I tristi casi della povera Fosca
nel romanzo di Iginio Ugo Tarchetti
Nella letteratura
della prima metà dell’Ottocento le figure femminili nei romanzi sono
convenzionali, stilizzate in stereotipi di angelicità (eccezion fatta
per il diverso spessore di Lucia, nei "Promessi Sposi"), ma, nella
seconda metà del secolo, si assiste ad una fioritura di eroine
decisamente all’opposto, anticonvenzionali, volubili, irrazionali,
incostanti, disinibite, appassionate, trascinanti, fatali, più demonio
che angelo. Ritroviamo donne
bellissime, raffinate, seduttive, ammaliatrici, tragiche, donne che, non
più passivamente inquadrate nel ruolo prestabilito, impongono i loro
desideri, causando disgrazie agli uomini che hanno la sventura
d’innamorarsene (l’amore-passione non incanalato nell’istituzione
matrimoniale, non finalizzato alla procreazione lecita, che infiamma ma
devasta perché isola, emargina, destabilizza dai valori convenzionali,
attenta alla serenità del focolare domestico, e, perciò, è pericoloso,
socialmente, ma anche per l’individuo che vive in prima persona la
storia), molto rappresentate anche nell’arte, che offre innumerevoli
variazioni sul tema, soprattutto attraverso le eroine bibliche,
sensuali, aggressive, crudeli, forti, micidiali e temibili, che "fanno
perdere la testa", come Salomé, che fece invaghire di sé a tal punto
Erode da riuscire a farlo accondiscendere al suo desiderio di possedere
la testa del Battista, o come Giuditta che, infiltratasi nel campo
nemico degli Assiri, affascinò il generale Oloferne, e, quando era sotto
gli effetti dell’alcol, gli mozzò il capo. Superbe restano le
interpretazioni di Giuditta del pittore austriaco Gustav Klimt,
soprattutto il quadro Giuditta I, in cui la donna è ritratta con
un’espressione di freddo e crudele trionfo dipinta sul volto, in
amalgama perfetta di estasi dei sensi e cupo fantasma di morte.
Nutrita anche la schiera delle donne-vampiro dall’oscura o orrida
bellezza, irresistibili come le Gorgoni (le creature mitologiche,
secondo alcuni mostri, secondo altri bellissime, ma che, comunque,
causavano morte pietrificando con lo sguardo), molte, poi, ispirate
proprio a Fosca; si pensi alle creature verghiane di "Una peccatrice",
"Tigre reale" e, soprattutto, alla "gnà Pina" della novella "La lupa",
rappresentata come un’allucinante immagine di incontenibile e
distruttiva sensualità, femmina- fascinatrice, donna-strega che, spinta
da un’avida passione, più simile ad una forza diabolica che ad un
sentimento, esercita tutto il suo seduttivo potere sullo sventurato
Nanni:
Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e
pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la
malaria, e su quel pallore due occhi grandi così e delle labbra fresche
e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché
non era sazia giammai-di nulla. E non mancano le
barbare assassine come Coletta Esposito, trovatella dell’Annunziata (1),
che, tradita dal suo uomo, Cipriano Barca, arriva ad uccidere la loro
figlioletta, finendo giustiziata, nel romanzo, ispirato alla Medea
euripidea, "La Medea di Portamedina", tragica storia d’amore e sangue
ambientata nei bassifondi di Napoli, opera dello scrittore Francesco
Mastriani, che esaltò l’aspetto più istintivo e irrazionale della donna,
che si lascia guidare dal folle e cieco sentimento della gelosia. E poi le donne
psichicamente squilibrate, come "Malombra", del Fogazzaro, dal fascino
enigmatico e dal carattere patologico e distruttivo che tanto ricorda
quello di Fosca, e quelle spietate e tremende, come la dirompente Elena
Muti in "Il piacere", e Ippolita Sanzio, votata solo all’esperienza
erotica, nel "Trionfo della morte", entrambe quest’ultime creature
dannunziane.
