Iginio Ugo Tarchetti e la  Scapigliatura

                     sito letterario di Francesca Santucci

 

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Fosca

di Iginio Ugo Tarchetti

 

Commetto io un’indiscrezione nel pubblicare queste memorie? Credo di no; né una titubanza piú lunga, giustificherebbe ad ogni modo la mia colpa. Colui che le ha scritte è ora troppo indifferente alle cose del mondo, troppo sicuro di sé, perché abbia a godere dell’elogio o a soffrire del biasimo che può derivargliene. Egli sa per quale strana combinazione questo manoscritto è venuto in mio potere, né ignora il disegno che io aveva concepito di publicarlo. Gli basterà che io vi abbia tolte quelle indicazioni che potevano compromettere la fama di persone ancora viventi, e che il segreto della sua vita attuale sia stato rispettato.
Se l’autore di queste pagine può ancora trovare nella solitudine e nell’egoismo in cui si è rifuggito, qualche parte di ciò che egli fu un tempo, non gli farà forse discaro che altri abbiano a versare, nel leggere queste memorie, quelle lacrime che egli ha certo versato nello scriverle.

 

Milano, 21 gennaio 1869

 

I

Mi sono accinto piú volte a scrivere queste mie memorie, e uno strano sentimento misto di terrore e di angoscia mi ha distolto sempre dal farlo. Una profonda sfiducia si è impadronita di me. Temo immiserire il valore e l’aspetto delle mie passioni, tentando di manifestarle; temo obbliarle tacendole. Perché ella è cosa quasi agevole il dire ciò che hanno sentito gli altri — l’eco delle altrui sensazioni si ripercuote nel nostro cuore senza turbarlo — ma dire ciò che abbiamo sentito noi, i nostri affetti, le nostre febbri, i nostri dolori, è compito troppo superiore alla potenza della parola. Noi sentiamo di non poter essere nel vero.

Ho pensato spesso con gioia alla rovina che il tempo va facendo alle mie memorie; piú spesso vi ho pensato con dolore. Dimenticare! È uccidersi, è rinunciare a quell’unico bene che possediamo realmente e impreteribilmente, al passato. Ché se si potessero dimenticare soltanto le gioie, forse l’oblio potrebbe essere giustamente desiderato; ma dei nostri dolori noi siamo superbi e gelosi, noi li amiamo, noi li vogliamo ricordare. Sono essi che compongono la corona della vita.

Il passato è la misura del tempo che abbiamo percorso, la misura di quello che ci rimane a percorrere. Perciò noi lo teniamo caro, perché ci fa fede dell’accorciarsi progressivo dell’esistenza. Un’avidità febbrile di morire affatica inconsciamente gli uomini. Chi vorrebbe tornare indietro un’ora, un minuto, un istante nella sua vita? Nessuno; e pure si ama, e si rimpiange questo passato che si ha orrore di rinnovare.

Scrivere ciò che abbiamo sofferto e goduto, è dare alle nostre memorie la durata della nostra esistenza. Scrivere per noi per rileggere, per ricordare in segreto, per piangere in segreto. Ecco perché scrivo.

Vi fu un tempo in cui avrei voluto fare un libro delle cose che sto per raccontare: un’inclinazione che i casi della mia vita avevano combattuto per tanti anni, ma né dominata né vinta, mi aveva trabalzato già tardi, già vecchio d’ingegno e di cuore, nel mondo della publicità e delle lettere. Io non vi aveva potuto portare che le memorie di una gioventú ricca di molte passioni, di una vita lungamente e orribilmente angosciata. Ove l’arte avesse trovato in me valore pari alla grandezza del soggetto, il racconto che mi accingeva a scrivere mi avrebbe forse procurato un successo clamoroso. Nondimeno me ne astenni. Gettare nel fango della publicità il segreto de’ miei dolori, sacrificarlo alle vuote soddisfazioni della fama sarebbe stata debolezza indegna del mio passato. Io scrivo ora per me medesimo. Non avrei mai osato violare la sola religione che è sopravvissuta alla rovina della mia fede, la religione delle mie memorie.

Su questo vecchio quaderno su cui ho tentato già tante volte d’incominciare il mio racconto, vi sono molte cancellature che non posso piú decifrare. Temo che il tempo abbia pure cancellate dalla mia anima non poche delle sue rimembranze.

Questi fogli su cui la mia anima si è arrestata tante volte, trattenuta da un terrore che non poteva vincere, mi accompagnano già da cinque anni nelle mie faticose peregrinazioni. Sulla maggior parte di essi vi è scritto nulla; pure sembra che il mio pensiero vi abbia tracciato delle cifre misteriose e solenni, tanto vi ho meditato sopra, guardandoli. E li svolgo nell’ansietà di leggerli, e osservo con melanconia i piccoli acari della carta che fuggono lungo le loro pieghe ingiallite.

Sí, sono oramai cinque anni! Le cause del mio terrore non hanno cessato di esistere, perché il mio cuore non è di quelli che dimenticano, ma, comunque sia, questo terrore è dissipato. Mi sento ora il coraggio di ricordare e di scrivere. Ora che tutto deve essere finito!

Mi guardo spesso d’intorno come fossi rimasto solo nel mondo, come se le illusioni che mi avevano accompagnato sin qui fossero state cose vive e sensibili, come dovessi rivederle al mio fianco. Era venuto innanzi solo nella vita, e non mi era accorto mai di esser solo. Ma ora! Ho provato la solitudine della società, e l’ho spesso cercata con ardore, l’ho cercata anzi sempre; quella è nulla. È la solitudine delle passioni che è orribile!

Non so se gli altri uomini abbiano seguito un passaggio cosí rapido e cosí violento come il mio, dal periodo della fede a quello della disperanza; se sieno passati ad un tratto dalla vita operosa della gioventú, alla vita inerte e sconsolata della vecchiezza. Credo nondimeno che molti vi sieno entrati con calma, quelli che amarono serenamente e con calma.

Io era nato con passioni eccezionali. Io non avrei mai saputo né amare né odiare a metà; non avrei potuto abbassare i miei affetti fino al livello di quelli degli altri uomini. La natura mi aveva reso ribelle alle misure comuni e alle leggi comuni. Era dunque giusto che anche le mie passioni avessero cause, modi, svolgimenti, fini eccezionali.

Ho avuto due grandi amori, due amori diversamente sentiti, ma ugualmente fatali e formidabili. È con essi che si è estinta la mia gioventú; è per essi.

Scrivendo queste pagine, io non ho altro scopo che di interrogare le mie memorie ancora una volta per non doverle interrogare mai piú. Io innalzo questo monumento sulle ceneri del mio passato, come si compone una lapide sul sepolcro di un essere adorato e perduto.

Ho presa una grande risoluzione.

Prima di ritirarmi dal mondo, prima di isolarmi in mezzo alla folla — isolamento assai piú penoso che nelle vaste solitudini della natura — ho voluto ricordare ancora una volta, ricordare con pienezza e con fede. Io sono ora in pace con me stesso. Le agitazioni profonde della mia anima, le irrequietezze febbrili della mia mente sono cessate. Io ne comprendo ora le cause. Molti uomini non si trovano bene colla vita perché non hanno ancora scoperto il loro punto d’equilibrio.

Il difficile è trovare il centro della propria anima!

Non scriverò che di un solo di questi amori. Non parlerò dell’altro che pel contrasto spaventoso che ha formato col primo. Quello non è stato che un amore felice. Raccontarlo, sarebbe lo stesso che ripetere la storia di tutti gli affetti, e non v’è creatura che abbia amato sí poco da non conoscerla. O si abbandona, o si è abbandonati — spesso desiderosi, spesso contenti dell’abbandono. Tal cosa è il cuore umano.

Piú che l’analisi di un affetto, piú che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. — Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito. Non so se vi siano al mondo altri uomini che abbiano superato una prova come quella, e nelle circostanze in cui io l’ho superata; non so se vi sarebbero sopravvissuti.

Esprimo questo dubbio, perché mi avvenne spesso di chiedere a me medesimo: "come, in che guisa vi sono io sopravvissuto?"

Sento nondimeno che qualche cosa si è guastato nella mia testa: io non ho piú cognizione di tempo, non ho piú ordine nelle mie idee, non ho piú lucidità nelle mie memorie. Questi cinque anni sono passati come un istante e come un’eternità, inosservati, oscuri, senza suddivisioni di giorni e di epoche. Quelle feste, quegli anniversari che formavano le gioie piú pure della mia vita quand’era fanciullo, sono essi ritornati ogni anno? E come non li ho avvertiti? Cosa ho fatto in questo lungo spazio di tempo? Perché non ho piú amato?…

Non so piú pensare, non so piú fermarmi lungamente sopra un’idea, non vedo piú le linee che separano il vero dal paradossale. Tutto mi sembra ora logico, naturale, possibile. Tutti i miei pensieri si urtano, si confondono, si perdono in un vortice che turbina incessantemente nella mia testa. È là che tutto va a finire. Sento che la coscienza di me si è confusa. Quando avrò scritto la storia di questo amore, dovrei scrivere ancora quella dei cinque anni che vi sono succeduti; sarebbe una storia terribile. Dovrei scriverne un’altra piú terribile ancora; sarebbe la storia delle mie visioni, il racconto dei sogni che hanno popolato le mie notti durante quel tempo.

Radunerò qui i documenti, le lettere, le note che ho conservato. Ricostruirò questo edificio colle sue stesse rovine.

Ora sono ben calmo e tranquillo; ora che ho incominciato a non diffidare piú di me medesimo. La mia indifferenza mi assicura che le sorgenti del mio entusiasmo sono esaurite. Una cosa mi conforta e mi inorgoglisce, il sentimento della mia freddezza— perché il mio cuore è freddo, terribilmente freddo.

Spero e pur temo dimenticare. Una notte triste ed oscura ha incominciato a distendersi sul mio passato.

Le onde che la virtú del sole aveva sollevate e convertite in belle nubi d’oro, ricadono in pioggia attraversando le fredde latitudini dell’aria, ricadono come lagrime della natura.

Quando il fuoco della gioventú si è spento, svanisce a poco a poco anche il tepore delle ceneri; esse rimangono là ad attestare dove la fiamma ha un giorno avvampato, fino a che il soffio gelato del tempo non viene anch’esso a disperderle.

II

Sarebbe inutile riandare sugli anni che hanno preceduto gli avvenimenti che sto per raccontare. Io non voglio afferrare che un punto della mia vita, non voglio metterne in luce che un istante. Chi oserebbe affacciarsi allo spettacolo intero della sua esistenza, spiare nelle sue pieghe tenebrose, e ritesserne tutta la storia?

La mia gioventú trascorse piena, ricca, feconda. La fortuna, a dir vero, non m’era stata assai prodiga de’ suoi favori; ma che cale alla gioventú della fortuna? Quella è l’età della forza, del coraggio, della baldanza; è allora che si raccolgono a piene mani i frutti che maturano nel giardino della vita, che si accosta alle labbra la coppa inebriante della felicità; a quell’età si fruisce di un bene che non si conosce e non si esperimenta mai piú nell’avvenire, mai piú — la mite e affettuosa indulgenza degli uomini.

Non ho mai potuto indovinare se la mia natura fosse piuttosto incompleta che esuberante; ma in qualunque modo, egli era ben certo che io mi innalzava sul livello delle nature comuni. La ripugnanza che ho sentito, e che sento ancora per tutto ciò che è convenzionale, per tutto ciò che è metodico, non proveniva già dalla mia educazione, ma da una disposizione speciale del mio carattere. Non mi importava di essere da piú o da meno degli altri uomini, mi bastava di esserne diverso.

In tutta la mia vita ho operato come ho pensato — convulsivamente. Dicono che i leoni si trovano in uno stato di febbre continuo. Ignoro quale medico abbia potuto accertarsi di questo fenomeno, come avrebbe fatto al capezzale di un infermo; ma sia ciò vero o non vero, sia la mia natura debole o forte, non vi è dubbio che io ho provato sempre una specie di agitazione febbrile e convulsa simile a quella.

Io mi sono divorato la vita. Io non potrei misurare la mia età colla stregua ordinaria del tempo.

Aveva ventotto anni allorché successero gli avvenimenti che sto per raccontare. La rivoluzione mi aveva trascinato già da tempo nelle sue file, quasi mio malgrado. Deviato da’ miei studi, combattuto nelle mie inclinazioni, mi era indotto a rimanere nell’esercito ove aveva ottenuto grado di ufficiale. Io vi militava da cinque anni, allorché colpito da una grave malattia di cuore dovetti chiedere una lunga licenza, e ritirarmi nel mio villaggio natale. Gravi rovesci di fortuna mi avevano impedito di camparmi la vita in altro modo che coll’essere inscritto nei ruoli di un reggimento, e far pompa del mio costume di capitano. E dico ciò perché allora la guerra era cessata, e mi vergognava spesso di quell’inazione ricompensata sí largamente. Io riscuoteva un lauto assegnamento sulle casse dello Stato.

Non parlerò adesso dei dolori che avevano provocata quella mia malattia. Essi appartengono ad un’altra epoca della mia vita; furono il frutto di una passione che, ove non mi fosse inspirata dal piú nobile dei sentimenti, avrebbe coperto di onta il mio passato. Nondimeno quei dolori furono enormi, e se non ebbero il potere di uccidermi, è perché tal potere è spesso negato al dolore.

In capo ad un anno aveva richiesta l’attività, non già che la mia salute fosse migliorata, ma perché mi sarebbe stato impossibile rimanere piú a lungo nel mio paese natale. Quella vita di solitudine e di meditazione avrebbe finito coll’uccidermi. Chi ha vissuto un tempo nelle grandi città non può piú adattarsi alla vita dei villaggi; non può impicciolire le sue vedute, le sue idee, le sue abitudini fino alle proporzioni meschine, e spesso ridicole, che dà alle proprie la gente delle campagne. Io ho considerato sempre i piccoli villaggi come centri d’ignoranza, di barbarie, spesso anche di corruzione. Sono essi, a mio credere, che arrestano il corso della civiltà, che si pongono tra le ruote del suo carro. Se tutti i punti abitati della terra fossero Londra, Pietroburgo, Parigi, Roma, Berlino, il quesito la cui soluzione affatica da secoli l’umanità sarebbe risolto all’istante.

Né la monotonia di quella vita era il meno doloroso de’ miei tormenti. Io conosceva tutte le vie di quel paese, tutte le case, tutti gli abitanti — viuzze strette e fangose, catapecchie anguste e miserabili, contadini rozzi e cocciuti. Mi dava pena il vederli, piú pena il sentirli. La stessa natura non aveva che attrattive assai deboli. Vicino ai villaggi anche la natura sembra patire, è rozza e pigmea, soffre d’impotenza e di rachitismo; si direbbe che le manchi qualche cosa, come la forza e il profumo. I boschi di Boulogne, di Volksgarten, di Thiergarten non si trovano che vicino a Parigi, a Vienna, a Berlino.

L’uomo risente, come le piante, l’influsso dell’atmosfera in cui vive. Io mi vedeva isterilire, immiserire, deperire. Fosse effetto della malattia, fosse influenza di quel soggiorno triste ed uggioso, io mi era interamente e miseramente trasformato. Una malinconia profonda, una disperanza piena di gelo e di scetticismo si erano impadronite di me. Non sentiva piú alcun rammarico del passato, né alcuna trepidanza dell’avvenire. Questo avvenire lo aveva in certa guisa prevenuto. Me ne era formata l’imagine la piú triste, la piú nera, la piú desolante; aveva forzato la mia anima ad accettarlo senza lagnarsene, e cosí m’era posto in pace con l’unico oggetto che avesse potuto ancora atterrirmi, col fantasma sconosciuto di questo avvenire.

Ho pensato spesso, durante questi anni, a quei giorni pieni di desolazione e di sconforto, a quel lungo inverno di cinque mesi trascorso tra le pareti di poche stanze, senza veder altro volto d’uomo che il mio. Mi sono ricordato ancora di tutto ciò che aveva allora colpito in qualche modo i miei sensi: le larghe finestre a vetrate coperte di ragnateli, il pigolio dei passeri che beccavano nei canali delle gronde, lo stillare delle nevi che si scioglievano, il rumore degli zoccoli ferrati dei contadini sul selciato fangoso della via — uniche sensazioni, uniche voci che mi avvertivano come vi erano esseri che vivevano d’intorno a me, come io stesso viveva in mezzo ad esseri vivi e sensibili. Ho conservato memoria di quei giorni in un diario scritto sotto l’impressione di quei dolori segreti di cuore, che non giova ora qui riportare.

Allorché mi allontanai da quel luogo, e sostato nella prima città che incontrai nel mio viaggio, confrontai il mio volto con quello di altri uomini, mi chiesi con spavento se io era ancora lo stesso di un tempo, se era diventato dissimile da loro, se sarei sopravvissuto a quel giorno.

Aveva imparato a disperare troppo precocemente.

Allora non prevedeva l’aurora luminosa che doveva sorgere ancora sulla mia gioventú, e che doveva tramontare sí presto!

III

Ho parlato del mio paese natale.

Mi duole che queste pagine non sieno destinate a venire alla luce, per poter rendere publico un odio che conservo da lunghi anni nel cuore, l’unico che il tempo e la riflessione non abbiano fatto che avvalorare ed accrescere.

Io amo la terra, questa grande madre, questa gran patria comune; io l’amo tutta senza distinzione di suoli e di climi; l’amo come una parte di me, io che non sono che una porzione minima di lei stessa.

Io ho sentito spesso le sue attrazioni, l’appello che ella fa a’ suoi atomi, le sue creature; agli uomini, le sue particelle animate. A primavera, quando il sole la dardeggia de’ suoi raggi; in quel periodo di febbre, di ardenze, di fecondità, quando dal suo seno pieno di amore erompono le famiglie degli insetti e delle erbe, quando ella sorride di un sorriso pieno d’incanti e di fiori, io ho sentito spesso con una specie di furore il desiderio di rientrare nel suo seno; io mi sono prosteso per abbracciarla; ho sentito che essa mi chiamava, e ho gridato: "Tu mi vuoi, tu mi chiami, — io vengo, io vengo". Sí, io amo la terra, questa bella terra; io son certo che essa sarà lieve sulla mia fossa, quando stringerà dolcemente il mio petto colle sue braccia di selci e di radici; ma vi è in essa un punto che io odio, ed è quell’angolo freddo e uggioso dove son nato.

È di là che ho cominciato a gettare uno sguardo sul mondo, e a vederlo triste ed ingrato, è là che non ho potuto aver mai né una nobile gioia, né un nobile dolore; è là che conobbi gli uomini che mi hanno insegnato ad odiare gli uomini; è là finalmente, che non ho potuto amare.

Avrei voluto levarne le ceneri de’ miei cari, perché l’ultimo anello che mi congiungeva alla mia patria fosse anche spezzato.

Fui torturato lungo tempo da un’idea insistente e malinconica: mi pareva che quelle reliquie adorate non potessero aver pace là sotto, perché, io stesso, io sento che le mie ossa fremerebbero se sepolte sotto quelle zolle abborrite.

IV

Non so dire come ne partii per venire a Milano. Non so spiegarmi questa risoluzione, perché non aveva piú alcuna forza di volontà quando vi venni.

Era sul finire d’aprile, e mi ricordo di aver fatto a piedi attraverso la campagna un tratto di strada assai lungo. Due allodole gorgheggiavano nel cielo che mi sembrava alto, sereno, sconfinato piú di quanto non mi fosse mai parso dapprima. Esse si erano tanto innalzate che il mio occhio non arrivava a vederle, erano lontane l’una dall’altra, e a giudicarne dal canto, parevano immobili — si sarebbe detto che avessero trovato lassú dove posarsi. Il loro gorgheggio aveva qualcosa di affettuosamente intimo, pareva una serie di domande e di risposte; ed era sí melodioso, sí calmo, sí limpido che mi ricordo d’averlo udito ancora ad una grande distanza dal luogo ove l’aveva sentito la prima volta. Certo perché calmo e limpido, non perché vigoroso. Vi è uno strano mistero di luce in quel canto. Il mio orecchio poteva forse udirlo per la stessa ragione che il nostro occhio discerne il letto algoso di un lago attraverso le sue acque alte e tranquille, e non vede quello del torrente, le cui onde basse ed impetuose, ma torbide, scorrono con impeto al mare.

Aveva anche raccolto lungo la strada un mazzetto di tussilaggini gialle — gli unici fiori che abbelliscono quei vigneti sterili e desolati — e lo conservo tuttora nella mia scatola dei fiori disseccati.

Ho segnato tutti i periodi solenni della mia vita con dei fiori. Ne conservo una quantità di mazzetti che sono come le pietre miliari del cammino percorso nella mia esistenza, e li porto meco come l’unico tesoro che io possiedo al mondo.

Ho sempre sentito una specie di rispetto per queste piccole e fragili creature di un giorno, anche una specie di fede.

Un anno a Milano, in un’ora di profondo sconforto, una donna che passeggiava meco al mio fianco tenendo in mano una rosa, mi precedette di alcuni passi, e sfogliandola, e gettandone i petali dinanzi a me, mi disse scherzosamente: — Spargo dei fiori sul vostro cammino. — All’indomani un avvenimento inatteso mi restituiva la gioia e la pace.

Allorché giunsi in quella città, io non aveva né progetti, né idee, né speranze di giorni migliori. Vi era venuto, direi quasi, inconsciamente. Sapeva che fra due mesi sarei stato richiamato al reggimento e che di là avrei meglio potuto sollecitare questo richiamo. Forse era stato tale il movente del mio viaggio.

Appena arrivatovi, cercai con ansietà di un amico che certa comunanza di sventure mi aveva reso da tempo assai caro. Egli abitava in una casa signorile e assai vasta, dove era però quasi sconosciuto. Bisognava chiedere di lui. Battei perciò ad un uscio del primo piano, e venne ad aprirmi una donna giovane e bella. Mi parve che rimanesse colpita in modo singolare dal mio aspetto; né io lo fui forse meno del contrasto che formavo col suo. Essa era sí serena, sí giovane, sí fiorita; e il mondo pareva dover essere stato fino allora cosí benigno con lei, che io la guardai un istante senza parlare, compreso d’una meraviglia dolce e profonda.

— Di chi cercate, in grazia?

Profferii il nome del mio amico.

— Al secondo piano.

Avrei giurato di aver sentito già piú volte quella voce, di averla sentita bambino, ne’ miei sogni… La guardai come si fa a persona che parci di conoscere. Nell’allontanarmi sentii che un lembo del mio soprabito era stato chiuso tra le due imposte dell’uscio. Ella se ne avvide e fu sollecita a riaprire.

— Perdonate.

M’inchinai. Non risposi nulla, ma tornai ad affissarla sí stranamente, che essa mi guardò quasi spaventata. Sentii quello sguardo penetrarmi penosamente nell’anima.

"Sí felice, sí florida, sí bella!" esclamai tra me stesso salendo la scala; "oh dolce creatura! se tu mi porgessi quella tazza che l’età e gli affanni hanno allontanato forse per sempre dalle mie labbra, come potrei rifiorire anch’io, e sorridere ancora alla vita! Ma la gioventú è dei giovani, e le gioie non sono che dei felici!"

Giunto sul pianerottolo, mi rivolsi, e vidi ch’ella era rimasta immota sull’uscio, e mi accompagnava dello sguardo, e pareva commossa e pensosa. Aveva ella compreso che io era sventurato, e aveva sentito il bisogno di confortarmi del suo affetto e della sua compassione?

Dirò cosa antica come l’amore. Bastarono quello sguardo e quella mestizia. Da quel momento le nostre sorti furono gettate. Io l’aveva vinta con l’unica attrattiva che vi era in me, — quella da cui le donne sono prese assai raramente, ma cui, ove lo sieno, inorgogliscono spesso di cedere senza resistere, perché comprendono di mettersi cosí sulla via di una missione che le santifica — l’attrattiva della sventura.

Trovai il mio amico, e mi installai nel suo appartamento.

Ebbi da lui notizie di quella donna. Suo marito era giovine e avvenente, occupava una carica distinta in un’amministrazione governativa; non erano ricchi, ma parevano agiati e felici; avevano un figlio; essa si chiamava Clara: quando non agucchiava presso una piccola finestra che guardava nel cortile, leggeva romanzi sul suo balcone, seduta in mezzo a’ suoi vasi di fuxie e di gerani; suonava anche il pianoforte e cantava.

Passai quella prima notte in una specie di delirio; lessi l’epistolario di Foscolo — l’uomo antico — e rividi in un’allucinazione le scene passate della mia vita. Mi pareva che tutto fosse finito lí, con quel giorno, con quella fuga, coll’incontro di quella donna; travedeva non so quali gioie nell’avvenire.

Fui riscosso per tempo dal suono di un piano-forte che veniva dal piano sottostante. Apersi la finestra e mi affacciai dal mio balcone. Era un mattino lucido, caldo, sereno, il sole si versava sulla via che brulicava di passeggieri affaccendati. Le carriuole dei lattivendoli stridevano sulle loro ruote malferme, i vetturini facevano scoppiettare le loro fruste, gruppi di fanciulli s’inseguivano schiamazzando; ogni cosa era vita, luce, moto, allegrezza. Da lungo tempo non aveva assistito a quello spettacolo del ridestarsi di una gran città. Abbassando lo sguardo sul balcone di sotto, vi scorsi Clara che mi stava guardando. Essa era seduta in mezzo a’ suoi vasi in un abito semplice e negletto; ma le sue fuxie non erano ancora in germe, e non v’era altro di fiorito intorno a lei che alcune pianticelle di primule e di azzalee.

L’amore, la piú complessa e la piú potente di tutte le passioni, è ad un tempo la piú facile e la piú semplice nel suo nascere. Un uomo e una donna si incontrano, si vedono, si guardano — e basta. Da che cosa era egli stato mosso quello sguardo? Che cosa vi era in esso? Che cosa diceva? Nessuno lo sa. Nondimeno tutti gli amori incominciarono con uno sguardo.

Rientrai nella stanza ebbro. Non di amore, no; non amava ancora, non ne sperava; ma assetato di conforti, di compianto, di lacrime. Avrei desiderato una donna, non per chiederle le sue carezze, ma per piangere sul suo seno. L’uomo è piú profondo nell’amore, la donna nella tenerezza; si piange meglio sul seno di una donna.

Non so se gli altri uomini abbiano súbiti abbandoni, súbiti impeti, súbite risoluzioni come ho io. In me vi è nulla di lento, di ordinato, di normale. La mia è una natura a molle, a sbalzi; una natura sempre alterata.

Le scrissi, e le gettai dal balcone un biglietto contenente queste sole parole:

"Io sono infelice, io sono malato, io soffro".

Il biglietto cadde a’ suoi piedi. Essa lo vide, esitò un istante, poi si curvò, lo raccolse, e fuggí nella sua camera.

Non ricomparve piú lungo il giorno. Alla sera la vidi un istante sul balcone, e osservai che aveva gli occhi soffusi di lacrime.

Da quel momento la mia illusione non ebbe piú freno. Essa aveva pianto per me, essa aveva accettato in certo modo il compito che io le aveva chiesto di consolarmi.

Fui assalito da una smania febbrile di vederla, di sentire la sua voce, di averla vicino a me, di gettarmi a’ suoi piedi, di dirle lacrimando tutta la povera storia della mia vita.

Avessi avuto un oggetto toccato da lei, portato da lei, un suo nastro, un suo abito, avrei passato la notte guardandolo, me ne sarei sentito meno diviso.

Cosí fu in ogni tempo della mia anima. Passai sempre dall’apatia all’adorazione senza soffermarmi sull’amore. Perché riposarsi a metà? Perché non mirare agli ultimi limiti? Le grandi cose sono estreme — le grandi anime adorano o odiano.

Erano cominciate allora le pioggie lente e monotone della primavera; pioveva tutto il giorno, e le finestre del suo balcone erano chiuse. Io la sentiva suonare e cantare sotto di me. Era caso, era divinazione? Essa ripeteva sempre alcune arie che mi erano care, e che mi rammentavano le scene piú dolci della mia vita. Non uscivo piú di casa per non allontanarmi da lei. Là, in quella stanza, le ero vicino; non la vedevo, ma sapevo di esserle vicino.

E poi, la sentiva!

Le scrivevo tutto il giorno, le scrivevo cose strane, immense, inaudite. Ero spaventato di me medesimo. Spesso la notte balzava dal letto e mi gettava sul pavimento come per tenderle le braccia, come per esserle piú d’appresso. La mia anima, vuota da tanto tempo, si era gettata con furore su quella preda. Se la sua pietà non fosse venuta a salvarmi, io mi sarei divorato il cuore.

La rividi. Il bel tempo era ritornato, aprile era finito, e maggio fioriva. Risentii tutte le febbri della primavera, quel fuoco ardente che il sole di maggio trasfonde nelle fibre, nelle vene, nel cuore. I fiori sbocciavano, gli uccelli riprendevano le loro canzoni, le fanciulle — fiori umani — scherzavano lungo le aiuole; dappertutto l’inno all’amore era cantato.

Un giorno nel salire la scala, vidi le sue stanze aperte, essa era sola; corsi verso di lei, e mi precipitai alle sue ginocchia. Essa fece atto di fuggire; io rimasi immobile col volto celato tra le mani. Mi si appressò piangendo, si curvò verso di me, e mi disse singhiozzando:

— Abbiate pietà, andate, lasciatemi.

— No, io morirò qui, io soffro.

— Oh mio Dio! povero giovine!

— Mi odiate?

Essa mi strinse al suo seno, e mi coprí di baci e di lacrime.

— Vi amo, vi amo, ma lasciatemi.

Fuggii come un demente.

Alla notte fui assalito dalla febbre; ebbi strane visioni, feci dei sogni puerili: vedeva delle farfalle e degli angeli, dei paesi che non aveva mai visto; mia madre, piú giovane di molti anni, piangeva vicino al mio capezzale, ed era vestita di un abito grigio che io l’aveva veduta portare da bambino.

Allo indomani era malato.

Le riscrissi:

"Io sono malato, io non guarirò se non vi vedo, venite".

E essa venne.

Venne per due lunghe settimane, ogni giorno, dissimulando, come poteva, il suo segreto; divisa tra l’angoscia del mio stato e il rossore dell’inganno che le costava la sua pietà.

Fu la sua pietà, che la condusse all’amore; in quei giorni le nostre anime si unirono.

Piú tardi io le scriveva ancora:

"Oh mia vita! Vieni a confortarmi. Vieni qui, lontano da cotesta casa dove non possiamo essere felici. Ho affittato una cameretta chiara, solitaria, serena, piena di sole. La riempirò tutta di fiori per te. Ma vieni. I nostri cuori hanno bisogno di palpitare l’uno sull’altro. Cosí si muore".

E essa venne ancora.

La pietà l’aveva condotta all’amore; fu l’amore che la condusse alla colpa.

In quei giorni si unirono le nostre vite.

V

Fummo felici, ineffabilmente felici.

Passammo attraverso una serie di sensazioni nuove, ardenti, vertiginose. Mai due anime avevano combaciato cosí pienamente, mai due nature si erano congiunte, fuse, identificate in una sola come le nostre.

Clara aveva indole forte, giusta, severa; vi era nulla di fatuo, nulla di fiacco, nulla di puerile nel suo carattere; e pure nessuna donna fu mai piú affettuosa, piú dolce, piú arrendevole, piú accarezzevole, piú eminentemente donna.

Aveva venticinque anni; era alta, pura, robusta, serena. Scopersi piú tardi il segreto di quel fascino immediato che aveva esercitato sopra di me. Essa rassomigliava a mia madre. Mia madre poteva aver avuto la stessa bellezza e la stessa età quando io nacqui.

Una volta amanti, ci abbandonammo con una specie di dolce disperanza alla nostra passione; non avemmo piú limiti; ella pure era tal natura da non conoscerne. Avremmo quasi desiderato di soffrire, di porre il nostro amore come ostacolo alla nostra felicità, al nostro avvenire, per rendercene meritevoli. Ci sentivamo struggere dalla smania di sacrificare qualche cosa l’uno all’altra. Cosí eravamo troppo immeritatamente felici. Non potevamo dare un prezzo a quelle gioie; le sentivamo troppo intense, troppo profonde!…

Ci raccontammo tutta la nostra vita. Ci trasfondemmo l’uno nell’altra senza rossore, senza dissimulazioni, senza esitanze. Essa aveva vissuto poco nel mondo, aveva sposato a sedici anni un uomo che le era indifferente, non aveva mai amato, nessuno le aveva mai chiesto dell’affetto, adorava suo figlio. In quella vita di isolamento e di disamore era nondimeno felice.

Come tutte le donne veramente ingenue s’era data a me senza fingere, senza esitare; essa aveva pensato a lungo alle conseguenze della sua colpa; aveva lottato a lungo; ma una volta decisa, si era abbandonata senza ritegno. Non so se ella ne arrossisse e ne gemesse in segreto; il suo contegno non lasciò mai penetrare in me questo dubbio, essa non mi parve mai che felice. Mi diceva spesso con aria di credulità e di spavento, affatto puerile: — Sono cosí felice che ho paura di morire.

Il suo rimpianto piú acerbo era di non avermi conosciuto prima; non si doleva dell’avvenire che il tempo ed i suoi legami ci avrebbero, o tardi o tosto, attraversato, ma del passato che avevamo vissuto lungi l'uno dall’altro, senza conoscersi, senza sapere che esistevamo, di quei bei giorni della prima gioventú che non avevamo potuto trascorrere assieme.

— Oh, s’io t’avessi conosciuto allora! quanto sarei stata felice di darti questo mio cuore puro ed intatto, di offrirti tutta la mia gioventú, tutta la mia freschezza — giovinetta, anch’io era bella!… Come tu avresti saputo formare il mio cuore, come t’avrei amato, come t’avrei ubbidito!

Tali le parole che essa mi diceva soventi. Ella soffriva di non poter legare a me le prime e le piú pure memorie della sua esistenza.

Come aveva preveduto, la mia salute era rifiorita, io era ritornato forte, lieto, sereno; ma mi pareva aver tolto a lei tutto ciò che aveva aggiunto a me stesso. Essa non avvizziva, ma deperiva con lentezza. Si era come tramutata, non era piú quella di un tempo. Mi pareva fosse divenuta piú alta, piú gentile, piú flessibile; la vedeva come fosse stata un’immagine di se stessa.

Spesso essa mi diceva scherzosamente: — Ho voluto essere il tuo medico, e ho trascurato un po’ troppo me medesima. — Non so come avvenisse, ma è ben certo che ella mi aveva data la sua forza e la sua salute assieme col suo affetto. L’amore fa spesso di tali miracoli.

Del resto io non dirò come e quanto noi fossimo felici. Triste quella felicità che si può dire! Io mi era serbato fino allora eccezionalmente puro, essa eccezionalmente ingenua. Ci eravamo amati, ella per pietà, io per gratitudine; la stima, la simpatia, la conoscenza profonda delle nostre anime, piú che la nostra stessa gioventú, ci avevano condotti alla passione. Ella a venticinque anni, io a ventotto, eravamo ancora due fanciulli. In un gran centro di corruzione come cotesto, noi eravamo rimasti illibati, puri, vergini, ricchi di illusione e di fede — e la felicità e la grandezza di un tale amore non possono essere raccontati.

VI

Perché noi ci amavamo diversamente da tutti gli altri. I nostri piaceri piú ardenti consistevano spesso in alcune fanciullaggini senza nome, in alcune puerilità che ci avrebbero fatto sorridere se non ci fossimo amati sí ciecamente.

Una delle sue soddisfazioni piú vive era di far colazione con me, di mangiare con me dei confetti, di mangiarne molti, e tutti metà per uno; di ravviarmi i capelli, di guardare, come i bambini, la sua immagine riflessa nelle mie pupille.

Conoscevamo tutti i piú piccoli sentieri di queste praterie tristi e monotone. Vi facevamo delle lunghe passeggiate; quando si toglieva la mantiglia e il cappello, ne piantava gli spilli in qualche foglia d’ellera abbarbicata ad un salice, e nelle nostre scorrerie venture andavamo poi a cercarli. Non sono piú di pochi mesi che sono riuscito ancora, dopo quattro anni, a trovarne due irrugginiti dalle pioggie e dal tempo.

Ci sedevamo spesso lungo i ruscelli a veder scorrere l’acqua; e strappavamo alcuni steli di erba che avevano in fondo una cannuccia tenera di sapore quasi dolce, e ce ne offrivamo a vicenda, dicendoci scherzevolmente:

— Assaggia questo.

— Oh, il mio è molto piú saporito!

— Questo è eccellente.

— Eccone uno che è squisitissimo.

E ridevamo, ed esclamavamo di noi stessi: "che fanciulli!"

Fuori di Porta Magenta, vi è dal lato destro della via un bel torrente, e un ponticello di tavole non piú largo di due spanne. Le piaceva di andare su e giú di quel ponte. Lí vicino avevamo anche trovato una capanna disabitata, il cui uscio era aperto; e vi passavamo volontieri alcune ore benché fosse piena di topi e di lucertole. La chiamavamo il nostro tabernacolo.

Tutti i contadini ci conoscevano e ci facevano mille dispetti. Alcuni fanciulli ci gridavano dietro: — oh gli amorosi! gli amorosi!

Una domenica, vistici sedere in un prato, alzarono una tavola che chiudeva lo sbocco d’un canale d’irrigazione.

— Mi pare d’esser tutta in un bagno!

— Ed io!

Prima che fossimo balzati in piedi, il prato era interamente allagato; le sue sottane, il suo scialle erano immollati; salvai a stento il suo cappello e i suoi guanti che galleggiavano. Essa ne rideva come una pazza. Quante volte ci siamo ricordati di quell’avvenimento!

Quella donna sí forte, sí ricca di buon senso, in alcune cose sí seria, aveva tutte le velleità, tutti i gusti pazzi e bizzarri di una bambina. — La mia non è che una rivendicazione; — diceva ella qualche volta mezzo tra il serio e il faceto — non mi hanno lasciato il tempo di essere una fanciulla, e me ne rivendico adesso. Meglio esserlo a venticinque anni che mai!

E lo era in fatto, e me ne dava tutte le prove possibili. La mia stanza era divenuta un caos, piena di uccelli, di fiori, di nastri, di frastagli di carta, di cartocci di confetti, di scatole. Essa vi metteva tutto a soqquadro. Chiudeva di giorno le imposte, e vi accendeva tutte le candele. Spesso diceva sentire il bisogno di gridare, di gridar forte, di urlare, — non posso fare a meno, mi sento una cosa nel petto, qui — ; e gridava, e si turava la bocca colle mani.

Mi portava delle farfalle, e mi mandava a regalare delle nidiate d’uccelli che era obbligato ad allevare per non dispiacerle. Nell’ultimo inverno che ci conobbimo, mi portò ella stessa un gattino bianco nel manicotto.

Tutto ciò mi pareva allora assai puerile; pure ho pensato soventi a queste cose, anche in anni nei quali aveva già conosciuto piú positivamente e piú spaventosamente la vita, e ho dovuto sempre esclamare: — Felici coloro che amarono a questo modo!

VII

In quell’abisso di felicità, in quell’ebbrezza che s’era impossessata delle nostre anime, io mi era quasi dimenticato di me stesso. Non erano che due mesi che ci amavamo, allorché ricevetti dal comandante del mio reggimento un ordine cosí concepito:

"Siete stato richiamato in attività, e per un riguardo allo stato cagionevole della vostra salute, applicato allo stato maggiore del quarto dipartimento. È necessario che raggiungiate fra dieci giorni la vostra destinazione".

Rimasi come colpito dalla folgore.

VIII

Rinuncio a descrivere lo strazio della nostra separazione. Il nostro dolore fu grande quanto lo erano state le nostre gioie; vero, profondo, ineffabile come lo era stata la nostra felicità. Ricopio qui testualmente la prima lettera che io diressi a Clara un giorno dopo la mia partenza, e che può darmi anche oggi la misura del mio amore e delle mie lacrime:

"Oh, mia vita! Eccoci separati, eccoci lontani l’uno dall’altra. Ieri ancora io era tra le tue braccia, oggi sono solo, lontano, misero, sconsolato, perduto. Che dirti? Come esprimerti il mio dolore? Tu sola, tu che mi ami cogli stessi trasporti disperati, tu puoi sapere dalle tue lacrime l’amarezza e la frequenza delle mie.

Mi pare di trovarmi sotto l’incubo di un sogno orrendo da cui non posso svegliarmi; non posso credere alla realtà di una sciagura cosí grande. Mi pare che ad ogni istante io debba riscuotermi da questo vaneggiamento angoscioso, e rivedermi di nuovo vicino a te. In tutti i miei grandi dolori ho provato questa specie di pietosa incredulità che me li rendeva meno terribili. Allora, come adesso, mi domandava: "È egli vero? è ciò realmente accaduto?" E lo sapeva, e lo so che ciò è vero, che ciò è accaduto.

Oh tu mi conforti santamente! Ho compreso, sai, lo sforzo che tu facevi ieri per nascondermi le tue lacrime. Povera Clara! Tu non volevi che io piangessi, e non sai quanto ho pianto stanotte. Sí, ho pianto dirottamente, dirottamente, e ho ringraziato Iddio di questo conforto. Non è debolezza il piangere, ed anche ove lo fosse, è una debolezza dolce e divina che non umilia l’uomo forte.

Tu non sai quanto io sono superbo di soffrire per te, per noi, pel nostro amore. Come dev’essere dolce il poter dire alla donna che si ama: "Tu mi costi un sacrificio, un dolore, una viltà; per te ho sacrificato le mie ricchezze, la mia fama, la mia vita". Ho compreso come si possa commettere anche un delitto per ingigantire nella nostra coscienza questo sentimento, per accrescerne il valore; ho capito come si possa scendere fino alla degradazione la piú umiliante. È lo stesso sentimento che a voi, donne, fa spesso sacrificare — quasi volonterose, quasi superbe del sacrificio — la fama di oneste all’affetto dell’uomo che amate. E credi, o Clara, credi che è questa sola — sia pur ella deplorabile — la misura dell’amore che unisce l’uomo alla donna.

Non nascondermi dunque le tue lacrime, e non volere che io ti nasconda le mie. Le tue lacrime! Ah, io le sento, sí le sento, esse ripiombano qui sul mio cuore; chi sa quante tu ne hai versate oggi, ora, in questo istante. Povera anima!

Ti scrivo quattro ore dopo esser giunto in questa città; non avrei potuto farlo prima. Dio lo sa come sono partito, come sono arrivato qui, come mi trovo in questa stanza di albergo. Mi sono gettato sul letto, e ho dormito quattro ore di un sonno pesante e affannoso. Ora mi sono alzato, mi sono affacciato alla finestra, ho guardato i tuoi ritratti, le tue lettere, tutto ciò che ho portato meco di te, e ho cominciato a comprendere qualche cosa della mia nuova posizione. Dio mio! Dio mio! Io non so come potrò sopravvivere a questa prova!

Eravamo troppo felici, o Clara, non era possibile che quello stato durasse; la nostra felicità stessa ci spaventava, sentivamo qualche cosa nel cuore che ci diceva che essa doveva finire.

Non ti atterrire di questa parola "finire", no, la nostra felicità non è finita, tu lo sai, tu senti al pari di me che un amore come il nostro non può finire che colla morte, ma saremo felici in altro modo, con altra misura, con altro prezzo. Non ti vedrò piú tutti i giorni, non saprò piú cosa tu fai a tutte le ore, non riceverò piú i tuoi fiori, non vedrò piú il tuo balcone, non sentirò piú la tua voce adorata, lo strascico del tuo abito, i tuoi passi, il tuo respiro; la mia povera stanza resterà solitaria per lungo tempo, non echeggierà piú delle nostre grida; pure queste nostre gioie non ci saranno vietate interamente né per sempre. Esse erano troppo dolci perché potessimo gustarle ogni giorno; il nostro amore è troppo grande perché possiamo rinunciarci per tutta la vita.

E non sono già quelle gioie che mi allettano, che mi rendono cosí terribile la tua lontananza, non è la tua persona, la tua bellezza, la tua gioventú, le tue grazie: sei tu, mio angelo, tu sola; il tuo nobile cuore, la tua anima pia e delicata, il tuo spirito vergine e colto. È la donna-anima che ho amato in te, essa sola; e sono superbo di affermare anche nella solennità di questo istante, la purezza del sentimento che ci ha congiunti.

