Mariannina Coffa

(1841-1878)

                        

La mia vita è potentemente legata a questo terribile amore ...             

Siracusa,  5 settembre 1859

 

Ascenzio mio

Stanca del lungo e penoso viaggio, e travagliata da mille indicibili dolori, non ho altro conforto che ricordare gli ultimi istanti del nostro addio-istanti fatali la cui dolcezza fu sogno, e la memoria tormento.Io scrivo e piango…ora che niuno mi ascolta, ora che son libera di vagheggiarti nel silenzio della notte!…Ho tanto bisogno di piangere, e di aprirti il mio povero cuore.Oh! potessero almeno le lagrime rivelarti il secreto martirio dell’anima mia. Ascenzio! Comprendi tu la potenza di questo dolore che m’agita, che in pochi giorni ha consunto le mie vene, che mi ha tolto gran parte della vita?…Oh se al par di me senti questo bisogno di piangere e di amare…oh Ascenzio, non obliarmi, non tradire le mie speranze, il solo bene che mi lega all’avvenire. Noi saremo compagni nel dolore, comprenderemo appieno i misteri delle anime nostre, e i voti, i sogni, le rimembranze, saranno un’indistinta armonia che i nostri cuori ripeteranno tra loro. Oltre il tuo amore che chiedere alla terra se non credo ai suoi beni?…un deserto mi offrirebbe pur sempre l’immagine della patria mia, perché l’universo è tutto racchiuso nel tuo sguardo-che vale ogni altro contento?…io sentirò i tuoi dolori, sarò lieta del tuo sorriso; e quando un arcano desio ti sforzerà al pianto, oh allora noi piangeremo insieme; e quelle lagrime non contaminate dallo sguardo degli uomini, saranno una muta preghiera santificata dal silenzio e dall’amore-così, paghi dell’oblio del mondo, vivremo nella solitudine dei nostri affetti. ………Si è ormai compreso che la mia vita è potentemente legata a questo terribile amore, che gli uomini non valgono ad estinguere-amore, non mai diviso, che o non compresa, o compianta, trarrò meco alla tomba!...

( Marinella Fiume, Sibilla Arcana, edizioni Lussografica, pp.177-178)

 

E’ tratta dall’intenso epistolario scambiato col primo fidanzato Ascenso Mauceri, prima e dopo il matrimonio, questa lettera in cui la poetessa netina Mariannina Coffa, vissuta nella seconda metà dell’Ottocento, con veemenza affermava il suo amore per l’uomo al quale poi mai si sarebbe unita, costretta, per volontà dei genitori, com’era consuetudine per le ragazze dell’epoca, a contrarre altro matrimonio, e con il quale, però, anche dopo le nozze, avrebbe continuato ad intrattenersi epistolarmente.
Nata a Noto, in provincia di Siracusa, nel 1841, fin da bambina dimostrò grande abilità nel comporre versi estemporanei, com’era in voga nei salotti del tempo, qualità che affinò con gli studi e che, da adulta, le consentì di comporre poesie intense e suggestive, dapprima patriottiche ed intimiste, poi dense di simbolismi per le acquisite cognizioni.
Fidanzata ad Ascenso Mauceri, musicista e drammaturgo dal quale prese lezioni di piano, fu costretta a rinunciare all’uomo che amava, che mai le perdonò tale scelta, seppure obbligata, e a sposare Giorgio Morana, un uomo facoltoso che la relegò in una vita economicamente agiata ma priva di stimoli intellettuali ed emotivi, in casa del vecchio padre.
Costretta nell’ambito angusto della vita matrimoniale e della cura dei figli, inevitabile destino delle donne del tempo, ma ben consapevole delle sue capacità, pur di non reprimerle del tutto Mariannina riuscì a ritagliarsi spazi propri, seppure segreti e rubati, continuando a scrivere di notte («...Appassionata delle arti belle e di tutto ciò che è nobile e gentile, ho dovuto scrivere di nascosto, perché non si dicesse che non ero donna di casa...) e avvicinandosi nascostamente alle teorie del magnetismo, ben diffuse nella società siciliana del tempo, ma anche nel resto d’Italia, che alimentarono la sua produzione poetica finale e che cercò di utilizzare su se stessa per trarre giovamenti dai malesseri psicosomatici dai quali era afflitta, probabilmente proprio a causa della scissione fra la vita imposta e quella a cui aveva dovuto rinunciare, fra la vita che appariva e quella celata.
Abbandonata la casa del suocero, nella quale viveva, scacciata dai genitori che non le perdonavano l’onta del disonore inferto con l’abbandono dei figli e col divorzio, morì in povertà e solitudine nel 1878, a soli 36 anni.
Dalle sue poesie e dal suo epistolario emerge il ritratto di una donna colta, sensibile ed attenta, consapevole delle sue potenzialità, ma anche dell’impossibilità di affermare i suoi desideri, in un contesto sociale che precludeva qualunque possibilità di affermazione femminile e che alla donna lasciava spazio soltanto nell’ambito familiare, costretta, perciò, a reprimere l’istintivo moto di ribellione e a trincerarsi nella mestizia, trovando unico scampo all’afflizione, in anni in cui era ancora da venire la psicoanalisi,  nel metafisico.  

 

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A Luisa

 

 

Francesca Santucci