Ed è proprio tra queste figure di femmes fatales, dominanti
nella letteratura del secondo Ottocento europeo, che è possibile
annoverare Fosca, l’eroina dell’omonimo romanzo dell’esponente più
rappresentativo della scapigliatura milanese: Iginio Ugo Tarchetti. Dalle descrizioni dei
cronisti del tempo sappiamo che Tarchetti era bello e capace di provare
e suscitare grandi passioni nei cuori delle donne, ma anche che poi era
incapace di gestirle, quando assumevano risvolti inattesi. Così lo descrisse
l’amico fraterno Salvatore Farina:
Era alto, di
complessione forte e gentile, aveva faccia di Nazareno, talvolta
sdegnosa, per lo più mite; guardava superbamente gli uomini ignoti per
paura che gli fossero avversari, ma con gli amici il suo sorriso buono
si apriva alla confidenza, e sempre, sempre, io lo vidi ricercare il
cielo mormorando versi di Heine, o di Shakespeare, o di Byron. ...Le
donne egli le amava soltanto; troppo le amava, e perciò non poteva
trovarsi bene nella compagnia di molte insieme. Una gli bastava, e a
quell'una imprestava per un'ora, per un giorno o per un anno, tutta la
sua tenerezza, tutta la sua idealità d'artista.(2)
Così il cronista
Raffaello Barbiera:
Un aspetto di re
merovingio avea, invece, un chiomato romanziere, al quale Clara Maffei
inviava, spesso, in segno di ammirazione, qual saluto mattutino, de'
fiori. Egli, al pari del Tommaseo, sorgeva a difensore della donna:
qualche critico oggi lo chiamerebbe un " féministe". Era il romantico
Iginio Ugo Tarchetti, d'Alessandria, nato nel 1841; il quale proclamava
al pari d'un altro sconfidato ingegno, Carlo Bini: "La virtù del
sacrificio e dell'amore non ha limiti nel cuore della donna" non
pensando quante donne, specialmente le mal maritate, sono la rovina di
giovani onesti e d'oneste famiglie: ma quante altre sventurate (è vero)
sono spinte al male da noi!(3)
Tarchetti non aveva
che ventiquattro anni e già scriveva in una lettera:
Molte donne ho
amate, molte che mi hanno tutto sacrificato, avvenire, felicità,
reputazione.
Nel 1863, in qualità di addetto al commissariato militare, fu trasferito
a Varese; fu qui che conobbe Carlotta Ponti ed iniziò con lei una
relazione sentimentale (che durò, come documentano le lettere, oltre un
anno), molto tempestosa, malvista dal padre della ragazza, che arrivò ad
inseguire lo scrittore sparandogli, dopo averlo sorpreso in dialogo
notturno con la figlia, e che ebbe anche un episodio altamente
drammatico: il tentativo di suicidio della giovane.
E’ una bella
bruna [è Tarchetti che parla] che non oltrepassa i ventitré anni. La
volevano, anni addietro, costringere a sposare un maggiore austriaco; ma
venne il 1859, e il matrimonio andò in aria con grande soddisfazione di
Carlotta, che non voleva per marito un soldato tedesco, e molto meno uno
che in confronto a lei diciottenne era già vecchio… Egli fu quindi
mandato a quel paese ed oggi Carlotta, malgrado i sospetti e le ire
furibonde di suo padre, non vuol bene che a me, a me solo, ed io sono
felice… Ti ho già detto che il padre di Carlotta non può tollerarmi…
avuto sentore de’ miei affetti per sua figlia, questa perseguita con
ogni maniera di vessazioni, fino a toglierle qualunque libertà, fino a
sorvegliarla minuto per minuto… Eh! Ci vuol altro! Tutte le sere alle
nove, io e Carlotta ci troviamo al di fuori del raggio della luna…
Di quell’amore resta
traccia nel lungo epistolario, con lettere traboccanti di espressioni
ultraromantiche e appassionate, da un giovane Tarchetti che amava
atteggiarsi un po’ a Foscolo, del quale era fervente ammiratore (di qui
il nome "Ugo"), ma che dimostrano un’ansia d’amore sincera ed autentica.