Perché tu conosci la mia vita, tu hai letto nelle piú ascose profondità del mio cuore; io era degno di te, io lo sono ancora, io lo sarò sempre. Senza questa coscienza, non avrei osato pretendere alla santa fraternità delle nostre anime; non oserei ora sfidare senza fremere questo avvenire misterioso che ci attende. Riposo tranquillo sul tuo amore, poiché esso non è di quelli che passano; riposa tu tranquilla sul mio. Ti assicuri il mio giuramento. Oh, Clara, io sarò sempre degno di te!

Vi è un pensiero che mi affanna, la certezza del tuo dolore: non di quello che senti ora, ma di quello che sentirai quind’innanzi. Io comprendo, piú che tu non pensi, lo stato della tua anima. Tu ti sei data a me per pietà; la mia gratitudine ti ha mostrato un cuore che non hai potuto non amare perché era troppo simile al tuo; la tua gaiezza, la tua gioventú, hanno gettato sui nostri abbandoni un velo che ce ne nascondeva il lato colpevole; finché io era vicino a te, tu potevi essere felice, ma ora… Oh, mia vita, non pensare a te stessa; che la solitudine non ti faccia adoperare per evocare delle ricordanze quella forza che tu ponevi a dimenticare, che essa non ti tragga a pensare a dei legami che ti farebbero infrangere quelli che ti uniscono a me! Abbi pietà ancora, ancora, fino a che l’edificio innalzato dal tuo amore non sia interamente compiuto.

Ecco, o cara, lo sgomento incessante che viene ad aggiungersi a questo dolore già immenso. Non è la fede in te che mi manchi, ma quella nell’avvenire; diffido non di te, ma della forza delle cose, del tempo. Confortami, costringimi a credere, non a sperare. In un amore come il nostro bisogna credere; lo sperare è nulla.

Voleva dirti… Vi è negli affetti, come in tutto, un linguaggio convenzionale, delle frasi troppo ripetute perché abbiano ancora un valore, pure, come esprimersi diversamente? Voleva dirti che io morrei perdendoti. Lo sento in me, ne ho la certezza profonda, fredda, calma, incrollabile; e ciò forma la mia gioia: io sono dunque ben certo di non perderti che morendo.

Non so se ti ho detto abbastanza che ti amo, come ti amo, sino a qual punto ti amo. Ti ricordi? Ci disperavamo spesso tutti e due di questa impotenza, ma ora è ben altra cosa. In quei giorni non potevamo dircelo, ma potevamo in qualche modo provarcelo. Tu leggevi in me, ma adesso?… È ora che io sento piú che mai il bisogno di aprirti il mio cuore, di dirti tutto ciò che vi è nell’anima mia. Io ti amo, o Clara, io t’amo fino all’adorazione, fino alla follia, fino a quel punto estremo delle nostre facoltà, oltre il quale vi sarebbe la morte, la cessazione, il nulla.

Come non amarti cosí? Sei tu che mi hai ridonato alla vita; tu che mi hai restituito la salute, la forza, la gioia, la gioventú, il coraggio. Tutto ciò che io sarò, lo dovrò a te, senza di te io sarei stato piú nulla. Tu mi hai tenuto luogo di madre, di sorella, di amica, di patria — sí, anche di patria, poiché è per amor tuo che adoro cotesto angolo di terra; — tu sei stata, tu sei ancora il mio mondo, tu lo sarai sempre. Dovessi tu ripudiarmi, respingermi, io sento che non potrei mai disconoscere questo debito, né ribellarmi alla santità di questa memoria.

E ti dico ciò perché tu sappia fino a qual punto puoi calcolare sul mio affetto, fino a qual punto sulla mia gratitudine.

Ascolta ora il mio giuramento. Io non vivrò che di te, che per te; dimenticherò che vi sono al mondo altre creature, sarò onesto per essere degno del tuo amore. Eleverò questo affetto fino al culto di una religione. Ogni sera mi raccoglierò per pensare a te, ogni quindici giorni verrò a vederti. La distanza che ci separa non è sí grande da rendermelo impossibile. Il nostro santuario — quella stanzetta ove fummo tanto felici — è ancor nostro, ne ho meco le chiavi: non vi saranno piú i nostri fiori, i nostri uccelli che ho lasciato volar via; ma vi ritroveremo ancora noi stessi, le nostre gioie, la nostra felicità, il nostro entusiasmo, i nostri cuori ardenti e immutabili. Potremo essere ancora felici, o mia buona Clara, potremo essere ancora felici!

Ed ora, addio. Non por mente al disordine delle mie idee, perché la mia testa è quasi perduta. Ti scrivo come in un sogno, e mi porto spesso le mani al cuore per comprimerne i battiti. Oh potessi essere vicino a te, o mio angelo, vicino a te, e morire a’ tuoi piedi!"

IX

Oh Clara, perché mi hai tu abbandonato!

Eccomi solo, piú solo ancora di prima, giacché non ho nemmeno piú meco le illusioni che prima di conoscerti mi rendevano cara la speranza. Io ho sopravvissuto al nostro amore, alla tua perdita, alla rovina della mia fede, a tutto, io che credeva di morire pel tuo abbandono. Con te sarei passato nella vita, buono, amato, pio, dolcemente mesto, indulgente; non avrei lasciato forse dei fiori sul mio sentiero, ma lo avrei cosparso di benedizioni e di lacrime. La fortuna mi ti ha negato — fu un lampo — i primi passi della mia esistenza erano sbagliati; io doveva correre rovinosamente fin verso il suo termine. Ho bevuto un sorso della coppa, e basta; ora è finito.

Finito!

L’amore muore. Ecco il grido terribile che si innalza da quel sepolcro nel quale ho composto per sempre le ceneri del mio passato. Perché non rimpiango te sola, ma la mia fede, quella fede che non potrò trovare mai piú; e senza la quale dovrò passare nel mondo senza attaccarmi piú a nulla, e irridere a quelle cose che ho creduto un tempo le sole sante e nobili della vita.

Nondimeno non ti condanno, né la mia voce si alzerà mai contro di te; il mio cuore, tu non lo sai, ma il mio cuore ti benedice in segreto.

Ti ho incontrata sulla mia via, in un’epoca in cui la mia anima dolorava e i miei piedi sanguinavano per l’asprezza del cammino, e tu mi hai preso per mano, e mi hai condotto in un sentiero fiorito e delizioso. E perché non dovrei benedirti? Tu non avevi contratto un debito di amore eterno con me; la società, la natura stessa lo vietavano. Mi avevi amato per pietà, avevi voluto rifarmi uomo, ridonarmi la forza e l’ingegno, ritemprarmi al fuoco di una passione; ebbene il tuo mandato era compiuto, tu dovevi abbandonarmi, era giusto. Altri doveri ti richiamavano sulla via dalla quale io ti aveva allontanata. Tuo marito, tuo figlio!

Indarno il mondo vorrebbe farmiti credere disprezzevole, indarno lo vorresti tu stessa. Tu sapevi che io non avrei cessato di adorarti finché ti avessi stimata, e tentasti mostrarmi il tuo cuore nudo di ogni virtú, indicarmi la condanna disonorante che pendeva sulla tua condotta. No, Clara, io non ti apprezzerò meno per questo. Io non farò caso delle leggi degli uomini, perché so che il cielo ha donato all’amore delle leggi piú generose, piú salde, piú ragionevoli. Ciò che noi consideriamo come la piú gran colpa possibile nella donna — l’adulterio — non è spesso che una rivendicazione dei diritti piú sacri che le ha dato la natura, e che la società le ha conculcato. Nel tuo caso era ancora di piú; era un sacrificio grande e sublime. Io solo posso saperlo. No, non temere, o Clara, vi è nell’amore una solidarietà che non si smentisce. Fossi tu le mille volte colpevole, io ti amerei ancora doppiamente perché so che lo saresti per amor mio.

Ogni qualvolta ripenso a te, mi corrono alle labbra le miti parole di Cristo: "Ti sarà molto perdonato, perché hai molto amato".

X

Ho voluto accennare brevemente a questa passione d’amore che fu la piú vera e la piú grande della mia vita, per mettere in maggior luce il contrasto di idee e di sentimenti che quell’affetto doveva produrre nella mia anima, in seguito ai fatti che imprendo a raccontare. Durante lo svolgimento di questi fatti l’amore di Clara perdurò vivo e ardentissimo; e non fu che alla vigilia della loro catastrofe terribile che ne fui abbandonato.

È nelle leggi della Provvidenza che l’unione dell’uomo e della donna debba essere passeggiera, e la nostra separazione non fu che una conseguenza di questo decreto inesorabile della natura; ché se le leggi umane hanno potuto imporre a questa associazione una durabilità a vita, l’esperienza ci mostra che le leggi del cuore e le leggi provvidenziali ne trionfano sempre segretamente.

Il matrimonio è l’unione di due creature che si tollerano, e si amano qualche volta di amicizia, mai l’unione di due anime che si amano perennemente di amore.

Questa eternità dell’amore è un’aspirazione degli uomini che si sono quasi illusi di conseguirla imponendosene le apparenze. Se l’amore fosse durevole, la felicità sarebbe ricondotta in un mondo da cui fu forse bandita per sempre.

Da cinque mila anni l’umanità piange sulla caducità dell’amore.

XI

Allorché io giunsi a * * *, nonostante il dolore di quella separazione improvvisa, poteva quasi dirmi felice. Allora io era ancora pieno di fede; era guarito da una malattia che aveva creduto mortale, aveva trovato uomini e cose benigne; e pareva che la fortuna avesse voluto porgermi di nuovo una mano amichevole. Quella prima lettera che di là aveva scritta a Clara, non era che una prova della mia felicità. I miei dolori erano di quelli che sopravanzano in dolcezza tutte le gioie possibili della vita, quelli che intessono i fiori piú belli nella corona della gioventú, la sola età dell’esistenza in cui si sappia veramente amare e soffrire.

La piccola città di * * * — ne taccio il nome perché potrei smarrire queste pagine, e ho caro che niuno conosca il luogo dove ho sofferto, e dove vi è una tomba su cui posso recarmi qualche volta a piangere — è una città angusta e monotona, posta vicino al letto di un fiume quasi sempre asciutto. I dintorni sono una specie di landa, una pianura sabbiosa ed estesissima, tanto poveramente coltivata da non vedervi che pochi olmi tortuosi e pochi filari di gelsi intisichiti. Capitandovi a caso, si crederebbe di aver messo piede in una steppa o in una savana piuttosto che in un lembo di pianura rasente le alpi. Né gli uomini erano allora piú cortesi della natura. Ogni socievolezza, ogni agio della vita, o meglio ogni esuberanza di agio, vi era bandita. Da quella città a Milano corre per lo meno tanto quanto da Milano a Londra. Un villaggio qualunque di Lombardia potrebbe offrire un soggiorno meno sgradevole di quella piccola città, per la cui posizione strategica vi s’era posta la sede di un dipartimento militare.

Alzatomi, e scritta quella lettera a Clara, consumai il resto di quel primo giorno a girovagare per le vie e ad osservare i dintorni monotoni di quel paese. Benché scoprissi in quel deserto una specie di oasi, un vecchio giardino incantevole, doppiamente incantevole perché abbandonato da anni all’opera distruttrice del tempo e a quella liberamente riparatrice della natura, fui lieto dell’esito di quell’esame, che, come ho detto, era non poco sconfortante. Una città fragorosa mi avrebbe distolto da quella passione per cui aveva d’uopo di raccoglimento e di pace; una natura piú ricca mi avrebbe fatto sentire con maggiore intensità il dolore della sua lontananza, giacché le piú belle memorie del nostro affetto si legavano in qualche modo alla natura.

Fui lieto di poter raccogliere e versare in me stesso tutta la mia fiamma, di alimentarla col suo fuoco medesimo, di non poter perdere né menomare alcuna delle sensazioni che avrebbe risvegliata in me l’opera assiduamente attiva di quel pensiero.

Chiudermi in una stanza, e popolarla dei fantasmi del mio amore — era il mio voto. Vivere a me, e a lei. — Vivere solo.

Io comprendeva che le sarei stato tanto piú dappresso, quanto piú mi sarei trovato lontano da ogni altra creatura.

Allora era ancora capace di creare intorno a me dei mondi.

XII

All’indomani mi recai a visitare il colonnello, capo del servizio a cui era stato destinato.

Egli era uomo di circa sessant’anni, esile e piccolo di statura; il suo carattere aveva in sé nulla di forte e di maschio, ma l’abitudine del comando e della disciplina avevano dato ai suoi modi un’impronta francamente energica e militare. Come in gran parte delle nature deboli, quell’assenza di forza era compensata da molta dolcezza d’animo, e da una specie d’ingenuità che rasentava quasi l’ignoranza, tanto era straordinaria in un uomo di quell’età e di quella professione. Aveva indole allegra e vivacissima. Lo si poteva dire un cattivo soldato, ma era un abile matematico, un eccellente disegnatore, espertissimo di tutte le scienze attinenti alla guerra; e, cosa straordinaria in ogni classe d’uomini, doppiamente straordinaria fra militari, era uomo eccezionalmente onesto.

Un’avventura successami due anni prima, per la quale io aveva arrischiata la mia vita con un’estrema temerità, e l’aveva avuta salva in modo singolarissimo — avventura troppo impressa nelle mie memorie, perché mi giovi l’affermarla ora su queste pagine — mi aveva creato nell’esercito una specie di strana reputazione; la mia malattia, i miei casi avevano contribuito a circondare il mio nome di un prestigio in parte lusinghiero, e a risvegliare un interesse affettuoso per la mia persona.

Fu forse a tale prevenzione che io fui debitore dell’accoglienza amichevole che ricevetti dal colonnello.

— Noi ci troviamo qui — diss’egli dopo avermi parlato a lungo di molte cose — come fossimo in un villaggio di Barberia; siamo poco meno che tra i Pellirosse. Dubito se avrete trovato un alloggio dove acconciarvi onestamente e comodamente.

— Sono tuttora all’albergo — io dissi.

— All’albergo! E come vi avete mangiato?

— Non so…; parmi pessimamente.

Il colonnello sembrò un poco meravigliato di quel mio dubbio; guardò il suo orologio, e riprese:

— Non mancano che pochi minuti alle cinque. Vi invito a pranzare con me, in mia casa, accettate?

— Accetto — risposi io inchinandomi.

Dopo qualche istante uscimmo.

— Noi facciamo una piccola mensa in famiglia — continuò egli lungo la via. — Propriamente parlando, non posso dire di aver famiglia, ma ho meco una mia parente che ne tiene le veci, benché la poveretta sia di salute cosí cagionevole da darmi piú pensieri che non me ne tolga. È una mensa abbastanza modesta. Qui non vi sono che pessimi elementi di cucina, la verdura sopratutto è demoralizzata; ma almeno vi si mangia, vedrete… Già, alla mia età, il bisogno di un pranzo discreto è inesorabile. Avrete della compagnia; vi vengono due maggiori, un colonnello, un dottore di reggimento, due medici borghesi; siamo in otto in tutto. I medici poi — egli riprese — affluiscono a casa mia come in un ospitale. Mia cugina è la malattia personificata, l’isterismo fatto donna, un miracolo vivente del sistema nervoso, come si espresse ultimamente un dottore che l’ha visitata. Ve la farò conoscere. Avrei potuto mandarla poco lungi di qui, presso una famiglia che ne avrebbe avuto gran cura, giacché ella è rimasta sola al mondo, ma non so separarmene; a sessant’anni si vive di abitudini; e poi quest’aria morta le giova, e anche questo paese di Pellirosse non le dispiace.

Giungemmo in breve alla sua abitazione.

Il pranzo fu allegro, eccellente, condito di molta maldicenza, di frizzi, e di quelle frasi equivoche e poco castigate che s’ascoltano per solito tra militari.

Vicino a me era un coperto intatto e ne feci l’osservazione.

— È il posto della signora Fosca — mi disse uno dei commensali.

— Di mia cugina; — aggiunse il colonnello — essa tiene il letto sette giorni della settimana, e anche oggi non sta meglio del solito. Mi dispiace che non l’abbiate veduta, è della voracità di una mosca.

Allorché ci fummo alzati da tavola, egli mi si piantò dinanzi colle gambe sparate, e colle mani incrociate dietro la schiena, e mi chiese:

— E cosí, come avete pranzato?

— Ottimamente.

— Davvero?

— Diamine, a meraviglia!

— E che ve ne pare di questo locale?

— Magnifico.

— Di questa nostra società?

— Ne sono lusingato — diss’io.

— Francamente, senza complimenti, da amici — riprese egli drizzandosi e riunendo le sue gambe colla vivacità dello scatto di una molla; e levandosi la mano destra di dietro la schiena, e porgendomela, aggiunse:

— Se volete far parte della nostra mensa, se volete aggregarvi a noi… non avete a temere per la vostra borsa, la base fondamentale della nostra associazione è l’economia. Già… È un sentimento di carità che mi consiglia a farvi questa proposta… E anche di simpatia — continuò porgendomi l’altra mano. — Pensateci bene, noi vi parliamo per esperienza… in questo paese di Pellirosse…

Era un’offerta che non poteva in alcun modo declinare.

Accettai benché a malincuore.

XIII

Conobbi però assai presto che non aveva che a rallegrarmi di questa specie di legame da cui, a primo aspetto, era stato messo un poco in pensiero. I compensi erano maggiori dei danni, la piú schietta cordialità vi temperava le soggezioni della disciplina; e d’altronde il paese offriva realmente nulla. I miei commensali poi erano tutta gente dabbene, un poco millantatori, un poco fatui — difetti di soldato — ma in fondo in fondo onesti e leali.

Se v’era cosa atta a lusingarmi era questa, che tutti erano pieni di benevolenza per me, e gareggiavano nel rendermi qualche servigio. Un medico di reggimento, in special modo, m’aveva posto non poca simpatia, e mi voleva seco assai spesso. Era uomo maturo d’anni e di senno, ma giovine di cuore; in alcune cose, come tutti gli uomini un po’ piú che mediocri, fanciullo; in fatto di princípi, virtú rara tra medici, credente. Non tardai a mettergli affetto io pure; e fu la sola persona che richiedessi e ripagassi d’amicizia in quel luogo.

La cugina del colonnello non s’era ancor fatta vedere. La malattia continuava a trattenerla nelle sue stanze. Io m’era avvezzato già da parecchi giorni a chiederne notizie a suo cugino, e a ripetergli alcune frasi di condoglianza che erano ben lungi dall’esprimere un dispiacimento sentito, giacché era naturale che non potessi molto dolermi de’ suoi mali, non conoscendola; ma l’etichetta ha spesso esigenze ancor piú ridicole.

Il suo posto rimaneva costantemente vuoto, ma nondimeno il suo coperto era sempre apparecchiato; in uno de’ suoi bicchieri v’era tutti i giorni un fiore fresco; e, cosa che mi preoccupava non poco, benché non sapessi immaginare le ragioni — e non ve n’erano — quel posto vacante rimaneva sempre vicino al mio, ora da un lato, ora dall’altro, ma sempre vicino. Ciò mi metteva in pensiero, mi pareva che mi mancasse qualcosa, non mi trovava a mio agio, mi sembrava che essa avrebbe dovuto entrare da un istante all’altro per venirsi a sedere al mio fianco.

Questa preoccupazione era però esclusivamente mia, i miei commensali non si davano alcun pensiero di quell’ammalata, e parevano considerare quello stato di cose come naturalissimo. Tutto al piú si limitavano a dire a fin di tavola:

— Anche oggi la signora ci ha lasciati soli!

Per me trovava strano che ogni giorno si apparecchiasse per lei, e ogni giorno la si aspettasse, come se la sua malattia fosse stata cosa da poterla abbandonare da un’ora all’altra; né avrei osato chiedere spiegazioni al medico, col quale, come ho detto, era già entrato in qualche intimità, se un avvenimento inatteso non mi avesse posto nell’obbligo di farlo.

Un giorno, durante il pranzo, fui colpito da urla acute e strazianti che provenivano dalle stanze della signora. Quelle grida echeggiarono sí fortemente e sí improvvisamente nella nostra camera, che io trasalii, e quasi per istinto feci atto di alzarmi e di voler accorrere in suo aiuto.

Il colonnello sorridendo un po’ tristamente, e stringendomi la mano come per ringraziarmi di quell’intenzione, mi prevenne, e mi disse:

— Non vi sgomentate, è mia cugina, essa patisce di convulsioni nervose, è cosa da nulla, fra pochi minuti le saranno cessate.

Uno dei medici si alzò da tavola un po’ a malincuore, e senza mostrare di darsene molto pensiero, entrò nell’appartamento di Fosca. Le sue cameriere non avevano dimostrato maggior premura di lui. Degli altri commensali nessuno si era mosso, o aveva dato il menomo segno di meraviglia.

A me era stato impossibile frenare la mia emozione. Non solo quelle grida erano orribilmente acute, orribilmente strazianti e prolungate, ma io non aveva immaginato mai che vi potesse essere qualche cosa di simile nella voce umana; o essendovi, non mi pareva possibile che l’uomo da cui era uscito una volta un tal grido potesse vivere ancora.

Ho esperimentato, prima e dopo quel giorno, fino a qual limite possa giungere il dolore nella natura umana, e ne ho intese tutte le rivelazioni vocali possibili, ma non mi avvenne mai di sentirlo manifestare con un linguaggio cosí orrendamente spaventoso come quello. Oggi ancora, dopo cinque anni, io risento ne’ miei sogni l’eco di quelle grida terribili.

— Vedo che siete un poco preoccupato da quell’avvenimento — mi disse il medico allorché fummo usciti assieme da quella casa. — Confessate…

— Voi prevenite la mia domanda — interruppi io ansiosamente. — Ne fui commosso nel piú profondo dell’anima; perché dovrei nascondervelo? Non so come non si potesse esserne commossi. Ma che malattia ha dunque quella donna?

— Tutte.

— Tutte! Spiegatevi.

— È una specie di fenomeno, una collezione ambulante di tutti i mali possibili. La nostra scienza vien meno nel definirli. Possiamo afferrare un sintomo, un effetto, un risultato particolare, non l’assieme dei suoi mali, non il loro carattere complessivo, né la loro base. Possiamo curarla come empirici, ma non come medici. È una malattia che è fuori della scienza; l’azione dei nostri rimedi è paralizzata da una serie di fenomeni e di complicazioni, che l’arte non può prevedere. E l’arte medica, voi lo sapete, non è che una povera cosa — si va innanzi per induzioni.

— Ma quelle grida? — io dissi.

— Ciò è il meno, convulsioni isteriche. Già… il fondamento de’ suoi mali è l’isterismo, un male di moda nella donna, un’infermità viziosa che ha il doppio vantaggio di provocare e di giustificare. Quella creatura è d’una irritabilità portentosa, ha i nervi scoperti, — (mi ricordo di questa espressione: "i nervi scoperti"). — La menoma contrarietà, il menomo urto bastano a provocare quella catastrofe che oggi vi ha tanto spaventato. Del resto è cosa di tutti i giorni. Fu un caso che non sia piú avvenuta da qualche tempo in quell’ora.

— Suo cugino non sembra però molto impensierito da questo stato di cose.

— È naturale. Non vi è rimedio.

— Ella vi soccomberà dunque presto?

— Non credo, la sua macchina è sí debole che non ha forza di produrre una malattia mortale.

— Strano!

— Ne abbiamo esempi ogni giorno; ogni trionfo è l’effetto di una lotta; occorrono elementi atti a lottare; in un corpo come quello non vi è lotta; tutti quei mali si paralizzano; i forti e i robusti giuocano sempre una partita assai seria colla infermità, i deboli se ne schermiscono. Con una salute come quella si vive spesso fino a ottant’anni.

— È una teoria consolante pei deboli, — io dissi; — ma come ha potuto buscarsi tutti quei mali?

— Nessuno lo sa.

— Il suo passato?

— Lo ignoro.

— È giovine?

— Venticinque anni

(L’età di Clara!)

— È bella?

Il mio amico sorrise con aria di mistero, e si portò un dito alle labbra come per impormi il silenzio.

— Non credete che essa sia l’amante del colonnello?

— Non credo — diss’egli.

E sorrise da capo, e piú vivacemente.

In quell’istante eravamo giunti alla porta della sua casa. Conveniva separarsi.

— La vedrete fra poco — continuò egli — giudicherete voi stesso della sua bellezza. Bisognerà che vi mettiate sulle difese.

E nell’allontanarsi mi ripeté con aria scherzevole:

— Badate al vostro cuore: tenetevi in guardia!

Perché un tale avvertimento e perché offerto in tal guisa?

Non sapeva comprendere il vero significato di quelle parole.

XIV

Era però curiosissimo di conoscere quella donna.

Al domani il colonnello mi aveva detto:

— Mia cugina ha bisogno di voi. Avreste per lei qualche libro di lettura amena, non scientifico; qualche romanzo?

— Vedrò di procurargliene alcuni.

— Quella donna divora i libri, è un tarlo da libri, legge come noi fumiamo. Io non so piú a chi raccomandarmi, qui non v’è nemmeno un gabinetto di lettura; in questo paese di Tartari, di Pellirosse…

Gli portai la Nuova Eloisa di Rousseau, l’Uomo singolare e le Confessioni alla tomba di Lafontaine. Mi rimandò subito quest’ultimo, dicendosi spaventata del titolo. Poco dopo ebbi anche gli altri. Nella Nuova Eloisa trovai molti passi controsegnati in margine con matita, e una striscia di carta postavi per segnacolo, su cui vi era scritto da un lato Sursum, e dall’altro Excelsior.

I passi controsegnati rivelavano, assieme alla natura intima dei suoi patimenti, una intelligenza robusta, fina, perspicace. Quella donna aveva dell’ingegno. Ella non poteva essere poco infelice, giacché era capace di conoscere la propria infelicità. Gli infelici ignoranti fruiscono di una propria beatitudine, in confronto dei dottamente infelici. Era naturale che desiderassi ancora piú vivamente conoscerla.

In tutta la mia vita — fosse caso, fosse attrazione — non fui mai circondato che da sventurati; sull’orizzonte della mia gioventú i miei occhi non hanno mai incontrato altro spettacolo che quello desolante della miseria; io stesso non mi sono nutrito che de’ suoi frutti piú amari, e spesso ho dovuto divorarmi il cuore perché non aveva nemmeno quelli; pure non ho mai saputo ribellarmi a questo sentimento di simpatia irresistibile che la natura mi ha posto nell’anima per tutti gli infelici.

Ho trovato sempre un buono in ogni sventurato, un perverso in ogni prospero. In questo dolore immeritato di tanti uomini, ho veduto sempre un segreto di predilezione per parte della Provvidenza, delle fila misteriose che uscivano fuori della vita e si perdevano nell’eternità dell’ignoto. Tutti lo hanno veduto, tutti lo hanno sentito. Se vi è qualche cosa oltre la vita, è pegli infelici. Cristo lo ha detto: "Beati coloro che piangono perché saranno consolati".

XV

Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca.

Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti uniti e ad un’ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla spicciolata) e mi trovai solo con essa.

Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, cosí vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, — ché anzi erano in parte regolari, — quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora cosí giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati — occhi d’una beltà sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta. La sua persona era alta e giusta; v’era ancora qualcosa di quella pieghevolezza, di quella grazia, di quella flessibilità che hanno le donne di sentimento e di nascita distinta; i suoi modi erano cosí naturalmente dolci, cosí spontaneamente cortesi che parevano attinti dalla natura piú che dall’educazione: vestiva colla massima eleganza, e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la sua orribilità era nel suo viso.

Certo ella aveva coscienza della sua bruttezza, e sapeva che era tale da difendere la sua reputazione da ogni calunnia possibile; aveva d’altronde troppo spirito per dissimularlo, e per non rinunziare a quegli artifici, a quelle finzioni, a quel ritegno convenzionale a cui si appigliano ordinariamente tutte le donne in presenza d’un uomo.

Me le era presentato da me stesso nell’entrare. Allorché fui seduto a tavola, ella venne a prender posto vicino a me, e mi disse con dolcezza:

— Vi vedo solo, e mi permetto di farvi un poco di compagnia. Desiderava di conoscervi, e di ringraziarvi personalmente dei libri che mi avete mandato. Mio cugino mi aveva parlato di voi, e avrei voluto vedervi un po’ prima. Ma come fare? Sono sempre cosí malata!

Fui colpito dalla soavità della sua voce, piú ancora di quanto nol fossi stato dalla sua bruttezza.

— Ora mi sembrate però guarita — risposi io.

— Guarita! — esclamò ella sorridendo — mi pare di no. L’infermità è in me uno stato normale, come lo è in voi la salute. Vi ho detto che ero malata? Fu un abuso di parole. Ne faccio sempre. Per esserlo converrebbe che io uscissi dalla normalità di questo stato, che avessi un intervallo di sanità. Ho voluto tenermi chiusa parecchi giorni nella mia stanza, ecco tutto; ne aveva le mie ragioni; ho attraversato un periodo di profonda malinconia.

Vedendo che la conversazione minacciava sí presto di trascinarci nel campo delle confidenze, mi astenni dal risponderle.

— Non sapete — ella riprese dopo un istante di silenzio e con tuono diverso di voce — che quel romanzo di Rousseau mi ha entusiasmata? Ne conosceva il soggetto, e ne aveva avuto sott’occhi alcuni sunti, ma non l’aveva mai letto.

— Avete avuto troppo premura di restituirmelo, è libro che vuol essere meditato.

— È vero, se il meditarvi sopra non fosse cosa pericolosa.

— Parmi anzi utile.

— Utile sí, certamente. Voleva dire pericolosa per la nostra pace, per noi donne, per… me. Vi sono delle letture che mi fanno male.

— Voi sapete — io dissi per tenermi da capo sulle generali — che Rousseau, cosí virtuoso nei suoi libri, ha esposto cinque figliuoli alla ruota di Parigi?

Essa mostrò di non aver compreso quell’artificio; accennò del capo come avesse voluto dire: "Altro è l’uomo, altro le sue opere", e riprese:

— Credo che il meditare sui libri e il rileggerli sia cosa sommamente inutile, anzi sommamente nociva; a meno che in tutta la vita non se ne leggesse che uno solo, e questo fosse tale da instillarci princípi retti e da fortificarvici. Di libri educativi non ve ne può essere che uno, pena la contraddizione, giacché ogni uomo ha vedute opposte, o per lo meno diverse. Il leggere molti libri, il meditare su molti non ha altro effetto che quello di renderci dubbiosi sulle nostre idee, incerti nei nostri pensamenti; non si sa piú a che cosa credere, e spesso si finisce col non credere piú a nulla. Sono convinta che ogni libro che non diverte, fallisce il suo scopo; che ogni libro che fa pensare, nuoce. L’obiettivo d’ogni lavoro letterario dovrebbe essere la fantasia — non la testa che si guasta, non il cuore che sanguina — ma l’immaginazione che si esalta e gioisce. Non avete mai provato l’ebbrezza dell’immaginazione?

— Qualche volta. Ma credete che i suoi piaceri siano innocenti?

— O non vi è innocenza, o lo sono. Credo che possiamo non commettere una colpa, ma non possiamo non immaginarla. Non vi è azione senza idea di azione; bisognerebbe escludere il merito di fare o non fare. I traviamenti dell’immaginazione sono naturali, spontanei, direi quasi obbligatori; son essi che costituiscono il valore morale delle nostre azioni.

— Queste teorie hanno tanto di specioso quanto hanno poco di vero; — io dissi — ma, se non sono in errore, vostro cugino vi ha accusata con me di far un abuso della lettura.

— Sorvolo sui libri — rispose ella mestamente — come sarei sorvolata sulla vita, se la vita fosse stata per me. Ho letto una volta di un fiore la sommità del cui calice è sparsa di un polline dolce e salutare, e il fondo di un polline amaro e velenoso; le farfalle che vi si fermano troppo, vi muoiono; cosí è di tutte le cose; cosí è della vita. Non leggo né per imparare, né per pensare — abborro i libri di morale e di metafisica — leggo per dimenticare, per conoscere quali sono le gioie che il mondo dispensa ai felici e per goderne quasi di un eco. È tutto ciò che io posso fruire dell’esistenza; fuggire dalla realtà, dimenticare molto, sognare molto. Voi comprendete — aggiunse ella con aria di mesta ironia — il bisogno che io ho di attenermi a questo sistema, non avete che a guardarmi.

— E perché — risposi io confuso e commosso da quelle parole. — Se siete inferma, guarirete; la vita ha dolcezze per tutti, ne ha di quelle assai intime che né gli uomini, né le sventure ci possono togliere — il piacere di beneficare.

— Beneficare! — interruppe essa — ho provato. Ho gettato i miei gioielli e i miei abiti di seta dinanzi ad una folla di infelici che mi laceravano il cuore collo spettacolo della loro miseria. È dolce, ma non basta. L’esistenza non può essere tutta un sacrificio. La pietà non è che amore passivo, amore morto.

— È però sempre un aspetto dell’amore — io dissi — né lo possiamo credere un affetto solitario se lo vediamo ricompensato dalla gratitudine.

— Credo piú presto alla gratitudine dell’amore che a quella del beneficio — rispose ella.

Io tacqui. Successe un istante di silenzio. Ad un tratto — o volesse ella vendicarsi dei tentativi che io aveva fatto per deviare la conversazione da quel soggetto, ora che me ne vedeva infervorato, o si dolesse realmente d’esservisi lasciata andare — proruppe in uno scroscio di risa, e disse:

— Sono pazza io! In che discorso vi ho mai trascinato! Capisco che con me si può camminare impunemente anche su questa china sdrucciolevole; ad ogni modo… È molto tempo che siete arrivato qui? Avete veduto tutta la città? Vi piace?

— Da pochi giorni… e ho girovagato un poco per le vie. Sono del parere di vostro cugino…

— Un paese di Barberia?

— E di Pellirosse!

Sorridemmo tutti e due, e credo l’una e l’altro per cortesia.

— Siete stato al giardino?

— Una volta.

— E al castello?

— Vi è un castello?

— Diamine! Avete visto il paese ad occhi chiusi. Ho pregato mio cugino di condurmivi stasera. Se volete farci l’onore di accompagnarci…

— Molto volentieri, ve ne ringrazio — e diceva la piú solenne menzogna del mondo. — Dacché ho lasciato Milano, sono vissuto in un isolamento il piú rigoroso, ho paura di ammalarmi di solipsia; ma come uscir fuori di questo paese? La campagna è una landa, una brughiera; non vi è un’ombra, non vi ho ancora veduto un giardino, un fiore; io che vo’ pazzo dei fiori come le femmine. Sta bene che siamo in agosto…

Fosca si alzò senza dir nulla, entrò nella stanza vicina, e ritornò subito dopo, tenendo in mano un mazzetto piccolissimo di fiori che mi offerse senza parlare.

Quell’atto mi sorprese e mi turbò nel piú profondo dell’anima. La sua offerta era stata fatta tanto opportunamente, e con tanta delicatezza che ne fui colpito. Ella s’avvide forse del mio turbamento, e si affrettò a dire come per togliermi d’imbarazzo:

— Anch’io amo molto i fiori, e se fossi sana vorrei coltivarne; ma se ne trovano parecchi che sono ingrati, e mi procurano delle terribili emicranie coi loro profumi. Anche la società dei fiori è qualche volta pericolosa.

E vedendo che m’era alzato, e aveva preso il mio cappello per uscire, aggiunse avvicinandosi alla finestra che era aperta:

— Guardate, abbiamo lí, nel palazzo di fronte, una serra magnifica, delle petunie, una collezione di cardenie…

Cosí dicendo ci eravamo appoggiati al parapetto. In quel momento passava sulla via, e proprio in faccia a noi, un convoglio funerario.

Ella lo vide, impallidí, retrocesse, si cacciò le mani nei capelli, emise un urlo terribile, e cadde rovesciata sul pavimento.

Le sue cameriere accorsero, e la trasportarono nelle sue stanze in preda alle convulsioni piú violente.

Io uscii da quella casa, quasi insensato.

XVI

Credeva che questo avvenimento le avrebbe impedito di uscire, e ne sarei stato lieto, giacché avevo ricevuto in quel giorno una lettera da Clara, e mi sentiva l’anima tutta ripiena di lei. Avrei bensí desiderato di recarmi in quel giardino, ma avrei voluto andarvi solo; aveva bisogno di pensare, di ricordare, di fantasticare a mio talento.

In quel momento la compagnia stessa di Clara mi sarebbe forse stata meno piacevole della sua memoria. Piú volte a Milano aveva cercato qualche pretesto onde allontanarmi da lei, allo scopo di ritirarmi nella mia stanza e pensarci liberamente. L’amore ha spesso bisogno di ripiegarsi su se medesimo.

In quel giorno Fosca venne invece a sedersi a tavola vicino a me; e benché apparisse estremamente sofferente, si adoprò a tenerci lieti, e a rinfocare la conversazione con mille artifizi ingegnosissimi ogni qualvolta mostrava di languire.

Il suo spirito non era superficiale, la sua intelligenza era assai piú profonda di quanto non so lo sia ordinariamente un’intelligenza di donna: essa aveva del talento, e una distinzione di modi affatto speciale. Non poteva però indovinare se quel suo dissimulare tali virtú, quell’aria di non avvertirle fosse vera inconsapevolezza, o artifizio.

Uscimmo come s’era convenuto. Il colonnello avendo incontrato per via un suo amico, si accompagnò con esso, e mi disse:

— Siete un cattivo cavaliere; mia cugina non è troppo sicura delle sue gambe, datele il braccio.

Cosí rimasi solo con essa.

Dacché aveva lasciato Clara non avevo piú dato il braccio ad una donna; ed erano parecchi anni che, lei toltane, non m’era trovato in questa specie di contatto con una di loro. Camminammo per qualche tempo senza parlare. Fosca era assai mesta.

— Stamattina vi ho forse spaventato, — mi diss’ella con dolcezza — ne fui afflitta per voi, molto afflitta; ma chi l’avrebbe preveduto? Fu una sorpresa cosí triste! Non ho molta paura di morire, ve lo giuro, benché sappia che non ho piú gran tempo a vivere; ma ho paura di tutto ciò che accompagna e segue la morte: quel vedersi chiusi tra quattro tavole, quel sentirsi buttare la terra addosso, quel disfarsi… tutto ciò è troppo orribile! Se si potesse morire improvvisamente, nella pienezza della gioventú e della salute, e se la morte fosse un annichilimento istantaneo, io l’avrei implorata di già come una benedizione!

— Ma questi pensieri vi fanno male — io le risposi. — Perché pensare a queste cose? Non vedo nella vostra salute motivo di tanta apprensione, — e anche qui sapeva di mentire. — Mi avete fatto pena, è vero, ma non mi avete spaventato, perché sapeva che non v’era in ciò alcun pericolo.

— Ve l’avevano già detto?

— Sí.

— Mi avevate già sentita?

— Sí.

— Eppure…

S’interruppe e tacque.

Continuammo a camminare in silenzio. Io era tutto immerso nell’egoismo del mio amore. Pensava a Clara, non poteva distaccarne il mio pensiero. L’aver una donna al mio fianco, una donna vestita con eleganza, che posava il suo braccio sul mio, — un braccio fino, esile, leggiero — che mi toccava collo strascico del suo abito; e camminare con essa in un luogo solitario, sotto gli alberi, era cosa che accresceva del doppio la mia illusione. Non solo io non poteva arrestare il mio pensiero su Fosca, ma la mia mente si valeva di lei come di una guida in quella ricerca smaniosa delle sue memorie. Che quella donna fosse poi brutta, orribilmente brutta, non ci pensava. Sapeva tanto illudermi da dimenticarlo.

Una cosa sopratutto contribuiva a tenermi saldo nella mia illusione, una specie di profumo delicato, molle, voluttuoso che emanava dalla sua persona, e che aveva spesso sentito vicino a Clara. Gli abiti di seta riscaldati dal sole esalano questa fragranza elettrizzante. Coloro che hanno passeggiato in giorni estivi con un’amante lo sanno; essi non passeranno mai dappresso ad una donna vestita di seta senza sentire quel profumo, e senza ricordarsi di quei giorni.

Oltre a ciò le donne hanno un profumo a sé — non so come la scienza non abbia avvertito questo fenomeno che non sfugge all’amore — tutto ciò che esse toccano è profumato, tutti i luoghi per cui passano ritengono qualche poco della loro fragranza. Non ho mai potuto ricordarmi bene di mia madre, che perdetti fanciullo, se non baciando un fazzoletto che mi è rimasto di lei, e che ritiene ancora dopo tanti anni le reliquie del suo profumo di santa.

Era troppo tardi per recarci a visitare il castello; entrammo nel giardino.

Non aveva veduto mai prima di quel giorno un luogo cosí incantevole, cosí pieno di maestosa orribilità. In quelle mie prime escursioni non ne aveva visitate che alcune parti. Non v’erano né aiuole, né fiori, ma spalliere gigantesche di carpini, viali ampi e lunghissimi fiancheggiati da ippocastani secolari, e gruppi di olmi cadenti per vecchiezza l’uno sull’altro. Nel mezzo vi era un lago estesissimo, la cui acqua corrotta dal ristagno e dalle foglie che vi s’erano infracidite, non aveva piú alcuna trasparenza; a quando a quando il vento vi faceva cadere dagli alberi i rami secchi, schiantati dal turbine, e appena ne sollevavano le onde, tanto erano dense ed immobili. Piccoli serpentelli d’acqua scivolavano in mezzo alle foglie delle ninfee. Dappertutto statue mutilate, annerite dalle pioggie, coperte di musco e di acetose; cippi e basi di colonne sepolte in mezzo alle ellere; avanzi di acquedotti, tra le cui screpolature crescevano ranuncoli e capelveneri. Da un lato v’erano pure le rovine di un tempio pagano, sulla cui sommità aveva posto radice un ulivo; grosse lucertole, uscivano e entravano dalle fessure delle pareti smattonate. L’umidità e l’ombra vi erano sí costanti che in pieno agosto vi fiorivano le viole; ed erano tante che il suolo pareva coperto da un tappeto azzurro, se non che non avevano profumo. Non si sentiva che il canto di una sola specie di uccelli (non vi intesi mai altro uccello a cantare, né ne vidi d’altra sorta in tutte le volte che mi recai a passeggiarvi), ed erano certi scriccioli non piú grandi d’una farfalla. Il loro canto era un fischio lamentevole e pieno di malinconia. Gli uccelli piú piccoli di quel paese ne abitavano gli alberi piú grandi.

In quel momento il sole era presso a tramontare, e vi gettava orizzontalmente alcuni de’ suoi raggi. Le sommità delle piante erano talmente ampie, e avevano talmente intrecciato i loro rami che vi raccoglievano e vi trattenevano quasi tutta quella luce, come sotto un padiglione di verzura impenetrabile. Quegli effetti di sole erano meravigliosi. La mia anima era rapita di quello spettacolo. Se Clara fosse stata con me!… Le ultime parole che mi aveva detto Fosca risuonavano ancora al mio orecchio come un eco, aveva ancora nel cuore qualche cosa della sensazione che ne aveva ricevuto.

— Come! — proruppi io improvvisamente quasi per rispondere a me stesso e a’ suoi dubbi sconfortanti — come si può pensare a morire quando tutto ciò che ci circonda è cosí pieno di vita, è cosí bello; quando vi è ancora tanta parte di esistenza innanzi a noi? Guardate questi alberi, questo tappeto di viole, questo orizzonte… Non vi pare che la sola sensazione dell’esistere, il vedere, il sentire, il toccare, il muoversi, il respirare in questo luogo sia qualcosa che debba renderci allettante la vita?

— Perché non avete aggiunto, pensare?

— I pensieri che nascono dalla contemplazione della natura non possono non essere che sereni.

— Voi non conoscete tutti gli abissi del pensiero.

— Forse…

— Né le sue torture.

— Queste sí, conosco però anche le sue dolcezze.

— Io non le ho mai conosciute.

— Vorrei dirvi ingiusta. Sono convinto che non vi è assoluta infelicità, né felicità assoluta. L’eredità di beni e di mali che ci ha legato la natura, può eccedere o difettare nella misura di questi o di quelli, ma ciascun uomo ne ha una parte — piccola o grande, ne ha una — non vi è esistenza cosí misera che non sia stata letificata un istante da un baleno di fugace felicità… Poc’anzi mi parlavate dei piaceri della fantasia.

— Altro è immaginare, illudersi; altro è aver coscienza e sentimento di un bene reale. Vi fu un tempo in cui avrei accettato qualunque miseria, qualunque spasimo, a patto di sognare tutte le notti, di sognar sempre, di non vivere che di questa vita di illusioni. Allora non era ancora malata. I miei stessi mali mi hanno ora esaudita; la mia infermità mi procura ogni notte sonni convulsivi, periodi di assopimento febbrile, nei quali ripassano innanzi a me tutte le scene, tutte le visioni, tutte le complicazioni possibili di questo mondo sterminato dei sogni. Ebbene, lo credereste? Non ne ho piú alcuna gioia, spesso anzi mi disgustano, mi tediano. Noi viviamo in un mondo reale, dobbiamo afferrare il reale, il concreto.

