Francesca Santucci

 

MATILDE SERAO
(1856 - 1927)

(Francesca Santucci, Donna non sol ma torna musa all'arte, Il Foglio, I edizione marzo 2003- II edizione novembre 2003)

 

 

La caratteristica più evidente del verismo italiano fu il suo frazionamento nel regionalismo, che in letteratura ebbe illustri cantori come Verga, Capuana e De Roberto per la Sicilia, Fucini per la Toscana, Ciampoli per l’Abruzzo; Napoli, che fu una delle capitali del verismo, poté gloriarsi dell’attivissima scrittrice Matilde Serao, una delle prime donne giornaliste, che godette di larga popolarità. Profondamente legata alla sua terra mosse, appunto, dal verismo per sconfinare, variamente dispiegando la sua scrittura, nella narrativa rosa e d’appendice.
Particolarmente nota agli albori del secolo scorso, sia per la collaborazione a “Il Mattino” di Napoli, diretto dal marito Edoardo Scarfoglio, sia per aver fondato, nel 1904, “Il Giorno”, ai giorni nostri è quasi del tutto dimenticata dal pubblico, trascurata o vilipesa dalla critica già ai suoi tempi.
Così rilevò Anna Banti:
le disgrazie della Serao somigliano molto a quelle di Napoli, città decantata, adorata, detestata e infine ridotta a canzonetta.1
Così Lidia Ravera nell’introduzione al libro “Il ventre di Napoli”, sottolineando la minore considerazione di Matilde Serao e delle scrittrici in generale:
Non è mai stata considerata una grande scrittrice, Matilde Serao. Del resto: a quali donne, a quante è toccato l'alto onore? L'Olimpo è maschio. E la letteratura ha da essere soffusa di delicatezza, ellittica, astratta ed artistica, per essere alta. Per essere buona deve tenere il segno dell'ambiguità, muoversi nella metafora, evocare senza dire, rivelare senza spiegare. Per trovare un posto a sedere nell'Olimpo è più conveniente essere magnanimi e disperati sulle sorti dell'Essere che parziali, rissosi e appassionati appresso a varie battaglie. Il Letterato fine lambisce appena con occhio ad un tempo distratto e valutativo il campo di battaglia. Fruga in ironia fra la sua polvere, non partecipa, non si schiera. Vede e commenta, se decide di guardare, se no, niente, rivolge su se stesso, in solenne autodafé, il proprio augusto sguardo. Non così la Serao. Anzi, tutto il contrario.2
Eppure Matilde Serao fu scrittrice valida, appassionata, instancabile, curiosa, prolifica, impegnata nell’analisi della realtà sociale e, insieme a Salvatore Di Giacomo, il padre della letteratura napoletana, capace di offrire l’immagine più concreta e viva della Napoli di fine Ottocento, descrivendo nei suoi romanzi, con vivace realismo e colorita efficacia, la vita del popolo partenopeo.
Nata il 26 febbraio del 1856 a Patrasso, in Grecia, da padre napoletano in esilio e da madre greca, crebbe a Napoli, dove si diplomò maestra elementare e lavorò per breve tempo ai telegrafi di Stato.
Intrapresa l'attività letteraria e giornalistica, dinamica e di vivace ingegno, non tardò molto ad affermarsi.
Il suo esordio letterario, con lo pseudonimo di Tuffolina, è legato alla pubblicazione nel 1878 di “Opale”, una raccolta di novelle, cui seguì, nel 1881, “Cuore infermo”, un romanzo sentimentale; l’anno successivo si trasferì a Roma, dove collaborò a diversi giornali e conobbe un famoso giornalista dell’epoca, Edoardo Scarfoglio, che sposò nel 1885, e dal quale ebbe quattro figli.