Mia carina,
Ho la mente così
piena di te che a stento posso trovare parole per dirtelo. Io ti sono
ancora vicino, ti sento, ti abbraccio, sono tutto assopito in questa
illusione da cui non vorrei mai risvegliarmi. Ieri sera, appena
addormentatomi, la mia mente e il mio cuore ritornarono a te anche nel
sonno, fu una felicità continuata, e adesso pure posso a stento
persuadermi di esserti lontano.
Ti amo sai, ti
amo perdutamente. Oggi stesso vorrei fuggir teco da questo paese, vorrei
farti mia per sempre, vorrei che nessuno ti vedesse, ti ascoltasse, ti
amasse anche soltanto col pensiero. Che è mai questa egoistica sete di
proprietà che gli uomini estesero anche al cuore e che chiamano gelosia?
Io esperimentai tutte le passioni, ma nessuna può meglio infrangere un
cuore sensibile di questa. Non ti dico di più, oggi sono pazzo, sono
ridicolo, mi sento inquieto, ho qualche cosa che di tratto in tratto mi
fa trasalire come la rimembranza d’una sventura e pure non rammento che
uno dei più felici istanti della mia vita. Verrai meco un’altra sera,
neh, verrai cara, quando non c’è luna, quando tutto è silenzio, quando
non potremo essere visti da alcuno di questi rettili che male
comprendono il fuoco della nostra passione. Il mondo è tutto per noi, è
nelle nostre braccia. Fa che io ti possegga e sono abbastanza felice,
nulla più invidio alla ricchezza, alla beltà, alla fortuna; possedendo
te, possiedo tutto. E' tempo triste, forse non uscirai, è meglio, non ti
vedo io, ma nessuno ti vede, non vorrei che tu fossi malata, ma ti
desidererei una causa che producesse il ritiro e le stesse conseguenze
d'una malattia. Non farti amare così, è troppo, sento che mi fa male,
che mi domina, che mi consuma. T’amerei già tanto anche amandoti meno, e
ogni giorno aumenta la mia passione. Dove giungerà ella? Potrò
arrestarla? Ciò mi sgomenta, perché io impazzirei se avessi a perderti.
Addio, ama sempre, sempre, sempre
tuo aff. Ugo
lunedì, ore 10
(Lettera V)
... Ho qui d'innanzi le tue viole che incominciano ad appassire e un
enorme mazzo di altri fiori... ma sono fiori mesti, grandi margherite e
vaniglie, tutti fiori di cimitero. Io incomincio a circondarmi di fiori
perché so che morirò presto, e dopo morto nessuno verrà a coltivarne
sulla mia tomba. Sono molto sentimentale stassera, è questo tempo che mi
istupidisce e mi rende malinconico. Se tu fossi qui! Ah che dolorosa
separazione! Come sarebbe bello questo medesimo tempo che ora ci sembra
così triste! Io accendo qui un gran fuoco, fumo, mi sdraio sopra un
miserabile sofà, scrivo, leggo, piango, canto, guardo il tuo ritratto, e
quando suona la mezzanotte vado a letto, tale è la mia vita di tutte le
sere dopo l'arrivo della posta... Dove saremo fra un anno? Mi amerai tu
ancora? Sì, mi amerai, non è vero? Se mi stimi non cesserai mai di
amarmi. Che mi dicesti stasera? Non ho potuto intendere. Dici che non
vuoi più uscire né rimanere alla finestra, addio adunque, sarà un amore
dei più romanzeschi, mi piace questo tuo pensiero e allora quando
potremo parlarci proveremo una felicità doppiamente nuova. Ma come
starai tanto tempo senza vedermi? E come potrò resistere io? E' ciò che
vedremo.