— Esso è sempre inferiore all’ideale.

— Non importa. Chi non preferirebbe all’immagine di un bene smisurato, il possesso di un bene anche minimo?

— Tutto ciò è relativo; — io dissi — gli aspetti e le sorgenti della felicità sono molteplici, chi si reputa avventurato in una maniera, chi in un’altra; la maggior parte degli uomini lo sono in modi opposti o diversissimi. Non vi è che un mezzo comune, facile, sicuro di essere felici.

— Quale?

— Amare.

Essa tacque, e sentii il suo braccio pesare con maggior abbandono sul mio.

— Amare! — ripeté ella dopo qualche istante. — Che cosa avete inteso di dire? Spiegatevi.

— Credeva di essermi giovato di una parola assai semplice — dissi io. — Se non ne comprendete il valore, le mie spiegazioni non avrebbero alcun frutto.

Ella sorrise a fior di labbra, e riprese:

— Intendete di escludere le piccole simpatie, le amicizie, gli affetti domestici? Amare è una parola assai generica.

— Assai esclusiva all’età vostra. Non escludo gli affetti che voi dite; ma non li considero che come una sfumatura, come una eccedenza, come la cornice del quadro. Forse anzi m’inganno, essi hanno natura oppostissima. Dicendo amore intendo amore.

E ripresi col pensiero rivolto a Clara:

— Intendo l’amore che sentiamo alla nostra età, noi, giovani, ardenti, immaginosi; quell’amore che è superiore a tutto, che sfida tutto, che è tutto; quella fusione piena di due anime che fa vivere la stessa vita, pensare gli stessi pensieri, volere le stesse volontà, desiderare gli stessi desideri; quel periodo di acciecamento e di ebbrezza in cui tutto è bello, tutto è nobile e puro, tutto è felice; giacché l’amore non è che un grande acciecamento ed una grande ebbrezza!

— Ah, sí! — esclamò ella sommessamente, e come parlasse a se stessa — quello è l’amore.

— E credete, — continuai io senza avvedermi del male che le facevano le mie parole — credete che la vita avrebbe qualche attrattiva se vuota di questo sentimento che l’occupa tutta; nella fanciullezza col desiderio, nella gioventú colla fruizione, nella vecchiezza colle memorie? Credete che questo mondo ci parrebbe sí bello e sí buono, se non avesse questa luce e questo profumo? Che questo stesso luogo dove siamo ora mi sembrerebbe cosí incantevole, se non lo vedessi attraverso questo prisma abbagliante?

— Voi!… — esclamò ella — voi lo vedete…

E s’interruppe di nuovo angosciosamente.

Eravamo arrivati in quel punto nel mezzo di una crociera ove sorgeva un monumento di marmo. Sopra una fronte di esso, rimasta intatta, erano scritti a matita molti nomi che il tempo aveva in parte cancellati: due righe sole parevano recenti e dicevano: 22 agosto 1863. Giulio e Teresa — amanti e sposi felici.

Mentre Fosca me le indicava col dito, sentiva la sua persona pesare sopra la mia con abbandono. Non era effetto di voluttà, ma prostrazione, abbattimento improvviso. Quanto a me, quelle parole mi avevano colpito piú intimamente: la mia situazione era tale da sentire piú al vivo quel richiamo: "amanti e sposi", noi non eravamo che amanti, noi, io e Clara, non saremmo stati sposi mai; il nostro stesso amore non era che una colpa, che una violazione di quella legittima felicità di cui godevano quei due ignoti. Essi erano stati in quell’eliso quattro soli giorni prima di noi — era allora il ventisei agosto, me ne ricordo bene — come — come dovevano esservisi sentiti felici! Correre lungo quei viali, nascondervisi dietro i carpini; chiamarsi, inseguirsi, sedersi su quelle viole; oppure passeggiarvi a braccio, vicini vicini, colle teste che si toccano, colle mani intrecciate; e parlare di cose malinconiche, di ammalarsi, di morire… "prima io; no, prima io… assieme…". E mi veniva in mente che quattro giorni prima era stato un bel giorno quieto, fresco, sereno, e il sole doveva essere tramontato, come allora, in un oceano di raggi infuocati, e quel luogo doveva essere stato bello, severo, incantevole come in quel momento.

L’immagine di quella felicità era venuta a colpirmi nella pienezza della mia baldanza. Non invidiava quelle due creature, ma mi faceva male il pensare che v’erano al mondo esseri tanto piú felici di me.

Avvenne una reazione istantanea nelle mie idee; mi riebbi subito da quella specie di allucinazione che m’aveva dominato fino allora, pensai al discorso tenuto con Fosca, e ne sentii pentimento.

Meditava sul modo di dirglielo opportunamente, allorché essendo stati raggiunti da suo cugino che discuteva forte col suo amico intorno ad un quesito di strategia, essa gli disse:

— Mi sento male, torniamo a casa.

Il colonnello si rivolse senza risponderle, tutto infervorato come era nella sua discussione.

— Vi sentite male? — le chiesi con dolcezza. — Mio Dio! forse le mie parole… i discorsi insensati che abbiamo tenuto finora…

— Voi siete ben crudele — diss’ella.

E parve che non potesse continuare.

— Crudele, — esclamai io — e perché? Non vi comprendo.

— Voi non sapete quanto mi avete fatto soffrire. O siete incredibilmente ingenuo, o incredibilmente cattivo. Parlarmi d’amore, di felicità, parlarmene in tal guisa… — e si calò il velo del cappello, non so se per nascondere la sua emozione, o per celarmi la sua bruttezza in un momento in cui stava per trionfare della mia pietà. — Non comprendevate quanto mi dovevano far male quelle parole?

— Perdonate, — io dissi con accento commosso — vi giuro che era ben lungi dal sospettarlo: mi avviene spesso di parlare inconsideratamente…

E avrei voluto aggiungere: "Voi mi avete però provocato". Ma me ne astenni.

— Sentite — diss’ella cercando la mia mano colla mano del braccio che aveva fatto passare nel mio — una mano secca, lunga, leggiera — e stringendola a intervalli convulsivamente. — Qualche giorno vi farò della confidenze, vi racconterò la mia vita; voi me lo permetterete, non è vero? Ho bisogno del vostro compianto. Avete un’aria cosí dolce, cosí buona. Ve lo confesserò: io vi ho veduto fin dal primo momento che siete venuto in nostra casa, vi vedeva tutti i giorni, e non usciva mai dalla mia stanza perché aveva vergogna di voi, temeva di dispiacervi, sono cosí brutta! Mio cugino non è cattivo, mi vuol bene, ma non mi sa comprendere; gli altri sono gente grossolana, buoni ma rozzi — soldati! Non vi siete che voi che possa capirmi, sopportarmi senza umiliarmi, compiangermi. Perché non v’ha alcuno tra essi che non mi rispetti, è vero, ma in segreto mi deridono, ne sono ben certa, lo sento. Dicono che sono dispettosa, volubile, ironica, spesso cattiva. Son essi, è il mondo che mi ha fatta diventare cosí, mi conoscerete. Ho bisogno di essere conosciuta, capita. Voi non potete immaginare come questi uomini che dicono di sapere tante cose, che sembrano conoscere il mondo sí bene, e ne ridono, sieno poi tanto ignoranti, tanto superficiali nella scienza del cuore umano. S’illudono perché si conoscono tra loro, e si conoscono tra loro perché sono tutti eguali! Voi siete diverso, voi; mi è bastato vedervi per comprenderlo. Non vi domando che la vostra protezione, la vostra tolleranza. Ho qui nel cuore tante cose che mi fanno male, perché non le posso mai dire; e poi lo vedete, sono malata, sono anche brutta, assai brutta, dovete aver compassione di me… quella compassione amorevole, generosa, sincera che non ho trovato mai, mai, e di cui sento tanto bisogno. Non mi rifiuterete la vostra pietà, ditelo, non me la rifiuterete!

— Buona creatura — esclamai io profondamente commosso — sí, avrete tutta la mia amicizia, tutta la mia confidenza; avrò anch’io tante cose a dirvi; sarò felice di avere un’amica…

E trovandomi imbarazzato a continuare, strinsi calorosamente la mano che ella aveva posto nella mia.

— La vostra mano è ardente.

— Ho la febbre, l’ho sempre.

— Sentite, — riprese ella dopo qualche istante — ho bisogno di giustificarmi con voi, sento che ne ho il diritto e il dovere. Se oggi stesso, il primo giorno in cui vi ho veduto, ho osato tenere con voi alcuni discorsi che nessun’altra donna avrebbe tenuto, e ho voluto quasi provocarli, l’ho fatto perché la mia bruttezza mi garantiva contro tutti i pericoli di una simile discussione, e anche contro il sospetto di essermivi abbandonata per uno scopo biasimevole. La mia deformità ha almeno questo vantaggio.

— Ora — proseguí Fosca, vedendo che non eravamo piú che a pochi passi dalla sua casa — dovete promettere di perdonarmi la prima colpa che ho commesso a vostro riguardo.

— Quale! una colpa!

— Promettetelo prima.

— Con tutta l’anima.

— Quella di avervi fatto uscire con me. È una ferita che ho recato al vostro amor proprio; e so quanto ciò vi possa essere dispiaciuto. Non tentate di farmi credere il contrario.

— Non lo farò, — io le dissi (giacché mi vedeva posto nel caso di dire una nuova menzogna) — non lo farò perché me lo proibite, ma…

Essa mi guardò e sorrise tristemente, come avesse voluto dirmi:

"È vero, perciò non lo farete".

In quel momento avevamo raggiunto il colonnello ed il suo amico che si erano fermati alla porta ad aspettarci.

— Sapreste dirmi — mi chiese il colonnello col volto arrossato dalla discussione avuta col suo compagno — se fu De-Fauchée l’inventore delle capsule a secco, o piuttosto se non fu lui che le ha perfezionate?

— Egli ne fu l’inventore.

— Lo sapete positivamente?

— Positivamente.

— Al diavolo! — disse il suo amico.

— Benissimo! — esclamò il colonnello, fregandosi le mani — sei bottiglie di madera guadagnate!

XVII

Mi ritirai nella mia stanza tristissimo; era assai malcontento di me, e sentiva che aveva il dovere di indagare severamente la mia condotta. Il risultato di quell’esame non poteva che mettermi in maggior ira contro me medesimo; mi era contenuto come un ragazzo, come un collegiale. Fosca aveva avuto ragione ad approfittare della mia semplicità; essa non aveva fatto che cedere alle mie provocazioni. Se il mio contegno era stato tale con lei di cui avrei abborrito l’affetto, quale sarebbe stato con una donna avvenente, il cui amore avrebbe lusingato la mia vanità? Come mi sentiva colpevole verso Clara! Come era umiliato della mia debolezza!

Un altro pensiero metteva a tortura l’anima mia. Quella donna era realmente buona, realmente ingenua? O non era che un essere infinto, astuto, corrotto? Aveva ella voluto abusare della mia semplicità, sorprendermi, condurre all’amore per la via della compassione; o le sue intenzioni erano pure, e questa mia stessa semplicità l’aveva invogliata della mia amicizia, della mia sola amicizia? Infelice lo era, e assai: le miserie sue dovevano essere infinite; né era strano che ella potesse desiderare un’anima in cui versarsi, desiderarla con tale intensità di desiderio, e invocarne la pietà con tale abbandono.

Oltre a ciò Fosca non era una donna comune. Il suo spirito era assai colto, la sua intelligenza assai vasta; e la sua stessa infermità, la sua bruttezza erano tali circostanze che concorrevano a formare un’eccezione. Le sue passioni, i suoi sentimenti, le sue idee dovevano anche essere eccezionali; ed era forse sotto questo aspetto che bisognava giudicarne. Nondimeno quell’aprirmi subito l’anima sua; quell’abbandonarsi cosí a me nel primo giorno che mi vedeva, quel richiedermi disperatamente della mia amicizia…

Diffidavo dell’amicizia di una donna, e mi doleva non poco di aver accettato quella di lei. Io sapeva che noi non possiamo sottrarci mai agli istinti, e che tra un uomo e una donna giovani, che vogliono violentare la natura amandosi di amicizia, non può esistere che un affetto monco, artificiale, violento, spesso ridicolo, perché non conduce che ad un amore già nudo d’ogni illusione e d’ogni attrattiva. L’amicizia ci ha fatto veder tutta l’indiscretezza della sua intimità, ci ha spogliati di ogni velo; non si può piú essere né amici veri, né amanti veri; ed è cosí che la natura si vendica spesso dell’oltraggio che ha ricevuto.

Avrei dato un anno della mia vita per potermi sottrarre a quella promessa, per poter infrangere quel legame. Se tutto ciò non fosse avvenuto!

Prevedeva che quella donna si sarebbe posta fra me e la mia felicità, avrebbe attraversato il mio avvenire. Non sapeva immaginare le ragioni di questo timore, ma il cuore me lo diceva, né il mio cuore mi aveva mai ingannato.

Cercai in quella notte di prendere una risoluzione pronta ed efficace, di fuggirla, di essere crudele. Ma Dio mio! Come potevo io essere crudele? Io non era mai stato nella mia vita che semplice, che affettuoso, che buono!

XVIII

V’era però un mezzo ben certo di rendere impossibile ogni altro legame, e di distruggere quello che avevamo già contratto — evitare di trovarmi solo con lei. Fuggirla era follia; l’avessi pur potuto, non l’avrei dovuto; tale estremo era inopportuno, né ella il meritava, né suo cugino ci sarebbe passato sopra senza volerne sapere le cause.

Ella avrebbe potuto leggere nell’anima mia il pentimento che io sentiva di quel primo abbandono, e la risoluzione decisa di dimenticarlo; il mio contegno doveva essere sufficiente a ciò, né il suo orgoglio le avrebbe permesso di chiedermene una spiegazione.

Riuscii per alcuni giorni ad evitare di trovarci soli — cosa che non ebbe a costarmi poca fatica, perché ella, dal canto suo, poneva in opera ogni strattagemma possibile per ottenere uno scopo contrario. Aveva ella indovinato le mie intenzioni? Non lo lasciava apparire. Forse ad arte, giacché in tal caso il suo amor proprio le avrebbe dovuto imporre la stessa severità di contegno a mio riguardo.

Non era piú stata malata, né aveva lasciato passare una sola occasione per vedermi. All’indomani di quella passeggiata, ciascun commensale aveva trovato un fiore sul suo coperto; inutile dire che il mio era il piú bello. Tutte le cure, tutte le preferenze possibili erano per me. Ella sapeva porre tant’arte in dissimulare questa predilezione, che nessuno se n’era avveduto, ma era tal cosa che a me non poteva sfuggire. Ne era commosso, ma me ne doleva amaramente.

Da principio mi era sembrato tollerasse quella mia apatia con animo indifferente, in seguito mi avvidi che incominciava ad immalinconire, e ne soffriva.

Una sera in cui eravamo seduti dappresso — fosse caso, fosse disegno — accostò tanto il suo braccio al mio da toccarlo e da premerlo; io mi ritrassi un poco: bastò quest’atto a cagionarle una crisi nervosa delle piú violente.

Che poteva io fare? Sentiva pietà di lei, vedeva il suo cuore e ne soffriva; ma l’egoismo del mio amore, la mia felicità, la natura stessa facevano tacere in me quel sentimento. Io ero divenuto piú fermo che mai nel disegno di respingere quell’affezione.

Una sera il colonnello mi aveva detto:

— Domani usciremo in carrozza assieme, vi farò vedere una pariglia che non avete ancora veduto, andremo al castello.

— Volontieri.

All’indomani rimasi penosamente sorpreso nel veder Fosca apparecchiata ad accompagnarci. Eravamo soltanto noi tre, e aspettavamo che ci si annunciasse che la vettura era pronta. Indugiando i domestici in ciò, il colonnello salí sulle furie, e discese egli stesso nel cortile. Rimanemmo soli, in piedi, l’uno di fronte all’altra. Nessuno di noi osava rompere quel silenzio angoscioso.

Ad un tratto, Fosca afferrò con atto disperato le mie mani che io teneva riunite sul petto, e vi nascose il volto esclamando con voce supplichevole:

— Oh Giorgio, oh Giorgio!

Finsi di essere sorpreso, di non comprendere.

— Che avete? — le chiesi io con freddezza — vi sentite forse male? Che è avvenuto?

— Ah! — gridò ella respingendo le mie mani con violenza, e guardandomi con espressione di affettuoso rancore. E prorompendo in lacrime fuggí nella sua camera.

Suo cugino fu assai sorpreso di questo incidente.

— Che hai? Che accadde?

— Nulla, un’emicrania improvvisa, insoffribile: sto male, non uscirò piú, sono disperata. Vorrei morire, morire!

— Morire! Sei pazza! — esclamò il colonnello.

E avvicinandosi a me che ero rimasto immoto sull’uscio, mi disse:

— Abbiate pazienza, mio caro, voi vedete che mia cugina sta male; non ho cuore a lasciarla sola; andremo un altro giorno a visitare quel castello.

XIX

Quella situazione non poteva durare. Al domani, mentre ci trovavamo a tavola, dissi a suo cugino:

— Ho ricevuto lettere da Milano che rendono indispensabile una mia gita in quella città; vi sarei obbligato se poteste concedermi una licenza di tre giorni.

— Accordato — rispose il colonnello. — Se me ne aveste fatto domanda in ufficio, vi avrei forse risposto di no, ma a tavola! Come fare! Voi conoscete il mio debole, e ne approfittate. Fate conto di partire domani? E con qual convoglio?

— Con quello delle quattro.

— Bisognerà far anticipare il vostro pranzo.

— Non occorre, pranzerò alla locanda.

— Che diavolo! — esclamò il colonnello. — Perché alla locanda? Non ne vedo la necessità.

E diede ordine che si apparecchiasse alle tre per me solo.

Avevo fatto quella domanda per riabbracciar Clara, anzi tutto; poi per aver tempo a riflettere sopra una risoluzione piú fruttuosa, e fors’anche a consigliarmi con lei. Se avessi veduto modo di abbandonare quella casa, tutto sarebbe stato finito; ma la mia mente non giungeva a trovare per ciò un pretesto ragionevole.

Al domani, come aveva preveduto, trovai Fosca che mi aspettava nella sala da pranzo. Essa vi s’era fatta portare un suo piccolo tavolino d’ebano, e vi stava lavorando di ricamo.

Quella sua costanza, quel difetto di amor proprio che mi pareva scorgere nel suo carattere, quell’ostinazione a volermi imporre il suo affetto, fecero sí che io la vedessi sotto un aspetto ancora piú triste di quanto non me la avesse già fatta vedere la sua bruttezza. Ne fui offeso e disgustato. Se non era che in quell’istante il pensiero della mia felicità mi rendeva lieto e indulgente, sarei stato veramente cattivo con lei. Ma si può essere cattivi quando si ama? Se tutti gli uomini amassero, se l’esistenza fosse una giovinezza perenne, la questione del bene e del male sarebbe risolta, il trionfo della virtú sarebbe assicurato: noi non spiccheremmo piú dall’albero della vita che i dolci frutti del bene.

Mi contenni nondimeno con molta freddezza. Fosca non parlò mai; io divorava in silenzio. Di quando in quando alzavo gli occhi e la guardavo. Era facile accorgersi che ella soffriva orribilmente, e faceva violenza a se stessa per contenersi. Vedeva in lei come qualche cosa che stesse per prorompere, come una fiamma che stesse per avvampare; non mi tenevo affatto sicuro di poter uscire da quella casa senza subire le spiegazioni che tanto temeva.

L’orologio suonò le ore.

— Tre e mezza, — io dissi — non ho tempo a perdere.

Ella alzò gli occhi, e mi chiese:

— Andate a Milano?

— Sí.

— Vi divertirete?

— Spero.

— Mi sembrate molto contento.

— Non ho motivo di essere triste.

— Quando ritornerete?

— Fra tre giorni.

— Vi ricorderete di me?

— Perché no! Ricordandomi di questa città, di vostro cugino… mi ricorderò anche di voi…

Essa chinò il capo. Io mi alzai, e presi il mio cappello. Fosca fece atto di volermi accompagnare nell’anticamera.

— Restate, — io le dissi — non lo permetto.

E stesi la mano quasi per impedirlo.

Essa la strinse tra le sue sí fortemente che ne sentii quasi dolore. Se la portò al cuore e se la premette sul petto con atto convulsivo; poi, prima che io avessi potuto rimettermi da quella sorpresa, abbandonò la mia mano, mi gettò le braccia al collo e mi coperse il volto dei suoi baci, il cui ribrezzo mi fece restare agghiacciato ed immobile.

— Cessate, — io le dissi, sciogliendomi con dolcezza da quell’abbracciamento — cessate per carità; vi vedranno, pensate…

— No, no, — interruppe ella — mi vedessero, e che monta? Oh Giorgio! pietà di me, pietà di me! Io vi adoro.

Si gettò a terra con atto disperato, e mi abbracciò le ginocchia. Il suo volto era tutto pieno di lacrime.

— Mi disprezzerete! Ebbene, non importa; purché mi soffriate, purché mi permettiate di vedervi, di dirvi il mio amore, di raccontarvi i miei patimenti, di piangere con voi. Se non l’avessi confessato io che vi amava, voi non me l’avreste detto mai, nessuno me l’avrebbe detto perché hanno tutti orrore di me. Oh, abbiate compassione! amatemi, amatemi; si ama un cane, una bestia… e perché non amerete me che sono una creatura come voi?…

(Mi ricordo ancora di queste parole terribili: "si ama un cane, una bestia…".)

— Alzatevi, alzatevi — io le dissi con voce tremante. — Le vostre parole mi turbano, mi straziano il cuore. Calmatevi, ricomponetevi. Ora, lo vedete, io debbo partir subito, non posso dirvi tutto ciò che vorrei. Il vostro affetto mi commuove, la vostra simpatia mi lusinga… veramente… ma ora… Vi scriverò da Milano, vi scriverò lungamente, subito… vi dirò tante cose; datemi un indirizzo, un nome…

— Il mio nome di ragazza?

— Avete marito?

— L’ebbi.

— (Mio Dio!)

Mi diede un indirizzo.

— Mi scriverete davvero? — diss’ella col volto raggiante di gioia — davvero? — mi scriverete? Oh grazie, grazie!

— Non ne dubitate, domani stesso. Ora restate qui, siete agitata, potrebbero indovinare…

Mi accompagnò fino alla soglia dell’uscio, mi guardò con tenerezza ineffabile, mi stese le mani, mi baciò un lembo dell’abito, tornò a ripetere:

— Grazie, grazie della vostra pietà! Pregherò per voi. Siate benedetto! siate benedetto!

Uscii col cuore lacerato.

XX

"Come sono belle le campagne che corrono di là a Milano! Le ho attraversate come in un sogno. Quando si viaggiava in carrozza, a giornate, si vedeva un lembo di terra alla volta, ora la nostra vista può abbracciarne in poche ore estensioni smisurate. L’uomo si affanna sempre piú a conquistare la terra.

Le pianure della Lombardia sono serene come il suo cielo, liete e fiorenti come le sue donne; quel cielo è fatto apposta per quelle campagne, non sta bene che lí, con un altro suolo non armonizzerebbe. Non so perché mi piacciano adesso le pianure, a me cui non sono piaciute mai, a me nato e cresciuto tra le montagne. Ma chi non amerebbe i luoghi dove è stato felice e dove lo può essere ancora? La Lombardia è all’Italia ciò che sono le praterie all’America, — gli Elisi, i Campi felici.

Ho passato sei ore in una specie di dolce rapimento, colla testa fuori dello sportello, coll’anima perduta nella natura. Un viaggio in ferrovia è una corsa attraverso la natura: si provano le stesse vertigini del volare. Dopo che la scienza ha creato questo mezzo di locomozione si può quasi dire che l’uomo ha delle ali.

Che bella fantasmagoria di alberi, di fiumi, di case, di paesaggi! Come l’orizzonte pareva girare intorno a me, quasi mi fossi trovato in circolo magico! Ho veduto su nell’alto, nell’alto, una lunga fila di gru che erano appena visibili. Dove andavano? Chi dirigeva la loro corsa? Chi lo sa dire! — Dove va a finire il corso della mia vita?

Ho viaggiato con alcune fanciulle, e con due vecchi che non mi levavano mai gli occhi d’addosso. Essi comprendevano senza dubbio che vi era in me qualche cosa di straordinario, l’aspettazione di una grande felicità. Mi sentiva voglia di voltarmi, e di dir loro: "Signori non sapete che io sono molto felice?" Ma ho avuto pietà della loro vecchiezza!

Eccomi di nuovo in questo piccolo santuario. Esso è ancora tutto ripieno di lei, vi è ancora tutto il suo profumo. Se mi avessero condotto qui ad occhi chiusi, avrei gridato subito: "Clara, Clara!" perché avrei sentito la sua presenza.

Ho trovato un suo capello, e ho baciato e ribaciato il guanciale che riteneva ancora l’impronta della sua testa. Quanti ragnateli! Ho visto un millepiedi sulla parete. Il micio del vicino ha veduto l’uscio aperto ed è entrato ad accarezzarmi le gambe colla coda, l’ho riveduto come un vecchio amico. Quell’ellera che veste la parete esternamente si è abbarbicata alla persiana, e ha cacciato dentro, per le gretole, alcuni rami coperti di fogliuzze quasi bianche, perché non avevano luce. È una pianta sempre viva, e ne ho tratto un presagio lusinghiero.

Sono le quattro dopo mezzanotte: passeggio, piango e sorrido. Ripeto spesso, protendendo le braccia: "Oh Clara, vieni, vieni!"

Non posso coricarmi: ancora otto ore, — a domani: ancora otto ore!

Ho aperto le finestre; il cielo è chiaro e sereno. Che scintillio di stelle! che silenzio! Oh mio Dio, come siete grande!"

Tale è un brano delle memorie che io scrissi in quella mia prima gita a Milano, e che ricopio ora dal mio giornale.

XXI

Aggiungo qui la lettera che diressi in quella notte a Fosca:

"Vi scrivo appena arrivato qui. Siete il mio primo pensiero, benché il piú doloroso. Vi scrivo col cuore lacerato. Se il sagrifizio di dieci anni della mia vita potesse evitare a me il dolore di mandarvi questa lettera, e a voi quello di riceverla, vi giuro che accetterei questo rimedio con gioia. Procurate di ascoltare con calma quello che sto per dirvi.

Io non posso amarvi perché il mio cuore non è piú mio; non posso ingannarvi perché né io ne sono capace, né voi lo meritate. Il rispetto che ho per voi è piú potente della pietà che mi domandate, e mi impone di essere sincero. Un inganno vi umilierebbe, umilierebbe me stesso. Io amo perdutamente, io sono perdutamente riamato. Se aggiungessi parole a descrivere la mia felicità, apparirei troppo crudele verso di voi; nondimeno è necessario che vi facciate un’idea dell’intensità del mio amore per averne una dell’imponenza de’ miei doveri. Sappiate soltanto che il mio amore non ha, come il suo, né limite, né nome, né esempio; giudicate di ciò che io debbo a lei, di ciò che ella deve a me, di ciò che noi dobbiamo al nostro affetto e a noi stessi.

Prima di confessarmi il vostro amore, mi avevate richiesto della mia amicizia; ora che io debbo respingere questo secondo legame, reclamerete ancora i diritti di quella prima offerta? Credete che la pura amicizia non è possibile tra noi, come non lo è mai tra un uomo e una donna giovani. Essa non farebbe che rendere la nostra posizione piú imbarazzante, piú equivoca, piú pericolosa. È necessario che noi ci separiamo interamente. Consideriamo la nostra conoscenza come una sventura; tentiamo di sopportarla con forza, e di rimediarvi con coraggio.

Voi avete avuto marito, mi diceste; voi sapete dunque che cosa è un dovere, lasciate che io lo compia. Voi sapete anche che cosa è la felicità, lasciate che provi anch’io ad essere felice — non lo sono mai stato!

La ragione vi offre un mezzo assai facile per riconciliarvi col mio rifiuto. Supponete che la donna che io amo foste voi, come giudichereste il mio abbandono? Una viltà, una bassezza, un delitto. Mi disprezzereste. Ora, dareste voi il vostro amore ad un uomo cui aveste dato il vostro disprezzo? La necessità della nostra separazione è evidente, altrettanto che inesorabile.

Comprenderete che se ho insistito per avere un vostro indirizzo e per scrivervi, era allo scopo di farvi conoscere il piú presto possibile questi miei sentimenti e di sottrarmi ad una situazione piena di pericoli. Se questa mia promessa ha creato in voi delle illusioni che ho dovuto togliervi, perdonatemi, perché non avrei potuto fare altrimenti.

Sentite, — e chiamo il cielo in testimonio della veracità delle mie parole — se il mio cuore fosse stato libero, non vi avrei forse amata di tutto il mio amore, perché credo che la natura non abbia posto delle leggi di simpatia assai tenaci tra noi, ma vi avrei nondimeno amata. Il vostro cuore e il vostro talento mi vi avrebbero resa assai cara, piú ancora le vostre sventure. Avrei accettato con gioia il mandato di proteggervi e di confortare la vostra esistenza di qualche piacere. Ora è troppo tardi; io non appartengo piú a me stesso. Debbo essere crudele per essere giusto; e voi non potete disconoscerlo.

Siete anzi voi che mi dovete secondare in un’opera cosí difficile. È necessario che io conservi la mia stima, voi la vostra pace, ella le sue illusioni. Faccio appello alla vostra generosità, al vostro cuore. Non vi è miglior mezzo di guarire dell’amore, che amando. Non mi dovete odiare, perché non l’ho meritato. Il bene chiama il bene: stimandomi, avrete cara la mia stima, e vi adoprererete a meritarla.

Io non posso cessare di frequentare la vostra casa, lo sapete; la mia lontananza creerebbe dei sospetti pericolosi alla vostra tranquillità. Fate che io non vi debba essere motivo di afflizioni, che possa vedervi con sicurezza, e stringervi la mano senza timore. Ogni altro rapporto tra noi è impossibile.

Se questa lettera vi pare fredda, è segno che sono riuscito a nascondervi il dolore che mi lacera il cuore. Si è ingrati di tutto al mondo, mai però di un affetto, perché è il solo beneficio che non ci umilia, e che lusinga la nostra vanità. Potete dunque calcolare sulla mia gratitudine.

Voi avete pronunciato nel lasciarmi delle parole che mi hanno fatto piangere perché mi hanno fatto conoscere il vostro cuore. Lasciate che io le ripeta ora per voi: Siate benedetta, siate benedetta!".

Uscii io stesso dopo la mezzanotte ad impostare quella lettera. Sentiva che era stato ben crudele nella mia stessa pietà. Affrettarmi tanto a disingannarla!… I sentimenti che aveva espressi in quelle pagine erano sinceri, ma io li aveva attinti dal mio egoismo piú che dalla mia compassione.

Ciò che mi stava a cuore era la mia felicità, era togliere di mezzo quell’ostacolo che ne aveva minacciate le dolcezze.

Non so se la felicità abbia potere di renderci egoisti, o se l’egoismo sia una condizione assoluta della felicità. Ma come mi sentiva mutato dacché era felice!

XXII

Vorrei aggiungere qui alcune altre pagine del mio giornale, su cui ho voluto ricordare le gioie del mio primo incontro con Clara.

Ma perché ritornare su quella parte del mio passato? Esso è sepolto assai profondamente. E poi, io non amo piú quelle gioie, io le odio. Sono esse che mi hanno ingannato sulla natura e sui fini della vita. Una vita tutta di dolori mi avrebbe conservato pio, severo, inflessibile; avrebbe almeno riempiuto d’orgoglio questo cuore, che ora è ripieno di nulla. Quelle gioie ne hanno invece oscurate le virtú, perché un’esistenza virtuosa non può essere altro che una serie di sacrifici non interrotta. Le dolcezze del mondo sono bandite da una vita veramente utile, e veramente benefica. Gli alberi che dànno frutti hanno fiori modesti e spesso inodori; i grandi fiori, quelli ricchi di petali e di profumi, non sbocciano quasi mai che sulle piante sterili e velenose.

La virtú non ha fiori, ma ha frutti.

XXIII

La felicità di cui aveva goduto in quei tre giorni aveva infuso in me — ordinariamente sí timido — un poco di quella baldanza, di quella fiducia di se stessi che hanno tutti gli uomini prosperi. Sapevo che all’indomani del mio arrivo non avrei potuto evitare di trovarmi solo con Fosca, e me le presentai con coraggio.

Adesso non so dire come ella fosse mutata, ma allora lo comprendeva. Il pallore e la magrezza del suo volto erano già tali che parevano non poter aumentare, pure in quel giorno mi colpirono piú vivamente del solito. Gli occhi — la sola beltà di quel viso — erano come arrossati dal piangere e dal vegliare, e un cerchio orribilmente livido pareva ingrandirne le orbite. Le labbra quasi pavonazze aggiungevano qualche cosa di spaventevole alla sua fisionomia. Del resto non v’era alcun disordine nel suo acconciamento, che era come sempre elegante e accurato. Le sue fattezze erano riposate, e quasi sorridenti.

— Ho ricevuto la vostra lettera, e vi ringrazio — mi disse ella con calma.

E porgendomi la destra, aggiunse:

— Spero che mi sarà almeno lecito di stringervi la mano.

— Diamine! Non abbiamo cessato di essere amici, e poi…

— Oh, — interruppe ella sorridendo — voi vi dimenticate già di ciò che mi avete scritto: "Credete che la pura amicizia non è possibile tra noi…"

— Allora si trattava d’altra cosa. Ora… Io intendo l’amicizia nel senso convenzionale della parola; un legame che non ha diritto ad alcuna intimità, e si limita a pochi rapporti superficiali.

— In questo senso, va bene.

— Accettereste dunque sinceramente questa specie di amicizia?

— Sinceramente.

— Grazie!

— Sempreché — riprese ella dopo qualche momento — non aveste a mutar consiglio da oggi a domani, e ad evitare di trovarvi solo con me, come avete fatto dopo il nostro primo abboccamento. Anche allora mi avevate fatto una promessa simile a questa.

— Era un’altra questione — io dissi. — Comprenderete che io prevedeva allora ciò che è successo, e che quel contegno non aveva altro scopo che di evitarlo.

— Voi non sapete come ne sono mortificata.

— Di che?

— Di ciò che è successo.

— Perché? Non ne è il caso. La vostra simpatia mi onora, e la vostra sensibilità non forma che l’elogio del vostro cuore.

— Quanto siete indulgente! — diss’ella con un sorriso pieno di ironia.

Era disgustato di quella freddezza. Comprendeva che essa voleva mostrarsi indifferente al mio rifiuto, e che il suo amor proprio umiliato gliene dava tutti i diritti; pure, mi faceva pena il vederla irridere a quell’affetto che aveva creduto sí serio e sí veemente.

— Vi siete divertito a Milano?

— Assai.

E lo dissi apposta con enfasi.

— Confessate che quella donna, lei… la mia rivale, — riprese essa marcando queste parole con un sorriso, — abita a Milano, e che vi siete andato per rivederla.

— Era facile indovinarlo. Non è cosa che indichi in voi una penetrazione molto profonda.

— Sono sí ingenua sul conto vostro! E vi ritornerete?

— Prestissimo.

— Se ne avrete licenza.

— S’intende.

— Ah! ah! — esclamò ella sorridendo — dirò io una parola a mio cugino. Dipenderà tutto da lui. Scommetto che avrete bisogno della opera mia.

— Signora! — io dissi vivacemente — non comprendo le intenzioni che vi consigliano a farmi questa offerta, e mi astengo dal rispondervi.

— Rifiutereste perfino la mia mediazione?

— Non vi avrei creduta capace di offrirmela!

— Siete geloso della mia dignità! Ciò mi piace. Ma avrei fatto volontieri una bassezza per voi. Che volete? È un capriccio. Amate molto quella donna?

— Ve l’ho detto, alla follia.

— È bella?

— Un angelo.

— È buona?

— Un angelo.

— Perché non la sposate?

— Ha marito.

— Ah! E la stimate?

— La stima è una condizione dell’amore.

— Non è vero, ma non importa. Vi renderà dunque molto felice?

— Tanto che temo morirne.

— Sono contenta — diss’ella.

Tacemmo per qualche istante tutti e due. Essa lacerava colle dita l’estremità di un fazzolettino di garza che s’era annodato al collo, e guardava fisso a terra senza batter palpebra.

— Sentite, — le dissi io dopo qualche momento — io soglio porre in tutte le mie azioni una franchezza con cui mi vanto di non aver mai avuto la debolezza di transigere. Questo dialogo pieno di ironia mi umilia, questo ferirsi scambievolmente non è né leale, né onesto, soprattutto è indegno di noi. La nostra situazione è ora ben definita. È necessario che non torniamo piú su questo argomento.

— È ciò che io desiderava.

— Ne sono felice. Spero che non avremo piú motivo di parlare di noi.

— Potete anche sperare che non ci vedremo piú.

— Sia, — diss’io esitando — sarebbe affliggente, ma utile.

Ella si alzò, s’inchinò freddamente, ed uscí senza guardarmi.

Non l’avrei io realmente piú veduta? Ne dubitava.

XXIV

Però, ripensandoci, era lieto di queste spiegazioni. Esse mi davano almeno il diritto di dimenticarla, e mi scioglievano da quel debito di pietà che mi pareva aver contratto verso di lei. Buona, mite, soffrente, l’avrei avuta cara e compianta; fredda, ironica, sprezzante, non avrei piú sentito per essa che dell’indifferenza. Ciò che mi teneva in pensiero era l’impossibilità di darmi ragione della mutabilità del suo contegno, dell’incoerenza della sua condotta. Per quanto mi arrovellassi non poteva comprendere la natura di quel carattere, non riusciva a metterlo bene in luce. Fino a quel momento era stato incerto tra l’ammirazione e il disprezzo — gli estremi della sua condotta esigevano apprezzamenti estremi — dopo quel dialogo, freddo, caustico, artificioso, non sentiva nemmeno piú il bisogno di giudicarla — essa mi era perfettamente indifferente.

Perciò alla sera, quando mi fu detto che ella era ammalata, ascoltai quella notizia con freddezza, e l’abitudine di non vederla piú per molti giorni fu causa che me ne dimenticassi interamente.

Avrebbe ella serbato la sua promessa? Incominciava a crederlo. A tavola non si apparecchiava nemmeno piú per lei, e nessuno ne riparlava. Il suo posto era stato occupato da un nuovo commensale. Ella era andata ad abitare un altro appartamento lontano dalla sala da pranzo; e siccome non vedevamo piú, come prima, entrarne ed uscirne i medici e le cameriere, non v’era piú nulla che potesse richiamarla al nostro pensiero, e ciascuno di noi se ne era facilmente dimenticato.

Confesso qui di aver nutrito per essa un sentimento che mi sono rimproverato assai spesso. Io odiava quasi quella donna. Allora ne attribuiva la cagione a ciò, che mi pareva che ella avesse voluto farsi giuoco della mia sensibilità; piú tardi compresi che le cause ne erano differenti. Vi è nulla di piú ridicolo di una emozione non divisa. Nulla è piú atto a renderci inamabile una persona che non possiamo amare che il vederla usare a nostro riguardo i modi e il linguaggio di un amore appassionato. La nostra ripugnanza cresce in proporzione dello zelo che ella pone a superarla. Nessuna legge in natura è piú inesorabile di quelle che reggono le simpatie e le antipatie. Non è vero che l’amore sia una questione di sentimenti, esso non è che una questione di nervi, di fluidi, di armonie animali: l’identità dei caratteri, la stima lo fortificano, non lo creano. Noi siamo spesso ingannati da queste cause apparenti, perché l’identità del carattere non è che un effetto dell’identità della costituzione.

Chi non vorrebbe dare all’amore un’origine piú spirituale e piú nobile? Ma non è possibile! Bensí egli può essere un impulso ad azioni nobili. L’amicizia gli è superiore, perché non è esclusiva. Io, come qualunque altro uomo, fui qualche volta preferito da donne giovani e avvenenti che non ho potuto riamare, nemmeno d’amor fisico; aveva ripugnanza per ciò che avrebbe formato l’altrui felicità, e ne soffriva. Avrei potuto strapparmi il cuore, ma non avrei potuto sentir nulla per esse.

Cosí era di Fosca — se non che la sua bruttezza la poneva anche fuori di questa legge.

XXV

Un giorno — ne erano trascorsi piú di venti dacché l’aveva veduta l’ultima volta — suo cugino non comparve a tavola — tutta la casa era in disordine e i camerieri ci avvertirono che Fosca, peggiorata improvvisamente, si trovava in pericolo di vita; ci fossimo perciò accontentati di un pranzo improvvisato alla meglio.

Quella notizia mi giungeva cosí inattesa, e mi trovava cosí disarmato da quella lunga dimenticanza, che mi sentii colto da un súbito terrore, quasi avessi dovuto essere io la causa della sua morte. La mia debolezza mi induceva a credermi colpevole, e mi creava dei rimorsi che non avrei dovuto sentire.

Sarebbe ella morta per me? Questo pensiero mi trapassava il cuore come una lama di coltello.

XXVI

Nella sera di quel giorno medesimo ricevetti una visita del dottore che aveva conosciuto in sua casa.

— Devo parlarvi premurosamente d’una cosa che vi riguarda — diss’egli entrando e sedendosi. — Vi prego anzitutto a non tacciarmi d’indiscrezione se, mio malgrado, sono venuto a conoscenza di un segreto del vostro cuore — dico del vostro cuore tanto per modo di esprimermi — e se ho voluto accettare un mandato che in altre circostanze avrei rifiutato volentieri; comprenderete fra poco che era mio dovere di farlo.

— Dite, dite — esclamai io ansiosamente.

— Ecco, mi spiegherò con poche parole, abbiamo il tempo misurato. La signora Fosca, la cui salvezza è in questo momento assai dubbia, mi ha raccontato ieri quanto è successo tra lei e voi — è una confidenza che ella mi ha fatto spontaneamente. Voi avete respinto il suo affetto — né ciò mi fa meraviglia, né credo che io avrei fatto diversamente — pure questo rifiuto ha bastato a dare uno sviluppo decisivo alla sua infermità. Quella donna si lascia morire per voi, e…

— Per me! — interruppi io — e si lascia morire… Non si tratta dunque d’una malattia?

— Ma sí, — diss’egli impazientemente — di una cosa e dell’altra. La sua vita è attaccata a un filo, la sua salute è cosí cagionevole che basterebbe un lieve sforzo di volontà ad ucciderla, come ne basterebbe uno contrario a salvarla. Non posso farmi comprendere di piú da voi, non siete medico, e d’altronde questo caso è quasi anche fenomenale in medicina. Vorrei che mi credeste ciecamente. Quella donna non aveva certo una vita assai lunga d’innanzi a sé — si tratta d’un male inguaribile — ma se tranquilla, se calma, avrebbe potuto vivere forse ancora qualche anno. La passione che ha concepito per voi, il dolore e l’umiliazione del vostro rifiuto saranno forse sufficienti a cagionarle la morte. Vediamo talora le stesse cause produrre effetti ancora piú pronti in costituzioni sane e robuste.

— Le stesse cause! — ripetei io — ma credete realmente che ella abbia sentito per me una di queste passioni serie e inguaribili? Credete che un amore appena concepito, appena confessato, non corrisposto, possa elevarsi in un attimo a questo grado di passione? Egli è che io non ho potuto comprender nulla del carattere di quella donna. Non riesco a spiegarmi la sua condotta, mi trovo di fronte a lei come di fronte ad un mito.

— Che cosa vorreste capire del carattere di una creatura che vive continuamente sotto l’influenza di una malattia nervosa, la piú complicata, la piú assoluta, la piú fenomenale? Bisognerebbe che conviveste con lei dieci anni, per afferrare, nei pochi e rarissimi momenti di calma, il fondo vero e naturale del suo carattere. Sapreste dirmi come è fatto il letto di un fiume che scorre sempre torbido e gonfio? La sua arditezza vi sarà sembrata strana, la sua prontezza ad amarvi incomprensibile, lo capisco facilmente; pure io vi dico che l’onestà di quella donna malata vale per lo meno l’onestà di cento donne sane. È la malattia dell’amore, è l’irritabilità elevata all’ultima potenza. Voi altri spiritualisti vivete costantemente in un mondo pieno di ubbie, non capite nulla della natura umana; avete fatto dell’onestà della donna una questione di virtú e di carattere, mentre non è quasi mai che una questione di nervi e di temperamento. Se Lucrezia avesse avuto una costituzione meno linfatica, un sistema nervoso meno languido, se fosse stata malata d’isterismo, credete che la monarchia dei Tarquini?…

— Via, — diss’io interrompendolo — sapete che abborro da queste teorie materialistiche, che non le voglio accettare, per quanto la ragione si ostini a ripetermi che sono le vere. Mi avete detto che il nostro tempo è limitato, sentiamo cosa posso fare per quella donna.

