Il lago
delle tre lamprede
di Iginio Ugo Tarchetti
La Sila è una grande foresta al mezzogiorno
dell’Italia. Le sue elci antiche come il mondo, i suoi larici bruni e
secolari, le sue querce, venerabili per maestà, le danno un’apparenza paurosa
e selvaggia. Questi alberi vi crescono soli, non coltivati, non toccati dalla
mano dell’uomo. La natura vi è triste e solitaria; il silenzio vi domina
spaventevole.
Soltanto nelle ultime ore del giorno e presso il
tramonto, l’aquila s’innalza alcune volte tra gli alberi e le nubi colle sue
ruote gravi e misurate, e fa talora intendere dall’alto il suo strido
melanconico, mentreché stuoli di giovani cinghiali inseguendosi, fanno
scrosciare spezzando i piccoli alberi, e risvegliano tutti gli echi della
foresta. Non volo d’uccello, non canto di boscaiuolo.
Se tu vi fai intendere la tua voce, un’eco lunga
e prolungata ripete per lungo tempo le tue parole. Sembra che questo suono
ripercosso nel cavo delle grandi querce non possa estinguersi mai, e produce una
sensazione come di spavento in colui che lo ha cagionato.
Quivi sono luoghi memorabili per antichità e per
tradizioni popolari. Vi scorre presso l’antico Busento che bagna Cosenza, e le
di cui acque nella vicina valle di Crati rumoreggiano da mille e quattrocento
anni sopra il sepolcro d’Alarico. (Esso ebbe così una splendida tomba sotto
il letto di questo fiume: deviatane la corrente, vi scavarono un soggiorno
elegante, una camera nuziale più che una tomba, e calatovi il re, ricondussero
sopra le acque.)
Di là incomincia a stendersi la foresta co’
suoi grandi tigli, e co’ suoi platani bianchi. Gli alberi vi crescono in
principio rari e senza rovi come alberi di giardino, e i suoi dintorni sono
abitati da piccoli uccelli, graziosi pettirossi dalla coda mobile, cutrettole
ballerine, e scriccioli grandi quanto una farfalla. Alcuni torrenti che hanno un’origine
sconosciuta nelle rupi della Sila non ancora visitate, formano vicino a quegli
alberi cascate spumanti e piccoli stagni, le di cui rive sono popolate di rane,
serpentelli verdi, lucertole grandi e screziate, e piccole tarantole a foggia di
nastro che si accontentano di abitare quei margini deliziosi e solitari.
Ma nell’interno della selva questo spettacolo è
diverso, è più severo e imponente. Di quando in quando un lieve stormire di
foglie, è indizio d’un capro selvaggio che passa inosservato: un suono
indistinto di voci, è lo squittio sicuro e malizioso delle volpi, e un’armonia
melanconica come di arpa è il ronzare d’un’ape, o d’una libellula
danzante. Quivi la natura sembra aver raccolto quanto ha di più grazioso e di
più terribile.
M’inoltrai una volta per questa foresta, e senza
avvedermi d’aver percorso un tratto lunghissimo di cammino mi trovai molto
addentrato fra quegli alberi, e il sole stava per tramontare. Me ne avvidi dagli
ultimi raggi, che colorivano obliquamente le grandi foglie degli ontani e delle
querce. A malincuore mi accinsi a ritornare; pure temendo della notte e dell’inesperienza
del luogo, avevo già fatti molti passi verso l’aperto; il sentiero mi pareva
ed era certamente lo stesso; io mi lunsigava d’essere già quasi arrivato nei
vicini campi di cotone, allorquando arrestatomi per raccogliere certo fiore che
aveva colpito la mia attenzione, mi accorsi di trovarmi tuttora nello stesso
luogo dal quale era poc’anzi partito!
Dolente, e più ancora meravigliato di questo
avvenimento, rifaccio per la seconda volta la strada medesima — mi impauriva l’idea
di essere sorpreso dalla notte in quella foresta — cammino con passi
accelerati, mi pare che gli alberi si diradino, io rido meco stesso del mio
scoraggiamento e mi fermo ad osservare quanto cammino mi rimane ancora a
percorrere. Ma… ohimè! Chi lo crederebbe? Io non mi era mosso ancora d’un
solo passo, e mi trovavo precisamente in quel primo luogo, donde aveva
deliberato il mio ritorno.