Io ti amo, io ti
amo, io ti amo. Ama tu pure il tuo aff. amico.
Sabbato ore 10
Aggiungo poche righe a questa mia scrittati fino da ieri sera... Io
ho bisogno di amarti, in verità, o Carlotta, sento di avere un cuore
capace di amare un universo... Vieni, amami, riempi tu questo vuoto,
questo gran vuoto che sento nel cuore...
Addio, mio
angelo, ama e compassiona il tuo Ugo, lascialo nelle illusioni, lascialo
amare, infioragli quanto puoi un'esistenza che gli è di peso...
(Lettera XXVII)
Appassionata fu anche la sua storia d’amore, che durò sette mesi, come
riferisce Francesco Giarelli, con una donna sposata, casualmente
conosciuta in via Fiori Chiari, a Milano, sbagliando porta, un giorno
che si era recato a trovare l’amico Federico Aime:
Vedersi e
sprigionarsi fra i due la estemporanea scintilla della simpatia, fu
tutt'uno.{...} Tarchetti, fatto conscio dell'errore, geme una scusa.
L'altra arrossisce come una pesca primaticcia, e confusa chiude
rapidamente l'uscio alle spalle del visitatore. Maledizione'. Tarchetti
fa per andarsene. Non può. Il lembo del suo abito rimane serrato nella
fessura della porta. Suona daccapo. Ricompare la bella e Iginio è
finalmente libero da quella strettoia. Il giorno dopo lavora la posta.
Lui vuota il suo cuore. Essa risponde. Si amano. Se lo scrivono. Se lo
ripetono a voce nei secreti e fidati colloqui. Escono insieme. Erravano
nelle campagne suburbane fuori porta Magenta. Si fermavano ad un
ponticello sul Seveso. Passavano ore deliziose dentro un baraccone
disabitato laggiù in un'ortaglia solinga. Si immollavano - soltanto
sensibili alla loro passione - nel'acqua che spesso rendeva difficile il
loro passaggio attraverso i prati a marcita. Mangiavano per vezzo ed a
gara gli steli dolcissimi d'una certa erba da loro scoperta e trovata
una vera ambrosia. Si facevano rincorrere dai monelli del Borgo che loro
gridavano dietro: I moros... La minee...! Portavano a casa delle nidiate
d'uccellini. Tubavano come tortore. Eran divenuti inseparabili, come gli
ocryzon dell'America meridionale. Tutta questa delizia durò sette mesi.
Il 9 novembre del 1865, Iginio Ugo Tarchetti, che si godeva la sua
aspettativa accarezzando Clara, e nell'assenza dì questa il candido
gattino che essa gli recava nel manicotto, affinchè gli parlasse di lei
quando era lontana, fu richiamato in servizio con destinazione a Parma.
Lontano dagli occhi lontano dal cuore - è il vecchio proverbio che ha
sempre ragione. Una lettera di le -poi riprodotta mirabilmente ed
artisticissimamente in Fosca- spense la fiammella ancora vagante. Ma
-vedi inconseguenze del cuore- Tarchetti restò come fulminato, come
disfatto da quel brusco, incredibile abbandono. Ammalò. Subì una
battaglia lunga, indescrivibile. Quando si levò non era più lui.(4)
Ma fu a Parma, nel
novembre del 1865, quando ancora prestava servizio nel commissariato
militare, prima di lasciarlo per vivere la sua esistenza da scapigliato,
libera e dedita alla scrittura, che Tarchetti ebbe l’esperienza
sentimentale probabilmente più intensa, con una certa Carolina, o
Angiolina, parente d’un suo superiore. Malata, epilettica,
prossima alla morte, orribilmente brutta, le sue uniche attrattive erano
gli occhi grandi e nerissimi e le trecce del colore dell’ebano; con lei
lo scrittore intrattenne una relazione che causò un grande scandalo,
causa non estranea alle dimissioni dall’esercito. Dell’esistenza di
questa donna abbiamo la testimonianza dello stesso Tarchetti, che
scrive:
Appena giunto qui
quella sera, trovai quella signora che mi attendeva al braccio del
medico.
