervi d'un favore
che i vostri sentimenti di gentiluomo non mi possono rifiutare. Mia cugina non
ha serbata memoria alcuna di ciò che successe oggi…
— Ah! vostra cugina… — interruppi io. — Ebbene?
— È necessario che essa continui ad ignorarlo, che non sappia nulla di
ciò che sta per succedere. L'esito di un duello è incerto, e …
— Sí, — io dissi alzando il capo e guardandolo in volto per la prima
volta dacché era entrato nella stanza — è assai incerto. Io potrei anche
uccidervi, non è vero?
— Verissimo, — rispose egli un po' turbato — come io potrei uccidere
voi.
E dopo un momento di silenzio mi chiese:
— Mi odiate dunque molto?
— Non so, — io risposi — ma se non fossi certo che fra poco o
ucciderò, o sarò ucciso, mi sarei già buttato sulla via per uccidere qualcun
altro.
— Vi ho fatto una domanda inopportuna — diss'egli con aria mortificata e
sorpresa. — Tali sentimenti non mi riguardano. Le nostre convenzioni sono
stabilite, e basta. A domani.
— A domani.
Ed uscí.
Allorché sentii l'uscio richiudersi dietro di lui, ricaddi sulla mia sedia,
e proruppi in un pianto dirotto.
Il dottore, che era rimasto nella stanza senza che me ne fossi avveduto, mi
si avvicinò e mi disse:
— Calmatevi. Siete stranamente agitato. È a deplorarsi che quella donna vi
abbia condotta a tale estremo, ma chi l'avrebbe preveduto? Questo duello avrebbe
potuto essere evitato; il vostro contegno fu calmo, ma provocante. Ora non giova
pensarci. Voi l'avete detto, l'esito d'uno scontro è incerto, è follia il
preoccuparsene. Io sono afflitto di aver cagionato inconsciamente queste
sventure, ma voi sapete che l'ho fatto a fine di bene. Non me ne porterete
rancore?
— Se io credessi esservi atto meritevole di gratitudine — io dissi — ve
ne sarei anzi grato. Ma non parliamo di ciò. Io debbo in questa notte veder
Fosca, io l'amo, io voglio renderla felice un istante prima di abbandonarla.
Qualunque sia per essere l'esito di quel duello, io non la vedrò mai piú.
Bisogna che voi la preveniate della mia visita, che ordiniate di lasciarla sola,
che mi lasciate passare dalla vostra camera.
— Ma è impossibile! — esclamò egli. — Voi sapete…
— No, no — interruppi io con impeto. — Voi non vi opporrete, perché io
sono risoluto a vederla in qualunque modo, a qualunque costo. Nemmeno l'idea di
una violenza potrebbe arrestarmi. Quella donna mi ha amato, ella sola mi ha
amato veracemente. Non l'abbandonerò senza gettarmi a' suoi piedi, e senza
ringraziarla colle mie lacrime.
— La responsabilità di questa imprudenza — disse il dottore — ricadrà
tutta sopra di voi.
— Io posso sopportarne delle piú terribili…
— Non vi riconosco piú. Sia come volete. Vi attenderò nella mia stanza.
Ora corro a prevenirla.
XLVII
Io torno a rivolgermi adesso una domanda che la mia coscienza atterrita mi
ripete assiduamente da cinque anni. Sono io responsabile di ciò che commisi in
quella notte? Aveva io la consapevolezza delle mie azioni? Non so; ricordarmi di
quegli avvenimenti con piena esattezza di dettagli è per fermo tal cosa che
sembra accusarmi; ma non ci ricordiamo noi anche dei sogni? Prima di quel
giorno, dopo, oggi stesso in cui mi riconosco sí mutato, mi sarei lasciato
vincere a tal punto dalle mie passioni? Ed esistono passioni sí indomabili nel
mio carattere? — È uno spaventoso problema che non giungerò forse mai a
decifrare. La incertezza della mia responsabilità è il segreto delle mie
torture; per essa io sarò infelice tutta la vita. Che se pure io potessi
allontanare da me questa responsabilità orrenda, cesserei per questo di essere
la causa di quelle sciagure? La mano che colpisce nel delirio, che uccide
nell'impeto della passione, è perciò meno la mano ha colpito, che ha ucciso?