«Questa è senza dubbio una fatalità
incomprensibile,» io dissi a me stesso, «ecco che io non potrò più ritornare
fino a domani, e passerò qui dentro una notte intera, e Dio sa quale!»
Mi sedetti così lungo la via affidandomi al mio
destino, e non disperando affatto che qualche persona ritornando dalla foresta
mi avrebbe potuto trarre da quella solitudine. Non stetti molto ad attendere.
Scorsi di fatto una donna la quale veniva verso di me e percorreva lo stesso mio
sentiero. E qui un novelliere romantico non esiterebbe a metterci di mezzo una
qualche contadina avvenente, una ninfa dei boschi, o che so io! Ma essa non era
purtroppo che una donna qualunque, una donna della campagna, col sorriso dolce e
cogli occhi vivaci del mezzogiorno.
«Buona cosentina,» io le dissi, «m’indichereste
voi il sentiero che la mena fuori di questo bosco? Io sono qui da molte ore, e
non so raccapezzarmi a ritornare.»
Invece di rispondermi tosto ella abbassò gli
occhi a terra, e girò intorno a sé stessa come avesse voluto rintracciare
alcuna cosa smarrita. Quindi con un certo sorriso tanto incomprensibile da
digradarne la scienza a Lavater, mi disse: «Siete voi forestiero?»
«Lo sono,» io risposi, «e perché mi fate
questa domanda?»
«Voi avete calpestata l’erba maligna, ne cresce
molta vicino a questi circoli, e intorno al lago delle tre lamprede.
Accompagnatevi a me, se vi piace, ed io vi condurrò fuori della foresta.»
Questa risposta accese tutta la mia curiosità di
piccolo viaggiatore.
«Ecco,» io dissi fra me stesso. «Un avvenimento
piacevole; cosa intendete voi per erba maligna? e cosa sono questi circoli, e
questo lago? Io non vedo alcuna di queste cose.»
«Osservate,» ella riprese, e curvandosi a terra,
spiccò ai piedi d’un albero alcune foglie, «eccone appunto uno stelo, questa
è l’erba maligna, e cresce di preferenza intorno a questi circoli che noi
chiamiamo circoli delle streghe. Vedete voi questi sciami di moscherini che vi
danzano sopra con ali stanche? e queste lucertole che vi girano intorno senza
fermarsi? Il loro destino è deciso, essi moriranno qui, perché non potranno
più allontanarsene. Voi stesso vi sareste rimasto per molto tempo se io non v’incontrava,
e sareste forse anche morto se ciò avveniva in un luogo non frequentato. Quando
alcuno calpesta l’erba maligna, e non ha inteso mai prima parlare di quest’erba,
non può più allontanarsi dal luogo dove si trova, ed è necessario che un’altra
persona, facendosi prima tre volte il segno della croce, ché altrettante sono
le lamprede del lago, lo riconduca al luogo d’onde è partito, però costui
non potrà salvare più di sette persone da questo pericolo in tutta la sua
vita. Voi siete il primo per me, e sono ben lieta di rendervi questo servigio.»
Osservai attentamente quell’erba, essa aveva le
stesse foglie, e lo stesso verde del ranuncolo giallo (ranunculus sceleratus,
Linneo), e i pretesi circoli delle streghe non erano che rialzi di terreno
circolari con erba molto verde e molto più folta; gli stessi circoli rammentati
da molti viaggiatori, che gli inglesi chiamano greensour ringlets; e che sono
frequentissimi in molte parti dell’Europa, e particolarmente sulle spiagge
Britanne.
«I pastori,» proseguì quella donna, «hanno la
maggior cura di non lasciarvi avvicinar le capre, esse non darebbero più latte;
i soli merinos vi possono pascolare impunemente. Desiderate anche di visitare il
lago delle lamprede? Molte persone vengono giornalmente a vederlo, esso è poco
lontano dal nostro sentiero e ritornando alla città vi racconterò la storia di
questo lago; essa è una storia molto singolare.»