Quell’infelice mi ama perdutamente…il medico mi disse che morrà fra
sei o sette mesi, ciò mi lacera l’anima, vorrei consolarla e non ho il
coraggio, vorrei abbellire d’una misera e fuggevole felicità i suoi
ultimi giorni e v’ha la natura che mi respinge da lei.(5)
Per strano destino la
ragazza, prossima alla fine, gli sopravvisse, ed ogni anno, agli inizi
di novembre, non mancò mai di far arrivare fiori sulla tomba del poeta,
prematuramente scomparso per un attacco di tisi e tifo, il 25 marzo del
1869. La relazione
idilliaca con la signora milanese e quella tormentosa con la ragazza di
Parma confluirono direttamente nel capolavoro di Tarchetti, il romanzo
“Fosca”, pubblicato a puntate sulla rivista “Il Pungolo” e lasciato
incompiuto del capitolo XLVIII, fondamentale per l’autore, poi terminato
da Salvatore Farina:
… quel capitolo
era, nella mente di Ugo, il solo pretesto a scrivere la Fosca; doveva
essere la scena dolorosa, selvaggia, d’una notte intera passata con la
protagonista isterica e brutta, a fingere l’amore, a costringere la
ripugnanza a non ribellarsi, ad accettare il delirio dei sensi e a
corrispondervi, ubbriaco di pena, lui, essa solo pazza d’amore.(6)
La trama del romanzo
è costituita dalla storia del folle sentimento di Fosca, una donna
brutta e ammalata, per Giorgio, un giovane ufficiale che ama, riamato,
un’altra donna, Clara, sposata, dalla quale è costretto a separarsi a
causa del proprio trasferimento. Giorgio, come Ugo, è
un militare, Clara, come la signora milanese, è l’amante con cui l’uomo
vive l’idillio, Fosca, come Carolina/Angiolina, è una donna epilettica
ed isterica, simbolo non nascosto di malattia e morte, corrispettivo
femminile dello scrittore (malato di tisi), come lei tormentato dal
disperato bisogno d’amare e d’essere amato. Giorgio non riesce a
sottrarsi alla fascinazione ossessiva esercitata da Fosca e soccombe
(Più che l’analisi d’un affetto, più che il racconto di una passione
d’amore, io faccio forse qui la diagnosi d’una malattia - Quell’amore io
non l’ho sentito, l’ho subito), soprattutto dopo che Clara lo ha
lasciato per tornare dal marito, ma la relazione imposta al giovane
viene scoperta dal cugino di lei, che lo sfida in un duello. Infine Fosca muore e
Giorgio si ammala dello stesso male oscuro della donna.
Clara e Fosca sono le due donne del romanzo, ma è la seconda a dominare
la scena; creature in antitesi, com’è evidenziato già dai nomi,
espressione del tema del dualismo ben presente nella letteratura
scapigliata (basti pensare alla poesia di Arrigo Boito, "Dualismo", che
rappresenta appunto la scissione nell’animo umano, l’anelito all’
angelico e la spinta verso il satanico, il paradiso e l’inferno, la
purezza e il torbido), hanno la stessa età, venticinque anni, ma sono
del tutto diverse, sono il rosa e il nero, il sogno e la realtà, la vita
e la morte. Clara, bella e
fiorente, simboleggia Eros, la luminosa stagione della primavera presaga
di promesse, la rinascita dei sogni, delle illusioni, della speranza, la
serenità, la salute; Fosca, brutta e malata, rappresenta Thanatos, il
tempo cupo della malattia, la fine degli incanti, il tormento.