Io ho perduto anche il conforto disperato che mi veniva da quel dubbio; io sento
la mia coscienza fremere e ripiegarsi sotto il peso di questo convincimento
terribile.
XLVIII
Suonava la mezzanotte quando io entrai nella camera di Fosca.
Ella era inginocchiata a piedi del letto, colla testa appoggiata ad una
seggiola, in attitudine di preghiera. Non mi udí e non si volse; io mi tenni
ritto sulla soglia, immobile, combattuto da mille dubbi, da mille paure, col
cuore soffocato dall'angoscia. Girai l'occhio intorno a me, e contemplai con un
senso di raccapriccio tutti quegli oggetti che mi ricordavano tanta parte del
mio cuore. Colà io aveva vegliato un'intera notte al suo fianco, su quella
sedia aveva evocato le dolci memorie di Clara, al fioco barlume di quella
lampada aveva accarezzato le lusinghiere promesse d'un avvenire ampio e sereno.
Ed ora!…
Mossi un passo verso Fosca. Ella rivolse il capo con un moto sí risoluto che
i capelli, appena trattenuti da una reticella, si sprigionarono e caddero sulle
spalle e sul collo. Mi vide, diè un grido, balzò in piedi, e mi corse incontro
con le braccia protese, e mi avvinghiò al suo seno palpitante. Il mio cuore
fremeva come all'aspetto d'una immensa sciagura.
Quell'amplesso fu lungo e penoso. L'emozione ci aveva reso mutoli entrambi.
La pallida luce che illuminava la stanza, il crepito lieve del lucignolo, il
battito affrettato dei nostri petti, e la calma che vegliava al di fuori, davano
a quel momento una solennità che cresceva il mio affanno.
Feci un moto come per ritrarmi da lei; ella se ne avvide, ne indovinò il
senso e gettandomi le braccia al collo, piegò il mio capo verso il suo, si
sollevò sulla punta dei piedi, accostò le sue labbra arse dalla febbre alle
mie labbra, e mi coprí di baci brevi, replicati, frenetici. Tutta la sua natura
combatteva una terribile lotta di desiderio e d'amore; il suo corpo fragile e
consumato dal dolore aveva un'energia che m'impauriva.
La trassi con dolce violenza presso un divano, e la feci sedere; io me le
posi d'accanto. Mi afferrò le mani, me le strinse con forza, le accostò al suo
seno, poi alla bocca fremente. Il suo corpo tremava tutto.
— Hai freddo? — le domandai commosso?
— Ho paura — mi rispose.
La guardai in volto meravigliato.
— Di che?
— Di morire, di non poter reggere l'urto di quest'onda di felicità che mi
opprime. Ho pregato il cielo che mi desse la forza che mi manca; poche ore,
poche ore sole, e poi la morte; che importa a me di morire quando io abbia
vissuto questa notte nelle tua braccia? Il cielo è generoso, non è vero? Ha
pietà di coloro che amano?
Non risposi. Fosca proseguí senza badare.
— Domani tu dovrai partire, domani io morrò. Ma non è che mezzanotte.
Abbiamo sei ore innanzi a noi, sei ore per noi, per noi soli, pel nostro amore;
poiché tu mi ami, non è vero? tu me l'hai detto.