In fecondo sodalizio, la Serao ed il marito intrapresero molte iniziative, come la fondazione, nel 1885, del giornale “Il Corriere di Roma”; due anni dopo, a Napoli, diedero vita al quotidiano “Il Corriere di Napoli“, che nel 1892 diventò “Il Mattino”.
Ben presto, però, il matrimonio entrò in crisi, tuttavia la loro collaborazione continuò ancora per qualche tempo, finché, nel 1903, la Serao abbandonò il giornale e fondò il quotidiano rivale “II Giorno”, che guidò fino alla fine della sua vita.
Di mentalità aperta e lontana dai conservatorismi di certi suoi colleghi intellettuali, attenta alle istanze sociali e culturali del tempo, sensibile alle condizioni disagiate di vita delle classi più povere, ma anche acuta osservatrice dei conflitti del mondo intellettuale, fu pure partecipe della mondanità romana e napoletana, entrando in contatto con i principali scrittori del suo tempo, come Gabriele D’Annunzio, che le dedicò il suo secondo romanzo, “Giovanni Episcopo”:
a voi, signora, a voi che ricercando il meglio date in Italia l’esempio di una operosità così virile…3
Per quanto riguarda la sua scrittura, d’impronta realista e verista, ma pure intrisa di suggestioni tardo romantiche e decadenti, in attento ascolto dell’ambiente che ritraeva, non sempre corretta, ma capace “d’infondere nelle opere sue il calore”, come lei stessa riconosceva, con la descrizione minuta del dettaglio, degli oggetti, si arricchì di sfumate analisi psicologiche, ma anche di misticismo e spiritualismo, soprattutto in seguito ad un viaggio compiuto in Palestina nel 1893 e, con gli anni, adeguandosi al gusto di un pubblico piccolo-borghese, finì per divenire sempre più sentimentale e vicina al romanzo d’appendice.
Intensa fu la sua attività, sia come giornalista che come narratrice, e vasta la sua produzione; in tutto pubblicò venticinque volumi di raccolte novellistiche, come “Dal vero” (1879), “Leggende napoletane” (1881), “Piccole anime” (1883), “Il romanzo della fanciulla” (1886), e sedici romanzi, come “Fantasia” (1883), “II ventre di Napoli” (1884), “La conquista di Roma” (1885) , “Telegrafi dello Stato” (1885), “Vita e avventure di Riccardo Joanna” (1887), “Il paese di cuccagna”, pubblicato a puntate nel 1890 sul giornale “Il Mattino”, “Suor Giovanna della Croce” (1900), “Mors tua” (1926).
Grande fu la delusione di Matilde Serao quando, nel 1926, sfumò il suo sogno di ricevere il premio Nobel, del quale fu insignita, invece, l’illustre rivale: Grazia Deledda.
Già in declino il suo successo, si spense a Napoli il 24 luglio del 1927.
Donna esuberante, cordiale, comunicativa, curiosa, giornalista solerte, scrittrice prolifica, quasi disordinata, pressata dall’urgenza d’esprimersi e denunciare, seppe ritrarre al vivo le figure della piccola borghesia di Napoli, sullo sfondo brulicante di una folla rumorosa e vivace, descrivendone il colore locale, la realtà quotidiana in tutti i suoi aspetti, anche minimi, nei riti, nelle superstizioni.
Profonda conoscitrice dell’animo femminile, indugiò spesso su figure di singole donne, prediligendo le creature semplici, che tratteggiò con mano delicata e cura amorosa, come nel brano seguente, che descrive le ansie ed i timori di alcune giovani studentesse alla vigilia di un esame.