Clara è: una donna giovane e bella… sì serena, sì giovane, sì
fiorita… Quando non agucchiava presso una piccola finestra che guardava
sul cortile, leggeva romanzi sul suo balcone, seduta in mezzo ai suoi
vasi di fuxie e di gerani; suonava anche un pianoforte e cantava (…
aveva indole forte, giusta e severa; vi era nulla di fatuo, nulla di
fiacco, nulla di puerile nel suo carattere; e pure nessuna donna fu mai
più affettuosa, più dolce, più arrendevole, più accarezzevole, più
eminentemente donna. Aveva venticinque anni; era alta, pura, robusta,
serena. Scopersi più tardi il segreto di quel fascino… essa
rassomigliava a mia madre. Ben diversa è Fosca,
che Giorgio comincia a conoscere dall’assenza (il suo posto a tavola è
lasciato vuoto perché la donna patisce di convulsioni nervose),
da segnali inquietanti (le grida… orribilmente acute, orribilmente
strazianti e prolungate), dalla descrizione della patologia di cui
è affetta (è una specie di fenomeno, una collezione ambulante di
tutti i mali possibili…).
Ma da quale patologia sia affetta la donna è lo stesso medico a
rivelarlo a Giorgio: il fondamento dei suoi mali è l’isterismo, un
male di moda nella donna, un’infermità viziosa… ha i nervi scoperti.
Sì, Fosca è isterica. L’isteria era il sintomo specifico della
sofferenza femminile nell’Ottocento (bisognerà attendere la fine del
secolo perché si cominci a parlare anche d’isteria maschile), era un
male che disorientava i medici fin dai tempi d’Ippocrate, perché la sua
manifestazione non lasciava tracce organiche. Le cause, secondo i medici
dell’antichità, erano da ricercare in un utero che agiva in maniera
autonoma all’interno dell’organismo femminile, nelle forze oscure del
desiderio che travolgevano e annientavano la volontà della donna, e,
fino al XIX secolo, nonostante i nuovi interrogativi emersi, i medici
restarono della convinzione che la manifestazione di questo male fosse
legato all’utero e al desiderio sessuale.
Oggi ne conosciamo la
valenza sociologica, sappiamo che l’isterismo è mezzo di comunicazione e
primitiva protesta del singolo isolato e represso che non riesce a
ribellarsi attraverso canali socialmente accettati. E sappiamo anche che
l’isterica non è un’insoddisfatta sessuale, ma una persona carente di
gratificazioni erotiche, come l’ ammirazione ed il corteggiamento.
Fosca è pure anoressica:… è della voracità di una mosca. Fosca è anche avida
lettrice, ed è intelligente: divora i libri, è un tarlo da libri,
legge come noi fumiamo, … un’intelligenza robusta, fina, perspicace. Ma, soprattutto,
Fosca è brutta. Così si esprime Giorgio quando, finalmente, la conosce:
Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella
donna!… Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonie di
fattezze… quanto per una magrezza eccessiva… per la rovina che il dolore
fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così
giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo
scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza
spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo
colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri,
folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora
la sproporzione… La sua persona era alta e giusta… i suoi modi erano
naturalmente dolci… Tutta la sua orribilità era nel suo viso.
Con quel volto
orrendamente brutto che ricorda il teschio, Fosca è la rappresentazione
della morte (ossessione dello scrittore, che la sentiva aleggiargli
incontro, che apre e chiude il capitolo XVII con la visione dei teschi
in cui Giorgio sembra rivedere riprodotta e moltiplicata l’immagine
spaventosa di Fosca); non si può non pensare alla poesia di
Tarchetti, Memento:
Quando bacio il
tuo labbro profumato,
cara fanciulla,
non posso obliare
che un bianco
teschio v’è sotto celato.
Quando a me
stringo il tuo corpo vezzoso,
obliar non poss’io,
cara fanciulla,
che vi è sotto uno
scheletro nascosto.
E nell’orrenda
visione assorto,
dovunque o tocchi,
o baci, o la man posi…
sento sporger le
fredde ossa di morto.