Mi guardò colle pupille scintillanti di passione. Il suo volto pareva
illuminato da un entusiasmo gagliardo che ne rendeva meno sgradevole la
deformità; le guancie leggermente rosate, i capelli nerissimi e abbondanti che
contornavano il suo volto come in una cornice d'ebano, il vivo contrappunto
della sua veste di mussola bianca l'assomigliavano ad una visione fantastica; in
quel momento nissuno avrebbe detto che Fosca era assolutamente brutta. Io pensai
a Clara, alle menzogne che le avevano guadagnato il mio cuore, all'inganno
bassamente concepito e stoltamente svelato… Oh! sí, Fosca soltanto aveva
meritato il mio amore, ella sola mi aveva amato, ella che aveva sfidato il
ridicolo, il disprezzo, la collera; ella che aveva rinunziato al suo orgoglio di
donna, domandando per pietà ciò che le altre dànno per debolezza, per vanità
o per vizio.
— T'amo — le risposi.
— Ripetilo.
— T'amo.
— Ripetilo ancora.
— T'amo.
— Oh! mio Giorgio, mio Giorgio!
Cadde a' miei piedi, mi strinse le ginocchia, e vi nascose la fronte. Quando
la risollevò, vidi la sua faccia bagnata di pianto.
— Tu soffri? — le chiesi con dolcezza.
— No.
— Tu piangi?
— Sono lagrime dolci.
Tacque, si curvò sopra di me e coprendosi il volto colle mani continuò a
singhiozzare in silenzio. La sollevai da terra, allontanai le sue mani, e la
baciai sulla bocca. Trasalí, levò gli occhi verso di me, volle parlare, ma
gliene venne meno la forza, e si abbandonò nelle mie braccia mormorando il mio
nome.
— Fosca! Fosca!
Non mi rispose. Trasognato, istupidito, senza mente e senz'anima, io sentiva
il suo petto asciutto premere sul mio, la sua faccia appoggiata alla mia faccia,
cosí presso da udire le pulsazioni affrettate delle sue tempia.
— Fosca! Fosca! sii forte, sii calma; io sono tuo, sono tuo, di
nissun'altri che tuo.
— Di nissun'altri? Ripetilo. Non è un sogno? Oh! sí, sarò forte, sarò
calma; il tempo è geloso della mia felicità, vedi le freccie di quel pendolo
come corrono veloci! Oh! mio Giorgio, mio Giorgio! tu sei mio!
V'era un accento di cosí selvaggia voluttà nelle sue parole, che il mio
cuore si contorse nel seno come un serpente. Quella ripugnanza invincibile che
la natura aveva posto fra di noi risorse impetuosa come una corrente per
separarci.
Un moto, un gesto, una mal frenata contrazione dei miei muscoli le rivelarono
forse la mia intenzione, poiché in quel punto sentii i nervi delle sue esili
braccia stirarsi come corde e stringermi in un amplesso soffocante. Gridai… si
ritrasse, mi abbandonò impaurita, s'inginocchiò domandandomi perdono.
Abbassai lo sguardo verso di lei; quel volto sfigurato dalle lacrime e dal
sentimento eccessivo del piacere, i suoi grandi occhi sporgenti dall'orbita, il
tremito del suo corpo, mi rivelarono brutalmente tutto l'orrore della mia
posizione. Non era la mia anima, non era la mia volontà; era il sangue, erano
le fibre, i muscoli, i nervi che si ribellavano a quell'amplesso.
L'immaginazione raddoppiò il mio ribrezzo: ricercai sotto quella veste, sotto
quei nastri il suo corpo… Ed avrei io?… Mio Dio! Mio Dio!
Oh! Clara, Clara, perché hai tu ucciso il mio cuore? perché non posso
riconfortarmi del tuo pensiero, della tua memoria? perché mi hai lasciato solo
colle mie paure, coi miei vaneggiamenti? perché hai tu posto la maledizione
sulle mie labbra che non conoscevano che l'amore?
All'improvviso Fosca tacque, si sollevò, mi guardò in volto e sorrise.
— Sono pazza! — mi disse — sono pazza! Il mio cuore trabocca di
piacere, ed io piango come una sventurata.