— Una cosa semplicissima.

— Cioè?

— Venire da lei.

— Da lei! Quando?

— Subito.

— E come?

— Sapete che io abito nella stessa casa; l’appartamento di Fosca comunica col mio mediante un uscio che è chiuso, ma che mi sarà facile aprire, ancorché non ne abbia la chiave. Ella lo sa; le ho parlato di questo progetto, è lei che mi ha pregato di comunicarvelo. Basterà che io dia ordine di lasciarla sola perché anche suo cugino si astenga del venirci. Credo che non vi sia altro mezzo di salvarla, e immagino che non vorrete astenervi dall’usarne.

— Ma, e poi?

Quando la sua malattia sarà tornata allo stato normale, vedremo. Intanto…

— Dovrò prometterle di amarla?…

— S’intende, e con quanta maggior dolcezza potrete.

— È una cosa terribile.

— Lo immagino — diss’egli prendendo il suo cappello. — Ve ne aveva avvertito io, ve ne ricordate?

— E perché me ne avevate avvertito? Forse che ella ha fatto altrettanto con altri? Come avevate fatto a prevedere?…

— La sua condotta è irreprensibile, — diss’egli — ed è ciò che forma il mio stupore; io solo posso comprendere ciò che le costa questa condotta! Ma in quanto a ciò che è successo con voi lo aveva immaginato. Noi siamo gente rozza, tipi grossolani, non era il caso, ci vogliono altre donne per noi. Essa ha una mente colta, uno spirito delicato e romantico; voi eravate l’uomo fatto a posta; l’ho detto a me stesso appena vi ho veduto: ecco l’uomo! Figuratevi, conosco quella donna da cinque anni. Voi siete un bel giovine, e la bellezza è cosa che si sconta quasi altrettanto come la bontà. Buoni e belli! Guai a coloro che vengono al mondo colla macchia di questo peccato originale!

— Me ne era accorto, — proseguí egli intanto che io mi apparecchiava ad uscire — ma siccome non me ne dicevate nulla, non voleva forzarvi a farmi questa confidenza. Capiva che non era cosa da far venire il ruzzo di contarla. Quella volta che andaste a Milano, ella stette assai male, credeva che la morisse; ebbe un assalto di nervi terribile, poi si riebbe subito nel giorno che ritornaste. Ma spicciatevi, — aggiunse il dottore guardando il suo orologio — se farà d’uopo attenderete nella mia camera.

Uscimmo assieme. Dio sa in quale stato d’animo io mi trovava!

XXVII

Mi convenne attendere due ore nelle stanze del medico, e per maggior cautela in un buio perfetto. Se non era che la luna era in quella notte piena e chiarissima, non avrei potuto distinguere certi ossicini e certi teschi di cui il dottore aveva ornato simmetricamente il suo caminetto, come di altrettanti ninnoli; e che in quel momento, e visti cosí in quella penombra, non era ciò che vi fosse di piú adatto a mettere in calma il mio spirito, e a prepararmi a quello strano appuntamento.

Sentiva di là la voce fioca e dolce dell’inferma, e il cicalare sommesso del medico con suo cugino.

Era vicina la mezzanotte, allorché intesi Fosca dire alla sua cameriera:

— Mi sento bene, e ho bisogno di dormire, e di esser sola; va pure, e non venire se non ti chiamo.

La cameriera se ne andò, lietissima di quella concessione. Il medico si accomiatò dal colonnello, dicendogli:

— Riverrò domattina per tempo, occorre anzi tutto che non la si disturbi, son certo che passerà una notte quieta. Non si dimentichi di prendere la valeriana. Buona sera!

— Buona sera!

E l’udii aprir l’uscio ed uscire.

Vi fu un breve momento di silenzio.

— Buona notte, — le disse per ultimo suo cugino — me ne vado perché tu possa dormire. Appena alzato verrò a vederti, e se non ti sentissi bene fammi chiamare, non avere riguardi, diavolo!…

— Sta certo, addio.

— Addio.

Ed uscí egli pure.

Il medico risalí l’altro braccio della scala, e rientrò nella stanza.

— Siamo a tempo, — diss’egli — attendiamo però qualche minuto per maggior sicurezza. Intanto…

Prese uno scalpello di cui si serviva per le sezioni anatomiche, e svitò con destrezza le viti della serratura. L’uscio fu subito aperto.

— Ecco i miei amici — diss’egli mostrandomi i teschi che erano sul caminetto e facendovi passare dinanzi la fiamma della candela. — Essi vi faranno compagnia, intanto che io resterò fuori a giuocare la mia partita di tarocchi; non vi daranno disturbo, sono gente quieta. Aspettate qualche momento ad entrare; e abbiate giudizio, — aggiunse mezzo tra il serio e il faceto — io sarò di ritorno fra un paio d’ore.

Rimasi solo, in preda ad una tristezza inesprimibile.

Mi pareva che la fortuna si prendesse giuoco di me (e dico la fortuna, poiché mi ha ripugnato sempre il riferire i miei mali alla Provvidenza, come a cosa che mi è dolce reputar equa e benefica), tante e tanto stranamente dolorose erano le circostanze in cui allora mi trovava. Lontano dalla donna che amava piú della mia vita, che non avrei riveduto forse mai piú, il cui amore aveva ritemprato la mia fede e il mio ingegno; adorato da lei, buona, bella, simile in tutto a me, riflesso dell’anima mia, doveva darmi ad una creatura che quasi abborriva, usare con lei i modi dell’affetto, ripeterle le stesse espressioni che aveva dette a Clara, versare in essa la piena del mio cuore tumultuante!… Oh se fosse stato per Clara che io mi trovava lí, in quella camera, se fosse stata essa che io stava per riabbracciare, di quanta felicità sarebbe stata innondata la mia anima! E pensava ai primi giorni del nostro amore, a quella prima volta che l’aveva attesa nel mio stanzino, pazzo, ebbro, delirante; al tremito che aveva provato al contatto della sua mano, al fruscio del suo abito, al suono della sua prima parola…

Entusiasmi svaniti per sempre, inganni, errori, illusioni — unico vero, unica grandezza della vita — egli è da gran tempo che io vi ho perduti; né ritrovo oggi tampoco le traccie delle vostre rovine, o un eco delle vostre gioie per rammentarvi e per piangervi.

Se avessi esitato ancora qualche istante ad entrare nella camera di Fosca, non vi sarei andato piú; me ne sarebbe venuto meno il coraggio. Vi entrai risoluto.

Al lieve rumore dell’uscio trasalí, e rivolse il capo dalla mia parte.

— Son io, Giorgio, non temete.

— Oh mio Dio! oh mio Dio!

E si coprí il volto con un lembo del lenzuolo. Singhiozzava cosí coperta e fremeva.

Mi sedetti al suo capezzale, e mi guardai dintorno. La stanza era piena di fiori, il letto era bianco come neve, e pareva tutto di pizzo, una lampada posta in un angolo emanava una luce debole, ma chiara e trasparente come luce di notte lunata. L’amore avrebbe trovato là il suo tempio.

Si scoperse il volto ad un tratto, mi guardò a lungo con espressione di affetto ineffabile, poi mi disse:

— Sapeva che sareste venuto.

Vidi lucere una lacrima sui di lei occhi, e mi sforzai a sorriderle. Levò un braccio di sotto le coltri, io le porsi una mano che si portò alle labbra e baciò convulsivamente.

— Si fanno tali follie prima di morire — diss’ella.

— Non pensate a morire.

— Dacché siete qui non ci penso piú, sono guarita. Mi perdonate di avervi pregato di venire?

— Non vi perdono però di averlo fatto sí tardi.

— Oh Giorgio! — esclamò ella con aria di gratitudine e di rimprovero — io leggo nel vostro cuore.

Stette un momento silenziosa, poi si animò improvvisamente, ed esclamò con entusiasmo:

— Io vi adoro.

Prese un mazzetto di mughetti che era sul tavolino, e lo avvicinò alle mie labbra.

— Perché?

— Baciatelo.

— Perché?

— Baciate questi bei mughetti.

Ubbidii. Si portò subito il mazzolino alle labbra, lo baciò con trasporto, e lo riavvicinò alle mie. Compresi il suo desiderio.

Mi curvai sopra di lei, e la baciai sulle guancie.

Chiuse gli occhi, e rimase assorta ed immobile. Meravigliai che non mi avesse reso quel bacio.

— Dammi del tu, — riprese improvvisamente riscuotendosi.

— Con tutta l’anima.

— Chiamami col mio nome.

— Fosca.

— Di’: Giorgio e Fosca.

Lo dissi.

— Dimmi: ti amo.

— Ti amo.

— Baciami.

La baciai con finto trasporto.

— Oh Giorgio!

Proruppe in lacrime, e si coperse il volto colle mani. Passammo quasi una mezz’ora senza parlare. Quello sforzo l’aveva esaurita. Mi guardava in silenzio, io la guardava in silenzio. La notte era sí quieta che sentivamo gli oscillamenti gravi e misurati del pendolo di un grosso orologio di una torre che sovrastava alla casa.

— Come stai? — le chiesi io finalmente.

— Bene e male ad un tempo. Tu mi comprendi. Se morissi ora sarei felice: ciò non annullerebbe le angoscie di tutta la mia vita, è vero, ma il morire felice sarebbe già per me un bene insperato.

— Sarai piú felice vivendo.

— Mi amerai se viva?

— Sí…

— Non dirlo, non dirlo; cioè, sí, dillo. Povero giovine! — aggiunse ella prendendo le mie mani — io comprendo l’importanza del sacrificio che ti impongo. Io lo so che tu non puoi sentire per me che della pietà, ma ho caro d’illudermi, e ho caro il sentimento che ti spinge a far nascere in me queste illusioni. Una volta credeva che la pietà fosse poca cosa, che non si potesse non sentirla, perché io aveva pietà di tutto ciò che soffriva, fosse anche stato un povero uccello, un povero cane, una povera bestia qualunque; ma piú tardi ho imparato come gli uomini siano avari anche di compassione, perché la compassione è il riflesso di un dolore altrui, e diventa un dolore proprio. Io so apprezzare la tua pietà, io te ne sono grata perché sento che in te è ancora piú meritoria dell’amore.

Volli risponderle; ella mi posò un dito sulle labbra, e riprese sorridendo:

— Taci, taci, mi dirai piú tardi delle bugie, ti costringerò a dirmene tante! Prendi la lampada, mettila qui, voglio vederti bene.

Posai la lampada sul tavolino. Ella mi fissò in volto con aria rapita, e mi disse:

— Come sei bello, Dio! come sei bello!

Ella stessa non mi parve in quel momento sí brutta, come mi era sembrata nei primi giorni della nostra conoscenza. La sua testa era affondata nel guanciale per modo che non si poteva indovinarne le sproporzioni, i suoi capelli neri, folti, lucentissimi, le scendevano scomposti per le spalle e ne incorniciavano il viso, la cui pallidezza e la cui magrezza erano estreme; i suoi grandi occhi neri erano inumiditi dalle lacrime, e brillavano stranamente al riflesso della luce della lampada; soltanto la fronte smisuratamente grande e sporgente rompeva l’armonia fantastica delle linee scorrette di quel volto.

Mi ricorse al pensiero una Madonna che ho pregato molto da fanciullo, il cui volto di cera bianca, i cui capelli di crine nero, i cui occhi di vetro smerigliato, soliti a mandare strani riverberi alla luce dei ceri della chiesa, la rendevano assomigliante a Fosca, benché d’una rassomiglianza senza vita e senza espressione.

Forse ella si avvide dell’effetto che produceva in me quell’esame del suo volto. Si affrettò ad abbassare il paralume della lampada, e a soggiungere:

— Non voglio che tu mi veda! sono sí brutta!

— Non è vero.

— Oh non adularmi cosí.

— La bontà ti rende bella.

(E in quel momento era forse sincero).

— Tu apprezzi questa bellezza?

— Piú di tutto.

— Credi che il mio cuore è buono?

— Se lo credo!

— Come battono i cuori buoni? Li sai tu distinguere dai cattivi? Senti il mio.

Mi prese una mano e se la posò sul petto.

— E il tuo? Oh il tuo cuore!

— Esso ti ama, Fosca, ti ama.

— Come… una sorella?

— Sí, come un’affettuosa sorella.

— Ah!

— Come vuoi. Ti ama come tu vuoi. Dagli un altro nome, è sempre amore.

— Grazie, Giorgio, grazie. Io ti voleva dimenticare, sai, io era ben ingrata, era anche ben sciocca. Credere di poterti dimenticare! Voleva morire senza vederti… poi, non ho avuto la forza… quel giorno fui cosí cattiva con te!

— Non dirlo, son io che fui cattivo.

— Tu no, oh no, Giorgio, tu non puoi esserlo. Egli è che la mia malattia mi rende trista; il sapere che sono brutta, che sono malata, che nessuno mi può amare… Che povera creatura son io! Non ci hai mai pensato? Non ti venne mai in mente d’immaginare quanto io debba essere infelice! Ci sono dei giorni in cui questo pensiero mi strazia, e dico a me stessa: dunque sarò sempre cosí sventurata? Dunque non vi sarà mai nulla per me? Mi odieranno tutti? Mi derideranno tutti? Oh Giorgio, mio buon angelo, tu non sai quanto ciò sia terribile per una donna, per me, per un essere sensibile e sventurato come son io!

S’interruppe singhiozzando.

— Calmati, non piangere, te ne scongiuro, ciò ti farà male.

— Quel giorno pensava a queste cose, e perciò fui cattiva; lo sembrai ancora di piú, perché non lo sono, e mi sforzava di apparirlo. Ma tu mi hai perdonato!

— Oh, tu sei sí buona! Nulla io ho a perdonarti, nulla!

Suonarono le due ore all’orologio.

— Come passa presto la notte; il tempo vola quando si è felici — diss’ella. — Fino a quando resterai qui?

— Fino a quando vorrai.

— Fino a domattina?

— Sí.

— Cosa faremo?

— Parleremo, ma forse ciò ti affatica.

— Un poco.

— Penseremo.

— Metti la tua testa qui, cosí, vicino alla mia, dammi la tua mano. Dormiamo?

— Come vuoi.

— Sogniamo?

— Sí.

Tacemmo tutti e due. Ella chiuse gli occhi, e parve raccogliersi e dormire. Passammo cosí un’ora che mi parve un’eternità. Ogni qual volta io faceva atto di muovermi, ella trasaliva e stringeva piú forte le mie mani. Pareva leggesse nel mio pensiero, tremava ad ogni idea spiacevole che mi passava nella mente, e mormorava il mio nome.

Si riscosse al rumore di certi carri che passavano sulla via.

— Sei tu, sei tu; —mi disse con gioia — non dormiva ma sognava. Mi pareva di essere ancora fanciulla, e che tu fossi il mio angelo custode, quell’angelo che allora pregava tutte le sere, e che immaginava dovesse vegliare la notte al mio capezzale; mi sembrava che tu avessi delle ali bianche. Ti ricordi quando si era fanciulli? Pensare che allora non ti conosceva, non ti amava! Quando si era fanciulli!…

— Eri piú felice allora?

— Sperava di divenirlo, e perciò lo era. Dio! Come me ne ricordo bene in questo momento! Al mattino, quando ci si svegliava per tempo, e si sentivano passare i primi carri come adesso, e abbaiare i cani da lontano, e si vedeva entrare il primo filo di luce per la finestra. Che senso singolare misto di paura e di gioia! Hai provato anche tu queste cose? Te ne sovvieni?

— Sí, e me ne sovvengo anch’io.

— Qualche giorno ti conterò tutta la mia vita sai, voglio che tu conosca il mio passato. Aveva incominciato adesso a scrivere per te alcune memorie, e voleva che ti fossero consegnate dopo la mia morte, ma non ho potuto continuare; stavo cosí male! Ora non voglio che tu le veda; e poi ora non devo morire. Io sono guarita. Apri le imposte delle finestre, voglio vedere le stelle. Cosí, solleva le cortine.

Il cielo era chiaro e sereno; ma l’aurora aveva già incominciato a spuntare, e non si vedevano che poche stelle pallide e quasi bianche. La brezza del mattino si cacciava innanzi alcune nubi assai basse, e con tale impeto che la luna, ora velata da esse, ora scoperta, pareva correre a precipizio pel cielo. Di lontano si sentivano trillare i grilli nelle praterie.

— Ritorna vicino a me — mi diss’ella. — Siediti ancora. Non lasciarmi cosí presto. Già giorno! Che bel cielo! Che belle stelle! Credi che sieno tanti mondi?

— Senza dubbio.

— E che li abiteremo un giorno?

— Ma! Forse!

— Che cosa siamo noi! Che cosa è la vita! — esclamò ella tristemente.

E quasi avesse voluto cercare nella certezza del mio amore un compenso allo sconforto di quel pensiero, aggiunse con impeto:

— Oh amami, amami! Abbi compassione di me! Mi ami tu realmente?

— Sí.

— Mi amerai sempre?

— Sí.

— Giuralo.

Esitai un istante.

— D’un affetto puro… di un affetto fraterno!… — diss’ella.

— Lo giuro.

— Non avrei voluto esigere da te un giuramento diverso: io ne conosco l’importanza, né vorrei legarti cosí a me, quantunque sappia che la mia morte te ne scioglierebbe assai presto. Non voglio che tu sia infelice pel mio egoismo. La natura ha dato a tutti gli uomini un solo mezzo per rendere felici gli altri — amarli — io col mio amore non li posso rendere che piú miseri. Tu ami molto quella donna? — mi chiese ella con accento pieno di mestizia.

— Non me lo chiedere, Fosca, non me lo chiedere.

— E perché? Non ho io caro che tu sia felice? Ti ama ella?

— Lo spero.

— È bella?

— A me piace.

— È alta?

— Come te.

— Come si chiama?

— Clara.

— Ebbi un’amica di collegio che si chiamava cosí. È morta a quattordici anni. Era una bella fanciulla, col naso aquilino, bruna, rideva sempre… È bruna anch’essa?

— Sí…

— Ha i capelli come i miei?

— Dello stesso colore.

— Tanti cosí?

— Non so.

— Guarda le mie trecce — diss’ella sciogliendosi i nastri di una cuffietta che ne teneva riunite due dietro la testa, e gettandole giú pel letto con aria di trionfo.

— Ti piacciono?

— Sono meravigliose — diss’io, prendendone una tra le mani.

E lo erano realmente.

Ella sorrise con aria vanitosa, lieta di quella specie di superiorità che era quasi certa di avere su Clara, e disse:

— Te ne voglio dar una. Strappala.

— Strapparla!

— Sí, strappala, strappala, tira — diss’ella con calore agitandosi.

— Ma è impossibile. E poi ciò ti ucciderebbe… in questo momento.

— Ebbene, strappami un capello, uno soltanto, ciò non mi farà male.

— Ma…

— Via, è un capriccio, — diss’ella — accontentami.

Ne strappai uno che mi avvolsi attorno al dito.

— Hai ragione — diss’ella. — Un capello solo è nulla, ma una treccia sarebbe di triste presagio. Quando gli amanti si regalano i capelli, è segno che l’amore sta per finire. Sono una cosa assai malinconica i capelli. Non ci hai mai pensato? Quando sarò vicina a morire, ti regalerò le mie trecce. Oh mio Dio! — esclamò ella dopo qualche momento di silenzio — è già giorno chiaro e bisognerà che tu te ne vada. Riponi la lampada in quell’angolo, là, spegnila.

Allo spegnersi della fiammella della lampada, la stanza parve cambiare d’aspetto; molti oggetti che erano in luce rientrarono in una semi-oscurità, e molti che non lo erano apparvero piú chiari e piú illuminati. Tornai a sedermi vicino a Fosca che mi buttò le braccia al collo piangendo. La luce del giorno me la mostrava adesso in tutta la sua orridezza.

— Tu mi lascerai ora, — esclamò ella con aria desolata — oh mio buon amico, oh mio povero Giorgio! Ti ricorderai tu di me? Oh mio Dio!

— Non ti affliggere, non ti affliggere, Fosca, io non ti dimenticherò mai.

— Perché, vedi, non potrò rivederti piú finché non sarò guarita. Cosa ne direbbe il medico? Stanotte era necessario che io ti vedessi, ma dopo! Ebbene, ti scriverò, sei contento?

— Sí, ne sarò felice.

— E poi, fra pochi giorni incomincerò ad alzarmi, e ti vedrò quando verrai solo al mattino. Poi guarirò, poi faremo delle passeggiate…

— Tu hai sorelle? — mi chiese ella sorridendo in mezzo alle sue lacrime.

— Sí.

— E le baci?

— Qualche volta?

— Baciami come loro.

La baciai.

— Non cosí, non cosí, baciami come un’amante!

Si sollevò un poco sul letto, e mi strinse al suo seno con forza. Mi volse la testa verso la luce, si scostò un poco, e mi guardò con entusiasmo.

— Voglio vederti ancora… piú bene, cosí, cosí… Oh mio amore! Oh mio bello!

Mi riabbracciò con delirio, e ricadde spossata sul guanciale.

— Addio — le dissi io.

— Non partire, non lasciarmi ancora.

— Ma è tardi!

— Resta, resta.

— Verranno a vederti, ci sorprenderanno.

— Ebbene, parti, ma lasciami qualche cosa di tuo, un oggetto portato da te, il tuo fazzoletto.

Glielo diedi.

— Va’ ora, va’ — diss’ella. — Fuggi, fuggi… Questa emozione mi ha vinta, la malattia mi riassale; dovrò gridare, verranno a vedermi, corri…

Non intesi piú nulla. Riattraversai fuggendo le stanze del dottore che dormiva vestito sopra un divano, e nei cui teschi mi parve di rivedere riprodotta e moltiplicata l’immagine spaventosa di Fosca.

Intendeva ancora dalla via le sue grida acute e terribili.

 

XXVIII

Trovo nel mio giornale questo frammento scritto in quel giorno medesimo:

"Sono triste, muto, prostrato, annichilito. Appena oso credere alla realtà di una sciagura cosí grande. Fu inganno suo? Fu artificio anche cotesto? Io non lo so, io non so altro se non che mi sono legato per sempre a quella donna. Mi sono lagnato col medico, e gli ho espressi i miei dubbi sulla gravità di quella malattia, e sulla indispensabilità di quella visita fatale. Se ne offese, e mi disse che Fosca sarebbe forse già morta se io non ci fossi andato, e che fra pochi giorni sarà invece guarita.

Terribile e strana creatura in tutto!

Ho ripensato alle cause della mia felicità presente, mi sono posto ancora di fronte al mio passato. Che cosa era io, or fa un anno? Che cosa sarebbe stato di me se Clara non mi avesse amato? La deduzione che ne ho tratto è sconfortante, ma giusta; io fui amato per compassione; non ho il debito di amare quella donna per lo stesso motivo? Sono disgustato dalla felicità. Se non avessi fatto appello ai miei dolori di un tempo, essa non mi avrebbe mai detto quali sieno i miei doveri verso quella donna. Il dolore è piú severo e piú giusto.

Non è questa mia felicità che io rimpiango — io l’amo la felicità, è vero, ma l’amo come una donna che si disprezza — rimpiango bensí quella di Clara, il bisogno di ucciderla manifestandole il vero, o di offenderla segretamente tacendoglielo. Perché le rivelerò io questa infedeltà forzata? Gliela nasconderò io? E mi crederà ella? Sarà ella generosa? Diffido dell’amore, giacché piú egli è profondo, e piú è mostruosamente egoista. L’amore è la fusione e la conciliazione di due egoismi che si soddisfano a vicenda.

Non sarei atterrito da questo affetto se credessi alla sua purezza. Avrei anzi accettato volentieri questa missione, per quanto ella sia dolorosa, e non avrei avuto scrupolo di serbarne il segreto, ma cosí è impossibile. Io vedo le lotte di Fosca; le sue contraddizioni sono troppo eloquenti, la sua malattia le ha tolto tutte quelle forze che qualche volta ci fanno trionfare delle passioni; il suo amore è amore.

Io rido di coloro che credono la nostra volontà avere un potere illimitato sulle nostre passioni, che asseriscono esistere in noi una forza sempre superiore agli istinti, sempre capace di dominarli. Io non ho esperimentate le passioni perverse; non oso investigare se la società punisca nei malvagi la natura o l’uomo; mi limito a compiangerli: ma le passioni non turpi — quelle che sono come un’esuberanza viziosa delle virtú — le ho provate, né avrei meglio potuto resistere loro, di quanto lo potrebbe una verruca all’impeto di un’onda dell’oceano. Chi mi mostra la bilancia su cui pesare la potenza della volontà e quella delle passioni? Chi è che ha parlato dell’arbitrio? Chi mi insegnerà a combattere la natura colla natura? me stesso con me stesso? Dov’è questa forza misteriosa di cui ragionano costoro?

Io non la sento. È in me, o è fuori di me? D’onde viene? Ove posso trovarla? Io era nato per amare, e ho amato; se nato per uccidere, avrei forse ucciso. La responsabilità sarebbe stata uguale. Tutto ciò che avrei potuto fare, è ciò che ho fatto e che faccio — vergognarmi della mia natura!"

XXIX

Sí, nel segreto del mio cuore io giustificava Fosca. Se volendolo l’avesse potuto, il suo amore sarebbe stato puro. Ella avrebbe voluto amarmi come una sorella; ella comprendeva la sublimità di questo affetto, e soffriva di non poterlo conservar tale. Ciò era tutto, in lei non vi era dunque alcuna colpa.

Queste pagine che mi scrisse durante la sua malattia ne erano la prova piú evidente:

"Mio Giorgio — Ti scrivo subito oggi benché il medico me l’abbia vietato. Non posso credere alla mia felicità, a me stessa. Poterti scrivere! Avere una persona cui poter dire ciò che si pensa, ciò che si sente, ciò che si soffre! E sapere che queste sensazioni, questi sentimenti, queste sofferenze sono condivise!… Non l’avrei mai sperato, non l’avrei mai sperato!

Anche prima di essere certa del tuo amore ho voluto illudermi che tu accettassi e avessi care le mie confidenze, ho voluto provare un’ombra di questa gioia, ti ho scritto quasi tutti i giorni; ma mio Dio! sapeva bene che tu non avresti letto quelle pagine, che io mi illudeva, null’altro, che io mi illudeva. Se tu sapessi cosa vuol dire avere il cuore cosí pieno! E pure…

Ti dirò una cosa che ti farà sorridere. L’anno scorso aveva una coppia di canarini, il maschio è morto quest’inverno — non so come avvenisse, incominciò ad arruffarsi, a tremare, a sonnecchiare, a non mangiar piú, e un mattino lo trovai irrigidito sul fondo della gabbia. Ebbene, la femmina, venuta la primavera, ha fatto tuttavia il suo nido, e se avessi veduto con che cura! Non aveva uova e nondimeno covava sempre, covava tutto il giorno, e pigolava in quel metro affettuoso che hanno tutti gli uccelli quando allevano i piccini. Anche oggi che siamo in estate, non si è ancora ricreduta di questa illusione. Quante volte questo povero uccello mi ha fatto pensare a me stessa, e mi ha fatto piangere!

Però tu non vedrai queste pagine, perché allora non mi amavi, perché esse appartengono ancora ad un’epoca del mio passato che ho bisogno di dimenticare per sempre. Se potessi dimenticarlo!

Tu mi devi perdonare le angoscie che ti ho cagionato ieri; devi perdonare le mie dubbiezze, le mie esigenze, le mie contraddizioni. Adesso ti scrivo col cuore calmo, e conosco ciò che vi era di reprensibile nel mio contegno, allora non lo poteva. Ho sofferto molto a vederti partire, ma oggi mi sento quieta e felice. Tu non puoi comprendere la sorpresa, dirò quasi lo sbigottimento che provo in me stessa nello scrivere queste parole che non ho mai potuto né dire, né scrivere: "Mi sento felice!".

Tant’è, bisognerà bene che tu mi conosca, ho promesso di raccontarti la mia vita e lo farò. Il medico mi ha detto che non potrò alzarmi prima di otto giorni, utilizzerò questo tempo nel farti il mio racconto. Oggi non lo potrei, ti scrivo con molta fatica.

Se sapessi quanto mi è caro il tuo fazzoletto; lo tengo sempre sul cuore, dormo con lui; ho qui ancora i fiori che tu hai baciato; e alzando un poco la testa posso vedere la sedia su cui ti sei seduto: vi ho fatto metter sopra un mio abito perché non vi si segga piú nessun altro. Oh mio Giorgio, mio adorato! mio mio! È egli vero?

Non posso scriverti di piú, mi duole il braccio; e poi non so nemmeno se potrai decifrare i miei caratteri. Sono felice e ti adoro, ecco tutto, non potrei dirti altro. Ieri, mentre salivi la scala, ho sentito la tua voce. Dio, che spasimo! Amami, Giorgio, amami. Il tuo cuore non ha che a pensare all’immensità della mia miseria per trovare in sé la forza di amarmi.

Voglio avere un altro oggetto toccato da te, ho bisogno che tu mi dia qualche altra particella della tua personalità. Ti acchiudo un mio piccolo nastro, bacialo e rimandamelo.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ho passato tutto il giorno a sognare, e perciò non ti scrivo che stasera. Ho avuto caro che oggi abbia piovuto. Una volta la pioggia mi metteva malinconia; adesso mi rallegra. Forse perché ora sono felice, mi piace che la natura sia malinconica? Non lo so. Quando si è felici si amano i piccoli dolori e le piccole contrarietà — forse per ombreggiare meglio le nostre gioie e per darvi un risalto maggiore.

Devo dunque parlarti di me? scriverti qualche cosa della mia vita? Non so come incominciare.

Quando era piccina aveva un’abitudine comune a tutti i fanciulli, e di cui veniva rimbrottata assai spesso. Chiudeva gli occhi, e vellicandoli leggermente col rovescio della mano, vedeva dei ghirigori, delle scintille, degli oggetti d’ogni forma e d’ogni colore, delle figurine, ma tutte in modo confuso, intricato, variabile. Mi succede ora intellettualmente lo stesso fenomeno, se tento di affacciarmi alle memorie del mio passato.

E sí che il mio passato fu assai povero di tutte quelle gioie che formano ordinariamente per le donne una causa di dolci rimpianti — amori, adulazioni, vanità soddisfatte — io ho provato nulla, o quasi nulla di tutto ciò. La maggior parte degli uomini amano inconsciamente il passato per la sola ragione che è passato, io credo di averlo caro per lo stesso motivo.

Io nacqui malata: uno dei sintomi piú gravi e piú profondi della mia infermità era il bisogno che sentiva di affezionarmi a tutto ciò che mi circondava, ma in modo violento, subito, estremo. Non mi ricordo di un’epoca della mia vita in cui non abbia amato qualche cosa. Mi asterrei dal raccontarti ora alcune particolarità di questa mia disposizione morbosa, se non fosse che ciò deve spiegarti le molte anomalie che dovrai riconoscere piú tardi nel mio carattere. La mia potenza di affettività non aveva né modi, né limiti; era una febbre, una espansione, un’irradiazione continua; avrei potuto amare tutto l’universo senza esaurirmi.

E parlo di affetti, non di amore, ché a quell’età non avrei potuto sentire altro che affetti; se quel bisogno di amore fosse perdurato sí violento fino alla gioventú, mi avrebbe trascinata a qualche eccesso colpevole.

Tutti i fanciulli si affezionano ai primi oggetti che possiedono, sopratutto alle cose che vivono od hanno apparenza di vita; ma le loro predilezioni sono superficiali, mutabili; sono meglio che affetti, un’affettuosa curiosità di conoscere. L’intensità era invece la maggiore dote della mia; amava le cose che amano i fanciulli, ma come le amerebbero gli uomini.

Mi ricordo spesso — e te lo racconto per farti sorridere — di una piccola sciagura che m’accadde a sette anni, e che mi fu causa di una malattia quasi mortale. Avevo un micio ed un canarino; erano tutta la mia affezione, non avrei saputo dire quale amava di piú. — Il micio mangiò il canarino — immagina tu il mio dolore! Uno l’aveva perduto, l’altro non lo poteva piú amare, doveva abborrirlo. Me ne corrucciai tanto, che ne fui malata due mesi.

Non ho mai amato le bambole, aveva avversione a tutto ciò che non era vivo; amava le piante ed i fiori perché mi parevano cose viventi. Non so dirti ciò che provava alla vista di un cespo di viole, di un bulbo di giacinto, di una pianticella di primule. Le sradicava, e le tramutava spesso di vaso per averle tra le mani, per vederne le radici, per guardarle bene; se morivano, ne conservava gli steli disseccati. Di tutte le sensazioni incerte e confuse di quella età, questa è stata sempre per me la piú inesplicabile — questo strano amore che aveva per le piante. Mi avviene ancora oggi di pensarvi alcune volte, senza poterne punto comprenderne la natura.

L’attaccamento che sentiva per le mie compagne, per i fanciulli, per le persone di casa, mi era spesso motivo di grandi tormenti. Esigeva dal loro affetto piú di quello che era possibile concedermi; quindi quelle contrarietà me le facevano credere indifferenti, apate, ingrate; ne soffrivo come soffrirei ora d’un vero abbandono e d’una vera ingratitudine. Una mia nutrice che io amava assai dovette allogarsi in mia casa, e rimanervi fino a che io non ebbi toccato i dodici anni, giacché mi era ammalata ad ogni tentativo che si era fatto di separarmene.

A quell’età fui posta in collegio, e mi vi innamorai di una mia compagna. Fu una passione vera, ostinata, tenace, quale non poteva sentirla che io. Quella fanciulla, che ora è donna maritata, non comprendeva nulla della profondità e dell’indole di quell’affetto; e quantunque mi riamasse, lo faceva sí freddamente che io ne era desolata. Era — benché buona — una ragazza vacua e leggera come le altre; era bellissima, e fu forse la sua beltà che mi trasse inconsciamente ad amarla. Mi ricordo, che mi alzava di notte per andarla a vedere mentre dormiva, e passava molte ore vicino al suo letto, coi piedi nudi, colla sola camicia, tutta tremante di freddo. Le rubava i suoi nastri e le sue pezzuole pel solo motivo che erano sue, la scongiurava colle lacrime a dirmi che mi voleva bene, a lasciarsi baciare. Ma ella era spesso senza pietà. Non solo quella delusione non mi guarí della mia malattia, ma mi fu anzi fatale, perché mi fece comprendere che avrei trovato difficilmente in altri cuori quell’affetto ardente e senza limiti che sentivo nel mio.

Fui levata di collegio dopo pochi mesi, e non aveva ancora quattordici anni che fui presa d’amore per un uomo di quaranta, un giudice di mandamento, un amico di mio padre che veniva in nostra casa tutte le sere. Allora, strana cosa! non aveva simpatia che per uomini molto attempati. Benché giunta all’epoca della pubertà, non era piú sviluppata di quanto lo sia una fanciulla robusta di dieci anni: egli mi trattava come una bambina, e mi faceva spesso ballare sulle sue ginocchia; le sue carezze e i suoi baci, ogni suo atto di famigliarità, mi cagionava un turbamento dolce e incomprensibile.

L’amava alla follia, benché non comprendessi nulla della natura di questo sentimento, e avessi quasi paura di lui. Era un uomo alto, serio, con una gran barba nera: ora che ci penso non so come a quell’età avessi potuto innamorarmi di un tal uomo, pure fu una passione quasi decisiva per la mia vita. Ebbi il coraggio di scrivergli una lunga lettera che egli mostrò a’ miei parenti. Mio padre rise, ma mia madre ci vide dentro il germe di una passione seria, e lo pregò a non venir piú in nostra casa. Nell’uscire, egli m’incontrò sull’uscio, mi prese pel mento e mi disse: "Mia cara piccina, vorreste incominciare troppo male e troppo per tempo; non avete avuto paura de’ miei quarant’anni? Se mia moglie avesse veduto la vostra lettera, vi avrebbe mandato a regalare un bel pulcinella". Mi strinse una guancia tra le dita, ed uscí sorridendo.

Mi ammalai di dolore e di vergogna: vissi per due anni malaticcia, pensierosa, raccolta, appassionata della solitudine e dei libri. In quel periodo di raccoglimento mi formai l’intelletto ed il cuore; vi era entrata fanciulla, e ne uscii donna.

Ma sono già assai stanca, mio caro Giorgio, proseguirò domani. Addio, addio.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ove sono rimasta? Eccomi a riprendere.

Mio padre e mia madre mi adoravano, e si adoravano. Erano due creature stranamente ingenue, stranamente buone. Si erano fatti all’amore diciassette anni prima di sposarsi; erano vecchi tutti e due, e non avevano avuto altri figli. Questo nome di Fosca che a te sarà parso assai singolare, è comunissimo in quella provincia delle Romagne dove son nata, e me l’avevano dato perché era stato quello d’una bisavola che non ho conosciuto.

L’affetto che mia madre aveva per me la rendeva sí cieca a’ miei difetti, che l’educazione che ella mi diede fu affatto impotente a correggermene. La sua illusione piú costante, quella che non si smentí mai, nemmeno dopo che le malattie m’ebbero deformata come tu vedi, era che io fossi bellissima. Parlava di me alle sue amiche come di un prodigio di avvenenza, e si spaventava dei pericoli che circondavano la mia bellezza. La verità era che le attrattive della gioventú supplivano in parte al difetto di quelle della natura; non ero né brutta, né spiacevole, ma non ero bella; e fu la convinzione che ella aveva infuso a me fino da piccina, che mi rese doppiamente terribile il dovermi ricredere di un errore cosí dolce.

Tu non sai cosa voglia dire per una donna non essere bella. Per noi la bellezza è tutto. Non vivendo che per essere amate, e non potendolo essere che alla condizione di essere avvenenti, l’esistenza di una donna brutta diventa la piú terribile, la piú angosciosa di tutte le torture. Nella vita dell’uomo non vi è miseria paragonabile a questa. L’uomo, ancorché deforme, ancorché non amato, ha mille divagazioni, ha mille compensi; la società gli è indulgente; non potendo mirare all’amore, egli mira all’ambizione; ha uno scopo; ma la donna non può mai uscire dalla via che le hanno tracciato il suo cuore e la sua vanità, non può tendere ad altro fine che a quello di piacere e di essere amata. Non vi è che la maternità che possa compensarla qualche volta della privazione dell’amore, ma questa ne è il frutto, ed è spesso negata alla bruttezza.

Mio caro Giorgio, tu comprenderai ciò che io ti voglio dire: io ho provato questo tormento in tutta la sua estensione; io piú che molte altre infelici, giacché la mia sensibilità era disgraziatamente ancora piú mostruosa della mia laidezza. Sí, della mia laidezza; avrò il coraggio di giudicarmi senza pietà, e di chiamare le cose col loro nome. Se tu sapessi… io ho odiato molto me medesima, ho odiato molto la mia disavvenenza, ma non mai tanto quanto ho detestato e detesto ancora il mio cuore. Sono le sue esigenze che mi hanno reso doppiamente terribile il peso della mia deformità.

Allora io non era però cosí brutta, e se quella strana illusione che mia madre aveva fatto nascere in me coi suoi elogi non avesse dapprima lusingata, poi ferita improvvisamente la mia vanità abbandonandomi, avrei potuto rassegnarmi alla mia fortuna che non era delle piú tristi, e forse anche appagarmene. Il disilludermi mi costò invece molti dolori. Giunta ad un’età in cui la bellezza doveva esser tutto, riconosceva di non essere bella; quell’illusione non aveva durato che per tutto quel tempo in cui non sarebbe stato necessario di averla.

Ti ricordi di aver avuto sedici anni? Hai provato anche tu quella febbre, quelle smanie, quelle inquietudini incomprensibili che accompagnano quell’età? Hai sentito anche tu il bisogno di straziarti il cuore con mille sventure immaginarie, di crederti vittima di persecuzioni che non soffrivi, di fantasticare una felicità impossibile per godere crudelmente di disilluderti? Hai provato tu pure quel bisogno che ti spingeva a cercare una chiesa per pregarvi e per piangervi? La mia vita fu cosí povera anche di amicizia che non ho ancora potuto penetrare nel cuore di un’altra creatura: non so cosa abbiano provato le altre donne a quell’età, ma ciò che ho provato io è fuori di ogni espressione. Il bisogno di essere amata era il segreto di tutte le mie sofferenze, io lo comprendeva. La natura non mi aveva dotata soltanto di un cuore sensibile, ma di una costituzione inferma, nervosa, irritabile; io non poteva avere né quella forza passiva che dà l’apatia, né quella castità naturale che dà la robustezza: l’amore doveva essere il mezzo e lo scopo di tutta la mia esistenza.

Non tardai a convincermi che non poteva inspirare dell’affetto. Tutte le donne scelgono, io doveva lasciarmi scegliere. E questa piccola rinuncia che era necessario fare al mio amor proprio, non sarebbe pur stata assai crudele se qualcuno mi avesse almeno preferita ed amata. Vissi invece fino a vent’anni, senza aver inspirata la benché menoma affezione; senza aver ottenuto, nemmeno per gioco o per pietà, il conforto di una parola amorevole.

La condizione delle donne del volgo ha ciò di preferibile, che l’amore tra esse non obbedisce a leggi di etichetta; possono non essere amate veracemente, e tuttavia godere delle apparenze dell’amore, e spesso anche de’ suoi vantaggi. L’educazione non ha reso il loro cuore cosí esigente come il nostro; esse non sentono il bisogno di sacrificargli le dolcezze di un affetto colpevole. Non vi è confronto tra l’infelicità che la bruttezza può cagionare ad una donna ricca, e quella che può cagionare ad una donna povera; gli occhi del mondo non si rivolgono mai su quest’ultima — il codice dell’onore non colpisce che la donna ricca.

Mio caro Giorgio, dirti ciò che ho sofferto in quegli anni sarebbe impossibile. Coll’amore mi mancava tutto; quando non si è amate, la vanità non ha piú motivo di essere, l’ambizione non ha piú scopo, tutte le nostre piccole passioni svaniscono ad una ad una, come quelle che attingevano tutta la loro vitalità dall’amore, e non potevano sussistere senza di esso.

Mi abbandonai con furore alla passione del meditare e del leggere — passione che non mi ha lasciata piú da quel tempo — e vi trovai qualche conforto, non foss’altro quello di dimenticarmi a tratto a tratto, e di sollevarmi sulla triste realtà che mi circondava. Ma la lettura è fatale in ciò, che quella dimenticanza apparente ci ripiomba ancora piú disarmati nelle memorie che tentavamo dimenticare; che l’idea fissa dalla quale sembra distoglierci trova invece mille conferme, mille argomenti di essere, nelle pagine medesime che leggiamo. Portare le passioni nella solitudine è lo stesso che volerne essere dominati. E poi, non è la lettura, non è la solitudine che possono guarirci dell’amore, le donne non ne guariscono mai, le nature superiori ne muoiono.

Non poteva sperare nulla dagli uomini, mi rivolsi a Dio; è ciò che noi tutte finiamo di fare; se non che io l’aveva fatto troppo presto. Divenni religiosa; entrai in quel periodo di ascetismo sincero, esaltato, profondo, che tutte le donne di cuore, ancorché felici, hanno o tosto o tardi provato e superato. Mi pareva di poter dare cosí uno scopo alla mia vita. Nelle nature buone e generose l’amore non è egoista, egli non è tanto un desiderio di rendere felici se stessi, quanto un bisogno di rendere felici gli altri; non è spesso che una smania di sacrificarsi all’altrui felicità: ora mi pareva che il sagrifizio che avrei fatto a Dio della mia gioventú avrebbe dovuto soddisfare in qualche modo quella sete di amore che mi struggeva da tanto tempo senza rimedio. Molte donne furono condotte a Dio da questa illusione. Hanno esse trovato pace? È ciò che io non ho potuto esperimentare.

Un giorno mi recai sola a visitare un convento che era poco lungi dalla città, isolato, sopra un colle, come un nido di colombe, quieto, solitario, sereno. Mi sedetti sui gradini della porta. Gli alberi del cortile sorpassavano colle loro cime l’alta muraglia di cinta, e sembravano affacciarsi per mormorarmi un invito ad entrare: da quell’altura si vedeva la campagna tutto all’intorno, e la città simile ad un immenso alveare: sulla porta erano scritte le meste parole della Bibbia, "Sacro all’amore e al dolore"; tutto era pace e silenzio.