Fosca è orribile nel
volto, perché imago animi vultus, il volto è l’immagine, lo
specchio, la porta dell’anima, e se l’anima è travagliata e oppressa (un
matrimonio sbagliato con un cacciatore di dote, giocatore e ricattatore,
poi un aborto, infine la perdita dell'agiatezza: sono queste le cause
che hanno determinato il suo male) le afflizioni non possono non
riverberare sul volto, è per questo che tutta la bruttezza è nel viso,
però è colta, intelligente, estremamente sensibile, ha grazia ed
eleganza, è commovente nella sua fragilità, e quando s’innamora di
Giorgio di queste qualità si serve per, vampirescamente, affascinarlo e
attrarlo a sé in una spirale per entrambi distruttiva.
Nucleo centrale del romanzo è proprio il folle desiderio di Fosca (che
non si rassegna all’orrida bruttezza che le nega l’amore, che si ribella
all’idea che la donna possa essere amata solo a condizione di essere
bella) e il giogo entro cui l’uomo è costretto, ed è di questa passione,
morbosa, che Giorgio scrive, parlando, brevemente, anche di quella,
idilliaca, vissuta con Clara solo pel contrasto spaventoso che ha
formato col primo, di questa voluttà crudele, causa di sofferenza
fisica e dolore morale, che condurrà entrambi alla distruzione: lei alla
tomba, lui al collasso nervoso. Voglio costringervi a
ricordarvi di me, quando vi avrò oppresso con tutto il peso della mia
tenerezza, quando vi avrò seguito sempre e dappertutto come la vostra
ombra, quando sarò morta per voi, allora non potrete più dimenticarmi.Fosca
non è, dunque, solo un’eroina letteraria della seconda metà
dell’Ottocento simbolo di malattia e morte (fantasmi sempre ben presenti
nell’opera e nella vita dell’autore), ma anche una figura femminile
moderna, volitiva, tenace, decisa ad affermare con ostinazione il
diritto all’amore, vietatole dalla condizione d’inferiorità in cui è
relegata dall’orrida bruttezza e dalle disastrose condizioni della sua
salute, decisa ad affermare l’anima affascinante chiusa nell’involucro
ripugnante, contro il mondo degli uomini che apprezza soltanto la
lusinga della bellezza del corpo. Tu non sai cosa
voglia dire per una donna non essere bella. Per noi la bellezza è tutto.
Non vivendo che per essere amate, e non potendolo essere che alla
condizione di essere avvenenti, l’esistenza di una donna brutta diventa
la più terribile, la più angosciosa di tutte le torture.
Non avendo, dunque, l’arma della bellezza, per realizzare compiutamente
il folle desiderio si servirà di un altro elemento: l’ossessiva violenza
persecutoria del sentimento amoroso.
Fosca sarà sempre ben lucida sui reali sentimenti di Giorgio, conscia
che l’uomo, incalzato dai suoi suggerimenti, recita l’amore, ma, pur con
la consapevolezza che l’inganno è tutto ciò che potrà
ottenere, e nient’altro, porterà avanti il gioco delle illusioni,
esulando anche dai limiti imposti dalle convenzioni del tempo (si pensi
agli incontri notturni), riuscendo infine a soddisfare l’irrefrenabile
desiderio, e sarà la notte d’amore tra i due l’esasperazione
dell’illusione. Fosca gli ordinerà: -Sii mio!- Giorgio soccomberà e
ammetterà: -Non ebbi la
forza di resistere- Giorgio dapprima
cercherà di resistere alla passione di Fosca, ma poi si troverà
incatenato in un folle legame che lo farà soccombere, coinvolgendolo
fino al tragico finale: il duello, dal quale uscirà miracolosamente
incolume, e, come contagiato dalla "anormalità" di Fosca, il delirio,
che lo farà precipiterà nella disperazione; Fosca si spegnerà, tre