Andò con passo fermo verso la lampada, la prese e la collocò dinanzi ad uno
specchio. Si guardò, gettò indietro con un moto energico della testa il lusso
dei suoi capelli nerissimi, e ritornò a me col volto rasserenato.
— Sono brutta; — mi disse con calma — le lagrime sono un falso
ornamento.
— Non è vero — le risposi tanto per liberarmi dal peso del mio silenzio.
Tentennò il capo.
— A quindici anni le lagrime, a trenta i sorrisi.
Poi con una specie di civetteria che contrastava stranamente colla sua
natura, si accostò alla toletta, si lavò la faccia, arruffò bizzarramente i
capelli, e ritornò a me lieta, voluttuosa, tutta profumi, sorrisi e desideri.
— T'amo — mi disse, e si sedette sulle mie ginocchia, incrociando le mani
sul mio capo.
Pareva cosí felice, cosí riconoscente, cosí carezzevole, che se anche il
proposito non avesse prevenuto il mio cuore, egli si sarebbe arreso per un senso
irresistibile di pietà. Quella donna mi amava!
— Tu parti? — mi domandò qualche istante dopo con accento di melanconia.
— Domani stesso.
— Domani!
E parve raccogliersi a meditare. All'improvviso si riscosse.
— Vuoi che io venga teco?
E siccome io non risposi subito, pose una mano sulla mia bocca e mi disse:
— Non schermirti; io so bene che noi non possiamo amarci come gli altri
uomini. Un giorno, un'ora, un istante, e poi…
— E poi?
— Si muore.
Ella disse queste parole con tanta sicurezza, che mio malgrado sentii un
brivido corrermi per le vene.
— Qual è la donna che tu hai amato sopra tutte?
La guardai meravigliato.
— Mia madre.
— Non è questo.
— Non domandarmi altro.
— Voglio saperlo; è un capriccio; ho i miei capricci anch'io; tutte le
donne innamorate ne hanno; tutti gli innamorati li soddisfano. Oggi tu sei il
mio innamorato.
— Domandami qual è quella che io amo.
— E sia. Qual è la donna che tu ami sopra tutte?
— Sei tu.
Non si aspettava questa risposta; tremò, si fe' rossa in volto dal piacere,
e nascose il capo nel mio seno.
— Quand'è cosí, — prese a dire poco dopo — dammene una prova.
La baciai sulla bocca.
— Non basta.
La baciai ancora.
— Non basta.
— Farò ciò che vorrai. Comandami.
— Non voglio comandarti.
— Desidera.
— Nemmeno.
— Che ho da fare?
— Indovina. Ciò che faresti con una donna che amassi, ciò che hai fatto
con le donne che hai amato, ciò che hai fatto con Clara.
— Clara! Tu dici?…
Mio Dio! Mio Dio! Perché risuscitava ella questo terribile pensiero in quel
momento?… La strinsi al petto con forza, con una forza rabbiosa che aveva
apparenza di passione. Ella si abbandonò palpitante, senza dir parola. La mia
stretta fu lunga; il suo fragile corpo fremeva fra le mie braccia.
— Giorgio, mio Giorgio!
— Sei paga?
— Non ancora.
— Non credi dunque al mio amore?
— Ci credo, ci credo; spirerei ai tuoi piedi se non ci credessi. Mordimi la
guancia.
— Perché?
— Mordimi la guancia; tu l'hai fatto con Clara, non lo negare; gettati ai
miei piedi, appoggia il tuo capo sulle mie ginocchia.
Mi arresi come un fanciullo. Tutte le forze della mia volontà erano domate
dall'aspetto di quell'energia.
M'inginocchiai a' suoi piedi. Ella batté palma a palma le mani con uno
slancio di gioia puerilmente selvaggia.
— Cosí, cosí… lo vedete, è proprio lui, il mio amore, il mio bello;
lui cosí forte, cosí grande! Egli domanda la mia pietà, lo vedete, lo vedete!