Fingevano, chi la tranquillità, chi la disinvoltura, chi un'indifferenza assoluta: tutte fingevano, come meglio sapevano e potevano, per nascondere la paura, l'inquietudine, la tristezza, la nervosità. Riunite in due o tre gruppi, sedute a caso sui banchi in disordine, nella sala del terzo corso, esse fingevano di ammirarsi scambievolmente, una pel vestito nuovo, tagliato e cucito in casa, l'altra pel cappellino nuovo che costava in tutto nove lire e cinquanta, la terza per certa sciarpetta ricamata nei piccoli, brevissimi intervalli di ozio; parlavano dei bagni di mare... Sì, cercavano di avere l'aria disinvolta: ma sotto tutti quei sorrisi il tormento trapelava, sotto quei discorsi di vestiti, di bagni, di seratine, trapelava il pensiero angoscioso, l'altro, quello per cui nessuna di loro aveva dormito alla notte, quello per cui si erano affaticate otto mesi e per cui negli ultimi mesi estivi, giugno e luglio, avevano sgobbato dalla mattina alla sera sui libri, sui quaderni, sui sunti, sulle formule; il pensiero profondo e dominante, per cui in quel giorno, chiamate in scuola alle nove, si erano alzate alle sei, erano uscite di casa alle sette, e dopo molti giri di passeggiata erano tutte capitate lì, alle otto, un'ora prima.
Quello era il giorno dell'esame orale, pel diploma superiore. E l'esame, l'esame era il pensiero pauroso, angoscioso, profondo e dominante. Tanto che, non reggendo a lungo la finzione in quelle anime giovanotte, involontariamente, non vergognandosi più, nella comune inquietudine, ognuna si abbandonò alla propria. Pallida e sgomenta Annina Casale, appoggiata ai vetri della finestra, guardava nel cortile, senza vedere; e Caterina Borrelli, la sua prepotente amica, per darle coraggio, la sgridava.
«Sei una stupida ad aver paura. Non hai studiato tutto l'anno? Di che ti spaventi? »
«Di tutto.»
«E tu fa' una cosa: pensa che gli esaminatori di là ne sanno tottà meno di tè. Ci pensi? Cerca di convincertene e non avrai più paura. Hai capito?»
«Sì: ma non lo penso.»
«Pensane un'altra: rimanderanno anche me. Faremo l'esame di riparazione insieme, ci prepareremo insieme.»
«Ma che, ma che, vuoi che ti riprovino, tè, che sei così brava e così ardita?»
«Ti giuro che mi riproveranno. Nanni', ho un cattivo presentimento.»
Altrove, parlando a voce bassa, ognuna narrava il proprio terrore speciale.
Poi, quando suonarono le nove, un silenzio si fece: la bidella Rosa comparve sotto la porta, con una carta in mano e lesse i primi quattro nomi.