Giungemmo in pochi minuti a quello stagno, ché
non era ragionevole chiamarlo un lago. La sua apparenza era veramente alquanto
triste malgrado la limpidezza delle sue acque. Alcune rubinie all’intorno,
solatri e giunchi di palude, e alcune ninfee comuni erano il solo ornamento
delle sue sponde.
«Eccovi il lago miracoloso,» riprese quella
donna. «Avvicinatevi di più alla riva ed osservate adesso attentamente: non vi
vedete voi le tre lamprede?»
«Io non ne vedo alcuna.»
«Ciò non è strano perché esse sogliono
moltiplicarsi, o sparire quando sono osservate. Questo fu il castigo di uomini
colpevoli. Avviciniamoci alla città; la notte è imminente, ed io vi conterò
la storia di queste lamprede.
«Saranno circa quattrocento anni, così mi
raccontava mia madre, che era del paese di Nogliana, e già esisteva da tempo
infinito questa foresta; ma l’ingresso era difficile e pericoloso. I cinghiali
vi uccidevano i fanciulli, le aquile vi rapivano i merinos e le oche, i circoli
e l’erba maligna vi erano in così grande quantità che vi trattenevano i
viaggiatori, né più si vedevano ritornare. Si doveva allora erigere una chiesa
e vi furono alcuni che consigliarono fabbricarla dentro la Sila; così si
sperava di evitare questi impedimenti con un luogo santo, e questo consiglio
venne accettato. Fu eretta una chiesa ed un convento, dove esisteva prima una
piccola sorgente. In questo modo fu libera e benedetta la foresta, e la gente
povera vi raccoglieva agevolmente le sorbe e l’uva selvatica con un
miglioramento grandissimo della sua condizione.
«Ma i tre romiti che andarono ad abitare il
convento erano uomini perversi, e si raccontavano di loro fatti empi e
straordinari. Non corse molto tempo che una grande siccità asciugò l’acqua
de’ pozzi e delle fontane. Le sabbie del fiume erano ardenti, i ruscelli
inariditi, si disseccavano gli alberi morivano gli uomini e gli uccelli. In
questa spaventevole condizione di cose, la sola sorgente nella chiesa della
foresta non era disseccata; essa dava ancora qualche filo d’acqua, e vi
convenivano da lontano uomini moribondi a cercarvi ancora un’ora di vita.
Tuttavia non volsero vari giorni che anche questa sorgente non dava che poche
goccie, e i tre romiti, che abitavano il convento della chiesa, ne avevano
murate le porte per riservare a sé soli questo tesoro. Indarno vi supplicavano
gli assetati un solo e misero sorso di quell’acqua, essi morivano non soccorsi
presso le mura del santuario. Ma sentite come la punizione del Signore seppe
colpire i colpevoli.
«Una sera vi andò fra gli altri un vecchio
pellegrino; esso aveva un aspetto venerabile, e una lunga barba bianca come la
neve gli scendeva fino alla cintura. Egli battè alla porta del convento e
chiese per carità ad un romito che s’era affacciato alla finestra, una sola
goccia di quell’acqua, giacché egli stava per morire. Il romito stette sul
rifiuto e chiuse furiosamente la finestra. Ma alla mattina dell’indomani,
mentre ciascuno disperava di vivere più oltre, incominciarono i pozzi e le
fontane a rigurgitare tant’acqua che le strade ne erano allagate, i fiumi
uscivano fuori delle loro rive, i ruscelli della foresta coprivano i prati come
laghi. Allora il curato di Ciro ordina tosto una processione; si va al convento
per celebrare un così grande miracolo, e… Lo credereste? Si cerca la chiesa…
la chiesa non v’era più; il convento era anch’esso sparito; e dove esisteva
prima quella sorgente trovarono il lago colle tre lamprede che avete veduto.
«Quelle lamprede erano i tre romiti del santuario
e quel pellegrino era stato il Signore.»
(dai Racconti vari)
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