Passò le mani affilate fra i miei capelli, li attortigliò fra le dita come
avrebbe fatto con un bambino, mi lisciò la fronte, mi prodigò cento carezze,
mi chiamò con cento nomi teneri. Io taceva e tremava.
— Credi nella virtú della donna? — mi domandò improvvisamente.
Perché quella domanda? E quale sarebbe stato l'effetto della mia risposta?
Voleva ella darmene una prova? O piuttosto prevenire il mio disprezzo?
Assicurare l'impunità della sua colpa?
— Ci credo — le risposi con un esaltamento che nascondeva assai male la
mia convinzione.
— Non ti pare che vi possano essere delle circostanze che scusino e
legittimino il fallo?
Non risposi. La sua intenzione era palese. Ripugnava alla mia dignità d'uomo
contrastarle e schermirmi con un sotterfugio da una promessa che il dispetto e
l'affanno avevano strappato al mio cuore. Ripugnava alla mia debole natura
incoraggiarla con bugiarde lusinghe.
Ella mi comprese e tacque.
— Parlami di Clara — mi disse poco dopo.
E siccome io non rispondevo, aggiunse con accento carezzevole:
— Non temere, mio bello, non temere; non ne sono gelosa. Tu non sei piú
Giorgio per me, sei l'amore, sei il mio sole. Il sole illumina e riscalda; le
creature ne fruiscono senza lamentarsi, ne fruiscono benedicendo; tu sei il mio
amore, tu sei il mio sole… Tu l'ami, non è vero?
— L'ho amata.
— Non l'ami piú? Sarebbe vero? Oh! grazie, grazie. Non è vero, sai; io ho
mentito, non è vero che io non sia gelosa; oggi sono forte, ecco tutto. Vorrei
essere l'aria che tu respiri per confondere la mia vita colla tua, distruggere
la mia natura per far parte della tua natura. Dimmi ancora che non ami piú
quella donna.
Glielo dissi.
— Giuralo.
Giurai.
Si abbandonò fremente di piacere sopra di me, mormorando parole di desiderio
e di preghiera.
Il mio cuore era straziato dall'angoscia.
Quella creatura selvaggia, resa terribile dalla deformità e dalla malattia,
domandava da me l'ultima prova. Lottai contro me stesso, contro la mia natura
codarda che si ribellava ad un sagrifizio che io stesso avevo provocato.
Se fosse stata Clara! Che dico? Se fosse stata la piú vile donnicciuola, io
sarei caduto ai suoi piedi supplichevole, avrei dimenticato il mio cuore, la mia
mente, la mia anima nell'ebbrezza dei sensi. Codardo! Codardo!
Nell'impeto generoso che succedette a questo pensiero l'afferrai convulso, la
sollevai sulle braccia, la portai in giro per la camera smaniando. Cosí altre
volte, con altro fremito, con altro spasimo, io aveva portato il corpo adorato
di Clara! Erano le stesse grida, le stesse parole rotte, lo stesso fruscio di
vesti, lo stesso ondeggiare di capelli disciolti, lo stesso profumo inebbriante…
Ansante, pallida piú del consueto, ella mi scivolò dalle braccia, e si
accosciò sul nudo terreno. Me le assisi al fianco.
— Ho freddo, — mi disse.
— Ti riscalderò sul mio seno.
— Come sei bello! come ti amo!
Si levò d'un balzo, corse ad uno stipo, prese un paio di forbici: poi venne
a me, e me le diede; trasse innanzi i suoi capelli, li raccolse in un fascio
colle mani, e mi disse sorridendo:
— Recidili, mio bello, mio amore, recidili; sono tuoi.
E siccome io mi ritrassi, afferrò le forbici e fece atto di reciderli ella
stessa. Una parte dei suoi capelli le era sfuggita, tentò di riafferrarli e fu
vano; io ebbi tempo di trattenerla.