Rimasi colà assai tempo. Nel ritornare l’eco di un salmeggiare improvviso che veniva dalla chiesa parve volermi richiamare.

Era di sera; il sole tramontava, gli uccelli si raccoglievano sugli alberi… colsi una pratellina, e ne strappai i petali ad uno ad uno: "Sí e no, sí e no", l’ultimo era "sí". Decisi. All’indomani manifestai il mio progetto a mia madre. Ne fu spaventata. Si pose a piangere e mi disse: — Mia cara figliuola, tu ci vuoi far morire; pensare a lasciarci!… noi che non viviamo che per te! Entrare in un convento, alla tua età! una bella fanciulla come sei tu, colla tua dote!

Che poteva io fare? Non mi amava forse mia madre? Non aveva io il debito di riamarla? Mia madre!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ieri sera non ho potuto né proseguire, né mandarti ciò che aveva scritto. Oggi sono tentata a non continuare. Mi pareva di aver tante cose a raccontarti, e vedo che finisco col raccontarti nulla. Forse che io non ho sofferto? No, egli è che le cause delle mie sofferenze sono tutte intime, sono tutte morali, e tu puoi meglio immaginarle che io dirtele. E poi, come si può dire un dolore? come una gioia?

Ho domandato spesso a me medesima se l’apatia e l’egoismo, e talora quella melata crudeltà che li maschera, non sieno altro che una conseguenza di quelle leggi che regolano l’individualità, di quell’impossibilità assoluta di comunanza tra un essere e l’altro che ci tiene divisi e isolati, e forma di ciascun individuo un centro irremovibile nel gran mondo delle sensazioni. Dolori, speranze, affetti, tripudi, tutto è essenzialmente individuale. Sembra che da tutte le leggi della natura si sollevi una voce che ci grida: "Nessuno può addossarsi la soma dei tuoi dolori, o versarti le dolcezze delle sue gioie; nessuno può togliere od aggiungere un atomo al tuo essere: non riporre le tue cure che in te stesso".

Credetti finalmente di essere amata.

Un mattino trovai sul mio balcone un mazzo di fiori che vi era stato gettato dalla via. Sopra una cartolina che v’era nascosta dentro erano scritte queste parole: "Vi amo. Lodovico". Chi era questo incognito? Era giovine, bello, veramente innamorato di me? Non lo sapevo, nondimeno era felice, era pazza; v’era un uomo che mi aveva detto: "Vi amo"; ciò era già per me un avvenimento sí grande, che l’ordine delle mie idee ne era interamente sconvolto.

Risolsi di tentare ogni mezzo per scoprire chi fosse lo sconosciuto che mi aveva indirizzato quel biglietto. Aveva già osservato da parecchi giorni che un giovine forestiero passava assai spesso sulla via, e sollevava gli occhi alle mie finestre con aria d’imbarazzo; ma egli era sí bello, sí elegante, e pareva esser anche sí ricco, che io non avrei mai osato illudermi che egli vi passasse per me. Io l’aveva d’altronde guardato sí poco e con tanta timidezza, che non era possibile che egli avesse tanto letto nell’anima mia da risolversi a scrivermi quelle parole. Mi pareva follia l’abbandonarmi a quella speranza.

Nondimeno mi convinsi a poco a poco che — fosse egli stato o no l’autore di quel biglietto — quell’incognito mi amava. Era cosí facile l’indovinarlo. Egli non passava che per vedermi — ciò era evidente. In quanto a me, non aveva già piú altro pensiero che il suo. Essere amata da quel giovine mi pareva felicità cosí grande, che ne era quasi atterrita. La sua bellezza sembravami ancora superiore all’ideale che mi era formata di un amante.

Un giorno ripassò sotto le mie finestre cavalcando, mi guardò e mi mostrò con aria d’intelligenza un mazzetto di viole che aveva in mano. La mattina trovai quei fiori sul mio balcone. Dentro vi era un altro biglietto su cui era scritto: "Mi amate? Lodovico". Non v’era dubbio. Era lui, e mi amava. Immagina tu, o Giorgio, l’anima mia!.

In quel tempo, mio cugino, che era maggiore, e aveva ottenuto un anno di disponibilità, conviveva colla mia famiglia. Egli era orfano da giovinetto, e mio padre, che era poco piú attempato di lui, lo aveva caro come un fratello. Alcuni amici suoi e di mio padre si radunavano alla sera nella mia casa; erano persone serie, gravi, mature, appassionate di discussioni politiche; e né io né mia madre solevamo far loro maggior compagnia di quel tanto che ce lo imponevano le convenienze. Mio cugino mi disse un giorno: — Come avviene che non ti si vede mai? sembra che tu ci sfugga: hai forse paura dei nostri anni e della nostra serietà? vuoi vederti intorno dei giovani? Lasciane il pensiero a me; porterò qui una calamita piú attraente —. E alla sera fui per svenire allorché lo vidi entrare nella sala collo sconosciuto che mi aveva gettato quei due biglietti.

Egli lo presentò a mio padre come il conte Lodovico di B… veneto ed emigrato. Disse averlo conosciuto già da parecchi giorni al gabinetto di lettura; parlò con entusiasmo del suo ingegno, accennò alle persecuzioni politiche che lo avevano costretto ad emigrare, e aggiunse che si sarebbe forse trattenuto piú mesi nella nostra città, e ci avrebbe onorato alcuna volta delle sue visite. Come seppi piú tardi, egli era stato ragguagliato da mio cugino intorno al mio carattere, alla mia posizione e alla mia fortuna, cosa che per altro non aveva fatto nascere in me alcun sospetto sulla lealtà della sua condotta. Egli era sí spiritoso e sí amabile, che i miei parenti ne furono presto entusiasti; mio cugino ed i suoi amici non potevano piú far a meno di lui, e lo sollecitavano a venire in nostra casa tutte le sere. In capo a pochi giorni noi avevamo preso a considerarlo come una persona della nostra famiglia.

È assai difficile che io possa farti una pittura esatta del suo carattere; mi giovo di questa parola "carattere", perché è quella che risponde meglio al mio concetto, non già che egli ne avesse uno. Non aveva alcun principio, non aveva alcuna opinione; si piegava subito ai princípi e alle opinioni degli altri, qualunque esse fossero; e con tal calore e con tale accortezza, che nessuno lo avrebbe creduto non sincero: passava dall’uno all’altro estremo colla stessa facilità, e colla stessa apparenza di convinzioni. Era cattivo per indole, qualche volta arrendevole e buono per debolezza. Non aveva idea di dignità personale, non si curava che di simularla e di parerne estremamente geloso. Qualunque bassezza non gli sarebbe sembrata umiliante; qualunque ostacolo mortale non lo avrebbe distolto dal compiere un’azione proficua a’ suoi interessi. Era incapace di sentire uno scrupolo. Tutta la sua condotta non era subordinata che ad una cosa sola, al codice; egli aveva commesso di turpe tutto ciò che è possibile commettere senza venir colpiti dalla legge — mille volte nella sua vita aveva rasentato il carcere, e non vi era mai entrato. Dire che cosa era stata la sua vita non è possibile, forse egli stesso non lo avrebbe potuto. Aveva errato di paese in paese, vivendo splendidamente delle sue industrie di avventuriere, assumendo qui un nome, là un altro, atteggiandosi a martire politico, aprendosi mille vie col suo talento, col suo coraggio, colla sua avvedutezza — sempre fortunato, sempre felicemente ingannatore.

La sua bellezza doveva aver contribuito non poco a questo successo. Egli era alto della persona, ben fatto, giovine, fiorente, biondissimo; aveva aspetto e maniere distinte, aveva aria di bontà e di dolcezza straordinarie, era sempre calmo, sempre sereno e pareva non conoscere che il sorriso. A queste qualità aggiungeva un talento mediocre che aveva l’arte di far apparire un talento superiore. Era intelligente di musica e scriveva versi. Le sue composizioni musicali e le sue poesie erano una specie di salvacondotto, una specie di commendatizia di cui si giovava per accreditarsi presso le famiglie che lo ospitavano, od iniziavano qualche rapporto con lui. Egli non indugiava mai a mettere in luce queste due qualità, e sopratutto in modo sí naturale e sí semplice, che nessuno ne avrebbe mosso rimprovero alla sua modestia.

Mio caro amico. Oserò darti un consiglio che ti parrà strano, che forse ti farà sorridere, ma che nondimeno è assai giusto. Diffida di coloro che fanno mestiere di far versi, diffida in genere degli artisti e dei letterati mediocri. Durante il tempo che vissi con mio marito ho avuto agio di avvicinarne un gran numero, né ho trovato in alcuna altra classe della società caratteri d’uomini piú tristi e piú abbietti. Un mezzo letterato, un mezzo poeta, un mezzo artista mi fanno orrore. Hanno tutte le passioni sfrenate e biasimevoli dei grandi caratteri, senza averne una sola virtú. Ne hanno la vanità, l’orgoglio, l’ambizione, l’egoismo, senza un solo dei loro pregi che li temperi, senza un raggio di quella bontà improvvisa e passeggiera che ha il genio. Molti confondono l’ingegno col cuore; nulla di piú ezroneo. È provato che(gli uomini piú eminenti nella vita pubblica furono quasi sempre i piú tristi nella vita privata. Cristo lo ha detto: " Il cielo è pei semplici". L’onestà non fu mai né il retaggio, né il privilegio della sapienza.

Tale era in poche parole l’uomo che divenne mio marito.

Io mentirei se ti dicessi che lo sposai non amandolo, mentirei pure se asserissi di averlo amato quanto ne era capace. Non lo conosceva quale era, ma aveva come un presentimento delle sue viltà, una specie d’intuizione misteriosa che impediva alla mia anima di abbandonarsi intieramente alla sua. Forse il mio amore mi aveva resa impotente a comprendere alcune delle sue bassezze che la mia coscienza aveva comprese senza che io lo sapessi, e di cui non lasciava trapelare al mio cuore che un’idea vaga e confusa. Io subiva d’altronde, come tutte le altre donne, quella malia prepotente e incomprensibile che esercitano su di noi gli uomini di carattere violento, e spesso anche perverso. Lo avrai osservato, è cosa comune. Le donne, ancorché non cessino di essere cortesi coi buoni e coi miti, cedono sempre di preferenza agli uomini audaci, prepotenti, pronti all’offesa, disprezzatori degli altri, vanagloriosi di sé; in una parola, ai peggiori degli uomini. Le piú grandi passioni sentite da donne furono quasi sempre per uomini abbiettissimi. Mi è avvenuto piú volte di chiedere a me stessa, vedendo qualche donna giovine, gentile, bella, elegante: "A chi apparterrà il suo cuore! chi godrà del suo affetto? Un uomo celebre, un uomo di genio? un bell’uomo? No, un piccolo mostro, uno sciocco, un cattivo". Oh, mio Giorgio, noi siamo pure le tristi e incoerenti creature!

Non avendo voluto cedere alle istanze de’ miei genitori che lo avevano scongiurato rimanere con essi, mio marito mi condusse a Torino. Ci accasammo in quella città, dove, diceva egli, aveva avuto rapporti con uomini politici, i quali lo avrebbero aiutato a conseguire una posizione elevata ed una fortuna ragguardevole. Mi fu assai facile avvedermi fino da principio che egli non mi amava, tanto erano artificiose le prove che si affannava a darmi del suo affetto. E non solo non mi amava, ma pareva aver disgusto di me, e sforzarsi a violentare il suo cuore e la sua natura per non dimostrarmelo. Lungi dal comprendere lo scopo di questa dissimulazione, io, nell’immensità del mio dolore, gliene era grata. Sapeva di non essere bella, immaginava che l’intimità e la convivenza mi avessero fatta apparire a’ suoi occhi ancora piú brutta di quanto lo era, e gli avessero destato nell’animo una súbita avversione per me. In questo caso la sua finzione era mossa da un sentimento di delicatezza ch’io non avrei saputo apprezzare abbastanza; era un sacrificio di cui io gli doveva essere riconoscente. Ho serbato lungo tempo questa illusione, e mi sono sforzata a trattenerla, giacché, quantunque non amata, mi era caro il pensare che lo era stata un tempo, che la mia bruttezza soltanto lo aveva diviso da me, e che io poteva ancora stimarlo. In quel bisogno che io sentiva di giustificare ad ogni costo la sua condotta, quante cose ho attribuito alla mia bruttezza!

Soltanto un mese dopo il nostro matrimonio egli mi aveva annunziato che il governo austriaco aveva posto sequestro sulle sue rendite, per cui diventava necessario esigere da mio padre la riscossione di una parte della mia dote; e m’aveva parlato di questa sventura come di cosa di cui non avrebbe mai saputo darsi pace. Lieta che ciò l’accostasse di piú a me, sollecitai da’ miei parenti il pagamento di una somma che costituiva una parte ragguardevole della loro fortuna. Però questo avvenimento non parve renderlo né piú cauto, né piú previdente, né tanto meno piú affettuoso. Le sue abitudini erano anzi peggiorate. Egli rimaneva assente una parte della notte, e non rientrava che al mattino; spesso passavano giorni intieri senza che ci vedessimo; intraprendeva alcuni brevi viaggi senza avvertirmi, e tornatone, mi diceva semplicemente: "Scusa, ho dovuto partire sul momento, un affare di premura…". In una parola era evidente che egli non si occupava punto di me, né sentiva forse tampoco quella specie di attaccamento che nasce dalla convivenza e dall’abitudine.

Aveva però slanci di tenerezza, radi ma vivi; e in quei momenti pareva si dolesse con se stesso della propria freddezza, e si scusava meco de’ suoi torti. Appariva in ciò sí sincero, che io non solo tornava a perdonarlo e ad amarlo, ma mi struggeva di trovare in me qualche colpa onde giustificarlo delle sue.

Una sera, in uno di questi momenti di abbandono, mi confessò d’aver fatto una grave perdita al giuoco, non osare chiedere altro denaro a mio padre, trovarsi, non pagando, poco meno che disonorato. Io fui felice di potergli dare tutti i miei gioielli, i miei abiti piú ricchi, tutto ciò che possedevo di prezioso, onde sottrarlo alle conseguenze di quella perdita. Me ne pagò con una settimana di amore, di assiduità, di tenerezze, e ritornò poi subito alle abitudini di prima.

Ma sarebbe racconto assai lungo il voler dire tutte le torture mie e tutta la ingratitudine di lui, tutte le astuzie con cui giunse a poco a poco a spogliarmi interamente della mia fortuna.

Un giorno — mi s’era mostrato già da tempo agitatissimo — entrò improvvisamente nella mia camera col volto estremamente turbato; mi disse di non aver mai avuto il coraggio di confidarmelo, ora essere necessario, benché troppo tardi; aver egli contratto da celibe alcuni debiti ascendenti a somme enormi, piú di metà la fortuna della mia casa, aver sperato poterli pagare coi capitali che il sequestro impreveduto rendeva ora inalienabili, e aver perciò firmato cambiali la cui scadenza imminente gli apriva le porte del carcere: preferire uccidersi. E levata una pistola, fece atto di esplodersela al viso.

Tu avrai già indovinato ciò che io ho fatto. Mio padre e mia madre vennero essi a trovarmi piangendo. Mi chiesero se egli mi amava, io dissi di sí; se ero felice, io dissi ancora di sí: essi acconsentirono a spogliarsi quasi interamente della loro fortuna, perché io fossi felice e tranquilla con lui. Felice!

Quel sacrificio che doveva legarlo maggiormente a me, sembrò invece allontanarmelo; e ciò era naturale, giacché non v’era piú possibilità di altre speculazioni a mio riguardo, né occorreva fingere piú oltre. Incominciai allora a comprendere qualche cosa del suo carattere e a tentare di resistere a quel bisogno di affetto ineluttabile che mi trascinava verso di lui; ma era indarno: io non poteva conciliarmi a quella fede, crederlo sí cattivo e sí infinto, non poteva cessare di amarlo. M’era fatta quasi una religione del mio amore, e mi ostinava ad abbassarmivi benché lo sapessi incorrisposto. Ogni cosa che ci costa molto la si ama, benché riluttanti; e nell’ostinazione di un dolore o di un sacrificio, vi è un’acre voluttà che è spesso altrettanto soave quanto la gioia.

Poche settimane dopo questo ultimo avvenimento mi disse che attendeva da Venezia una sua cugina, che me l’avrebbe fatta conoscere, e l’avrebbe pregata di fermarsi a pranzo con noi; le facessi buon viso. All’indomani mi presentò diffatti una donna giovane e avvenentissima, cui volle che baciassi e trattassi con intimità pari alla sua. Non sospettai di nulla, e fui lieta della compagnia di quella sconosciuta che era venuta ad interrompere per un istante la tediosa monotonia della mia vita. Mi parve che quella donna mi ponesse affetto, e provasse un interesse singolare per me. Ricevetti nel giorno seguente un suo biglietto, in cui mi diceva:

"Devo parlarvi di cose che riguardano il vostro avvenire, vi aspetterò in mia casa (via Borgo Nuovo, N. 7). Che vostro marito nol sappia, o tutto sarebbe inutile. Se avete cara la vostra felicità, venite".

Vi andai col cuore tremante. Appena entrata la mi buttò le braccia al collo, con atto di espansione rozzo ma sincero; e mi disse: — Povera creatura, voi siete rovinata, voi siete stata ingannata, tradita… Non sapete? Quell’uomo, vostro marito, non è né il conte di B…, né il marchese di C… — che so io? — Egli si è tosto fatto chiamare con tutti i titoli possibili. — Egli non è altro che un barattiere, un cavaliere d’industria, un cattivo soggetto. Io, che non sono mai stata sua cugina, so dirvi che egli è un fiore di briccone, che ha moglie in Dalmazia e due figli: io ve ne darà la vita e i miracoli. Ho conosciuto suo padre, dalmato anch’esso, impiegato nella polizia austriaca a Zara; ho conosciuta sua moglie, una povera ragazza che egli ha ingannato come voi, e abbandonato come abbandonerà voi pure. Se volete sapere tutte le sue furfanterie, le ho sulle dita. Non vi fidate, lasciatelo, tornate a casa vostra. So che vi ha già estorto delle somme considerevoli ; me lo disse lui stesso, fra poco vi spoglierebbe di tutto il resto. Egli passa la sua vita in mezzo alle donne e alle carte; e non ha un’oncia di cuore, non crediate di poterlo correggere. Ve lo confesserò, io sono stata una sua amante; l’aveva lasciato già da un pezzo, allorché la settimana scorsa mi fece un sonetto pel mio giorno onomastico, e con ciò tornò a metter piede in mia casa. Fu lui stesso che mi parlò di voi; e in che modo! Se lo aveste sentito! mi fece nascere la curiosità di conoscervi, e ho tanto insistito, che mi ha accontentato. Povera creatura! mi avete fatto compassione: ho detto tra me stessa: "Le dirò tutto", e vi ho scritto di venire. Tornate a casa vostra, credete a me; quell’uomo vi farà morire; non siete voi quella che possa resistergli; colla vostra salute, col vostro carattere. Io ne ho riso, io non sono donna da lasciarmi malmenare cosí, ma voi! Ho voluto dirvi tutte queste cose. Ho fatto una buona azione e mi sono vendicata, sono contenta.

Nel tornare a casa lo trovai che scendeva le scale.

— D’onde venite? — mi chiese egli con asprezza.

— Da vostra cugina; — risposi io — ella mi aveva mandato a chiamare per raccontarmi tutto ciò che sa di voi e per darmi alcuni consigli in proposito.

— Va bene! — diss’egli aggrottando le ciglia — lo aveva preveduto. Che sciocca!

— Non avete a dir nulla a vostra giustificazione?

— Nulla. Immagino che ella vi avrà detto la verità. Venite nella mia stanza, e ne parleremo.

— Voi sapete dunque tutto; — diss’egli — non me ne dispiace; quella donna, a pensarci bene, mi ha reso un servizio. Sarò sincero con voi. Mi doleva d’ingannarvi piú oltre. Se un uomo che vende la sua bellezza, come la vendete voi tutte, è un cattivo soggetto, io ne sono uno pessimo… Ma ciò non ha a che fare; è questione di apprezzamento. Fra me e voi è corso un contratto. Voi mi avete dato il vostro danaro, io vi ho dato la mia avvenenza, la mia gioventú, il mio talento. (Non voglio mancarvi di rispetto in questo istante, ma voi sapete, Fosca, che non siete bella). Eravamo pari: ebbene, abbiamo vissuto insieme undici mesi, il nostro commercio andava bene. Ora questo contratto non ci conviene piú? sciogliamolo. Mi sembra che non occorra disgustarci per questo. Voi tornerete a casa vostra, vostro padre e vostra madre sono due eccellenti creature, e vi riceveranno a braccia aperte. Io tornerò a vagabondare pel mondo e a distrarmi. Già… fu un errore. Non era nato per la vita di famiglia io. Badate che siamo in debito di un semestre di fitto di casa. Ve ne avverto per vostra norma. Io parto sul momento. A rivederci.

Cosí mi separai da mio marito. Rimpatriata, trovai la mia famiglia quasi povera. Al rimorso di averne sacrificato il benessere al mio egoismo, si aggiungeva il dolore di scorgere che la salute dei miei genitori s’era alterata di molto per quei dispiaceri. Erano invecchiati quasi ad un tratto, erano diventati pensierosi, tristi, diffidenti. Quelle due creature sí semplici, sí ingenue, sí affettuose, avevano subito una disillusione troppo grande e troppo inaspettata. Essi non avevano neppure mai immaginato che avesse potuto esistere al mondo un uomo come mio marito; ciò sarebbe stato superiore di gran lunga al concetto piú triste che avevano potuto farsi degli uomini, ed era naturale che ne fossero colpiti sí al vivo. Una sola cosa consolava me ed essi di quella sventura. Io stava per diventar madre. Io avrei avuto uno scopo nella mia vita; essi, un affetto nuovo, una nuova divagazione; sentivamo tutti e tre che questo avvenimento ci avrebbe fatto dimenticare il passato di cui lo consideravamo quasi come un compenso.

Erano trascorsi cinque mesi dal giorno della nostra separazione, allorché una sera d’inverno, mentre stavamo seduti al caminetto conversando, ecco aprirsi l’uscio improvvisamente, e comparire mio marito. Egli era tutto alterato e in cattivo arnese.

Io innalzai un grido di spavento. Mio padre gli si avvicinò tremante per emozione e per ira, e gli chiese:

— Cosa volete?

— Vengo a riprendere mia moglie, — rispose egli — noi non siamo divisi formalmente, ne ho tutto il diritto.

— Vostra moglie ha cessato di appartenervi da tempo.

— V’ingannate, la legge mi dà facoltà di obbligarla a seguirmi.

— Essa non si moverà di qui, uscite.

— Mi costringete ad usare la violenza? Ciò mi dispiace.

Mi si avvicinò, e afferratami pel braccio, fece atto di trascinarmi verso la porta. Io resistetti, scivolai, e caddi percuotendo del seno sopra una sedia. Egli mi lasciò libera e mi disse: — Vi siete fatta male? Perdonate madonna: non era mia intenzione.

Mio padre era vecchio ed impotente a difendermi. Eravamo soli in casa.

— Volete del denaro? — gli chiese egli.

— Non accetto danaro da alcuno, ma ho tuttora alcuni crediti su vostra figlia che mi dovete soddisfare.

— Passate nella mia camera.

Nel ritornare si affacciò all’uscio e mi disse:

— Fosca, non vi ho mai voluto male, ve lo giuro, non avrei voluto rendervi infelice, ma era predestinato. Io sono un miserabile. Ora vivete tranquilla, non mi rivedrete mai piú.

Ed uscí. Mio padre gli aveva dato quasi tutto il denaro che gli rimaneva. La nostra fortuna era pressoché rovinata.

L’emozione e la caduta affrettarono l’istante che aveva tanto desiderato. Sentiva che stava finalmente per diventar madre. Nel mio stesso dolore io era felice. Questa nuova sciagura aveva affrettato il premio di tutte le mie sofferenze, il conforto e la gioia della mia vita. Ohimè! Io non aveva preveduta la piú grande, la piú crudele, la piú orribile di tutte le sciagure.

Mio figlio viveva, ma io non poteva diventar madre.

La natura mi era stata anche in ciò sí matrigna, che aveva posto ai piaceri del mio amore il prezzo della mia vita. Non solo mi aveva privato della bellezza perché non provassi mai le gioie di un affetto corrisposto, ma mi aveva reso anche deforme perché non godessi nemmeno di quelle piú pure della maternità, che sole avrebbero potuto salvarmi. Sí, o Giorgio, un figlio mi avrebbe salvata. La solitudine delle mie passioni mi ha invece rovinata, perduta!

Ma a che prolungarti questo racconto? Io scampai miracolosamente ad una morte quasi sicura. Lasciai il letto dopo un anno di malattia, incadaverita, consunta come mi vedi. Mio padre morí di crepacuore; mia madre, che non era vissuta che per lui, lo seguí poco dopo. Di mio marito non seppi piú nulla. Io mi riunii a mio cugino che, per avermi fatto conoscere lui l’autore di tutte le mie sventure, nella sua generosità se ne credeva quasi responsabile. Ed ecco la mia storia.

Se io potessi dirti ora la vita che ho vissuto in questi quattro anni di isolamento, tu ne saresti atterrito. Fino allora io era stata una fanciulla, aveva conosciuta nulla del mondo; i miei dolori, benché grandi, erano stati in certo modo compensati da quelle illusioni, che l’inesperienza e la gioventú avevano ancora il potere di crearmi; possedeva ancora il segreto della fatua felicità dei giovani — sapeva sperare; ora tutto era mutato, tutto l’edificio era caduto; io era rimasta sola colle mie passioni, colle mie infermità, colle mie debolezze; con tutte quelle miserie che la natura ha dato alla donna, senza il compenso di una sola delle sue gioie.

Ti ho detto come l’amore fosse una condizione della mia vita, come questo bisogno fosse esigente e irrefrenabile fino dai primi anni della mia fanciullezza; immagina tu cosa doveva essere allora, cosa è adesso. Io non fui amata piú mai, non sperava piú di esserlo, poiché ove pure la mia disavvenenza non lo avesse reso impossibile, il mio cuore non era tale da darsi ad un uomo comune. Cosí tutto era contraddizione in me, tutto era urto ed antitesi: il cuore, la natura, l’isolamento, le infermità mi spingevano all’amore; la bruttezza, l’orgoglio, le esigenze dell’onore, il dovere me ne trattenevano. Mai lotta piú lunga e piú crudele fu combattuta in un’anima. Ho io finito adesso? ho io vinto? Tu solo puoi rispondermi, o Giorgio, tu solo!".

XXX

In quel frattempo, prevedendo il dolore che avrebbe cagionato piú tardi a Fosca una mia gita a Milano, mi v’era recato furtivamente, e nel giorno stesso in cui ella mi mandava questi ultimi cenni sulla sua vita, riceveva da Clara la lettera seguente:

"Ti ho accompagnato col pensiero fino a * * *. Sono le tre dopo mezzanotte, e tu vi arriverai in questo momento. Ho voluto coricarmi subito appena ti ho lasciato, e alzarmi adesso per scriverti e per veder spuntare il giorno. Dico che ho voluto accompagnarti col pensiero, perché dormendo ero sicura di sognarti. Oramai vi sono sí avvezza, e mi par cosa sí naturale, che se passassi una notte sola senza sognarti ne sarei spaventata.

Non puoi credere la strana impressione che mi fa questo trovarmi alzata in quest’ora. Che silenzio, che raccoglimento! Pensare che mai nella mia vita ho passato quest’ora svegliata! È una cosa semplicissima; pure è un’idea che mi colpisce. Io vivo adesso in un istante che era venuto migliaia di volte nella mia esistenza, e in cui non aveva mai vissuto. Sono anche contenta di poterti scrivere in questo momento, perché ora tu dormi e mi pare che tu mi appartenga di piú. Non so cosa pagherei per vederti dormire! Non ho mai potuto comprendere perché si trovi sí gran piacere a veder dormire una persona che si ama; forse perché possiamo vederla, guardarla, pensarci liberamente, senza bisogno di dissimulare le sensazioni che ne proviamo; perché la vediamo come disarmata, mansueta, migliore? O piuttosto non avviene egli perché in quell’abbandono apparente della vita materiale, vi è una trasparenza che ce ne lascia veder l’anima? Quando vedo dormir mio figlio ne sono quasi sicura.

A proposito di mio figlio, ho trovato mezzo di inserire anche il tuo nome nelle orazioni che gli faccio dire tutte le sere. Giorni fa, passando con lui presso un venditore di immagini di chiesa, ecco lí una litografia colorita di ruggine di ferro e di rosso di mattone, che rappresentava S. Giorgio a cavallo in atto di combattere il drago. Quel cavallo, quel drago lo hanno colpito vivamente. Glie l’ho comprato, e gli ho detto che essendo quello il santo il quale uccide i draghi che mangiano i cattivi fanciulli, conveniva ricordarsene tutte le sere nelle sue orazioni. Se le sue preghiere hanno un valore, Iddio ne terrà conto lo stesso; del resto io sono già felice di sentirlo pronunciare il tuo nome.

Voglio andare domani a passeggiare lungo la via che va a Loreto, dove abbiamo fatto colazione insieme ieri l’altro. Come siamo stati felici! Dio mio! Ma veramente io sono sempre stata felice. Davvero, Giorgio! Sono nata cosí. Un’altra donna, col mio passato si reputerebbe miserissima: io no, sento che sarei ingiusta a lagnarmene. Prima che ti conoscessi ero felice di una felicità mesta, passiva, inconsapevole, felice come lo sono i fanciulli, ma nondimeno lo ero. Te lo dico perché quel debito di gratitudine che io n’ho al cielo mi par quasi che lo esiga. Ho piacere che tu, che altri lo sappiano, come si ha piacere a far conoscere, e a conoscere una buona azione.

Sai! Oggi a pranzo mi furono date alle frutta delle piccole pesche muscate, simili a quelle che ci avevano dato a Loreto. Figurati, ne ho mangiato un profluvio! Un orrore! Assaporandole, e chiudendo un poco gli occhi, mi pareva di esserti ancora vicino.

Lui mi ha detto: — Che diavolo! Tutta quella frutta ti farà male! — Se avesse saputo! Se avessi potuto mandartene una! Ma veramente — l’avrai rimarcato ieri l’altro — io sono ghiotta come i ragazzi, io mangio troppo, io divoro!

Voglio mandarti le primizie della mia età senile!

Ieri la pettinatrice mi ha detto: — Oh, signora, un capello bianco! — Possibile! strappalo —. Era veramente un capello d’argento, e te lo mando perché tu lo veda e lo conservi come la data di un’epoca.

Quella donna mi ha raccontato che il primo capello bianco, gettato in un lago, si cambia in un’anguilla, e si è incaponita a sostenere questa tesi. Vuoi credere che questa superstizione mi fa ribrezzo, e non avrei il coraggio di fare questo esperimento? Ma sarei pazza di sapere perché e in che momento questo capello è diventato bianco! È un’idea che mi tortura il cervello senza rimedio.

Se potessi incanutire interamente in un giorno! Se tu, venendo qui un’altra volta, mi trovassi invecchiata ad un tratto… una vecchietta, tutta bianca, tutta rugosa! Come ne sarei felice!

Voglio che tu mi faccia fare una chiave della nostra stanzetta, voglio andarvi qualche volta intanto che tu sei lontano, voglio andarvi a pregare. E non credere che te lo dica per celia: davvero, Giorgio, se v’è un luogo dove io sento che potrei pensare al cielo, e sentirmi piú buona, e pregare proprio con fervore, gli è quello. È bene di avere sulla terra un luogo dove potersi ricordare del cielo: di là la felicità vi ci ha già avvicinati. E poi, sei tu che vieni a visitarmi, e son io che dovrei apparecchiare pel tuo ricevimento. Vorrei gareggiare con te in questo sfoggio di apparecchi. Vedresti che ordine, che abbondanza di fiori, che assortimento di confetti!

Riprendo a scriverti dopo una mezz’ora d’intervallo. Sono stata sul balcone a veder spuntare il giorno. Che spettacolo delizioso!

Non l’aveva osservato chi sa da quanto tempo. Credo che un uomo disgustato della vita non avrebbe che ad assistere allo spettacolo di un’aurora per riamarla; almeno sono ben certa che in quel momento non avrebbe il coraggio di morire. Una cosa orribile, una raffinatezza di crudeltà mostruosa, è l’abitudine che si ha di giustiziare i delinquenti al mattino. Morire alla sera non deve esser per metà sí doloroso. Ma non parliamo di questo, io amo la vita, Giorgio, io l’amo in qualunque momento; io sono felice.

Sono rientrata perché spira un’aria acuta, frizzante, e non ho indosso che una camiciuola sottile quanto una ragna. Se vedessi gl’inchini che si fanno i miei fiori sotto le carezze di questo venticello balsamico! Vi sono certe formiche colle ali che vanno su e giú per uno stelo di geranio, con una furia, con una premura da non dirsi. Vanno, tornano, s’incontrano, ripartono, tornano ad incontrarsi… che faccende sono mai le loro? che affari le occupano? Qual è lo scopo di questo strano lavorio? La gente che va e viene sulla strada quanto è lungo il giorno, e che io guardo spesso dal mio balcone, mi fa lo stesso effetto.

Io rido sovente di queste loro preoccupazioni. Io domando a me stessa: "Quella gente amano?". Tutto il resto mi par vano.

Vedi questa farfalluccia? Ho voluto mandartela; ronzava già da un’ora attorno al mio lume allorché io sono andata sul balcone. Ne l’aveva cacciata mille volte colla mano. Ora tornando l’ho trovata qui agonizzante. Ha urtato nella fiammella ed è caduta sulla carta con un’ala bruciata. Sarei pur curiosa di sapere il segreto di questa attrazione che la luce esercita sugl’insetti alati. Amano la luce e muoiono di quest’amore. Che cosa sublime! Ma veramente… quando si hanno delle ali, come non amare la luce e l’azzurro? Hai mai osservato? Le farfalle sono molto migliori di noi. Quando si abbracciano muoiono.

Ho raccolto questi fiori che ti mando, e che ho baciato uno per uno, perché tu faccia altrettanto. Non è poca cosa ciò che ti mando oggi: un capello bianco, una falena morta d’amore e un piccolo giardino. Non ti puoi lagnare. Ho anche posto un mio bacio in un punto di questo foglio che non ti dico, e tu devi saperlo trovare. Nella tua prima lettera mi dirai dov’è che le mie labbra hanno toccato. Non te ne dimenticare. Ci tengo a questa prova.

Addio per ora, o caro Giorgio. È giorno fatto, e posso essere sorpresa. — Mi ami? Dimmi, mi ami ancora? Non ti sarai mutato in questa eternità di dieci ore che ci divide? Io non sono piú quaggiú che per te. Sai dirmi se esiste qualche cosa fuori di noi, qualche cosa che possa dar piacere o dolore? Se vi è una vita fuori del nostro affetto? Come ti amo, Giorgio! Dio mio, come ti amo! E si può tanto amare? Può il cuore umano sentir tanto?"

XXXI

Pochi giorni dopo la guarigione di Fosca, io ero già quasi considerato nella sua casa come una persona di famiglia. Ella aveva saputo trattenermi sí accortamente presso di sé, la sua immaginazione era stata sí feconda di pretesti a questo scopo, che suo cugino, lungi dall’adontarsene, aveva trovato questa intimità naturalissima e me ne sapeva grado come di una cortesia. Egli era un uomo semplice e debole. Benché la bruttezza, e piú ancora la malattia di Fosca, rendessero impossibile e quasi assurdo ogni sospetto di rapporti amorosi tra noi, le imprudenze di lei erano state tante e sí gravi, che avrebbe pur dovuto avvedersene. Nell’affetto sincero e quasi paterno che egli nutriva per sua cugina, era invece felice di quella specie di sollievo che pareva recarle la mia compagnia, lieto di quell’interesse che io sembrava prendere alle sue sventure.

Egli mi lasciava solo con lei nella sua camera, d’onde io non usciva spesso che oltre la mezzanotte. Non sospettava neppure che altri avrebbero potuto sospettare. La sua fiducia non aveva limiti. Quella cecità provvidenziale che la natura ha dato ai mariti e agli amanti, era in lui sí piena, che ove io avessi amato quella donna, avrei potuto abusare della sua fede colla maggiore sicurezza possibile. Né oso dire ora quanto mi affliggessi di quell’abuso parziale che era costretto a farne. Questo cruccio era una delle amarezze piú acerbe di quell’affetto; poiché, quasi non avesse bastato a torturare la mia coscienza il conoscerlo sí leale e sí ingenuo, egli mi aveva fatto alcune confidenze che mi avevano potuto dare una misura della stima altissima in cui teneva il mio carattere. Mi aveva raccontata tutta la vita di Fosca, quale io l’aveva appresa da lei, e mi aveva parlato con dolore dell’affanno in cui lo poneva il pensiero delle sue angoscie intime e della sua salute incurabile.

— Questa spina — mi aveva egli detto sovente con quel suo linguaggio rozzo, ma schietto ed affettuoso — è ciò che non mi lascia avere un’ora in pace. Non v’è cosa sí fuori di posto come una donna che viva con un soldato. Portarla di qua, portarla di là… co’ suoi nervi, ella che non ha piú salute di un invalido! Se un soldato potesse avere una casa propria come gli altri galantuomini, meno male; ma noi siamo invece condannati a girare di paese in paese come il giudeo che ha dato lo schiaffo al Signore. Quando ci penso, mi accapiglierei con Domeneddio. Farci brutti e senza salute, vada; ma lasciarci soli e senza una gioia al mondo, è troppo. I libri poi hanno finito di rovinarla. Al diavolo i libri! Per me li ho sempre avuti cari come uno stecco in un occhio. — Voi avete molta pazienza con lei, ve ne ringrazio. Voi siete un giovine dabbene, un giovine intelligente, e la vostra compagnia le piace. Vi ammiro; quando aveva la vostra età non aveva un’oncia della vostra calma, e dirò anche del vostro giudizio. Non vi faccio altri elogi, perché gli elogi sono della natura del vino — ubbriacano. Ho stima di voi, e potendolo, sarei felice di giovarvi. Ecco tutto.

E mi stringeva la mano con calore; e mercè quella sicurezza che ci dava la sua stessa intimità, rafforzava egli medesimo, senza saperlo, quei vincoli segreti che mi legavano a Fosca.

Se io ho dovuto tradire la nobile fiducia di quell’uomo, e compensarla piú tardi d’ingratitudine, il cielo mi è testimonio della inesorabile fatalità che mi ha trascinato a farlo. Egli sa che di tutte le amarezze che mi provennero da questo amore sciagurato, quella fu la piú vera e la piú profonda.

XXXII

Fosca ed io vivevamo quasi uniti come due amanti. Se io avessi potuto amarla, sentire veramente per essa ciò che la sola pietà m’induceva a fingere di sentire, nessuna donna avrebbe potuto essere piú felice di lei. Perché nessun’altra avrebbe potuto amare piú intensamente. Lo stesso affetto di Clara non era né sí assoluto, né sí profondo; non aveva né la forza, né l’abbandono, né la continuità, né la voluttuosa mollezza del suo. La natura di Fosca era stata in ciò privilegiata. Se il cielo le aveva negato la bellezza, lo aveva forse fatto per temperare, col difetto di questa, l’esuberanza pericolosa di quella.

Oltre a ciò, ella pensava, agiva, amava come una persona inferma. Tutto era eccezionale nella sua condotta, tutto era contraddittorio; la sua sensibilità era sí eccessiva, che le sue azioni, i suoi affetti, i suoi piaceri, i suoi timori, tutto era subordinato alle circostanze le piú inconcludenti della sua vita d’ogni giorno. In una sola cosa era costante, nell’amare e nel contraddirsi, quantunque nelle sue stesse contraddizioni vi fosse qualche cosa di ordinato e di coerente, e nel suo amore un non so che di oscuro e di mutabile che non ne lasciava comprendere la natura e lo scopo. Era ben certo che in fondo a tutto ciò vi era un carattere, ma si poteva meglio indovinarlo che dirlo.

Passavamo quasi tutta la giornata assieme. Al mattino la vedeva da sola come prima; alla sera suo cugino si tratteneva qualche ora con noi; poi finiva coll’uscire e col lasciarci soli da capo. Spesso Fosca teneva il letto, e io vegliava al suo capezzale gran parte della notte. Era impossibile ribellarsi a quelle esigenze, impossibile allontanarsi da lei un istante piú presto di ciò che era inesorabilmente necessario, o lasciarle apparire soltanto l’affanno in cui mi poneva quel sacrificio.

Ciò avrebbe bastato a provocare qualche accesso terribile. Era cosa avvenutami qualche volta nei primi giorni della nostra relazione, e n’era rimasto sí atterrito che mi sarei assoggettato a qualunque gravissima prova per evitarlo.

Durante quelle sue convulsioni io temeva che ella morisse, e mi sentiva rabbrividire a questo pensiero, giacché se ciò fosse avvenuto ne sarei stato io la causa. L’abitudine mi aveva reso in pochi giorni sí rassegnato, che io aveva quasi cessato di credere alla possibilità di sottrarmi a quella tortura. Il timore di ucciderla mi rendeva capace di qualunque sacrificio. Ella mi faceva rimanere vicino al suo letto delle lunghe ore, e nelle posizioni le piú penose; o col capo sul guanciale, o colle mani intrecciate colle sue, o col viso rivolto verso la luce perché potesse vedermi bene. Mi conveniva chiudere gli occhi, aprirli, fingere di dormire, sorridere, parlare, tacere, alzarmi, passeggiare, tornarmi a sedere, secondo che ella mi diceva di fare. Una disubbidienza commessa con garbo poteva farla sorridere, ma un atto dispettoso poteva avere conseguenze fatali. Quando era malata molto, i miei tormenti divenivano ancora maggiori. Ella aveva degli eccessi di tristezza e di disperazione veramente spaventevoli. La pietà che ne sentiva mi lacerava il cuore. Spesso era assalita da emicranie sí violente che ne diventava come pazza. Si lacerava i capelli, e tentava di percuotere la testa alla parete. In mezzo a quelle sue urla, a quei suoi spasimi, non si dimenticava però di me; mi avvinghiava tra le sue braccia con forza, quasi avesse voluto cercar salvezza sul mio seno, e non mi lasciava libero se non quando i suoi dolori l’avevano abbandonata. Io rimaneva tra le sue braccia, inerte, muto, inorridito, cogli occhi chiusi per non vederne il volto, atterrito dal pensiero che una mia imprudenza avrebbe provocato in lei quelle convulsioni, durante le quali avrebbe potuto tradire inconsciamente il nostro segreto. Nei pochi momenti di calma le leggeva qualche libro, o parlavamo del nostro passato; e io mostrava di metter fede e interesse nei progetti strani e impossibili che ella formava pel suo avvenire. Allora ella era spesso ragionevole, spesso anche amabile, sempre buona; il suo dire era sí aggraziato, sí facile, e le modulazioni della sua voce sí dolci, che a non vederla si poteva rimanere incantati della sua compagnia.

Negl’intervalli di benessere che le lasciavano di quando in quando le sue infermità, era vivace, lieta, qualche volta scherzosa. Alzata, era altra donna. Lo sfarzo dei suoi abiti, i suoi profumi, i fiori di cui riempiva le sue stanze, sembravano metterla in una luce piú serena, e circondarla d’un’atmosfera meno lugubre. Benché que’ suoi acconciamenti sí ricchi dessero maggior risalto alla sua bruttezza, non la rendevano però sí spaventevole. In quei momenti v’era nella sua persona qualche cosa di vivo, di giovane, di voluttuoso che il letto e la malattia non lasciavano apparire.

Passava quasi tutto il giorno in un suo gabinetto dove non riceveva altre persone che suo cugino ed io. V’era colà un ampio divano di velluto turchino, sul quale mi faceva sedere vicino a lei; mi aveva assegnato un posto alla sua destra, ed esigeva che non mi sedessi in altro punto del divano che in quello. Non vedendomi mai che là, diceva ella, poteva, allorché io non v’era, sedersi al suo posto e illudersi di avermi vicino. Spesso mi teneva abbracciato delle lunghe ore, e mi faceva ripetere parola per parola alcune frasi affettuose che né il mio cuore mi avrebbe suggerito, né avrei avuto la forza di dirle. Queste sue follie erano inesauribili come la mia rassegnazione, giacché tutto ciò che avrebbe formato la felicità di un amante, formava invece la mia tortura, né sapeva indurmi a dimostrarglielo. Mi copriva di petali di fiori, mi faceva magiare dei bottoni di rose, o assaggiare le sue medicine che erano quasi sempre amarissime. Talora esigeva che mi mettessi al tavolo, che le scrivessi una lettera amorosa che mi dettava sovente ella stessa. Dopo essersi abbandonata a tutte queste follie, era spesso assalita da una tristezza improvvisa, si buttava a terra in ginocchio, mi diceva di perdonarla, e piangeva. Passava da un eccesso all’altro, ad un tratto, senza cause apparenti; e non aveva alcuna moderazione né ne’ suoi dolori, né nelle sue gioie.