giorni dopo la notte d’amore, tuttavia "felice, illusa, soddisfatta" per
aver appagato la sua ossessione amorosa. Questo il finale
nella finzione letteraria, nella realtà Tarchetti fu trasferito da Parma
a Milano, dove consumò gli ultimi tre anni della sua vita, tra la
frenetica attività letteraria, le precarie condizioni di salute e le
difficoltà economiche, morendo, già ammalato di tisi, per un attacco di
tifo, in casa dell'amico Salvatore Farina che lo aveva ospitato, senza
aver scritto il capitolo finale del romanzo al quale tanto teneva. Il 26 marzo del 1869,
il giorno successivo alla sua morte, sulla rivista letteraria "Il
Pungolo" cosi si leggeva:
… E’ morto dopo aver lungamente, coraggiosamente e dignitosamente
lottato contro le brutali realtà della vita, nemiche accanite all’arte e
alle sue manifestazioni; è morto quando la speranza di miglior avvenire,
frutto di lavoro assiduo e di costanza indomabile, più caramente gli
sorrideva; è morto quando gli sorridevano intorno attestati non dubbi
della commozione profonda destata dai casi di questa povera Fosca, nella
quale egli quasi morente versò tanta parte della vita che gli fuggiva
-gioie, dolori, aspirazioni indefinite, proteste sdegnose, indignazioni
sante- e quasi ad ogni linea, il presentimento della morte vicina.
Carolina/Angiolina
ritornò nella nativa Sardegna, non lo rivide mai più, ma non lo
dimenticò fino alla fine dei suoi giorni. Ancora oggi suscita
consensi il romanzo "Fosca" perché ciò che maggiormente colpisce, oltre
alla forte componente autobiografica (le storie vissute con la signora
di Milano e la donna di Parma, la malattia di quest’ultima, la sua reale
malattia, la tisi), all’indagine sugli effetti della passione estrema
sui due protagonisti, al tema degli opposti , bello/brutto, bene/male,
nel confronto tra le due donne Clara/Fosca, sono gli elementi di
sorprendente modernità, come la normalità/anormalità (Giorgio,
inizialmente "normale", nel finale della vicenda è irrimediabilmente
contagiato dalla "anormalità" di Fosca) e, soprattutto, il diritto
all’amore rivendicato dalla protagonista e la sua ardente volontà di
affermarlo.
Francesca Santucci
Note
1) Antichissimo brefotrofio napoletano fondato per volere della regina
Sancia d’Aragona nel 1318 e affidato alla cura delle monache. Accanto
all'ingresso del monastero c'era una ruota girevole ove, col favore
delle tenebre, venivano abbandonati i neonati.
2) Salvatore Farina, Care ombre, La mia giornata, S.T.E.N.
Torino, 1913.
3) Raffaello Barbiera, Il salotto della contessa Maffei,
Milano, Treves, 1925, cap. XX,
4) F. Giarelli, Vent’anni di giornalismo, Cotogno, Tip. Cairo,
1896, pp. 210 sg; qui citato da una nota di E. Ghidetti a Fosca, in
Tutte le opere, vol. II, Bologna, Cappelli, 1967, pp. 237 sg.
5) da una nota di E. Ghidetti a Fosca, in Tutte le opere, vol.
II, cit., p. 239.
6) Salvatore Farina, Care ombre, La mia giornata, cit.
Riferimenti bibliografici
E. Ghidetti, Tutte le opere di
Igino Ugo Tarchetti, Bologna, Cappelli, 1967.Salvatore Farina,
Care ombre, La mia giornata, S.T.E.N. Torino, 1913.Antonio
Balestrieri, Manuale didattico della psichiatria, Il Pensiero
Scientifico, Editore, 1980.
Iginio Ugo Tarchetti e la Scapigliatura, atti del convegno, S.
Salvatore Monferrato 1/3 ottobre 1976
Raffaello Barbiera, Il salotto della contessa Maffei, Milano,
Treves, 1925, cap. XX.
p. Ariès- G- Duby, La vita privata, l’Ottocento, Edizione CDE
spa- Milano, su licenza della Gius. Laterza e Figli Spa, 1988.
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