— Hai ragione, — mi disse ella — hai ragione; piú tardi.
Piú tardi! che voleva ella dire? Perché? E poteva io ingannarmi sul
significato di quelle parole? Si sarebbe ella privata della sua sola bellezza in
quel momento? Piú tardi! piú tardi! Mio Dio!
In quella si udí lo scatto d'una molla, poi quattro squilli sonori del
pendolo.
Quattro ore! Erano passate quattro ore! Levai gli occhi in volto a Fosca e vi
lessi lo stesso pensiero. Feci un moto come per ritrarmi; essa mi afferrò, mi
strinse, e con un accento intraducibile d'affanno mormorò alle mie orecchie
queste terribili parole: — Sii mio! Sii mio!
Una nebbia mi oscurò l'intelletto, e non ebbi forza di resistere. Ciò che
avvenne dopo è cosí spaventoso che la mia mente ne rifugge inorridita. Due
lunghe ore di spasimi, di grida, di ritrosie ispirate dal ribrezzo, hanno
spezzato la mia natura, hanno sfasciato l'edifizio delle mie memorie e inaridito
l'ultima sorgente delle mie speranze…
XLIX
Mi trovai nel luogo convenuto presso il castello senza quasi avvedermi
d'esservi andato. Non aveva dormito, e mi pareva di non essere ben desto. Il
dottore era venuto co' miei secondi, m'aveva cacciato in una carrozza, ed era
stato in ciò sí pronto e sí puntuale, che eravamo giunti nello stesso istante
che il mio avversario.
Era una mattina fredda, oscura, nebbiosa; gli alberi erano carichi di
ghiacciuoli che la brezza faceva cadere dai rami; le campane dei paeselli vicini
continuavano a suonare a festa; gruppi di contadini andavano alla città o ne
tornavano coi loro canestri; le campagne erano coperte di neve e deserte.
Scendemmo nel fossato per una frana che le pioggie avevano prodotto nel
terrapieno. Colà non v'era a temere di esser visti. Quel castello, cui tante
volte aveva dovuto recarmi con Fosca e che non aveva veduto mai, non era abitato
che da pochi coloni; le sue torri screpolate coperte di ficaie selvagge e di
ellere pareano minacciarci di crollare sopra di noi.
I nostri secondi convennero che ci fossimo battuti alla sciabola, come arma
meno pericolosa. Ciò era per me indifferente. Non perché non odiassi
quell'uomo, ma perché in quell'istante non aveva coscienza né dell'altrui
pericolo, né del mio; quella specie di esaltazione, di sonnambulismo che aveva
provato in me fino dalla sera precedente era ancora piú piena e piú profonda.
Non vedevo con chiarezza, non aveva che una percezione imperfettissima delle
cose che accadevano intorno a me. Sentiva il mio sangue fluttuare dal cuore alla
testa con impeto spaventevole; provava una sensazione penosa alle vene delle
tempie ed ai polsi, le mie orecchie erano assordate da un tintinnio incessante;
provava in tutto il mio corpo quell'impressione che dà non un dolore, ma
l'aspettazione di un dolore; mi pareva che fra pochi istanti tutta la mia
macchina avrebbe dovuto scomporsi, rovinare; mi sembrava di essere in attesa di
qualche cosa di strano, di terribile, come di essere fulminato.
Ci levammo le tuniche e rimboccammo le maniche della camicia. Scorreva lí
presso un rigagnolo; il dottore vi bagnò un fazzoletto, lo torse, e mi legò il
polso. Ci diedero le sciabole, ci collocarono di fronte l'uno all'altro,
misurarono le distanze. Io aveva sul mio avversario il vantaggio della statura,
egli quello dell'agilità. Era un uomo piccolo, secco, nervoso; e i suoi occhi
inquieti e vivaci che non cessavano di affissarmi, indicavano in lui un'energia
e una risolutezza che io era ben lungi dall'avere.