Ciò che mi pareva piú incomprensibile in lei, era che non viveva che di caffè. Non veniva a tavola che per trovarmisi vicina, e per mettere a prova la mia pazienza, facendo passare i suoi piccoli piedi sotto i miei, perché glie li premessi, o pizzicandomi le ginocchia sotto la tovaglia. In quei momenti sapeva che io avrei tollerato tutto, e abusava volentieri di questa sicurezza.

Alla sera facevamo abitualmente una passeggiata in carrozza. La stagione era ancora assai calda, e spesso non uscivamo che sull’imbrunire. Il moto della vettura conciliava sí bene il sonno al colonnello, ed egli era sí felice di sapere che v’era lí io per conversare con sua cugina, che non aveva posto piede sulla predella che era già addormentato. Fosca sembrava trovare maggior piacere in quelle strette di mano e in quei baci che mi dava di sotterfugio in quei momenti. Quella era per lei l’ora piú felice della giornata: il sapere che suo cugino era lí, che io avrei osato dir nulla, oppormi a nulla, rendeva la sua arditezza ancora piú tormentosa. Le sue imprudenze erano in quei momenti senza numero.

In quanto a me non v’erano istanti piú tristi di quelli.

Le strade che percorrevamo erano quasi tutte strade di campagna, strette, solitarie, aperte in mezzo ai vigneti ed ai prati. Era il principio dell’autunno; i grilli, le locuste, le piccole rane delle siepi riempivano l’aria d’una musica piena di dolcezza e di melanconia. Il cielo era quasi sempre sereno e stellato, l’aria impregnata di profumi. In quei momenti avrei voluto pensare a Clara, raccogliermi e dimenticarmi in quel pensiero, ma non era possibile. Fosca mi richiamava inesorabilmente alla realtà della mia situazione.

Ma a che scopo ricordare le angosce di quei giorni? Furono tali dolori che non si possono né immaginare, né dire, né forse sopportare senza soccombervi. La prova che io ho subita fu breve, ed è a ciò soltanto che ho dovuto la mia salvezza. Venti giorni dopo la convalescenza di Fosca, io non aveva già piú né salute, né coraggio, né speranza di sopravvivere e quella sciagura.

XXXIII

Una cosa sovratutto — e la noto qui come quella che può dar ragione dell’abbandono in cui ero caduto, e della sfiducia che s’era impadronita di me — contribuiva ad accrescere il mio dolore: il pensiero fisso, continuo, orrendo, che quella donna volesse trascinarmi con sé nella tomba. Essa doveva morire presto, ciò era evidente. Il vederla già consunta, già incadaverita, abbracciarmi, avvinghiarmi, tenermi stretto sul suo seno durante quei suoi spasimi, era cosa che dava ogni giorno maggior forza a questa fissazione spaventevole.

XXXIV

Oltre a ciò mi era avveduto assai presto che il nostro amore non era piú un segreto, e che tutto il ridicolo di una simile relazione cadeva sopra di me. Ho detto il ridicolo, giacché per tutti coloro che non conoscevano né i casi, né l’indole di Fosca, tali rapporti non potevano essere che argomento di meraviglia e di riso. È difficile che il mondo attribuisca ad una passione amorosa, altre cause ed altro scopo, tranne quelli che hanno in natura. Né è in inganno, giacché, a dispetto nostro, la stima, il cuore, il sentimento non sono che modi e pretesti per condurci al piacere. L’amore il piú elevato non ha altro fine che quello che ha l’amore il piú ignobile, se non che questo vuol andarvi direttamente, quello per vie illusorie ed obblique. Dare per pietà ciò che si dà per egoismo, è poi sacrificio sí grande e sí raro che pochi o nessuno lo può comprendere.

Fosca aveva una cameriera giovane e bella, fidanzata ad un domestico di suo cugino. Mi era sembrato un giorno che ella mi avesse visto dare un bacio alla sua padrona, nell’istante che attraversava un corridoio nel cui fondo v’era uno specchio che rifletteva l’interno del nostro gabinetto. Non era in errore. Una sera, nel discendere le scale, intesi che ella parlava di me al suo innamorato in una stanzetta attigua al pianerottolo.

Mi arrestai ad origliare.

— Non sai? — gli diceva ella —ora ne sono proprio certa; la signora Fosca fa all’amore col capitano.

— Possibile! Non lo crederei se vedessi.

— Mio caro, io ho veduto, e ci credo.

— Cosa li hai veduti fare?

— A darsi un bacio.

— Lei a lui?

— No, lui a lei.

— Ah! ah! è doppiamente incredibile! quella donna farebbe scappare il diavolo.

— Tutti i diavoli, è addirittura orribile!

— Vorrei poi vederla in camicia.

— Cattivo.

E in mezzo alle loro risa intesi il rumore di un bacio che si erano dati quasi per accertarsi della differenza che vi era fra i loro ed i nostri.

Mi allontanai profondamente ferito nella mia vanità, triste, mortificato.

Ma ciò non era il peggior male; tutte le persone che frequentavano la casa del colonnello se n’erano avvedute; nessuno osava parlarmene, ma il loro contegno me ne assicurava. Piú volte a tavola aveva sorpreso alcuni sorrisi e alcuni sguardi di intelligenza che mi avevano trafitto il cuore. Si rideva di me quasi apertamente, si parlava di quell’amore come di una aberrazione mostruosa. La sola persona che non avesse penetrato questo mistero, era suo cugino.

XXXV

A questo punto io sono tentato di desistere dallo scrivere queste mie memorie, perché comprendo adesso tutta l’impossibilità di farlo come lo richiederebbe l’importanza de’ miei dolori.

La parola — questa pittura del pensiero — non sa ritrarre che le passioni comuni e convenzionali; rende i profili, ma non ha né le luci, né le ombre, non sa mostrare né le profondità, né le salienze; le grandi gioie e i grandi dolori non li sa dire. Le pagine che ometto qui, perché dispero di saper esprimere con verità ciò che ho sofferto, dovrebbero contenere i dettagli piú strazianti di questo racconto. Tutta l’orribilità di quel mio passato fu nei due mesi che trascorsi al fianco di Fosca, ed è ciò che è impossibile raccontare. Mi basta di segnare qui alcune epoche per poter dire piú tardi "fu in quel giorno, fu in quell’ora, fu in quell’istante". Il tempo cancella le date impresse dal tempo, ma quelle che il dolore ha scolpite nei cuori degli uomini non si cancellano mai.

XXXVI

Eravamo nel mese di novembre. Fosca mi disse un giorno: — Domani andremo a passare una giornata intiera in campagna, andremo a piangere sulle foglie che cadono.

Il luogo dove dovevamo recarci era una fattoria a dieci miglia della città, situata in una posizione incantevole, a piedi degli Appennini. V'era già stato con essa altre volte, e vi andava volontieri, benché la compagnia di Fosca mi amareggiasse di tanto quella gioia, da rendermivi quasi indifferente. Ella invece ne era pazza; quelli erano i giorni piú lieti della sua vita. Se io fossi stato poco piú forte, poco piú generoso, avrei potuto e dovuto essere felice di quella felicità sí piena e sí grande di cui godeva ella stessa. Ma io non possedeva che la virtú della tolleranza, non sapeva che rassegnarmi, e non poteva pretendere di piú dal mio cuore.

In quel giorno ero mesto e scorato piú che mai. Mi ero avveduto che la mia salute si alterava spaventevolmente, e che il mio coraggio, la mia forza, la mia gaiezza svanivano a poco a poco con essa.

L'ultima volta che Clara mi aveva visto ne era rimasta atterrita, e mi aveva detto: — Povero Giorgio, mi pare di vederti ancora quale ti vidi la prima volta che venisti a battere all'uscio della mia casa; sei molto triste, molto dimagrato, che hai? — E non so se fosse per pietà che le inspirasse di nuovo il mio stato, o per affanni suoi intimi, ella era assai pensierosa e assai mesta.

Dacché Fosca era guarita, m'era recato a vederla due altre volte, e l'aveva sempre trovata cosí; non mi pareva piú quella. Non che mi amasse di meno, ma non era piú lieta come prima, non mi sembrava piú felice. E perché si affannava adesso ad accertarmi del suo amore, a giurarmi che mi amava, a chiedermi se il suo affetto era tutta la mia vita e la mia felicità?

Ohimè! Io dubitavo. Io conosceva assai bene il cuore degli uomini. Quando l'amore se ne va, allora si sente il bisogno di affermarlo. Noi siamo piú costanti della natura, piú fedeli, piú coscienziosi; noi vorremmo trattenere questo amore che la natura ci invola, ma è indarno. Come, come amare ancora quando l'amore se n'è andato, quando il nostro cuore è rimasto deserto, e l'oggetto delle nostre affezioni non ha piú un'attrattiva per noi? Noi possiamo piangere su questa fralezza dell'amore, ma non possiamo arrestarlo: egli abbandona i cuori che vi hanno troppo creduto.

Io non sospettava che Clara avesse cessato di amarmi, no; questo sospetto mi avrebbe ucciso (almeno allora lo credeva), ma mi sentiva nell'anima mia qualche cosa di simile al presagio di una sventura lontana; mi pareva che avrei dovuto perderla, e l'amava di piú. Cosa portentosa, incomprensibile a me stesso; l'amava piú ancora di prima, oltre quella misura che aveva giudicata estrema, piú di quanto aveva creduto compatibile colla nostra natura mortale.

Tale sono stato in ogni tempo. Il pericolo non ha mai smentita quella fede che aveva riposta negli esseri e nelle cose che mi erano care. No, non li ho mai abbandonati. Allorché io li ho veduti sfuggirmi, mi sono avvinghiato ad essi per gettarmi insieme nell'abisso, per precipitare in una rovina comune.

Pensava a queste cose seduto sulla riva di un torrente, poco lungi dalla fattoria, dove era venuto insieme col colonnello e con Fosca. Dopo tante ore di persecuzione, era riuscito a trovarmi solo un istante, ed era fuggito in quel luogo quasi a nascondermivi. Era assetato di pace e di solitudine. In quel giorno Fosca era stata intollerabile, mi era divenuta odiosa. Durante il viaggio, durante la colazione, durante le nostre passeggiate nel giardino, non mi s'era tolta dal fianco un istante. Suo cugino aveva preso un fucile ed era andato a sparare ai colombi; ella mi aveva condotto sotto un albero, mi aveva fatto sedere vicino a lei, e m'aveva parlato del suo amore sí a lungo e sí calorosamente, che n'aveva l'anima piena di disperazione e di tedio. Non sentiva piú alcuna pietà per essa, perché mi pareva di meritarne di piú io medesimo.

Aveva ora approfittato di un momento in cui ella aveva dovuto allontanarsi, per fuggire e per andarmi a sedere sulla riva di quel torrente.

Da quanto tempo non m'era trovato piú solo in campagna, e non aveva piú inteso la voce soave della natura! Era un luogo orribilmente incantevole; il suolo a roccie, a borri, a dirupi, ad avvallamenti; il torrente scorreva nel fondo di una forra in un letto di selci terse e bianchissime; querce e castagni secolari sporgevano da una riva e dall'altra le loro braccia che si intrecciavano; il sole vicino a declinare gettava sulla superficie dell'acqua alcuni raggi che sembravano convertirla in tante lame d'oro e d'argento. Di quando in quando uno sbuffo di rovaio faceva cadere una pioggia di foglie che l'acqua travolgeva nei suoi vortici, o spingeva verso la riva; il terreno era fiorito di ciclamini, di pratelline, di viole; una pispola cantava sopra il mio capo; io guardava e sognava.

Era là, seduto da un'ora, allorché alzando gli occhi verso la sommità del burrone, vidi Fosca che stava seduta guardandomi. Io la vidi e non mi mossi. Ella si alzò, esitò un istante, poi attraversò correndo un tratto della riva coperto di acacie e di rovi, mi raggiunse, e si lasciò cadere vicino a me senza parlare.

— Mi sfuggi? — mi disse ella finalmente dopo un lungo silenzio.

— No, ma aveva bisogno di esser solo.

— Perché non avvertirmi?

— Temeva d'offenderti.

— Credevi meno offensivo il non dirmelo?

— Mio Dio! — io dissi — ma tu vuoi mettere il mio cuore ad una prova ben esigente!

Ella fece atto di alzarsi.

Io sollevai gli occhi per un movimento quasi involontario, e raccapricciai nel vedere che aveva il volto e le mani tutte coperte di sangue. Nell'attraversare la riva correndo, s'era ferita alle spine delle acacie, s'era lacerati i capelli, e aveva fatto a brani il suo abito.

— Resta, — io le dissi con voce commossa afferrando le sue braccia — tu sei ferita, tu devi soffrire.

Ella si guardò le mani senza muoversi, e disse:

— Non me n'ero accorta.

Le sciolsi un fazzoletto bianco che aveva al collo, e le asciugai il volto; andai a bagnarne un'estremità nell'acqua, e le lavai le ferite. Ella mi lasciava fare senza dir parola: guardava il torrente cogli occhi fissi e spalancati, e pareva assorta in una strana meditazione.

— Che hai? — le chiesi io — a che pensi?

Non mi rispose.

— Vuoi che mi getti in quell'acqua? — mi disse ella dopo un momento di silenzio.

— Fosca, — esclamai — non essere cosí ingiusta con me; io, tu lo sai, io ho momenti di tristezza, durante i quali posso essere qualche volta cattivo, ma tu conosci il mio cuore.

— È perché lo conosco, perciò appunto che vorrei liberarti del peso della mia affezione. Forse che io non vedo le tue torture?

Le strinsi la mano senza risponderle, e le dissi dopo un istante:

— Credo che tu te ne sia fatta un concetto esagerato.

— Può essere — diss'ella.

Tacemmo tutti e due per piú di un'ora.

Ella strappava convulsivamente delle manate di erba che gettava nell'acqua, applicava delle foglie sulle sue graffiature, e le levava per vedervi le traccie del sangue. Io guardava il fondo del torrente seminato di macchiette d'alghe che l'acqua curvava scorrendo. Eravamo appoggiati l'uno all'altra, ma sí assorti in noi, sí immobili, che non sentivamo piú il nostro contatto.

Il campanello di una mucca, che venne a pascolare sulla sommità della riva, ci riscosse da quell'assopimento. Quella bestia ci affissava con aria di stupida meraviglia; abbassava il capo, sbrucava una boccata d'erba, poi tornava a rialzarlo, e a guardarci. Ad ogni movimento della testa, il campanello che le pendeva dal collo mandava un suono sordo e malinconico.

Fosca mi disse:

— Perché mi guarda cosí?

— Non so — io risposi sorridendo — guarda pure me.

— Non però tanto fissamente. Ciò mi fa pena, non so il perché, ma mi fa una gran pena, ne ho quasi paura; mandala via, Giorgio, te ne scongiuro.

E si nascose il volto tra le mani per non vederla. Io mi alzai e me le appressai un poco agitando un fazzoletto; ella si allontanò fuggendo, e facendo tintinnare la sua campana.

— Credi che quella bestia sia piú felice di me? — mi chiese Fosca quando tornai a sedermele vicino.

— Se il non aver affetti e passioni, il non aver coscienza di bene e di male può essere una sorgente di felicità, io credo che sí, — dissi. — E in questo caso, è anche piú avventurata di qualunque uomo avventuratissimo. Ma che ne sappiamo noi? Chi può scrutare nella loro natura?

— Ella era sola, e pareva nondimeno tranquilla. Non si amano forse tra loro?

— Non come noi. Ciò che è strano è che l'uomo soltanto ha orrore della solitudine.

— Tu però la cercavi poco anzi.

— Per un istante.

— Perché volevi esser solo?

— Per pensare.

— A chi?

— Dio mio!… A nessuno, a me stesso, alla natura. Non hai mai sentito il bisogno di esser sola?

— Sí, quando soffriva… per piangere.

— Ebbene…

— Tu volevi piangere? — interruppe ella — e per me?

— Ma no; — io dissi con impazienza — buon Dio; voleva esser solo, ecco tutto.

Fosca chinò il capo con aria mortificata, colse una viola, e mi chiese dopo qualche momento:

— Perché rifioriscono adesso le viole e le margherite, i primi fiori che sbucciano a primavera?

— Credo che si sbaglino, — io dissi — il tepore dell'autunno fa loro immaginare che l'aprile sia già ritornato. Vi sono molti fiori che cadono nello stesso errore. I lillà, i rosai, i sambuchi, tutte le piante primaticce tornano a metter le gemme in autunno.

— È vero, — diss'ella — l'autunno e la primavera si rassomigliano. È la stessa cosa che la gioventú e la vecchiezza. Chi sa se a ottant'anni si risentano le passioni di quindici!

— Ma! — io dissi — è però ben certo che si riprovano le stesse debolezze. La vita è un arco, le estremità si assomigliano perché sono vicine. Tutto ciò che vive presenta, nel deperire e nel distruggersi, gli stessi fenomeni che ha presentato nel nascere e nello svilupparsi; si muore come si ha incominciato a vivere, quasi che ciò che noi chiamiamo morte non sia che il formarsi del germe di un'altra vita.

— E queste viole bianche — diss'ella — sono viole da morto, non è vero? Perché i fiori da morto sono tutti bianchi?

Io mi sentiva orribilmente tediato da quelle domande. Il sole tramontava in quell'istante, l'orizzonte pareva in fiamme, i tronchi degli alberi spiccavano vivamente da quel fondo sanguigno ed abbagliante. Io pensava a Clara. Se ella fosse stata con me!

— Non so, — io dissi — forse perché sono i piú mesti e i piú fragili.

— Regalami un fiore.

— Ecco.

Spiccai una primula gialla e gliela diedi.

— Che uccello è quello che canta?

— Mio Dio! Uno scricciolo.

— Come la sua voce è sottile! Che colore ha?

— Credo grigio; eccolo, guardalo lí, su quel ramo.

— Credo che sia il piú piccolo dei nostri uccelli.

— Il piú piccolo.

— Dammi un bacio.

Mi rivolsi, e la baciai con freddezza.

Se ne avvide, mi guardò e mi disse:

— Ti tormento, non è vero? Ebbene ti bacierò io sola.

Mi prese una mano che si avvicinò alle labbra. Vedendo che io non le dicevo nulla tornò a chiedermi:

— Ti annoio forse? ti faccio soffrire? vuoi che io vada via? Rispondimi.

Io continuai a tacere. Era tutto il giorno che ella mi opprimeva cosí, il dispetto mi aveva reso muto e crudele.

— Rispondi — ripeté ella con accento supplichevole.

— Oh, lasciami, — esclamai io con impazienza — lasciami!

Ella si alzò, e incominciò a risalire lentamente la riva. Non si era allontanata che di pochi passi, allorché intesi un suo urlo acutissimo; mi rivolsi, e vidi che era caduta a terra in preda ad una di quelle sue convulsioni terribili.

Compresi troppo tardi il male che aveva fatto. Quell'accesso era uno de' piú violenti. Di là alla fattoria vi erano dieci minuti di cammino, fra poco avrebbe annottato, io e lei eravamo soli in quella forra.

La distesi sull'erba. Corsi a prendere acqua nella palma della mano, le spruzzai il volto, ma indarno. Le sue grida e le sue convulsioni erano calmate a poco a poco, ma ella era ancora svenuta. Me le sedetti vicino, aspettando in un'ansietà mortale che rinvenisse. Scorse una mezz'ora, era quasi buio. La mucca che avevamo veduto prima ripassò sulla sommità del burrone agitando il suo sonaglio, e si fermò un istante a guardarci. Anch'io ebbi quasi paura di quello sguardo. Quella donna distesa sull'erba come morta, coll'abito lacero, col volto livido e insanguinato, a quell'ora, in quell'oscurità tetra che non era né luce né tenebre, in quella forra profonda, sotto quei grandi alberi, soli… v'era in quel quadro qualche cosa di sí tetro, che raccapriccio ancora oggi a ricordarlo.

Quando m'avvidi che era inutile l'indugiare, sollevai Fosca sulle mie braccia, e mi diressi verso la fattoria. Ella era sí magra, sí consunta che io indovinava quasi il suo scheletro sotto le pieghe del suo abito di seta, e ne rabbrividiva. Quanta differenza da quei giorni, nei quali aveva per vezzo portato Clara in quel modo attorno alla nostra piccola stanza, e aveva sentito fremere sulla mia persona le sue forme piene, pieghevoli, dense!

Il colonnello era stato assai inquieto per la nostra assenza; lo fu ancor piú nel vederci tornare in quel modo.

Gli raccontai che, avendo udito le grida di Fosca, era corso verso il torrente e l'aveva trovata a terra svenuta; forse nel cadere s'era offesa il volto e le mani cogli spini.

Fu posta in carrozza, cosí priva di sensi com'era. Durante il viaggio non abbandonò mai la mia mano che stringeva tra le sue convulsivamente.

Suo cugino mi disse:

— Mi dispiace che ella vi fa stare in una posizione molto incomoda; poveretta, non capisce piú nulla, vi ha scambiato per me.

— Certo, — io risposi — ella crede di stringere la vostra mano.

XXXVII

Giunto a casa, incominciai a provare quella specie di leggerezza e di benessere che precede la febbre.

Mi buttai nel letto, smanioso di addormentarmi, di non svegliarmi mai piú, giacché non potevo piú reggere agli assalti di tutti quei pensieri che venivano a torturare il mio cervello.

Non tardai ad assopirmi, ma passai una notte terribile; ebbi l'incubo; un fantasma spaventevole s'era buttato sopra di me e mi stringeva, mi soffocava col suo peso; sentivo un affanno, un caldo, una sete, un'oppressura da non dirsi; al mattino mi svegliai come istupidito, mi sembrava di non esser desto; sentiva una gonfiezza penosa nel cuore, e mi pareva che egli si fosse ingrossato, e che urtasse con violenza nelle pareti del petto. Non avendo potuto alzarmi, mandai pel medico.

— Era cosa da aspettarsi, — mi diss'egli — vi vedevo deperire ogni giorno, e voleva avvertirvene. Me ne astenni sempre perché mi sentiva un poco imbarazzato a farvi questa confidenza, e perché speravo che un giorno o l'altro avreste trovato modo voi stesso di troncare quella relazione. Ora non posso farne a meno. Bisogna che lasciate quella donna ad ogni costo; siete troppo sensibile.

— Credete che ella ne morrebbe?

— Non è cosa da potersi prevedere. Ad ogni modo voi non fareste che affrettarle di poco una crisi vicina, inevitabile. Capirete che è questione assai delicata; io non posso dirvi: "Fate questo, fate quello", posso avvertirvi di un pericolo, ecco tutto; è a ciò che si limita il mio mandato. La vostra malattia attuale è cosa di cui guarirete in otto giorni; siete sano, e potete trionfarne, potete farvi robusto; ma i germi del male li avete già in voi, trascurateli, e non sarete piú in tempo. Vi ammalerete in piedi, vi consumerete senza avvedervene; alla vostra età, colla vostra costituzione, colla vostra indole, si muore in questo modo. Non avete nessun altro dispiacere?

— Nessun altro.

Stette un momento silenzioso, poi riprese:

— Pensateci, bisogna che scegliate fra la vostra vita e la sua; o voi o lei, questo è il dilemma, io mi limito a formularvelo.

Mi prescrisse alcune medicine, ed uscí dicendo sarebbe ritornato assai presto.

Passai tutto quel giorno in una profonda malinconia; v'era fuori un gran vento, piovigginava; io guardava le gocce di pioggia stillare giú per i vetri, e le ventole dei tetti girare da un lato e dall'altro cigolando. La notte era vicina, incominciava ad abbuiarsi, i mobili della mia stanza sparivano a poco a poco nell'oscurità; il rumore della via cessava, e sentiva da lontano certi rintocchi di campane che mi stringevano il cuore di tristezza. Io era tutto immerso nel pensiero dei miei affetti e dei miei dolori.

Ad un tratto intesi su per le scale un rumore di passi accelerati, poi un fruscio di abiti femminili, poi sentii aprirsi l'uscio con violenza, poi Fosca comparve come una visione nel fondo della stanza, corse verso di me, e si lasciò cadere inginocchiata vicino al mio letto.

— Tu soffri, tu sei malato, e per colpa mia! Oh mio Giorgio, o mio angelo, perdono, perdono!

Singhiozzava, e non poteva articolare altre parole.

— Fosca — io le dissi — che hai fatto? Alzati, alzati.

— No, finché non mi avrai perdonato.

— Ma io non ho nulla a perdonarti.

— Sí, dimmi che mi perdoni.

— Ti perdono.

— Oh grazie, grazie!

Si alzò a stento, e si abbandonò con le braccia distese attraverso il mio letto.

— Ieri ti ho tormentato, ti ho torturato con le mie insistenze, ho abusato troppo di te. Sí, sí, non dirmi che non è vero. Io lo so che tu sei malato per questo, io lo sento. Oh sono stata ben egoista, ben trista! Povero Giorgio! E tu non vuoi neppure dirmi che son io che ti ho fatto ammalare. Ma sapessi quanto ho sofferto anch'io stanotte! Dio, quanto ho sofferto! Io ignorava che tu eri malato; era in letto io pure, l'ho saputo adesso, mi sono subito sentita forte, mi sono alzata, sono fuggita. Povero angelo! povero angelo! Oh, io sono una insensata, una miserabile!

E stringeva colle mani e mordeva la coperta del letto piangendo.

— Calmati, Fosca, — io le dissi — tu lo sai, questa commozione potrebbe esserti fatale; se i tuoi accessi… se ciò succedesse qui… pensa…

— Oh no, no, è impossibile, io soffro troppo in questo momento; e poi io non mi appartengo piú, tutta la mia vita è in te, io non so piú di esistere. Ma guarirai, guarirai presto, non è vero? oh guarisci, guarisci!

Si alzò, buttò in un angolo il suo scialle, e prese a camminare per la stanza con passi rapidi. Afferrò l'estremità di un tappeto che copriva il tavolo, e lo gettò a terra assieme ad alcuni ninnoli che vi erano sopra. Guardò il cielo dalla finestra, si avvicinò ad una parete, vi appoggiò il capo, e rimase in quell'atteggiamento alcuni minuti. Io la guardava istupidito.

— Non voglio che soffra tu solo, — riprese riscuotendosi ad un tratto — no, no, non voglio.

Guardò intorno alla stanza, vide splendere sopra uno scrittoio la lama d'acciaio d'un tagliacarte, la prese e mi si avvicinò gridando:

— Feriscimi, feriscimi: dove è che soffri? nel petto, nel cuore? ebbene feriscimi qui, nel cuore, voglio anch'io la mia parte di dolori, sí, voglio soffrire anch'io.

Le afferrai la mano, e le tolsi la lama che gettai a terra.

— Per carità, — esclamai io — Fosca, non ti abbandonare a questi trasporti. Io non sto male, non ho nulla, siediti vicino a me, su questa sedia; se veramente mi ami, se ti è cara la mia vita, la mia felicità, non mi affliggere e non mi atterrire in questo modo.

Non disse nulla, e si sedette. La sentiva piangere e singhiozzare forte nell'oscurità.

— Accendi un lume — io le dissi.

— No, mi vedresti, avresti orrore di me. Io ti vedo lo stesso. Non ho bisogno di luce per vederti.

— Buon Dio! è forse la prima volta che ti vedo?

— È vero — diss'ella con tristezza.

— Ebbene, sarò io che voglio vederti — aggiunse per mitigare l'asprezza di quella risposta.

Si alzò, accese la lampada, e tornò a sedersi vicino al mio letto.

— Come sei pallido! Come sei bello! Ah, perché sei cosí pallido!

Stette un momento a guardarmi come rapita. Alzò gli occhi, e vide un vecchio Cristo di legno appeso alla parete.

— Tu credi? — mi chiese ella.

— Un poco.

— E preghi?

— Qualche volta.

— Vi fu un tempo in cui ho creduto anch'io, in cui ho pregato anch'io. Quando aveva quindici anni piangeva tutte le sere pregando. In collegio c'era un camerino dove andava a nascondermi per poter esser sola, e pregare ad alta voce senza essere sentita. Oh quell'età! quella fede! Ora è tutto finito. Sono tre anni che non prego piú; penso sovente al cielo, ma senza invocarlo. Due mesi or sono nei primi giorni che ti conobbi, in una notte che c'era stato un gran temporale, e non aveva potuto dormire, mi alzai e mi affacciai alla finestra. Aveva cessato di piovere, il cielo s'era rasserenato come per incanto e scintillava di miriadi di stelle, l'aria era fresca, imbalsamata, ricca di quel profumo acre che ha la terra bagnata; e allora mi ricordai con piú forza di Dio, e tesi le braccia al cielo quasi per chiedergli misericordia di me e della mia giovinezza infelice; ma fu indarno, io non sentiva piú la sua voce.

— Tu non puoi non credere, — io le dissi — la tua bontà è una fede, la tua virtú è una religione, i tuoi dolori sono una preghiera. Quanti onesti credono di essere atei perché sono infelici! La loro infelicità sembra volerli allontanare dal cielo, e non sanno di essere i piú credenti degli uomini! Può la bontà non essere credente?

— Ciò è vero — diss'ella. — Oh se potessi credere ancora! Ma per te crederò, sai, pregherò ancora per te. Sarò esaudita lo stesso. Stasera dirò le mie vecchie orazioni, le dirò sempre, tutti i giorni; domani andrò in una chiesa per pregarvi e per piangervi.

Mi fece passare una mano sotto il capo, volse il mio viso verso il suo; mi guardò, e mi sorrise cogli occhi bagnati di lacrime.

— Come sei bello cosí malato, — mi disse — se tu non soffrissi vorrei vederti sempre cosí. Farei patto di passare tutta la mia vita in questo modo, vicino al tuo letto a guardarti.

Mi arruffò i capelli con le mani, li fece cadere a ciocche da un lato e dall'altro del guanciale, si alzò, prese uno specchietto e mi disse:

— Guardati.

Io mi guardai e sorrisi. Baciò lo specchio, lo ripose, e tornò a sedersi.

— Ora — diss'ella — me ne andrò; mio cugino era uscito, e non sarà tornato ancora; se lo sapesse!… Ebbene, se lo sapesse!

— Ma che monta? — riprese crollando il capo e riabbracciandomi — io ti adoro, Giorgio, io ti adoro. Che m'importerebbe il perdere la mia pace, la mia fama, il rendermi anche ridicola, quando ciò fosse per te? Ove è il tuo male? Nella testa, nel cuore?

— Nell'uno e nell'altro, piú nel cuore.

— Anche il mio è lí. Mi sento una pena, un fuoco, una quantità di sangue… Ti parrà strano che io tanto consunta soffra di troppo sangue, e pure è cosí. Ieri mi sono sentita meglio, quelle graffiature mi avevano fatto bene. Dovresti levarmene un poco.

Si tolse uno spillone dalla cintura, me lo diede e mi disse:

— Forami una mano, forami.

— Ma è una follia! Che idea!

— No, no; — esclamò ella con impazienza — lo voglio, te ne prego, Giorgio!

Io allontanai il braccio, ella fu sollecita ad afferrarlo, a tirarlo verso di sé, e a percuotere la mano che aveva libera sullo spillo. Si ferí leggermente; una goccia di sangue cadde sul mio guanciale.

— Ora sono contenta, — disse ella, — mi fa male, mi abbrucia, sono contenta.

— Va', va'!, — le diss'io — è tardi.

— Sí, andrò, ritornerò domani; fuggirò ancora. Oh! per pietà, non soffrire, non esser triste; guarisci presto, guarisci presto.

Si abbassò a raccogliere lo scialle che aveva calpestato passeggiando. Guardò tutt'intorno alla stanza, guardò il mio letto, i miei mobili, e disse:

— Che pace vi è qui dentro! Che raccoglimento! Che religione! È qui che tu vivi, o mio Giorgio —. Si inginocchiò, e stette assorta un istante non so in quali pensieri; si calò il velo del cappello, si alzò, e mi disse con voce ferma e risoluta:

— Un solo bacio, uno solo, e partirò subito.

La baciai; attraverso il suo velo vidi lucere le sue lagrime.

Prese un lembo del mio lenzuolo e se lo avvicinò alle labbra; baciò anche un piccolo libro che v'era sul tavolino. Quando fu vicina all'uscio, tornò indietro, si fermò a piedi del mio letto, si appoggiò colle mani incrociate sulla spalliera, mi guardò un istante; poi uscí senza parlare.

All'indomani il dottore mi trovò assai peggiorato.

XXXVIII

Dodici giorni dopo io aveva già lasciato il letto, ma il medico mi aveva prescritto un riposo continuo. Non uscivo piú di casa, e Fosca veniva a vedermi ogni giorno. Aveva cominciato allora a nevicare, le giornate erano brevi e malinconiche, io passava le mie ore al caminetto, leggendo, fantasticando, rattizzando il fuoco, guardando i passeri posarsi tutti arruffati sulle gronde dei tetti, pensando a quell'inverno che aveva trascorso un anno prima nella mia patria, simile in tutto a questo, se non era che ora almeno viveva sotto il martello di un gran dolore.

I momenti che passava con Fosca erano i piú tristi di quelle mie giornate. Le sue contraddizioni non erano mai state sí frequenti e sí estreme, la mutabilità del suo carattere, se pure non era la sua malattia che la rendeva sí variabile, non si era mai rivelata sí pienamente come in quei giorni. Passava da un abbandono di dolore ad un abbandono di gioia, da un eccesso di pietà ad un eccesso di egoismo, repentinamente, senza causa, senza pensare e senza avvedersi del male che mi faceva. Ora che eravamo liberi, soli, sicuri di noi, quegli incontri potevano essere assai piú pericolosi. L'amore di Fosca non conosceva piú alcun ritegno, alcun limite. La sua virtú avrebbe avuto la forza di imporgliene? Era la domanda che io mi volgeva spesso rabbrividendo.

Perché, soltanto la mia freddezza, la mia avversione, la mia ripugnanza invincibile, inconcepibile, estrema, avevano avuto fino allora il potere di conservarci puri. Fosca aveva compreso la tacita eloquenza di quel contegno; il suo amor proprio le aveva imposto di non tradire la natura de' suoi desideri, ma era però ben facile l'indovinarla. E se adesso ella avesse potuto superare queste esigenze del suo amor proprio? se avesse osato… se la pietà mi avesse vinto?…

Era ben necessario che io mi fossi risolto a non vederla piú cosí da solo, a non vederla che raramente. Oltre ai pericoli di queste sue visite, oltre alla fissazione terribile che si era impadronita di me e di cui ho già parlato — che essa volesse trascinarmi con sé nella tomba — (e io la vedeva avvicinarvisi, deperire miseramente ogni giorno) m'era pure fisso in capo che lo spavento incussomi da que' suoi accessi nervosi, la vicinanza continua, il contatto, quel non so che di morboso che vi era in lei, avrebbero dovuto, o tardi o tosto, sviluppare in me la stessa malattia. V'erano momenti in cui sentiva salirmi tutto il sangue alla testa, provava un tremito violento in tutta la persona, sentiva un'oppressione terribile al petto, e non poteva sollevarmene liberamente che piangendo dirottamente, e gridando. Che era ciò? Avrei io ereditato da lei questo male? Sarebbe stato questo il premio che avrei ricevuto della mia pietà?

Cosí io proseguiva a vivere in tali angustie, non rassegnato, non apertamente intollerante, inerte; debole troppo per risolvermi a fuggire quella donna, troppo geloso della mia felicità per sapergliela sacrificare interamente.

XXXIX

Non so fino a quando avrei durato in quella irresolutezza, se la notizia di un piú grande pericolo non fosse venuta a salvarmi.

— Che cosa avete risolto di fare? — mi chiese una volta il medico.

— Lo sapete, nulla, non ho la forza di prendere alcuna risoluzione.

— E pure converrà che vi decidiate.

— A che?

— A ciò che vi parrà meglio. Io vi dirò ora piú esattamente quale è la vostra situazione, quale quella di lei. Voi saprete trovarvi il vostro tornaconto.

— Spiegatevi, la mia situazione?

— È assai piú triste di quanto non lo crediate. Suppongo che in questo amore vi sia stato finora nulla di colpevole, anzi ne sono certo.

— Nulla, nulla — io dissi.

— Non mi nasconderete però che avete incominciato a temere della sua virtú, non meno che della vostra debolezza.

— Mi pare anzi di avervene parlato.

— E a temerne molto.

— Moltissimo, le circostanze…

— Sí, sono le circostanze — riprese egli — che creano per ciascun di voi un pericolo di cui ignorate tutta l'estensione. Se io non ve n'ho parlato prima, è perché sapeva che ciò allora era inutile; la difficoltà di vedervi liberamente era una guarentigia della vostra virtú; per voi lo era la sua sola bruttezza. Allora io ne poteva esser sicuro — lo fui anche finché avete tenuto il letto — ma oggi è un'altra cosa. Conosco la sua malattia, giacché non si tratta che di una malattia, e so che ella potrebbe abusare della vostra accondiscendenza. Guardatevene. È necessario che io vi faccia una rivelazione.

— Voi mi tenete in grande ansietà.

— Sappiate che l'amore sarebbe fatale a quella donna; un errore l'ucciderebbe. La sua sensibilità è sí profonda, la sua irritabilità sí grande… non vi dirò altro, voi mi comprendete. Si tratta di un'infermità comunissima, ma fenomenale pel suo sviluppo, di un'infermità spaventevole.

— Mio Dio, — io dissi — ed ella sa ciò?

— Sí.

— In questo caso, ella stessa …

— Ebbene! Ella stessa potrebbe provocare questo pericolo. Voi la conoscete, badate che l'idea del sacrificio che ella sembrerebbe fare della sua vita, non esalti la vostra immaginazione fino a farvelo parere sublime. La sua vita sta per finire, ella lo sa; ella può scherzare con essa impunemente; ma riguardo a voi è altra cosa. D'altronde non ignorate che l'amore non sta nel cuore; non illudetevi, quella donna non sacrificherebbe la sua esistenza né a voi, né al vostro affetto, non la sacrificherebbe che alla sua felicità.

— Ella — proseguí il medico — era assai meno malata allorché vi conobbe. La vostra vicinanza, le vostre accondiscendenze le sono state fatali; d'ora in poi glie lo sarebbero sempre piú. Convincetevi di una cosa, ed è che voi l'uccidereste in ogni modo, o volendola rendere felice, o continuando a tollerarla come avete fatto finora. L'unica via che vi rimane è di abbandonarla.

— Ma come, — io dissi — come abbandonarla?

— Diamine! Immagino che non sarà poi impossibile — rispose egli sorridendo. — Via, abbiate animo. Vi volete rovinare cosí? Che credete! siete dimagrito spaventevolmente, avete addosso una febbriciatola che mi fa paura. Io non compiango quella donna meno di voi, io ammiro la vostra generosità e ve ne lodo; ma sacrificarvi in tal guisa è una stoltezza; i primi doveri sono quelli che avete verso di voi medesimo. Io vi farò ottenere una licenza col pretesto che la vostra malattia lo esige. Fra due giorni potrete partire. Vi terrò informato di tutto. Vedremo in appresso ciò che si potrà fare, prenderemo consiglio dagli avvenimenti. Acconsentite?

— Con tutta l'anima — io risposi.

E due giorni dopo andai ad accomiatarmi dal colonnello, cui dissi:

— Vengo a salutarvi in ufficio, perché non avrei piú tempo di venire stassera in vostra casa; è tardi e devo apparecchiare per la mia partenza; scusatemi presso vostra cugina, io partirò domani all'alba.

— Diavolo! — esclamò il colonnello — mi dispiace che ve ne andiate cosí per tempo; ma per altro lato… quando si tratta di lasciare un paese come questo, un paese di Tartari, di Pellirosse… capisco.

E mi strinse e mi scosse la mano con una ruvidezza piena di affetto.

Quanto mi faceva male ingannare quell'uomo!

XL

Quella notte non dormii; passai circa sei ore, assopito, sopra una seggiola a bracciuoli, vicino al focolare, coi piedi incrociati sul paracenere, pensando e fantasticando alla luce della fiamma del caminetto. Le idee piú dolci e le piú tristi si succedevano senza posa nel mio cervello, si urtavano, si mescevano senza lasciarmi un istante di pace. Agiva io umanamente nell'abbandonare Fosca in quel modo? Era leale, era onesto quel fuggire cosí da lei, quell'ingannarla in tal guisa? Era sovratutto prudente? Nulla di tutto ciò; né io poteva mettere in calma la mia coscienza, né almeno tenermi certo che questa risoluzione non avrebbe compromesso il nostro segreto. Se nell'apprendere questa notizia, ella avesse rivelato, ne' suoi accessi, le cause della mia fuga? Se suo cugino?… E poi, ella ne avrebbe certo sofferto, ne avrebbe sofferto orribilmente, avrebbe potuto morirne! Ad ogni modo, se pur nulla di ciò fosse avvenuto, io poteva essere almeno ben sicuro che quella donna mi avrebbe disprezzato, e giustamente. Questa supposizione era tuttavia la meno triste che io potessi fare.

Ma per altro lato quante considerazioni insorgevano a giustificarmi! La mia salute, i doveri che io aveva verso Clara, la mia avversione sempre crescente, l'impossibilità di dividermi da lei in un modo meno violento, quella specie di influenza decisiva che il medico aveva esercitato sopra la mia volontà, tutto ciò doveva pure aver peso in quell'apprezzamento rigoroso che io intendevo fare della mia condotta.

E poi, quali compensi! Sarei sfuggito alle persecuzioni di Fosca, non l'avrei veduta piú, avrei ricuperata la mia salute e la mia gaiezza, avrei riveduta Clara, avrei passato quaranta giorni vicino a lei. Quaranta giorni!

Ciò era piú che sufficiente a confortarmi di questi scrupoli e di questi timori. Il pensiero di riabbracciare Clara fu quello che mi tenne desto e immerso nelle mie fantasticherie fino al mattino. Ogni qualvolta l'immagine di Fosca veniva a collocarsi d'innanzi a me, quella di Clara insorgeva a frapporsi e a celarmela.

Mi riscossi al suono delle ore che scoccarono alla torre della piazza. Erano le sei, e conveniva partire. Il fuoco si era spento, io mi sentiva irrigidito e ingranchito da quel lungo rimanere sulla seggiola. Uscii da quella stanza con una specie di trepidazione affannosa, ma dolce: dappertutto, vicino al letto, sul divano, nelle inarcature delle finestre, in tutti gli angoli della camera mi pareva di veder Fosca guardarmi inesorabile e minacciosa.

Discesi sulla via, spirava un'aria gelata e tagliente; i fanali erano ancora accesi, incominciava ad aggiornare, il cielo era grigio e nuvoloso. Alcuni conduttori di vetture pubbliche dormivano con quel freddo, avvolti nei loro mantelli, sul cassetto delle carrozze. Ne riscossi uno, mi cacciai nella vettura, e mi feci condurre alla ferrovia. Vi giunsi un po' presto, ma non importava. Attesi una mezz'ora passeggiando per la sala, parlando e sorridendo con me stesso. Sopra uno stipite della porta rilessi le date delle gite che aveva fatto fino allora a Milano, e che aveva avuto cura di scrivervi tutte le volte colla matita. Erano cinque in tutto; vi aggiunsi quest'ultima: Giorgio e Clara, 19 dicembre 1863.

Queste date esistevano ancora quattro mesi or sono. Il tempo che ha distrutto i miei affetti, non ne aveva ancora cancellato le traccie. Uscendo dalla sala per entrare nella vettura, mi accorsi che aveva cominciato a piovigginare. Mi sedetti ad un'estremità del sedile presso la vetrata onde guardar la campagna che era tutta coperta di neve; i miei scrupoli erano svaniti interamente, e mi sentivo gaio e felice come un fanciullo. Fra sei ore sarei stato nelle braccia di Clara; stavamo per partire, allorché intesi aprirsi lo sportello ed entrare frettoloso un altro viaggiatore. Mi rivolsi, e rimasi fulminato: era Fosca.