(Da “Il romanzo della fanciulla”, Garzanti, Milano)

L’opera ancora oggi più significativa della Serao è, probabilmente, “Il ventre di Napoli” (così intitolato ispirandosi ad una frase pronunciata dal Depretis4, preoccupato per il dilagare dell’epidemia di colera a Napoli nel 1884, ma forse anche ricordando “Il Ventre di Parigi”, di E. Zola), atto di accusa contro la cattiva amministrazione della città da parte del governo della Sinistra dell’epoca, libro che raccoglie gli articoli, pubblicati nel 1884 sul “Capitan Fracassa” di Roma, poi raccolti in volume nello stesso anno, di un servizio giornalistico sulla situazione napoletana.
Bisogna sventrare Napoli: così aveva detto in Parlamento Depretis, intendendo che, per risanare Napoli, bisognava abbattere le abitazioni malsane e fatiscenti delle zone più interne della città; in relazione a ciò la Serao produsse sei articoli (ai quali, poi, ne aggiunse altri tre che, a distanza di vent’anni, arricchirono la seconda edizione del libro, dopo la costruzione, nell’ambito dell’opera di risanamento5 della città, del “rettifilo”, il lungo stradone che, in realtà, non faceva altro che nascondere il povero mondo pullulante di miseria e degrado dei malsani quartieri napoletani), articoli polemici e di denuncia: “Sventrare Napoli”, “Quello che guadagnano”, “Quello che mangiano”, “Il lotto”, “L’usura” e “La pietà”.
Oltre al j’accuse contro il malgoverno (“Sventrare Napoli “), la Serao descrisse, appunto, il ventre di Napoli, cioè i quartieri disagiati (senz’aria, senza luce, senza igiene6) abitati dai napoletani più poveri, attraverso i loro usi, le abitudini, l’alimentazione, la religiosità, il gioco del lotto, l’usura, ma anche esaltandone le qualità, come la laboriosità, la solidarietà, la pietà (E i poveri che girano, sono aiutati alla meglio da quella gente povera7).
Pagine tirate d’un fiato, descrizioni rapide, aneddoti narrati con semplicità, calorosa eloquentissima perorazione a pro del popolo napoletano, piena di quell’affetto materno del quale ella possiede il segreto:8 come, giustamente, rilevò Benedetto Croce, eccezionali furono in questi scritti la capacità di osservazione e l’ abilità narrativa dell'autrice che, attraverso uno stile sobrio ed essenziale, riuscì a conciliare la lucida analisi con la passionalità che l’animava per l’adesione emotiva all’offesa realtà napoletana, descrivendo, attenta anche alle più piccole sfumature, le condizioni di vita della varia umanità che, come in una corte dei miracoli, fra odori di pietanze tipiche preparate in economia (commestibili che costano un soldo), suoni di strada, rosari e avemarie, si contorceva in un’esistenza misera, improvvisata, precaria, costretta in abitazioni minuscole e fatiscenti, abitando anche nei sottoscala, tra vicoli stretti e tortuosi come budella, mal selciati, in condizioni igieniche pessime, arrangiandosi nei mestieri più disparati, guadagnando mercedi scarsissime9, sperando di poter cambiare vita con un po’ di fortuna al gioco del lotto (il popolo napoletano rifà ogni settimana il suo grande sogno di felicità), invocando l’aiuto miracoloso per risolvere i malanni (vi è il piede di Sant’Anna che si mette sul ventre delle partorienti, vi è l’olio che arde nella lampada innanzi al corpo di San Giacomo della Marca…che fa guarire i mali di testa10), umanità dolente ma che pure riusciva a conservare bellezza e dignità.
La Serao non descrisse di Napoli l’oleografico paesaggio da quadretto, ma soprattutto le avvilenti condizioni di degrado dei ceti più poveri; attraverso la rappresentazione della miseria del popolo partenopeo, ne intese denunciare i reali problemi, reclamando a gran voce l'esigenza di rifare Napoli non solo dal punto di vista urbanistico, ma anche dal punto di vista sociale, favorendo norme igieniche migliori, costruendo abitazioni decenti, diffondendo l’istruzione, operando affinché venisse debellato lo sfruttamento dei lavoratori e fossero offerti posti di lavoro a giuste condizioni, ben comprendendo che soltanto eliminando la miseria e l’ignoranza, fonti di mali sociali, sarebbe stato possibile garantire a tutti un vita più umana.

BISOGNA SVENTRARE NAPOLI

Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto. Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del ciclo di cobalto,delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa rettorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata per racconti di miserie. Ma il Governo doveva sapere l'altra parte; il Governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il Governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il Governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il Governo che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore, quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a che sono buoni tutti questi impiegati alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto? E, se voi non siete la intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perché siete ministro?

(Matilde Serao, “Il ventre di Napoli”)

Francesca Santucci

 

1) “L’occhio di Napoli”, Milano, 1962.
2) Il “ventre di Napoli,” II Italiana, l’Unità, Cles, 1993.
3) G. D’Annunzio, “Giovanni Episcopo”, A Matilde Serao.
4) Agostino Depretis (1813-1887) fu deputato del parlamento subalpino e capo dell'opposizione democratica, ma con la Sinistra parlamentare, ebbe dal re l'ufficio di creare il nuovo Governo. Durante il suo ministero ci fu la dissoluzione della Sinistra e della Destra come partiti in opposizione, applicando la politica del trasformismo.
5) In seguito alla grave epidemia di colera che si ebbe a Napoli nel 1884, il sindaco Nicola Amore fece "sventrare" la città. Allora si costituì la società del Risanamento che edificò abitazioni più razionali, dove prima sorgevano fatiscenti tuguri.
6) op. cit.
7) op. cit.
8) B. Croce, “Letteratura della nuova Italia”, III, 1915.
9) op. cit.
10) op. cit.