Fu dato il segnale. Il colonnello tentò subito e con agilità impareggiabile
un colpo decisivo, un colpo a bandoliera che io non evitai che in parte
ritirandomi. Egli mi squarciò la camicia dalla spalla destra fino al fianco
sinistro, e mi segnò una lunga scalfittura sul petto. Un orlo di sangue
comparve subitamente lungo tutto lo sparato. Però nel ritirarsi si scoperse, e
dal canto mio lo colpii al braccio, ma la rimboccatura della manica rese il mio
colpo inoffensivo.
Ci ordinarono desistere, esaminarono la mia ferita, ricominciammo.
Scambiammo parecchi colpi senza alcun frutto. Io era assai piú abile del mio
avversario, e se avessi nutrito odio per lui o avessi avuto maggior coscienza
del pericolo cui m'esponevo, non avrei trovato difficoltà ad uscirne con
vantaggio. Dopo pochi minuti, il colonnello era ansante, sfinito. Ci riposammo.
Facemmo un terzo assalto. Io era piú che stanco, annoiato; mi limitava alla
difesa, e mi difendeva debolmente. Il colonnello aveva riacquistata nuova
energia, il dispetto lo aveva, per cosí dire, ringiovanito, accompagnava ogni
colpo con un grido secco e breve come è costume dei duellanti, e tentava
ferirmi al petto di punta. Ripeté due o tre volte questo tentativo. La sua
ostinazione mi scosse istintivamente dalla mia apatia. V'era nulla di piú
facile che colpirlo in quel momento con un fendente di testa, né so come non se
ne avvedesse. Colsi l'istante, egli mi si avventò rovesciando indietro il capo,
io fui sollecito a ritrarmi senza parare, e a riavventarmi subito, prima che
avesse avuto tempo di rimettersi in guardia. Lasciai scendere la sciabola
leggermente, egli vide il pericolo, deviò a destra, e lo colpii alla spalla.
Gettò la sua arma con dispetto, rampognando i suoi secondi di aver
acconsentito alla scelta della sciabola, e dicendo che il freddo gli irrigidiva
le mani, e rendeva impossibile il servirsene liberamente. La sua ferita era
benché profonda, non grave.
Insistette perché ci battessimo alla pistola. Nessun consiglio poté
distoglierlo da questo proposito.
Levammo a sorte cui toccasse sparare per primo: la fortuna favorí il mio
avversario.
Fummo collocati a trenta passi di distanza. Le pareti parallele del fosso che
era angustissimo davano all'occhio una direzione sí giusta e sí facile, che io
mi tenni perduto. Avvicinai la mia arma al petto per coprirne il cuore, e mi
collocai un poco di fianco per offrir minor bersaglio possibile. Fu dato il
segnale, il colonnello sparò, la palla passò fischiando senza colpirmi.
Egli riprese la sua posizione, io distesi il braccio, sparai alla mia volta
senza mirare; egli vacillò un istante, lasciò scivolare la pistola di mano, e
cadde rovesciato. Io non so cosa avvenisse di me in quell'istante. Il mio
respiro si arrestò, le mie vene parvero scoppiare, il mio cuore schiantarsi;
una tenebra mi passò davanti agli occhi, i miei muscoli si contrassero con uno
spasimo atroce, brancicai un momento come per afferrarmi a qualche cosa,
proruppi in un urlo acuto, disperato, straziante, quale non aveva inteso mai
uscire da petto umano, se non forse da quello di Fosca, e caddi fra le braccia
del dottore che era accorso in mio aiuto.
Quella infermità terribile per cui aveva provato tanto orrore mi aveva
colpito in quell'istante; la malattia di Fosca si era trasfusa in me: io aveva
conseguito in quel momento la triste eredità del mio fallo e del mio amore.