Essa venne a sedersi vicino a me senza parlare. I suoi capelli erano scomposti, le sue fattezze orribilmente alterate, il pallore del suo volto cadaverico. Gli occhi di tutti i passeggeri si rivolsero verso di lei con aria mista di compassione, di spavento e di meraviglia. Io stesso non l'aveva mai veduta sotto un aspetto sí spaventoso. Se la sorpresa, se il terrore non mi avessero reso impossibile il pensarci tosto, sarei stato ancora in tempo a discendere con lei dalla vettura; ma non m'era balenata alla mente questa idea, che il convoglio era già partito. Io rinunzio a descrivere tutto lo strazio di quella situazione crudele. Ora il segreto della nostra intimità era scoperto; non solo, ma ella aveva abbandonata la sua casa per seguirmi. Se fino a quel giorno io aveva esperimentato la sua dolcezza, ora doveva esperimentare la sua collera: io leggevo ora ne' suoi occhi uno sdegno represso a forza, una fermezza di proposito che non avrei mai potuto supporre nel suo carattere; si era seduta vicino a me, ma non per altro che come per assicurarsi che non le sarei sfuggito. Non mi guardava, né pareva volermi chiedere alcuna spiegazione della mia condotta. D'altronde la sua voce era abitualmente sí debole, che il rumore delle ruote mi avrebbe impedito di sentirla.

Mi attenni all'unico rimedio che mi era possibile accettare in quel momento. Alla prima stazione che incontrammo, mi alzai e le dissi:

— Discendiamo, ci fermeremo qui, aspetteremo il primo convoglio che ritorni, parleremo.

Mi ubbidí senza rispondere.

Il paese dove ci eravamo fermati era un piccolo villaggio di poche case, e distava dieci minuti di strada dalla stazione. Il convoglio non sarebbe ripassato che fra sei ore, era necessario attendere in un luogo caldo e coperto; non v'erano carrozze, pioveva ancora, e bisognava percorrere a piedi quel tratto di cammino che ci separava dal paese.

Offersi il mio braccio a Fosca che lo accettò e vi si abbandonò come fosse stata sul punto di svenire. La copersi in parte del mio mantello. La via era tutta fango, tutta pozzanghere, e vi affondavamo fino alla caviglia; tutta la campagna era coperta di neve; stuoli innumerevoli di corvi stavano appollaiati sugli alberi; e saltellavano da un ramo all'altro senza discenderne. Noi camminavamo in silenzio; io stringeva il braccio di Fosca, e sentiva la sua persona tremare per l'emozione e pel freddo. Soltanto una grande fermezza di volontà poteva dare a lei quella forza.

Appena giunti al villaggio, vedemmo una casa sulla cui porta era dipinta una corona d'ellera, e nel mezzo di questa una bottiglia e un bicchiere riuniti da una larga pennellata di minio, che voleva figurare uno zampillo di vino, il quale pareva spicciare dal bicchiere e versarsi nella bottiglia che era piú piccola. Entrammo in quella bettola. Era una stanza a piano terreno, piena di carrettieri che vi stavano bestemmiando, bevendo e fumando in piedi, come fossero stati sulle mosse per partire. Alcune tavole nere, grasse, bisunte, erano disposte attorno alle pareti, e parevano trasudare olio; un odore ributtante di chiuso, di liquori, di fumo di cattivo tabacco ammorbava quell'atmosfera in modo da renderla irrespirabile. Intanto che quei carrettieri ci stavano guardando meravigliati, ed ammiccavano degli occhi fra loro — né io poteva non rimarcare il contrasto che il volto cadaverico di Fosca formava con quelle loro faccie rosse, piene, abbronzite — chiesi alla padrona della bettola, se si potesse avere una stanza appartata e accendervi fuoco.

— Non v'è altra stanza che questa, — diss'ella — ma per loro, signori, se vogliono… metterò a loro disposizione la mia.

Salimmo per una scala di legno in una camera vasta, munita d'un ampio camino, dove non tardò a brillare una gran fiamma. Offersi una sedia a Fosca che vi si lasciò cadere sfinita, ne presi un'altra per me, e mi sedetti di rimpetto a lei dall'altra parte del camino.

Eravamo soli, e poiché non era piú possibile evitare una spiegazione, credetti meglio affrettarla e provocarla io medesimo.

— Ecco, — io dissi — o Fosca, a che cosa ci hanno condotto le vostre follie!

Ella alzò gli occhi con lentezza, quasi con fatica; mi guardò e li riabbassò senza rispondere.

— Spero — io continuai — che mi direte quale scopo avete avuto nel seguirmi, quali sono i vostri progetti, quale il contegno che terrete verso vostro cugino, allorché gli sarà nota la vostra fuga, se pure non gli è già nota in questo istante.

— Qualunque sieno per essere le conseguenze di questa mia risoluzione — diss'ella con calma — voi non dovrete parteciparvi in alcuna maniera.

— Mi pare però che in questo stesso momento… Voi sapete che io ho una licenza di quaranta giorni, che andava a fruirne ora per riconquistare in parte quella salute che mi sono rovinato per voi, e che questa vostra imprudenza mi costringerà a rinunciarvi.

— Perché? Voi potete continuare il vostro viaggio; se in questo momento voi siete qui, e se io sono in vostra compagnia, è perché mi avete invitata a venirvi.

— Fosca, — io dissi con calore — spero che non vorrete spingere tant'oltre la vostra crudeltà, da irridere perfino alla mia delicatezza. Le ragioni che adducete non hanno maggiore logica di quelle di un fanciullo. Avete troppo spirito per non avvedervene.

— No, — rispose ella con asseveranza — no, siete in errore. Io sono ben risoluta a lasciarvi proseguire la vostra via, a non frappormi fra voi e la vostra felicità. Non ho saputo che nella notte di ieri la vostra risoluzione; era troppo tardi perché io potessi uscire di casa; sono venuta stamattina, ed eravate già partito; se vi avessi trovato, vi avrei fatto conoscere quali erano i miei progetti. Sono giunta ancora in tempo a vedervi e a seguirvi — a seguirvi senza parlarvi, senza chiedervi nulla, senza pretendere alcuna cosa da voi; immagino che non me ne contestereste il diritto. Ho con me del denaro, e vi terrò dietro ovunque andrete: nessuno m'impedirà di abitare la stessa città, la stessa casa, di non perdervi d'occhio un istante. Se non m'aveste invitata a discendere, vi avrei accompagnata come un'estranea, fino a Milano. In quanto a mio cugino, rassicuratevi, gli ho scritto di questo mio amore, gli ho confessato come io stessa vi ho legata a me colla mia insistenza, come avete dovuto sacrificarvi a questa passione e risolvervi ad abbandonarmi con un inganno. Gli ho detto che siete onesto, buono, leale, che il vostro maggior dolore era quello di tradire la sua fiducia (credo di aver indovinato un vostro sentimento); potete essere tranquillo su ciò.

— E credete cosí di avermi tolta tutta la responsabilità che mi hanno creata le vostre follie?

— È la seconda volta che usate questa parola "follie". Credeva che almeno del mio cuore non avreste mai potuto dubitare, che ne avreste rispettato il dolore.

— Ma che cosa pretendete da me?

— Nulla.

— Perché mi avete seguito?

— Ve l'ho detto.

— Ma io non vi amo, dovete pure avvedervene.

— Non importa, vi amo io.

— Non avete pensato a che cosa vi condurrà questa situazione?

— Non posso avere altro pensiero che il vostro.

— La vostra salute v'impedirà di seguirmi, non avrete forza di giungere fino a Milano.

— Ebbene, morrò per via.

— Voi credete con ciò di farvi amare, di farvi ammirare; la vostra vanità ha forse in questa risoluzione una parte maggiore che il vostro cuore; disingannatevi; la mia stima, il mio affetto non attingono alcuna forza da questa falsa costanza.

— Mi conoscete assai male — diss'ella. — Io non ho creduto al vostro amore quando asserivate d'amarmi; come potrei lusingarmi di accrescerlo adesso che mi sfuggite? Non ho voluto mai che illudermi. Sono io che vi ho amato, che vi amo, che voglio amarvi. È un impegno che ho contratto con la mia coscienza. Voglio che ci crediate, vi costringerò a crederci. Mi sono votata a voi, ho risolto di morire per voi. Aveva bisogno di uno scopo nella vita, l'ho trovato, lo raggiungerò. Non importa che non mi amiate, potete anche odiarmi, è tutt'uno; anzi preferirò il vostro odio alla vostra indifferenza: ciò di cui voglio assicurarmi è della vostra memoria; voglio costringervi a ricordarvi di me; quando vi avrò oppresso con tutto il peso della mia tenerezza, quando vi avrò seguito sempre e dappertutto come la vostra ombra, quando sarò morta per voi, allora non potrete piú dimenticarmi. Ecco perché vi ho seguito.

— Ma è una aberrazione — io dissi.

— Forse, ma non monta.

— Un'aberrazione inutile…

— Non credo, vi conosco.

— Per lo meno crudele.

— Sí.

— Sapete dunque che ne soffrirò?

— Sí.

— Come potete conciliare questi due sentimenti disparatissimi: l'amore che dite avere per me, e il desiderio di farmi soffrire?

— Non desidero di farvi soffrire. Io vorrei rendervi felice se lo potessi; ma il mio amore è troppo piú grande delle sofferenze che può cagionarvi.

— Non vi comprendo, tutto in voi è contraddizione.

— Sí, — esclamò ella con impeto — un'orribile, una spaventosa contraddizione.

Tacemmo entrambi per un istante.

— Avete però un mezzo — ripigliò ella con calma, e senza distogliere gli occhi dalla fiamma che stava affissando — per sottrarvi alle mie minacce.

— Quale?

— Uccidetemi.

— Uccidervi! Che insensatezza! Ma voi sapete che non s'uccide una persona impunemente, né senza motivi. Se mi aveste detto ciò a quindici anni, vi avrei trovato qualche cosa di nuovo, di romantico, di commovente, ma ora! E perché dovrei uccidervi? Perché non vi posso amare? Che colpa ne ho io se il mio cuore non può sentire nulla per voi?

— Il vostro cuore! — diss'ella — non appellatevi al vostro cuore. Conosco questa ipocrisia delle passioni, l'ho esperimentata. Il cuore non è l'amore. Se il mio volto fosse stato meno brutto, se io avessi potuto correggere le linee del mio naso, della mia bocca, della mia fronte, conseguire un poco della freschezza e della pinguedine dell'infima donna del volgo, voi stesso, voi mi avreste adorato. L'amicizia è bontà, ma l'amore non è che bellezza.

— Sia come volete — io dissi. — Doppia ragione perché dobbiate cessare di perseguitarmi sí crudelmente. Posso io impormi una simpatia che la natura vi ha negato i mezzi d'inspirarmi? Devo io subire le conseguenze di quello che vi ho fatalmente inspirato io? Che cosa poteva fare per voi oltre a ciò che ho fatto? Vi ho dedicato quattro mesi della mia gioventú, mi sono sacrificato intieramente ai vostri capricci, alle vostre pretese, ai vostri nervi. Ho avuto la forza di fingere un affetto che era ben lungi dal sentire, ho avuto la delicatezza di dissimularvi con tutti i ripieghi possibili la mia avversione. Ho resistito finché ho potuto; quando vidi che la mia salute n'era rovinata, e che non poteva liberarmi da voi che fuggendo, ho risolto, benché con ripugnanza, di giovarmi di questa astuzia. Un santo non avrebbe fatto altrimenti. Ed ora che cosa volete da me? Che cosa esigete di piú? Ho sentito un vivo interesse per voi, vi ho compianta, vi ho stimata. Mi obbligherete ora a parlarvi aspramente, a far tacere perfino la mia pietà? Siete sconoscente, siete ingrata, non avete cuore. Se mi amaste, mi lascereste in pace. Pretenderete adesso che io vi sacrifichi tutta la mia vita? È impossibile. Quattro mesi di tali tormenti sono un'eternità; un amore felice non potrebbe durare di piú. Voi lo sapete, voi non potete dissimularlo: io non posso amarvi, io non posso amarvi!

— Oh, tu mi amerai, — esclamò ella con voce terribile — tu mi amerai!

Si drizzò di tutta la persona, e mi guardò con aria risoluta e minacciosa. Io rimasi come istupidito dalla paura e dalla sorpresa. Era avvezzo a temere quella donna, e mi meravigliava e mi doleva dell'arditezza che aveva posto in quelle mie parole. Come aveva osato tanto? Comprendevo che ella agiva ora per uno di quegli impeti, di quei súbiti mutamenti che erano cosí facili nel suo carattere, e che sarebbe stato impossibile il continuare con lei una discussione seria e tranquilla.

— Fosca!… — le dissi con accento affettuoso, e mi sentii soverchiato da una súbita angoscia di cuore, e non potei dire di piú.

Ella si portò le mani alla fronte, se la premette fino a imprimervi le traccie delle dita, alzò gli occhi al cielo, e si contorse le mani gridando:

— Ah! io sono disperata, io sono disperata!

Guardò attorno alla stanza con aria atterrita, vide la finestra, esitò un istante, poi vi si avventò con impeto.

— Addio, Giorgio, addio! non mi rivedrai piú!

La raggiunsi prima che avesse potuto aprirla, la trascinai a forza vicino alla sua sedia. Singhiozzava affannosamente senza piangere. L'abbracciai, e me la strinsi al seno con tenerezza.

— Siedi, siedi, — io le dissi — non ti desolare cosí, farò tutto quello che vorrai. Tu tremi, sei pallida!

— Ho freddo.

La copersi col mio mantello, e rattizzai il fuoco.

— I tuoi piedi sono bagnati, i tuoi abiti inzuppati di pioggia; accostati alla fiamma, cosí. Datti pace, datti pace. Non sono cattivo, lo sai, non ti farò alcun male, ti ubbidirò, ma non mi spaventare co' tuoi impeti. Abbi anche tu compassione di me!

Tornai a sedermi, e mi celai il volto fra le mani, per nascondere le lacrime che la pietà di lei, che il dispetto della mia fortuna mi avevano richiamato sugli occhi.

Stemmo qualche momento senza parlare. Fosca si accorse che io piangeva.

— Tu piangi, — mi diss'ella — oh mio Dio!

Si lasciò cadere dalla sedia, e mi tese le braccia supplichevole.

— Non piangere, non piangere. Sono un'egoista, una miserabile. Lo so che ti rendo infelice, e non ho la forza di rinunciare a te, non lo posso, ecco la mia sciagura piú grande… Oh perdonami, perdonami! Se tu vedessi nell'anima mia! Se tu sapessi come ti amo, come mi sei necessario! Fa' tutto ciò che vuoi di me, sarò la tua serva, la tua schiava, ma non mi sfuggire, non mi abbandonare. Non potrei stare quaranta giorni senza vederti, sarebbe impossibile, morrei disperata. Ritorna, ritorna. Tu lo vedi. Io morirò assai presto, sento la morte dentro di me; ancora un istante e sarai libero. Tu sei giovane, tu sei bello, hai salute, hai talento, la vita ti sorride, il mondo è tuo, la felicità che ti attende è lunga; sacrificati ancora un momento per me; quando sarò morta, considererai questa sventura come un istante di amarezza nelle lunghe ore di gioia che avrai goduto, mi ricorderai forse con delle lacrime. Non mi parlare di doveri, di ragione, io non ho piú ragione, non ho piú coscienza di doveri; non esigere da me ciò che non è piú possibile ottenere; io ti amo, ecco tutto ciò che so dirti. Abbi carità. Ritornerai? Dimmi che ritornerai.

Si trascinò verso di me, e nascose il capo tra le mie ginocchia.

— Sí, — io le dissi — sí, torneremo assieme, ma domani dovrò pur ripartire, non posso fare a meno di recarmi per due giorni a Milano.

— Ah! — esclamò ella. — Ebbene, ebbene non importa. Non vorrò essere felice io sola. Avrò la forza di resistere. Ma non ti fermerai di piú, ritornerai? Promettimelo.

— Sí, — io dissi — te lo prometto.

— Giuralo.

— Lo giuro. Ma potrò poi rivederti in casa tua? Tuo cugino…

— Spero che non avrà veduto la mia lettera, che saprà nulla. Io l'ho lasciata sul mio tavolino da lavoro. Dacché non tengo piú il letto, egli non viene piú nella mia camera. Sai che non esce dall'ufficio che pel pranzo. Prima di quell'ora saremo già arrivati. La mia cameriera ne sa qualche cosa, è prevenuta, non dirà nulla. Checché avvenisse, vedrò oggi il medico, e lo pregherò di venirtene ad informare.

Ometto il resto di quel triste dialogo. Feci cercare una carrozza, e ricondussi Fosca alla stazione. Il freddo, la fatica, il dolore avevano talmente esaurito le sue forze, che dovetti quasi sollevarla sulle mie braccia per salire con essa le due predelline della vettura del convoglio. Quivi si sedette dirimpetto a me; volle tenere tutte e due le mie mani tra le sue, avvicinare il suo viso al mio, baciarmi di quando in quando come fossimo stati soli. Piú ella era sofferente, piú era affettuosa; lo spavento, l'agitazione, le lotte di quella mattina l'avevano sfinita; non aveva quasi piú coscienza della nostra situazione, e si abbandonava a me senza ritegno.

Chi eravamo noi? Quali rapporti correvano tra quei due esseri sí diversi? Quella donna sí mostruosa, sí spaventevole, sí malata, poteva essere l'amante di quell'uomo? Tali erano le domande che io leggeva negli sguardi attoniti dei nostri compagni di viaggio.

Mi ricorderò per tutta la vita di quel giorno!

Alla sera mi sentii un poco rassicurato nel ricevere questo biglietto del dottore:

"Ho saputo da lei quanto è successo oggi, e vi scrivo per incarico suo; state tranquillo, la cosa non ebbe alcuna conseguenza, suo cugino ignora tutto. Sento che intendete di ripartire domani, e che avete promesso ritornare fra due giorni. Verrò domattina a parlarvi e a consigliarvi in proposito".

Ma quali altri consigli poteva egli darmi in quel caso?

XLI

Pochi minuti prima che io partissi, il medico venne infatti a trovarmi.

Entrò nella stanza sorridente con aria di voler fare le beffe della mia sconfitta; e mi sarei offeso di questo contegno, se non l’avessi saputo sinceramente interessato ai miei casi, e non fossi stato certo che egli era appunto venuto da me per suggerirmi qualche altro rimedio.

— E cosí, — mi diss’egli sedendosi — eccovi già di ritorno. Non avrei creduto di rivedervi sí presto. Avete avuto paura? Vi siete lasciato ricondurre come un agnello.

— Voi conoscete quella donna, — risposi io — non crederete certo che avrei potuto contenermi diversamente.

— Lo so, ma la cosa per se stessa è assai singolare; non vi offendete se ne ho sorriso mio malgrado. Immagino almeno che questo vostro recarvi a Milano per due giorni non sia che un pretesto, e che la vostra partenza sarà decisiva.

— No, ho promesso di ritornare.

— Bisogna dimenticarsene.

— Ne ho impegnato la mia parola d’onore.

— Male. Bisognerebbe dimenticarsi anche di questa.

— Non è possibile.

— Come volete. Non voglio esporvi qui le mie teorie sull’onore, ma mi limito a farvi una domanda: "Che cosa intendete di fare?".

— Ciò che è oramai inevitabile. Ritornare, giustificare con un pretesto qualunque la mia rinuncia alla licenza, e rimanere presso di lei fino a che non vedrò la possibilità di fare diversamente.

— Datemi il vostro polso — diss’egli; e corrugò la fronte tastandolo. — La vostra tosse è diminuita?

— Accresciuta.

— Dormite?

— Poco.

— Agitato?

— Estremamente.

— Fate cattivi sogni?

— Orribili.

— Fra due giorni sarete traslocato a Milano, — diss’egli tranquillamente. — State assai male; avete bisogno di cambiar aria; questa atmosfera vi uccide.

— A Milano! Fra due giorni.

— Sí, me ne incarico io. L’aria di quel paese vi farà bene. Farò revocare la vostra licenza, e vi farò invece avere una traslocazione che renderà la vostra partenza inevitabile. Ella lo comprenderà, non potrà opporsi. Le dirò che fui io a provocarla vostro malgrado.

— Ma pensate…

— A che cosa? — interruppe egli con impazienza. — Io penso al vostro bene, giacché voi non avete un’oncia di giudizio, e lasciate volentieri che vi pensino i vostri amici. Dopo tutte le follie che ha fatte per voi, dopo quella colossale di ieri, la salute di quella donna è peggiorata a tal segno, che ella non ha piú due mesi di vita; e due altri mesi di soggiorno vicino a lei basterebbero a dare a questa lenta infiammazione che vi divora uno sviluppo che renderebbe impossibile arrestarla. Fate quell’apprezzamento che volete di questa mia mediazione, che vi costringo a subire; io ho coscienza di compiere un dovere. Me ne ringrazierete piú tardi.

E uscí prima che nella mia titubanza avessi trovato parole per eccitarlo e per distoglierlo da questo disegno.

XLII

Io vorrei tacere qui di quegli ultimi giorni che passai con Clara a Milano; non vorrei evocare dalle oscure profondità delle mie memorie che i soli dolori — giacché l’evocarne le gioie è compito assai piú triste e difficile — il mio cuore non conosce piú la via delle gioie, esso ne ha dimenticato il linguaggio! — ma come non ricordare quegli ultimi baleni di felicità che hanno rallegrato la nostra esistenza? I primi piaceri non sono meno dolci degli ultimi, ma non si rammentano con la stessa trepidazione. Allora se ne speravano altri, e piú frequenti, e piú grandi; la gioventú, la fortuna erano per noi; v’era ancora tempo a saziarsene, ma adesso!… sono le ultime gioie quelle che si rammentano per tutta la vita, quelle che il cuore ha legato a sé colla stessa superstiziosa religione con cui vi ha legato la memoria di un estinto. Non sono i piaceri che incominciano quelli che si rimpiangono, sono quelli che finiscono.

In una natura dove tutto muore, dove tutto ci sfugge, le cose piú dilette sono quelle che abbiamo perduto. La fortuna ci fa parere piú cari gli oggetti che ci toglie, di quelli che ci dona, ed è forse cosí che ci riconcilia lentamente con l’idea della distruzione e della morte; nondimeno tristi quelle cose di cui esclamiamo: sono le ultime! Ho veduto spesso sorgere il sole con gioia; ma talora mi sono sentito stringere il cuore, e ho stese le braccia verso di lui nell’ora melanconica del tramonto.

XLIII

Ecco soltanto ciò che ne scrissi allora nel mio diario:

"23 dicembre 1863. — Registro questa data e queste memorie due ore prima di ripartire da Milano. Clara mi ha lasciato in questo momento; ho il cuore gonfio di lacrime, e vorrei piangere come un fanciullo. Perché? Non lo so dire. Forse è un bisogno puramente fisico. Dopo i vent’anni le lacrime ricadono nel cuore e vi si accumulano. Credo che spesso si muoia di queste lacrime che non possono trovare una via. Perché non si piange piú dopo i vent’anni?

Sono giunto ieri, ho passato tutto il giorno con lei, qui, soli, contenti, ma non piú contento come un tempo… Mi amerebbe ella meno? No, ella sembra amarmi soltanto piú seriamente. Temo d’aver indovinato il segreto terribile che ella si strugge di nascondermi. Clara non è felice.

Perché ha pianto ieri sera nel lasciarmi? ella che non ha pianto mai? Ella sapeva pure che mi avrebbe riabbracciato oggi. Non aveva mai assaporato delle lacrime; ne ho bevuta una delle sue. Come sono amare!

Penso quasi con dispetto, quasi con ira alla strana conformità che la fortuna ha posto tra alcune scene di questi miei due amori cosí diversi. Che raffronti! che analogia in queste antitesi! Oggi abbiamo passato quattro ore in campagna, sulla neve, in mezzo al fango, come le passai ieri l’altro con Fosca. Clara ha voluto rivedere il nostro tabernacolo, i nostri prati, i nostri alberi, i nostri ruscelli. Ho tentato inutilmente di distorgliela da questo progetto, ho dovuto accompagnarvela. In questa stagione! Non mi dimenticherò mai, mai, di questa passeggiata!

Perché ella ha detto che voleva tentare di ritrovarvi se stessa? Mi ritorna ora in mente questa frase oscura e angosciosa.

Siamo saliti in una carrozza ove eravamo già stati assieme una volta nei primi tempi del nostro amore. Clara l’ha riconosciuta. V’era ancora nella tappezzeria della vettura un G che ella vi aveva inciso allora con tanti trafori di spillo. Siamo discesi fuori della città dalla parte di Morivione. Siamo stati fino a Vaiano, abbiamo attraversato i prati correndo. Clara ha voluto entrare nella chiesa, e si è inginocchiata un momento per pregarvi. Non vi era dentro anima viva. Che solennità nelle chiese deserte!

Abbiamo bevuto latte in una di quelle catapecchie miserabili che si trovano allo svolto del canale. Siamo entrati nella stalla; alcuni bambini giuocavano in un angolo della mangiatoia, e ci guardavano attoniti e quasi spaventati; non sapevano levarci gli occhi d’addosso. Che quiete là dentro! che caldo! Ho chiesto a Clara:

— Vorresti vivere qui con me?

— No, — rispose ella tristamente — ho orrore della povertà.

Quella contadina ci ha detto:

— Loro signori sono già stati qui a San Giorgio, me ne ricordo.

— Quando? — chiese Clara.

— A San Giorgio, nel giorno in cui si usa andare a bere il latte in campagna.

Allorché fummo usciti, Clara mi disse:

— Ho voluto farle ripetere due volte il tuo nome.

Ritornammo attraversando quell’argine lungo e sottile che divide i due canali. Bisognava camminare l’uno dietro l’altro. Clara mi disse:

— Va’ d’innanzi tu, voglio vederti.

Mi rivolsi a un tratto improvvisamente, e la sorpresi con le lacrime agli occhi.

— Tu piangi — le diss’io con ansietà. — Che hai? Perché piangi?

M’interruppe con un sorriso, e mi disse:

— È effetto del guardare la neve. Come sei poco esperto di lacrime!

Risalimmo nella vettura che ci attendeva. Il vetturino ci guardò quasi stordito. Eravamo tutti immollati. Ci facemmo condurre a Porta Magenta, e ripigliammo le nostre scorrerie a piedi. La nebbia si era sollevata, e il sole splendeva di tutta la sua luce. La neve pareva fatta di tante pagliuzze d’argento, e abbagliava. Gli alberi erano pieni di gazze e di merli, il torrente era gelato da un lato e dall’altro della riva, e scorreva nel mezzo con lentezza; non si vedeva né un insetto, né un filo d’erba.

Clara scorse la prima la nostra capanna, — il nostro tabernacolo, — e fu sollecita a raggiungerla, ma l’uscio ne era chiuso, e non ci fu possibile entrarvi.

Ella fu sí afflitta di questa contrarietà, che per poco non ne pianse. Riattraversò il ponte di tavole su cui la neve gelata rendeva facile lo sdrucciolare, e abbracciò un albero sotto il quale eravamo soliti ripararci dal sole. Si sedette sulla neve in un punto in cui solevamo sederci e passare lunghe ore sull’erba. Trovammo in una siepe alcune di quella bacche vermiglie che producono le rose selvatiche e che hanno un sapore acre, benché quasi dolce, e un nido ripieno di foglie secche e di neve. Quante memorie in quei luoghi, quante memorie!

Clara esclamava tra se stessa: "Pensare che tutto sarà rifiorito a primavera, che questi luoghi ritorneranno cosí belli come lo erano nei primi giorni del nostro amore!".

— Ebbene, — le dissi io — questo pensiero non ti conforta?

— Ma saremo noi ancora cosí giovani, ancora cosí felici?

Non seppi risponderle. Perché ha ella concepito questo dubbio?

Nel ritornare raccolse presso la siepe di un giardino un fiore di semprevivo, di quelli di cui si intessono le corone mortuarie.

Gettalo via, — io le dissi — è un fiore da morto.

— Perché? — rispose ella con tristezza — se è l’unico fiore che non avvizzisce? l’unico che non muore mai? Il fiore delle memorie è caduco, ma questo sopravvive alla memoria. Quello è per gli affetti vivi, questo per gli affetti sepolti.

E volle che lo accettassi, e promettessi di conservarlo per memoria di quel giorno.

— Ritorniamo nella tua stanza, — mi diss’ella — voglio passare tutto il giorno con te, sono pazza oggi. Ho freddo, sono irrigidita, accenderemo il fuoco.

Durante il tragitto della carrozza incominciò a tremare e rabbrividire dal freddo. Volle che facessi passare anch’io le mani nel suo manicotto. Vi sentii dentro alcuni oggetti che aveva raccolto per memoria di quella passeggiata, una foglia di ellera, un ramoscello d’albero. Percorremmo quel lungo tratto di strada senza parlare, vicini, coperti dalla sua pelliccia, guardandoci, colle mani cosí strette e riunite nel manicotto.

Accendemmo nella mia stanza un gran fuoco.

Non aveva mai veduto Clara sí pallida. Come era bella cosí, come era bella!

Ella aveva i piedi tutti bagnati.

— Levati i tuoi stivalini — io le dissi.

Non voleva.

— Ti ammalerai. Ubbidiscimi, te li leverò io.

Mi lasciò fare, benché quasi con dispiacere. Le sue belle calze erano anch’esse bagnate; glie le slegai, glie le tolsi; ho veduto i suoi piedini nudi, piccoli, torniti, rosati; li ho riscaldati tra le mie mani.

La sera ci ha raggiunti lí, vicini al fuoco. Avevamo passato tre ore nelle braccia l’una dell’altro. Ella non aveva mai posto tanta dolcezza ne’ suoi abbandoni. Perché era cosí mesta? Perché non sapeva dividersi da me? Perché è tornata indietro per baciare l’uscio della nostra camera? Io torturo inutilmente il mio cuore con queste domande.

Ha dimenticato qui la sua crocetta di brillanti: la porterò con me, gliela restituirò ritornando.

Scrivo un istante dopo che ella è partita; guardo con tristezza la sedia su cui si è seduta, e guardo gli ultimi tizzi del focolare che si spengono. Non l’ho amata mai tanto come oggi. Oh! che sarebbe di me senza quella donna!"

XLIV

L'indomani era la vigilia di Natale: avevo detto a Fosca che per quel giorno sarei ritornato, e tenni la promessa. Un biglietto del dottore che trovai nella mia stanza mi diceva:

"So che ella vi aspetta a pranzo qui. Se vi verrete (e non farete male a venirvi) direte al colonnello e agli altri che non siete ancora partito, che una lieve indisposizione vi ha obbligato a rimanere. Io sarò là a farne fede. Immagino che non avrete paura di aggravare la vostra coscienza con questa menzogna inevitabile".

Vi andai. Tanto non avrei potuto evitare di veder Fosca, e il minor male che mi fosse possibile sperare era appunto quello di non vederci da soli. La certezza della mia traslocazione imminente mi infondeva una specie di coraggio che non aveva avuto prima. Per poco non era divenuto anche audace. Affrontava questi pericoli con calma, perché sapeva che erano gli ultimi. La mia apparizione non produsse alcuna sorpresa nei miei commensali, giacché il dottore ne li aveva prevenuti. Il colonnello mi strinse la mano fino a farmi sentire un po’ troppo la pressione delle sue dita secche e nervose, e mi disse con schiettezza:

— Sono veramente contento che non siate ancora partito; me ne dispiace per voi, ma per me ne sono lieto. È una puerilità, un’abitudine come le altre, lo capisco, ma in questo giorno sento anch’io il bisogno di vedermi circondato da’ miei amici. Il Natale è la piú bella festa dell’anno. Io non sono né turco, né cattolico — sono semplicemente un galantuomo — ma alcune delle feste cristiane mi piacciono, mi vanno a sangue, armonizzano colle mie convinzioni; io ci vedo dentro un significato profondo, che le apparenze ci nascondono. La religione ne è un pretesto. Che credete? Non è già la nascita di Cristo che noi festeggiamo oggi; noi festeggiamo la famiglia, le gioie della vita domestica, il focolare. Se questa festa si celebrasse in agosto non avrebbe piú una metà della sua importanza; è in questa stagione che sentiamo il bisogno di vederci riuniti. Ecco la casa, il camino, il ceppo tradizionale, la tavola apparecchiata. Peccato che non nevichi! Tempo fa, ho passato questo giorno sulle montagne, in una casetta sepolta tra le valanghe, coi lupi alla porta. Quello fu un vero Natale! E stasera rimarrete con noi? Faremo una piccola cena.

— Volontieri, — io dissi — è una festa a cui ho legato anch’io delle memorie.

— Ah! — continuò il colonnello mentre ci mettevamo a tavola — chi è che non vi ha legato delle memorie? Le piú belle rimembranze della famiglia fanno capo a questo giorno. Volete ricordarvi delle ore piú gioconde della vostra fanciullezza, delle persone che avete amato di piú, dei vostri genitori, dei vostri fratelli? Bisogna che pensiate al Natale, alla casa dove siete nati, alla stanza dove potevate raccogliervi, alla fiamma del caminetto, alla notte vegliata cicalando…

— E alle gozzoviglie… — interruppe uno dei commensali.

— Sia come volete, — continuò il colonnello — anche alle gozzoviglie. Male per voi se in questo tacchino coi tartufi, non vedete altro che un tacchino coi tartufi. Io ci vedo la ragione di un legame piú stretto fra noi. Dov’è che gli uomini si trovano meglio riuniti che a tavola? È là che essi dividono il pane ed il vino, che si dimostrano piú efficacemente il loro affetto, offrendosi a vicenda le cose piú necessarie alla vita. A voi. Eccovi qui un petto di pernice; permettete che ve lo offra. Crederete forse che un uomo che vi offre un petto di pernice possa essere un vostro nemico?

Questa offerta era stata fatta a me.

— Tolga il cielo che io abbia a cadere in tale errore, — io dissi — io considero la vostra offerta come la piú eloquente testimonianza della vostra amicizia.

— Via, — esclamò egli — voi credete di aver proferito una facezia, avete detto invece una grande verità. Io ho imparato a non dare alcun valore a quei doni che sogliono farsi i ricchi, a quei piccoli sacrifici fatti e retribuiti per convenzione. Quando io era ragazzo era molto povero, non mi vergogno certo di confessarlo. Ebbene, la camera migliore della casa era la mia, quei piccoli agi che poteva permetterci la nostra situazione erano per me; a tavola mi si davano le cose piú squisite; mia madre era instancabile nell’occuparsi di tutti questi piccoli nonnulla che potevano recarmi piacere; quello era il vero affetto — tutto il resto è convenzionale, falso — è apparente. Se un uomo affamato — mettiamo anche semplicemente un uomo goloso — desse a me affamato l’unica costoletta che gli rimanesse per colazione, sento che dovrei essergliene piú tenuto, che se m’avesse dato venti napoleoni dei quaranta che aveva nella sua saccoccia.

— È vero, — disse Fosca — io credo…

— Chiedo scusa, — interruppe suo cugino — tu non puoi credere nulla, non puoi essere in ciò un giudice competente; tu non puoi conoscere il valore di una costoletta, giacché non ne hai mai mangiata una intiera in tua vita.

— Oh, oh, — esclamò il dottore — questa argomentazione è falsa. Converrebbe indagare se un piacere debba essere misurato dalla sua entità, piuttosto che dalla sua durata.

— Dall’una e dall’altra — diss’io,

— Sta bene, — disse il colonnello — ma piú assai dalla durata. Farò uno sforzo di logica. Argomentiamo da un caso opposto. Supponiamo a mo’ d’esempio, che abbiate a ricevere un colpo di bastone; voi ne sentirete dolore per uno, va bene, ma ricevetene invece dieci, ricevetene venti… Che ve ne pare? Persisterete a credere che il dolore dei dieci, dei venti, sia uguale a quello dell’uno? Singolarmente sí, ma molti dolori riuniti costituiscono un dolore piú grande. Cosí è dei piaceri. Addizioniamo i piaceri, e ne avremo uno piú vivo e piú durevole. Forse che se noi rimanessimo qui, seduti a questa tavola fino alla mezzanotte, e riuscissimo a riunire con una catena di piccoli piaceri intermedi questi due grandi poli del piacere che sono il pranzo e la cena, non avremmo sciolto con onore questa questione?

Questa proposta trovò un eco in tutti i commensali.

— Chi avremo a cena con noi? — chiese il dottore.

— Un mondo di persone, tutte le onorevoli metà dei nostri colleghi.

— Compresa la baronessa, la moglie di…

— Suo marito.

— O dell’amico di suo marito!

— Bando alla maldicenza — disse il colonnello. — In verità che se io credo di avere una virtú, la è questa, di non veder mai ciò che non dev’esser veduto e, vedendolo, di persuadere me stesso di non aver visto. Vi è un beneficio grandissimo che ogni uomo è in grado di rendere ad un altro, e che è tuttavia quello che vien reso piú raramente, l’astenersi dal dirne male.

— Ma io non aveva in animo di dirne male — disse quello tra noi che aveva provocato questa osservazione. — Voleva far constare di un fatto. Vi sono certe cose che saltano agli occhi. I mariti…

— Può essere — interruppe il colonnello — che i mariti vedano poco; ma gli altri vedono troppo. Io apprezzo piú la cecità dei primi, che l’accortezza dei secondi. La fiducia di un marito, di un padre, di un fratello è cosa che mi commuove, doppiamente poi se tradita. Io non ho riso mai della semplicità; la credo la piú nobile delle virtú, invece ho sempre temuto della doppiezza. La natura ha donato all’uomo questa cecità, per dare alla colpa della donna un rilievo ancora piú appariscente.

Io guardai Fosca il cui volto aveva incominciato ad impallidire. Il pranzo era finito, e, se avessi potuto, le avrei suggerito volontieri di ritirarsi nella sua camera.

— E se non fosse… — aveva ripreso il colonnello. Ma fu interrotto dall’arrivo del sergente di posta che ci recava un fascio di lettere. Io n’ebbi una, che conobbi tosto essere di Clara, e mi affrettai a nasconderla nel mio portafogli, impaziente di trovarmi solo per leggerla. Dopo le follie di quel nostro ultimo ritrovo, che cosa mi avrebbe ella detto?

Il colonnello fece atto di riconsegnare le sue al sergente perché le riportasse in ufficio, ma avendone veduta una col suggello del Ministero, la riprese e l’aperse. La lesse in un baleno, si rivolse a me con aria di meraviglia e di dispiacere, mi guardò un poco come per interrogarmi, poi mi disse:

— Siete voi, o sono quei signori del Ministero che hanno voluto farci questa sorpresa? Siete destinato al dipartimento di Milano, e dovete raggiungere immediatamente la vostra destinazione. Che diavolo!…

— A Milano!… — io balbettai tutto confuso — traslocato!… Veramente… non capisco…

E alzai gli occhi verso Fosca. Vidi il suo volto impallidire, trasfigurarsi, affilarsi. Ella stese le braccia verso di me, tentò sollevarsi, e ricadde sulla sedia. Suo cugino, i medici, le furono tosto dintorno; guardavano ora me, ora lei, e parevano sospettare le cause di quella sua crisi improvvisa. Successe un istante di silenzio. Gli occhi di Fosca, spalancati, immobili, vitrei, non cessavano di affissarmi. Ella si alzò ad un tratto agitata da una contrazione spaventevole, corse verso di me, si afferrò a’ miei abiti e proruppe in un grido straziante:

— O Giorgio, non mi abbandonare, o mio Giorgio! mio adorato!

Quelle parole, quell’atto erano una confessione troppo eloquente. Suo cugino impallidí, arrossí, tornò ad impallidire; stette un istante immobile come istupidito, paralizzato, fulminato da quella rivelazione, poi si avventò verso Fosca guardandomi con occhi terribili, la strappò con violenza dalle mie braccia, la trascinò verso il suo appartamento; e nel varcare la soglia dell’uscio si rivolse, e mi disse:

— Uscite, signore; uscite di questa casa. Ci rivedremo assai presto.

Gettai gli occhi smarriti d’intorno a me; il sergente di posta, le cameriere erano spariti; i miei commensali si erano alzati, e facevano mostra di frugare qua e là tra i mobili per cercare i loro berretti e le loro sciabole. Io uscii, mi cacciai giú per le scale colla disperazione nel cuore.

XLV

Non so perché fuggissi. Credo che sia istinto: si fugge da un dolore come da un pericolo. In un attimo mi trovai fuori della città, nell’aperta campagna; era già buio, e le strade erano deserte. Mi arrestai al crocicchio di una via, e percossi col fodero della sciabola alcuni ramoscelli di sanguine, che sporgevano da una siepe, per farne cadere la neve. Guardai un lume che un contadino portava in lontananza attraverso i campi, e che pareva andar solo; lo seguii coll’occhio finché lo perdetti di vista. Un cane magro, brutto, patito, mi si avvicinò annusando e agitando con lentezza, quasi con fatica, la sua coda aggomitolata; lo chiamai e mi curvai ad accarezzarlo, poi lo respinsi percuotendolo col piede. I suoi guaiti mi riscossero da quella specie di astrazione simile al sonnambulismo, riacquistai la coscienza di me, mi ricordai di ciò che era successo, e mi portai le mani alle tempie, perché mi pareva che qualche cosa stesse per spezzarmisi nella testa.

Oramai tutto era scoperto, e in che modo crudele e impreveduto! Fra poco il nostro segreto sarebbe stato sulle bocche di tutti. Fosca, suo cugino, io piú di ogni altro, saremmo stati fatti oggetti di scherno e di ridicolo. Lui, quell'uomo onesto, quell’uomo eccellente, colpito della stessa pena che una società ingiusta, fatua, goffamente crudele, avrebbe gettato sopra di me. Piú ancora: avrei dovuto battermi con esso, forse ferirlo, forse ucciderlo; o io stesso rimanere ferito od ucciso. Tale il premio che egli avrebbe ricevuto della sua fiducia, io del mio sacrificio. Una fatalità inesorabile aveva posto a legge delle nostre esistenze questo dilemma terribile.

Perché, sarei io stato sí vile da gettare sopra di lei la responsabilità di quell’avvenimento, da dirgli come ella mi aveva imposto il suo amore? E quando pure egli ne fosse stato convinto, avrebbe potuto sottrarsi alle esigenze di quei pregiudizi che lo costringevano a pretendere da me una riparazione palese come l’offesa? No, non v’era a questo riguardo alcuna via di transizione; un duello era inevitabile.

Poiché m’ebbi definita la mia situazione in questi termini, mi sentii un poco piú tranquillo. Il timore, l’aspettazione di un male, sono un male maggiore di quello che si teme e si aspetta. Mi sarebbe importato poco il morire; mi era avvezzato a questa idea fino da fanciullo, e la mia gioventú non era stata che una lotta continua tra l’istinto tenace della vita, e la mania assidua del suicidio; ma uccidere lui, quell’uomo che sapeva accomodarsi sí bene cogli uomini e coll’esistenza, che era cosí onestamente felice!… quello era un pensiero che mi lacerava il cuore.

Di Fosca non mi dava gran pena. Io non l’amava; i mali che ella aveva cagionato parevano disgiungerci ancora di piú. La mia pietà era sí poco viva, che il minimo de’ suoi torti bastava a farla tacere.

Le mie idee si rischiararono a poco a poco.

Non si può durare lungamente sotto l’oppressione di un gran dolore. Il cuore, prostrato per un istante, si risolleva subito; la speranza ritorna a sorridere, precorre gli avvenimenti, e ci addita le gioie che devono compensarci di quegli affanni.

Rientrai nella città. Mi pareva d’essermi dimenticato di qualche cosa, aveva nella testa l’idea confusa di un piacere vicino, di una gioia certa, ma non sapeva quale fosse. Ad un tratto me ne sovvenni; fu un baleno: non aveva letto ancora la lettera di Clara.

Sorrisi tra me stesso, e mi affrettai verso casa. Quella lettera mi avrebbe compensato di tutto. E poi, la mia felicità era adesso ben certa, fra poche ore sarei partito per Milano, sarei vissuto sempre vicino a lei, non l’avrei abbandonata mai piú. Ora ne era ben sicuro. Come poteva io dolermi di una sventura sí lieve, d’innanzi alle attrattive di una gioia sí grande e sí durevole? Io sorrideva di quel dolore miserabile.

Non so se gli altri amanti sieno stati nei loro affetti tanto sublimamente puerili quanto lo fui io. Vorrei pur leggere nel cuore degli altri uomini per conoscere se io ho realmente amato di piú, se fui in ciò, come ho creduto e temuto sempre, un’eccezione mostruosa e sventurata.