L
Dopo quel giorno tutto è oscurità nelle mie memorie; io non appresi che
piú tardi gli ultimi dettagli di questa tragedia domestica. La morte di Fosca,
l'arrivo di mia madre, il ritorno al mio paese natale sono tutti avvenimenti di
cui non ho serbato altra ricordanza che quella oscura e confusa di un sogno. Mi
sembra talora che tali fatti sieno avvenuti in un'epoca assai remota della mia
vita, tale che non può neppure essere circoscritta entro il limite degli anni
che ho già vissuto; e sarei tentato di negare fede all'esistenza di questo
passato angoscioso, se le traccie che esso ha lasciato nel mio cuore non fossero
troppo palesi e troppo profonde.
Soltanto quattro mesi dopo la catastrofe che ho raccontato, una lettera del
dottore mi recava le ultime notizie di quei fatti.
"Non vi ho scritto prima perché sapeva che la vostra malattia vi
avrebbe impedito di rispondermi, e forse anche di apprendere il contenuto della
mia lettera. Sento che vi siete pressoché ristabilito, e che i vostri accessi
nervosi sono anche piú miti, e piú rari. Il vostro medico vi avrà certo
assicurato che ne guarirete, io ne impegno la mia parola; questi accessi non
hanno alcun carattere epilettico, la vostra debolezza li alimenta, la forza che
riacquisterete guarendo li farà cessare. Viaggiate, divagatevi.
Ignoro se lo stato d'animo in cui vi trovavate allora v'abbia permesso di
serbar memoria di ciò che avvenne prima della vostra partenza. Fosca morí tre
giorni dopo quella notte fatale; morí felice, illusa, soddisfatta; ignara di
ciò che avvenne tra voi e suo cugino, convinta che l'ordine della vostra
traslocazione aveva reso la vostra partenza inevitabile.
In una scatola che vi spedisco colla ferrovia troverete un involto di seta
nera contenente i suoi capelli. Io ve li avrei mandati prima se, sapendovi
ancora malato, non avessi temuto di commuovervi fatalmente con questo dono.
Saprete certo che ve li mando per incarico suo.
La ferita del colonnello fu grave, non mortale; il proiettile lo colpí pure
alla spalla, ma girò l'osso senza fratturarlo. Guarí in quaranta giorni. Il
Ministero seppe del duello, e poiché le vostre dimissioni non erano state
ancora né offerte, né accettate, lo costrinse a chiedere il suo collocamento
in ritiro. Egli è partito pochi giorni or sono per Suez ove gli fu offerto un
impiego d'ingegnere civile nei lavori del taglio dell'istmo. Io gli avrei
parlato volontieri di voi, e avrei voluto convincerlo della vostra innocenza; ma
queste sue ultime sciagure lo avevano reso sí sospettoso e sí ingiusto, che
avrei temuto di nuocere alla vostra causa anziché di favorirla. D'altronde è
assai probabile che non abbiate piú a rivederlo.
Ho fede che la vostra coscienza non mi avrà scagliata mai alcuna parola di
rimprovero per l'influenza fatale che ebbi in queste vostre sventure; nondimeno
ho bisogno che me ne assicuriate; voi sapete se io ho pensato alla vostra
felicità, e se mi stette a cuore il procurarvela.
Non so se ci vedremo ancora, né quando (ci hanno sbalzati all'altro capo
dell'Italia), ma se ciò avverrà spero che vi vedrò mutato. La vita, la
gioventú, il cuore hanno i loro diritti; voi li avevate anche troppo
sacrificati. Distaccatevi dal passato, gettatevi in questo grande avvenire che
vi attende. La coscienza è codarda, essa si atterrisce spesso di mali che non
commise, o che non potea non commettere. Una cieca fatalità muove e dirige le
azioni di tutti gli uomini; non date loro maggiore responsabilità di quella che
vi assegnano i limiti ristrettissimi del vostro arbitrio.
Addio, mio buon amico, possiate essere felice, e non farvi rimprovero d'una
sciagura di cui non siete stato che uno strumento.
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