Non lessi mai una lettera di Clara se non alcune ore dopo averla ricevuta, per prolungarmi coll’aspettazione il piacere di quella lettura. Spesso, appena apertele, incominciava a leggere a rovescio, o alla trasparenza della fiamma della candela, e guardava qua e colà in fretta alcune parole, e richiudeva tosto quei fogli per costruire con esse qualche frase a mio talento, e fantasticare su ciò che avrebbe potuto dirmi. Non comprendeva nulla, se non dopo averle lette dieci o venti volte; le ritenevo a memoria, e le recitavo a me stesso prima di addormentarmi; talora le ricopiavo imitando i suoi caratteri, per provare in qualche modo le sensazioni che ella doveva aver provato nello scriverle.

E aveva allora venticinque anni!

Ma in quella sera era troppo afflitto, aveva troppo bisogno di conforti, per potermi protrarre questo piacere. L’apersi con avida impazienza; ed ecco ciò che conteneva quella lettera terribile:

"Procura di ascoltare con calma ciò che sto per dirti. Abbi tu almeno quella forza che io non ho, e possa non conoscere l’amarezza di quelle lacrime disperate che io verso nello scriverti. Mio buon amico, mio Giorgio, mio angelo, noi non dobbiamo vederci piú, noi dobbiamo lasciarci per sempre. La mia mano vacilla, e il mio cuore s’infrange nello scrivere queste parole.

Ascolta. Sarò breve, ti dirò tutto piú concisamente che posso, giacché ogni parola che devo dirti mi trapassa l’anima come una lama. Rovesci di fortuna gravi e improvvisi hanno rovinato la mia famiglia. Mio marito è quasi povero. È necessario che tutto sia mutato nel nostro sistema di vita; che io attenda colla mia vigilanza, colla mia assiduità, forse anche col mio lavoro, a quelle economie che mi impone il mio dovere di moglie e di madre. Mio marito ebbe forse dei torti verso di me; io ne l’ho ben punito. Ad ogni modo, ora che egli è infelice, sento il bisogno di riavvicinarmi a lui, e di proteggerlo col mio affetto. La fortuna ha riunito le nostre esistenze, non posso abbandonarlo. Tu stesso, tu mi disprezzeresti. Sono ora otto mesi che ci amiamo. La mia colpa fu lunga, la mia dimenticanza profonda, la mia felicità immensa.

Tutta una vita non basterebbe a scontare questa felicità (poiché la felicità è cosa che si sconta). Come potrei pretendere di essere ancora felice? Come oserei di essere ancora colpevole? Lasciandoci ora, noi ci lasciamo in tutta la pienezza delle nostre illusioni e della nostra fede; noi porteremo intatte alla tomba queste illusioni che una intimità piú durevole avrebbe scolorite o distrutte. La tua memoria riempirà tutta la mia esistenza.

Non è il caso che ci ha separati, è una predestinazione, è una volontà superiore e imperscrutabile. La sventura che mi colpisce ha punito me di una colpa che non potrò mai lavare abbastanza colle mie lacrime; ha tolto dalla tua via un ostacolo che avrebbe certo attraversato a te, giovane, un avvenire che il tuo coraggio e il tuo ingegno ti additano lusinghiero e felice.

Quando pure il mio cuore avesse potuto ribellarsi al sentimento di un dovere che m’impone di dividermi da te, io non avrei mai potuto sottrarmi al disprezzo di coloro che avrebbero penetrato il nostro segreto, alla condanna disonorante di cui la società avrebbe colpito la mia condotta. Mio figlio, l’unico scopo, l’unico affetto legittimo della mia vita, non avrebbe potuto redimersi mai dal disonore ingiusto e crudele che gli sarebbe provenuto dalla mia colpa; egli non avrebbe potuto arricchire il suo cuore di quel dolce sentimento che a voi uomini già esperti della nostra fatuità, dei nostri errori, spesso anche delle nostre bassezze, fa parere ancora nobile e cara la donna: la pura e santa memoria di una madre.

Sí, Giorgio, io sono caduta con facilità, ma devo rialzarmi con coraggio. Mi sono data a te con franchezza, mi ti ritoglierò con pari franchezza; mi farò un’arma della tua stima, della tua ricordanza; adoprerò a nobilitarmi quella stessa forza che mi darà la memoria del nostro passato.

Nella mia vita di otto mesi, io fui assai felice… Non ho mai tanto guardato e pensato a questo tempo, come ora che i nostri cuori stanno per dividersi. Un’idea mi conforta e mi inorgoglisce. Nessuno può toglierci questo passato, nessuno può fare che io non t’abbia amato con tutta l’anima mia e che tu mi abbia riamata collo stesso ardore. Questo tesoro di memoria è indistruttibile. Io l’ho celato nelle profondità piú segrete della mia anima. È da esso che io attingerò qualche conforto per la mia vita avvenire, misera vita, piena di tristezza e di abbandono, ma abbellita dal sorriso de la tua rimembranza; senza questa certezza, dove avrei io trovato la forza di abbandonarti?

Né noi dobbiamo lasciarci solo come amanti, dobbiamo lasciarci anche come amici, ogni altra relazione tra noi sarebbe fatale; non ci potrebbe ricondurre all’amore perché nol dovremmo, non legherebbe di piú i nostri cuori perché ce ne mostrerebbe quei difetti che l’amore ci aveva nascosti. Quando due creature si sono amate come noi, non possono piú amarsi come gli altri; tu fosti tutto per me, non voglio che tu sia poco, preferisco che tu sia nulla. Le anime come le nostre non vivono che di piaceri grandi, o di grandi dolori. Prima di lasciarti ho voluto rivedere tutti quei luoghi che mi parlavano di te (forse io non li rivedrò mai piú), ho voluto dare un addio a tutto ciò che il tuo affetto mi aveva reso caro. Nell’immensità del mio dolore, io sono ora quasi tranquilla. Io non ti perdo; ho raccolto dal nostro passato tante memorie che una lunghissima vita non basterebbe ad esaurirle.

Ora addio. Tu lo vedi. Io ti scrivo piangendo, e non potrei scriverti di piú; le lacrime cancellano le parole, quasi avessero sentimento di pietà e volessero risparmiare a te il dolore di versarne altre nel leggerle. Io non poteva ingannarti. Poteva essere ancora fra le tue braccia, ma il mio pensiero, il mio cuore sarebbero stati lontani da te.

Il destino che ci separa è inesorabile. Se tu mi hai realmente amata, se ho meritato qualche cosa dal tuo affetto, fa che la tua rassegnazione e la tua virtú mi abbiano a rendere meno terribile il perderti.

Ho lasciato apposta nella tua stanza la mia crocetta di brillanti. Tienila per memoria mia. Sarò felice se mi prometterai di portarla sempre sul tuo cuore. Non ti avrei fatto un altro dono, non avrei osato, ma una croce è simbolo di sacrificio, di abnegazione, di dolore; mi parve che ella avrebbe potuto farti ricordare di me, nella sola maniera in cui desidero che tu abbia a ricordartene. Quel giorno in cui mi lasciasti la prima volta, tu la vedesti brillare sul mio petto, tu la baciasti; vi si vedono oggi ancora le traccie delle nostre lacrime: ho pensato che questa memoria sarebbe stata sacra per te.

Addio ancora. Sii forte, Giorgio, sii ragionevole, non maledirmi. Pensa che soltanto in questo modo io poteva riacquistare la stima di me medesima, non credermi interamente perduta, e tu sii pago di aver amata una donna non affatto indegna di te. Un abbandono piú lungo ci avrebbe disgiunti, questo sacrificio ci riunisce. Se io fossi stata libera, mi sarei uccisa per non sopravvivere al nostro amore; esso fu immenso, ma immenso e terribile ne fu il distacco; tu invece conosci i legami che mi impongono di vivere. Ma se io fossi stata libera ti avrei amato per tutta la vita.

Addio, mio adorato, mia anima, (ti chiamerò ancora una volta con questi nomi diletti), addio per l’ultima volta, addio per sempre. Mi dicesti un tempo che assomiglio a tua madre, amami in essa e come essa. Il mio affetto, la mia memoria ti seguiranno fino alla tomba. Sii felice, Giorgio, sii onesto; e che il cielo vegli sopra di te".

XLVI

La prima lettura di quel foglio non produsse in me che un senso di sbigottimento profondo. Poggiai i gomiti sul tavolo, la testa fra le mani, e la rilessi due o tre volte. Non poteva credere che ciò che aveva letto fosse realmente vero.

La prima impressione che ci dà una sventura grande e inattesa è temperata sempre da un sentimento di strana incredulità, la quale ci trae a dubitare delle cose piú palesi e reali. Se cosí non fosse, quell’impressione avrebbe spesso il potere di uccidere.

Mi provai a fare colle mani alcune pieghe nel mio abito, a pronunciare forte il mio nome, perché mi pareva di non essere piú io, o di essere in preda ad una tremenda allucinazione.

Mi alzai, e sorrisi non so di che cosa. Incominciai a camminare per la camera a passi accelerati. Senza accorgermene aveva preso in mano la candela; la mia ombra che si allungava sul pavimento e si piegava alla base della parete risalendola come vi aderisse, mi seguiva su e giú per la stanza. Mi arrestai a contemplarla, l’accorciai e la riallungai appressando e allontanando il lume: mi fermai ad un angolo, e guardai attorno alla camera quasi spaventato, vidi vicino a me un ragno nero che si arrampicava su pel muro, lo abbruciai colla fiamma della candela, e lo sentii friggere e scoppiettare con una specie di voluttà quasi crudele. Passando vicino ad uno specchio, vi scorsi riflessa la mia persona, e mi arrestai a contemplarmi. Aveva quasi paura di me, mi pareva che il mio volto non fosse quello, che avrei dovuto averne uno diverso.

Mi provai a sorridere, e a contrarre in mille modi le mie fattezze. Vi fu un istante in cui mi parve che lo specchio riflettesse il viso di un’altra persona che era dietro di me e vi si affacciava curvandosi dietro la mia spalla. Trasalii, e feci atto di rivolgermi; il lume mi scivolò di mano, cadde e si spense. Quel rumore, quell’oscurità improvvisa mi fecero tornare in me. Lo riaccesi, mi sedetti, tornai a rileggere la lettera di Clara.

Ora aveva ben compreso; mi premetti le mani sul cuore, e mi abbandonai sulla mia sedia cogli occhi chiusi, quasi sperando che qualche cosa di terribile, di fatale sarebbe successo fra poco, che la casa ove mi trovava sarebbe rovinata, che la terra si sarebbe aperta per inghiottirmi. Non era possibile che ogni cosa in natura continuasse a procedere collo stesso ordine di prima. Sentiva passare le carrozze sulla via, sentiva il cicaleccio dei passeggieri, ma tutto ciò non avrebbe durato piú che un istante. La mia felicità era finita, tutto doveva essere finito. In quel momento scoccarono le sette al pendolo della camera; ogni vibrazione mi parve un colpo di coltello che mi trapassasse il cuore, e mi contorsi e mi raggomitolai gemendo come per difendermi da quei colpi.

In quell’orribile confusione di idee che s’era formata dentro di me, una ve n’era ben certa, ben chiara, ben definita: io aveva amato un mostro. Egli era possibile abbandonarmi cosí? Potevano esservi in natura ragioni sufficienti a dividere due cuori che si erano amati come i nostri? Potevano due creature che erano state sí care l’una all’altra separarsi e sperare di sopravvivere a questo abbandono? Avrei io mai creduto che il nostro amore avrebbe potuto finire? Avrei io avuto il coraggio pur di pensare a ciò che ella aveva predeciso e compiuto con sí facile risolutezza? No, né io, né nessuno. Tal cosa non poteva essere immaginata che da un essere mostruosamente ingrato, mostruosamente crudele. Io aveva amato questo essere. Tutto l'edificio della mia fede era rovinato, tutto era caduto nel fango.

Mi immersi e mi smarrii in questi pensieri, di cui non comprendeva allora tutta l'ingiustizia. Mi riscossi sentendomi toccare alla spalla; guardai: era il dottore.

Egli si scostò un poco da me, perché la sua ombra non m'impedisse di vedere il colonnello che era entrato con lui, e s'era arrestato in piedi nel mezzo della camera. Si appoggiò colle mani allo schienale d'una sedia e mi disse:

— Immaginerete certo le ragioni che hanno indotto il colonnello a venire da voi. Egli sa che vi sono amico, e mi ha permesso di accompagnarlo. Ho insistito su ciò, perché spero che le vostre giustificazioni saranno sufficienti ad evitare…

— Ma che diavolo dite! — interruppe vivacemente il colonnello. — Io non vi ho dato certo questo mandato. — E proseguí avvicinandosi a me, e piantandomisi diritto dinanzi:

— Signore, voi avete abusato bassamente della mia fiducia, siete venuto nella mia casa per disonorarla, mi avete reso ridicolo. Capirete che ciò è tal cosa cui non si può rimediare con delle parole. È necessario che me ne diate una riparazione d'altro genere. Spero che non dovrò costringervi ad accordarmela.

— Volete dire?

— Noi ci batteremo.

— Va bene. Quando?

— Domani.

— Ma… — interruppe il dottore — io credo… mi pare che se si facessero prima alcune parole in proposito, non sarebbe gran male; sarebbe possibile intendersi, e…

— Via, via, — riprese furiosamente il mio avversario — è inutile che insistiate a questo riguardo. Voi non conoscete tutte le minime particolarità di questo fatto, non sapete fino a che punto io fui ingannato. Vi fu un altro miserabile che ha abusato di quella donna… egli lo sa, ho avuto la debolezza di raccontarglielo. Finora ha saputo sfuggirmi, ma nutro speranza che un giorno o l'altro c'incontreremo.

Io non risposi, e continuai a guardare la fiamma del caminetto.

— Spero — continuò egli riavvicinandomisi, dopo aver fatto alcuni giri per la stanza — che lascerete a me lo stabilire le condizioni di questo scontro. Voi siete il provocato, ma io sono l'offeso. Voi solo sapete fino a che punto mi avete offeso. Abborro questi duelli ridicoli che finiscono con una scalfittura. È necessario che ci battiamo fino a che uno di noi rimanga sul terreno.

— Sia, — io dissi senza sollevare gli occhi — ho bisogno di uccidere un uomo.

Il mio avversario e il dottore mi guardavano meravigliati.

— Saprete però — continuò il colonnello — che ciascuno di noi arrischia ad un tempo la sua posizione. La disparità dei nostri gradi ci vieta di batterci. Bisognerebbe che io o voi ci dimettessimo.

— Mi dimetterò io — dissi.

— Non vorrei però…

— Non potete impedirmi di dimettermi — replicai con calma.

— Come volete.

Mi curvai sul tavolo, scrissi la domanda della mia dimissione, e gliela porsi.

— Restano a stabilirsi l'ora e le condizioni del duello — diss'egli — è troppo tardi perché possiamo affidarne l'incarico ai nostri secondi. Se non avete nulla ad opporre, ci accorderemo noi stessi a questo riguardo; il dottore ne sarà testimonio.

Io non risposi.

— Ci troveremo domattina alle otto, dietro gli spalti del castello. Provvederò io le armi. Non avete osservazioni a fare?

— Nessuna.

— Allora non v'è altro punto a discutere. Conto sulla vostra parola. Ci rivedremo.

E fece atto di uscire. Quando fu presso la soglia dell'uscio tornò indietro, e mi disse con voce piú calma:

— Qualunque sieno i nostri rapporti attuali, devo richiedervi d'un favore che i vostri sentimenti di gentiluomo non mi possono rifiutare. Mia cugina non ha serbata memoria alcuna di ciò che successe oggi…

— Ah! vostra cugina… — interruppi io. — Ebbene?

— È necessario che essa continui ad ignorarlo, che non sappia nulla di ciò che sta per succedere. L'esito di un duello è incerto, e …

— Sí, — io dissi alzando il capo e guardandolo in volto per la prima volta dacché era entrato nella stanza — è assai incerto. Io potrei anche uccidervi, non è vero?

— Verissimo, — rispose egli un po' turbato — come io potrei uccidere voi.

E dopo un momento di silenzio mi chiese:

— Mi odiate dunque molto?

— Non so, — io risposi — ma se non fossi certo che fra poco o ucciderò, o sarò ucciso, mi sarei già buttato sulla via per uccidere qualcun altro.

— Vi ho fatto una domanda inopportuna — diss'egli con aria mortificata e sorpresa. — Tali sentimenti non mi riguardano. Le nostre convenzioni sono stabilite, e basta. A domani.

— A domani.

Ed uscí.

Allorché sentii l'uscio richiudersi dietro di lui, ricaddi sulla mia sedia, e proruppi in un pianto dirotto.

Il dottore, che era rimasto nella stanza senza che me ne fossi avveduto, mi si avvicinò e mi disse:

— Calmatevi. Siete stranamente agitato. È a deplorarsi che quella donna vi abbia condotta a tale estremo, ma chi l'avrebbe preveduto? Questo duello avrebbe potuto essere evitato; il vostro contegno fu calmo, ma provocante. Ora non giova pensarci. Voi l'avete detto, l'esito d'uno scontro è incerto, è follia il preoccuparsene. Io sono afflitto di aver cagionato inconsciamente queste sventure, ma voi sapete che l'ho fatto a fine di bene. Non me ne porterete rancore?

— Se io credessi esservi atto meritevole di gratitudine — io dissi — ve ne sarei anzi grato. Ma non parliamo di ciò. Io debbo in questa notte veder Fosca, io l'amo, io voglio renderla felice un istante prima di abbandonarla. Qualunque sia per essere l'esito di quel duello, io non la vedrò mai piú. Bisogna che voi la preveniate della mia visita, che ordiniate di lasciarla sola, che mi lasciate passare dalla vostra camera.

— Ma è impossibile! — esclamò egli. — Voi sapete…

— No, no — interruppi io con impeto. — Voi non vi opporrete, perché io sono risoluto a vederla in qualunque modo, a qualunque costo. Nemmeno l'idea di una violenza potrebbe arrestarmi. Quella donna mi ha amato, ella sola mi ha amato veracemente. Non l'abbandonerò senza gettarmi a' suoi piedi, e senza ringraziarla colle mie lacrime.

— La responsabilità di questa imprudenza — disse il dottore — ricadrà tutta sopra di voi.

— Io posso sopportarne delle piú terribili…

— Non vi riconosco piú. Sia come volete. Vi attenderò nella mia stanza. Ora corro a prevenirla.

XLVII

Io torno a rivolgermi adesso una domanda che la mia coscienza atterrita mi ripete assiduamente da cinque anni. Sono io responsabile di ciò che commisi in quella notte? Aveva io la consapevolezza delle mie azioni? Non so; ricordarmi di quegli avvenimenti con piena esattezza di dettagli è per fermo tal cosa che sembra accusarmi; ma non ci ricordiamo noi anche dei sogni? Prima di quel giorno, dopo, oggi stesso in cui mi riconosco sí mutato, mi sarei lasciato vincere a tal punto dalle mie passioni? Ed esistono passioni sí indomabili nel mio carattere? — È uno spaventoso problema che non giungerò forse mai a decifrare. La incertezza della mia responsabilità è il segreto delle mie torture; per essa io sarò infelice tutta la vita. Che se pure io potessi allontanare da me questa responsabilità orrenda, cesserei per questo di essere la causa di quelle sciagure? La mano che colpisce nel delirio, che uccide nell'impeto della passione, è perciò meno la mano ha colpito, che ha ucciso? Io ho perduto anche il conforto disperato che mi veniva da quel dubbio; io sento la mia coscienza fremere e ripiegarsi sotto il peso di questo convincimento terribile.

XLVIII

Suonava la mezzanotte quando io entrai nella camera di Fosca.

Ella era inginocchiata a piedi del letto, colla testa appoggiata ad una seggiola, in attitudine di preghiera. Non mi udí e non si volse; io mi tenni ritto sulla soglia, immobile, combattuto da mille dubbi, da mille paure, col cuore soffocato dall'angoscia. Girai l'occhio intorno a me, e contemplai con un senso di raccapriccio tutti quegli oggetti che mi ricordavano tanta parte del mio cuore. Colà io aveva vegliato un'intera notte al suo fianco, su quella sedia aveva evocato le dolci memorie di Clara, al fioco barlume di quella lampada aveva accarezzato le lusinghiere promesse d'un avvenire ampio e sereno. Ed ora!…

Mossi un passo verso Fosca. Ella rivolse il capo con un moto sí risoluto che i capelli, appena trattenuti da una reticella, si sprigionarono e caddero sulle spalle e sul collo. Mi vide, diè un grido, balzò in piedi, e mi corse incontro con le braccia protese, e mi avvinghiò al suo seno palpitante. Il mio cuore fremeva come all'aspetto d'una immensa sciagura.

Quell'amplesso fu lungo e penoso. L'emozione ci aveva reso mutoli entrambi.

La pallida luce che illuminava la stanza, il crepito lieve del lucignolo, il battito affrettato dei nostri petti, e la calma che vegliava al di fuori, davano a quel momento una solennità che cresceva il mio affanno.

Feci un moto come per ritrarmi da lei; ella se ne avvide, ne indovinò il senso e gettandomi le braccia al collo, piegò il mio capo verso il suo, si sollevò sulla punta dei piedi, accostò le sue labbra arse dalla febbre alle mie labbra, e mi coprí di baci brevi, replicati, frenetici. Tutta la sua natura combatteva una terribile lotta di desiderio e d'amore; il suo corpo fragile e consumato dal dolore aveva un'energia che m'impauriva.

La trassi con dolce violenza presso un divano, e la feci sedere; io me le posi d'accanto. Mi afferrò le mani, me le strinse con forza, le accostò al suo seno, poi alla bocca fremente. Il suo corpo tremava tutto.

— Hai freddo? — le domandai commosso?

— Ho paura — mi rispose.

La guardai in volto meravigliato.

— Di che?

— Di morire, di non poter reggere l'urto di quest'onda di felicità che mi opprime. Ho pregato il cielo che mi desse la forza che mi manca; poche ore, poche ore sole, e poi la morte; che importa a me di morire quando io abbia vissuto questa notte nelle tua braccia? Il cielo è generoso, non è vero? Ha pietà di coloro che amano?

Non risposi. Fosca proseguí senza badare.

— Domani tu dovrai partire, domani io morrò. Ma non è che mezzanotte. Abbiamo sei ore innanzi a noi, sei ore per noi, per noi soli, pel nostro amore; poiché tu mi ami, non è vero? tu me l'hai detto.

Mi guardò colle pupille scintillanti di passione. Il suo volto pareva illuminato da un entusiasmo gagliardo che ne rendeva meno sgradevole la deformità; le guancie leggermente rosate, i capelli nerissimi e abbondanti che contornavano il suo volto come in una cornice d'ebano, il vivo contrappunto della sua veste di mussola bianca l'assomigliavano ad una visione fantastica; in quel momento nissuno avrebbe detto che Fosca era assolutamente brutta. Io pensai a Clara, alle menzogne che le avevano guadagnato il mio cuore, all'inganno bassamente concepito e stoltamente svelato… Oh! sí, Fosca soltanto aveva meritato il mio amore, ella sola mi aveva amato, ella che aveva sfidato il ridicolo, il disprezzo, la collera; ella che aveva rinunziato al suo orgoglio di donna, domandando per pietà ciò che le altre dànno per debolezza, per vanità o per vizio.

— T'amo — le risposi.

— Ripetilo.

— T'amo.

— Ripetilo ancora.

— T'amo.

— Oh! mio Giorgio, mio Giorgio!

Cadde a' miei piedi, mi strinse le ginocchia, e vi nascose la fronte. Quando la risollevò, vidi la sua faccia bagnata di pianto.

— Tu soffri? — le chiesi con dolcezza.

— No.

— Tu piangi?

— Sono lagrime dolci.

Tacque, si curvò sopra di me e coprendosi il volto colle mani continuò a singhiozzare in silenzio. La sollevai da terra, allontanai le sue mani, e la baciai sulla bocca. Trasalí, levò gli occhi verso di me, volle parlare, ma gliene venne meno la forza, e si abbandonò nelle mie braccia mormorando il mio nome.

— Fosca! Fosca!

Non mi rispose. Trasognato, istupidito, senza mente e senz'anima, io sentiva il suo petto asciutto premere sul mio, la sua faccia appoggiata alla mia faccia, cosí presso da udire le pulsazioni affrettate delle sue tempia.

— Fosca! Fosca! sii forte, sii calma; io sono tuo, sono tuo, di nissun'altri che tuo.

— Di nissun'altri? Ripetilo. Non è un sogno? Oh! sí, sarò forte, sarò calma; il tempo è geloso della mia felicità, vedi le freccie di quel pendolo come corrono veloci! Oh! mio Giorgio, mio Giorgio! tu sei mio!

V'era un accento di cosí selvaggia voluttà nelle sue parole, che il mio cuore si contorse nel seno come un serpente. Quella ripugnanza invincibile che la natura aveva posto fra di noi risorse impetuosa come una corrente per separarci.

Un moto, un gesto, una mal frenata contrazione dei miei muscoli le rivelarono forse la mia intenzione, poiché in quel punto sentii i nervi delle sue esili braccia stirarsi come corde e stringermi in un amplesso soffocante. Gridai… si ritrasse, mi abbandonò impaurita, s'inginocchiò domandandomi perdono.

Abbassai lo sguardo verso di lei; quel volto sfigurato dalle lacrime e dal sentimento eccessivo del piacere, i suoi grandi occhi sporgenti dall'orbita, il tremito del suo corpo, mi rivelarono brutalmente tutto l'orrore della mia posizione. Non era la mia anima, non era la mia volontà; era il sangue, erano le fibre, i muscoli, i nervi che si ribellavano a quell'amplesso. L'immaginazione raddoppiò il mio ribrezzo: ricercai sotto quella veste, sotto quei nastri il suo corpo… Ed avrei io?… Mio Dio! Mio Dio!

Oh! Clara, Clara, perché hai tu ucciso il mio cuore? perché non posso riconfortarmi del tuo pensiero, della tua memoria? perché mi hai lasciato solo colle mie paure, coi miei vaneggiamenti? perché hai tu posto la maledizione sulle mie labbra che non conoscevano che l'amore?

All'improvviso Fosca tacque, si sollevò, mi guardò in volto e sorrise.

— Sono pazza! — mi disse — sono pazza! Il mio cuore trabocca di piacere, ed io piango come una sventurata.

Andò con passo fermo verso la lampada, la prese e la collocò dinanzi ad uno specchio. Si guardò, gettò indietro con un moto energico della testa il lusso dei suoi capelli nerissimi, e ritornò a me col volto rasserenato.

— Sono brutta; — mi disse con calma — le lagrime sono un falso ornamento.

— Non è vero — le risposi tanto per liberarmi dal peso del mio silenzio.

Tentennò il capo.

— A quindici anni le lagrime, a trenta i sorrisi.

Poi con una specie di civetteria che contrastava stranamente colla sua natura, si accostò alla toletta, si lavò la faccia, arruffò bizzarramente i capelli, e ritornò a me lieta, voluttuosa, tutta profumi, sorrisi e desideri.

— T'amo — mi disse, e si sedette sulle mie ginocchia, incrociando le mani sul mio capo.

Pareva cosí felice, cosí riconoscente, cosí carezzevole, che se anche il proposito non avesse prevenuto il mio cuore, egli si sarebbe arreso per un senso irresistibile di pietà. Quella donna mi amava!

— Tu parti? — mi domandò qualche istante dopo con accento di melanconia.

— Domani stesso.

— Domani!

E parve raccogliersi a meditare. All'improvviso si riscosse.

— Vuoi che io venga teco?

E siccome io non risposi subito, pose una mano sulla mia bocca e mi disse:

— Non schermirti; io so bene che noi non possiamo amarci come gli altri uomini. Un giorno, un'ora, un istante, e poi…

— E poi?

— Si muore.

Ella disse queste parole con tanta sicurezza, che mio malgrado sentii un brivido corrermi per le vene.

— Qual è la donna che tu hai amato sopra tutte?

La guardai meravigliato.

— Mia madre.

— Non è questo.

— Non domandarmi altro.

— Voglio saperlo; è un capriccio; ho i miei capricci anch'io; tutte le donne innamorate ne hanno; tutti gli innamorati li soddisfano. Oggi tu sei il mio innamorato.

— Domandami qual è quella che io amo.

— E sia. Qual è la donna che tu ami sopra tutte?

— Sei tu.

Non si aspettava questa risposta; tremò, si fe' rossa in volto dal piacere, e nascose il capo nel mio seno.

— Quand'è cosí, — prese a dire poco dopo — dammene una prova.

La baciai sulla bocca.

— Non basta.

La baciai ancora.

— Non basta.

— Farò ciò che vorrai. Comandami.

— Non voglio comandarti.

— Desidera.

— Nemmeno.

— Che ho da fare?

— Indovina. Ciò che faresti con una donna che amassi, ciò che hai fatto con le donne che hai amato, ciò che hai fatto con Clara.

— Clara! Tu dici?…

Mio Dio! Mio Dio! Perché risuscitava ella questo terribile pensiero in quel momento?… La strinsi al petto con forza, con una forza rabbiosa che aveva apparenza di passione. Ella si abbandonò palpitante, senza dir parola. La mia stretta fu lunga; il suo fragile corpo fremeva fra le mie braccia.

— Giorgio, mio Giorgio!

— Sei paga?

— Non ancora.

— Non credi dunque al mio amore?

— Ci credo, ci credo; spirerei ai tuoi piedi se non ci credessi. Mordimi la guancia.

— Perché?

— Mordimi la guancia; tu l'hai fatto con Clara, non lo negare; gettati ai miei piedi, appoggia il tuo capo sulle mie ginocchia.

Mi arresi come un fanciullo. Tutte le forze della mia volontà erano domate dall'aspetto di quell'energia.

M'inginocchiai a' suoi piedi. Ella batté palma a palma le mani con uno slancio di gioia puerilmente selvaggia.

— Cosí, cosí… lo vedete, è proprio lui, il mio amore, il mio bello; lui cosí forte, cosí grande! Egli domanda la mia pietà, lo vedete, lo vedete!

Passò le mani affilate fra i miei capelli, li attortigliò fra le dita come avrebbe fatto con un bambino, mi lisciò la fronte, mi prodigò cento carezze, mi chiamò con cento nomi teneri. Io taceva e tremava.

— Credi nella virtú della donna? — mi domandò improvvisamente.

Perché quella domanda? E quale sarebbe stato l'effetto della mia risposta? Voleva ella darmene una prova? O piuttosto prevenire il mio disprezzo? Assicurare l'impunità della sua colpa?

— Ci credo — le risposi con un esaltamento che nascondeva assai male la mia convinzione.

— Non ti pare che vi possano essere delle circostanze che scusino e legittimino il fallo?

Non risposi. La sua intenzione era palese. Ripugnava alla mia dignità d'uomo contrastarle e schermirmi con un sotterfugio da una promessa che il dispetto e l'affanno avevano strappato al mio cuore. Ripugnava alla mia debole natura incoraggiarla con bugiarde lusinghe.

Ella mi comprese e tacque.

— Parlami di Clara — mi disse poco dopo.

E siccome io non rispondevo, aggiunse con accento carezzevole:

Non temere, mio bello, non temere; non ne sono gelosa. Tu non sei piú Giorgio per me, sei l'amore, sei il mio sole. Il sole illumina e riscalda; le creature ne fruiscono senza lamentarsi, ne fruiscono benedicendo; tu sei il mio amore, tu sei il mio sole… Tu l'ami, non è vero?

— L'ho amata.

— Non l'ami piú? Sarebbe vero? Oh! grazie, grazie. Non è vero, sai; io ho mentito, non è vero che io non sia gelosa; oggi sono forte, ecco tutto. Vorrei essere l'aria che tu respiri per confondere la mia vita colla tua, distruggere la mia natura per far parte della tua natura. Dimmi ancora che non ami piú quella donna.

Glielo dissi.

— Giuralo.

Giurai.

Si abbandonò fremente di piacere sopra di me, mormorando parole di desiderio e di preghiera.

Il mio cuore era straziato dall'angoscia.

Quella creatura selvaggia, resa terribile dalla deformità e dalla malattia, domandava da me l'ultima prova. Lottai contro me stesso, contro la mia natura codarda che si ribellava ad un sagrifizio che io stesso avevo provocato.

Se fosse stata Clara! Che dico? Se fosse stata la piú vile donnicciuola, io sarei caduto ai suoi piedi supplichevole, avrei dimenticato il mio cuore, la mia mente, la mia anima nell'ebbrezza dei sensi. Codardo! Codardo!

Nell'impeto generoso che succedette a questo pensiero l'afferrai convulso, la sollevai sulle braccia, la portai in giro per la camera smaniando. Cosí altre volte, con altro fremito, con altro spasimo, io aveva portato il corpo adorato di Clara! Erano le stesse grida, le stesse parole rotte, lo stesso fruscio di vesti, lo stesso ondeggiare di capelli disciolti, lo stesso profumo inebbriante…

Ansante, pallida piú del consueto, ella mi scivolò dalle braccia, e si accosciò sul nudo terreno. Me le assisi al fianco.

— Ho freddo, — mi disse.

— Ti riscalderò sul mio seno.

— Come sei bello! come ti amo!

Si levò d'un balzo, corse ad uno stipo, prese un paio di forbici: poi venne a me, e me le diede; trasse innanzi i suoi capelli, li raccolse in un fascio colle mani, e mi disse sorridendo:

— Recidili, mio bello, mio amore, recidili; sono tuoi.

E siccome io mi ritrassi, afferrò le forbici e fece atto di reciderli ella stessa. Una parte dei suoi capelli le era sfuggita, tentò di riafferrarli e fu vano; io ebbi tempo di trattenerla.

— Hai ragione, — mi disse ella — hai ragione; piú tardi.

Piú tardi! che voleva ella dire? Perché? E poteva io ingannarmi sul significato di quelle parole? Si sarebbe ella privata della sua sola bellezza in quel momento? Piú tardi! piú tardi! Mio Dio!

In quella si udí lo scatto d'una molla, poi quattro squilli sonori del pendolo.

Quattro ore! Erano passate quattro ore! Levai gli occhi in volto a Fosca e vi lessi lo stesso pensiero. Feci un moto come per ritrarmi; essa mi afferrò, mi strinse, e con un accento intraducibile d'affanno mormorò alle mie orecchie queste terribili parole: — Sii mio! Sii mio!

Una nebbia mi oscurò l'intelletto, e non ebbi forza di resistere. Ciò che avvenne dopo è cosí spaventoso che la mia mente ne rifugge inorridita. Due lunghe ore di spasimi, di grida, di ritrosie ispirate dal ribrezzo, hanno spezzato la mia natura, hanno sfasciato l'edifizio delle mie memorie e inaridito l'ultima sorgente delle mie speranze…

XLIX

Mi trovai nel luogo convenuto presso il castello senza quasi avvedermi d'esservi andato. Non aveva dormito, e mi pareva di non essere ben desto. Il dottore era venuto co' miei secondi, m'aveva cacciato in una carrozza, ed era stato in ciò sí pronto e sí puntuale, che eravamo giunti nello stesso istante che il mio avversario.

Era una mattina fredda, oscura, nebbiosa; gli alberi erano carichi di ghiacciuoli che la brezza faceva cadere dai rami; le campane dei paeselli vicini continuavano a suonare a festa; gruppi di contadini andavano alla città o ne tornavano coi loro canestri; le campagne erano coperte di neve e deserte.

Scendemmo nel fossato per una frana che le pioggie avevano prodotto nel terrapieno. Colà non v'era a temere di esser visti. Quel castello, cui tante volte aveva dovuto recarmi con Fosca e che non aveva veduto mai, non era abitato che da pochi coloni; le sue torri screpolate coperte di ficaie selvagge e di ellere pareano minacciarci di crollare sopra di noi.

I nostri secondi convennero che ci fossimo battuti alla sciabola, come arma meno pericolosa. Ciò era per me indifferente. Non perché non odiassi quell'uomo, ma perché in quell'istante non aveva coscienza né dell'altrui pericolo, né del mio; quella specie di esaltazione, di sonnambulismo che aveva provato in me fino dalla sera precedente era ancora piú piena e piú profonda. Non vedevo con chiarezza, non aveva che una percezione imperfettissima delle cose che accadevano intorno a me. Sentiva il mio sangue fluttuare dal cuore alla testa con impeto spaventevole; provava una sensazione penosa alle vene delle tempie ed ai polsi, le mie orecchie erano assordate da un tintinnio incessante; provava in tutto il mio corpo quell'impressione che dà non un dolore, ma l'aspettazione di un dolore; mi pareva che fra pochi istanti tutta la mia macchina avrebbe dovuto scomporsi, rovinare; mi sembrava di essere in attesa di qualche cosa di strano, di terribile, come di essere fulminato.

Ci levammo le tuniche e rimboccammo le maniche della camicia. Scorreva lí presso un rigagnolo; il dottore vi bagnò un fazzoletto, lo torse, e mi legò il polso. Ci diedero le sciabole, ci collocarono di fronte l'uno all'altro, misurarono le distanze. Io aveva sul mio avversario il vantaggio della statura, egli quello dell'agilità. Era un uomo piccolo, secco, nervoso; e i suoi occhi inquieti e vivaci che non cessavano di affissarmi, indicavano in lui un'energia e una risolutezza che io era ben lungi dall'avere.

Fu dato il segnale. Il colonnello tentò subito e con agilità impareggiabile un colpo decisivo, un colpo a bandoliera che io non evitai che in parte ritirandomi. Egli mi squarciò la camicia dalla spalla destra fino al fianco sinistro, e mi segnò una lunga scalfittura sul petto. Un orlo di sangue comparve subitamente lungo tutto lo sparato. Però nel ritirarsi si scoperse, e dal canto mio lo colpii al braccio, ma la rimboccatura della manica rese il mio colpo inoffensivo.

Ci ordinarono desistere, esaminarono la mia ferita, ricominciammo.

Scambiammo parecchi colpi senza alcun frutto. Io era assai piú abile del mio avversario, e se avessi nutrito odio per lui o avessi avuto maggior coscienza del pericolo cui m'esponevo, non avrei trovato difficoltà ad uscirne con vantaggio. Dopo pochi minuti, il colonnello era ansante, sfinito. Ci riposammo.

Facemmo un terzo assalto. Io era piú che stanco, annoiato; mi limitava alla difesa, e mi difendeva debolmente. Il colonnello aveva riacquistata nuova energia, il dispetto lo aveva, per cosí dire, ringiovanito, accompagnava ogni colpo con un grido secco e breve come è costume dei duellanti, e tentava ferirmi al petto di punta. Ripeté due o tre volte questo tentativo. La sua ostinazione mi scosse istintivamente dalla mia apatia. V'era nulla di piú facile che colpirlo in quel momento con un fendente di testa, né so come non se ne avvedesse. Colsi l'istante, egli mi si avventò rovesciando indietro il capo, io fui sollecito a ritrarmi senza parare, e a riavventarmi subito, prima che avesse avuto tempo di rimettersi in guardia. Lasciai scendere la sciabola leggermente, egli vide il pericolo, deviò a destra, e lo colpii alla spalla.

Gettò la sua arma con dispetto, rampognando i suoi secondi di aver acconsentito alla scelta della sciabola, e dicendo che il freddo gli irrigidiva le mani, e rendeva impossibile il servirsene liberamente. La sua ferita era benché profonda, non grave.

Insistette perché ci battessimo alla pistola. Nessun consiglio poté distoglierlo da questo proposito.

Levammo a sorte cui toccasse sparare per primo: la fortuna favorí il mio avversario.

Fummo collocati a trenta passi di distanza. Le pareti parallele del fosso che era angustissimo davano all'occhio una direzione sí giusta e sí facile, che io mi tenni perduto. Avvicinai la mia arma al petto per coprirne il cuore, e mi collocai un poco di fianco per offrir minor bersaglio possibile. Fu dato il segnale, il colonnello sparò, la palla passò fischiando senza colpirmi.

Egli riprese la sua posizione, io distesi il braccio, sparai alla mia volta senza mirare; egli vacillò un istante, lasciò scivolare la pistola di mano, e cadde rovesciato. Io non so cosa avvenisse di me in quell'istante. Il mio respiro si arrestò, le mie vene parvero scoppiare, il mio cuore schiantarsi; una tenebra mi passò davanti agli occhi, i miei muscoli si contrassero con uno spasimo atroce, brancicai un momento come per afferrarmi a qualche cosa, proruppi in un urlo acuto, disperato, straziante, quale non aveva inteso mai uscire da petto umano, se non forse da quello di Fosca, e caddi fra le braccia del dottore che era accorso in mio aiuto.

Quella infermità terribile per cui aveva provato tanto orrore mi aveva colpito in quell'istante; la malattia di Fosca si era trasfusa in me: io aveva conseguito in quel momento la triste eredità del mio fallo e del mio amore.

L

Dopo quel giorno tutto è oscurità nelle mie memorie; io non appresi che piú tardi gli ultimi dettagli di questa tragedia domestica. La morte di Fosca, l'arrivo di mia madre, il ritorno al mio paese natale sono tutti avvenimenti di cui non ho serbato altra ricordanza che quella oscura e confusa di un sogno. Mi sembra talora che tali fatti sieno avvenuti in un'epoca assai remota della mia vita, tale che non può neppure essere circoscritta entro il limite degli anni che ho già vissuto; e sarei tentato di negare fede all'esistenza di questo passato angoscioso, se le traccie che esso ha lasciato nel mio cuore non fossero troppo palesi e troppo profonde.

Soltanto quattro mesi dopo la catastrofe che ho raccontato, una lettera del dottore mi recava le ultime notizie di quei fatti.

"Non vi ho scritto prima perché sapeva che la vostra malattia vi avrebbe impedito di rispondermi, e forse anche di apprendere il contenuto della mia lettera. Sento che vi siete pressoché ristabilito, e che i vostri accessi nervosi sono anche piú miti, e piú rari. Il vostro medico vi avrà certo assicurato che ne guarirete, io ne impegno la mia parola; questi accessi non hanno alcun carattere epilettico, la vostra debolezza li alimenta, la forza che riacquisterete guarendo li farà cessare. Viaggiate, divagatevi.

Ignoro se lo stato d'animo in cui vi trovavate allora v'abbia permesso di serbar memoria di ciò che avvenne prima della vostra partenza. Fosca morí tre giorni dopo quella notte fatale; morí felice, illusa, soddisfatta; ignara di ciò che avvenne tra voi e suo cugino, convinta che l'ordine della vostra traslocazione aveva reso la vostra partenza inevitabile.

In una scatola che vi spedisco colla ferrovia troverete un involto di seta nera contenente i suoi capelli. Io ve li avrei mandati prima se, sapendovi ancora malato, non avessi temuto di commuovervi fatalmente con questo dono. Saprete certo che ve li mando per incarico suo.

La ferita del colonnello fu grave, non mortale; il proiettile lo colpí pure alla spalla, ma girò l'osso senza fratturarlo. Guarí in quaranta giorni. Il Ministero seppe del duello, e poiché le vostre dimissioni non erano state ancora né offerte, né accettate, lo costrinse a chiedere il suo collocamento in ritiro. Egli è partito pochi giorni or sono per Suez ove gli fu offerto un impiego d'ingegnere civile nei lavori del taglio dell'istmo. Io gli avrei parlato volontieri di voi, e avrei voluto convincerlo della vostra innocenza; ma queste sue ultime sciagure lo avevano reso sí sospettoso e sí ingiusto, che avrei temuto di nuocere alla vostra causa anziché di favorirla. D'altronde è assai probabile che non abbiate piú a rivederlo.

Ho fede che la vostra coscienza non mi avrà scagliata mai alcuna parola di rimprovero per l'influenza fatale che ebbi in queste vostre sventure; nondimeno ho bisogno che me ne assicuriate; voi sapete se io ho pensato alla vostra felicità, e se mi stette a cuore il procurarvela.

Non so se ci vedremo ancora, né quando (ci hanno sbalzati all'altro capo dell'Italia), ma se ciò avverrà spero che vi vedrò mutato. La vita, la gioventú, il cuore hanno i loro diritti; voi li avevate anche troppo sacrificati. Distaccatevi dal passato, gettatevi in questo grande avvenire che vi attende. La coscienza è codarda, essa si atterrisce spesso di mali che non commise, o che non potea non commettere. Una cieca fatalità muove e dirige le azioni di tutti gli uomini; non date loro maggiore responsabilità di quella che vi assegnano i limiti ristrettissimi del vostro arbitrio.

Addio, mio buon amico, possiate essere felice, e non farvi rimprovero d'una sciagura di cui non siete stato che uno strumento.

 

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