Lisabetta da Messina non è il
nome di una rimatrice come Compiuta Donzella, né di
una scienziata, come Trotula, o di una mistica, come
Santa Caterina, bensì, come s’ipotizza, quello di
un’ infelice fanciulla siciliana, la cui sventurata
vicenda si svolse in età medievale e trovò risonanza
nel "Decamerone" di Boccaccio, nella novella omonima
(la V della IV giornata) in cui, in un’atmosfera
malinconica e patetica, “si ragiona di coloro li
cui amori ebbero infelice fine”. Ed il pittore inglese William
Holman Hunt (Londra 1827-1910), fondatore, insieme a
Dante Gabriel Rossetti e a John Everett Millais, nel
1848, della Confraternita dei Preraffaelliti, nel
quadro del 1867, “Isabelle with the Pot of Basil"
(Isabella e il vaso di basilico), iniziato durante
il viaggio in Italia con la moglie, terminato a
Londra e dedicato alla donna amata, morta in seguito
a febbri puerperali, con dolcezza immortalò la
dolente protagonista della vicenda (ma anche il suo
collega ed amico, Sir John Everett Millais, in
“Lorenzo and Isabella”, del 1849, interpretò
pittoricamente la vicenda, così come in letteratura
vi s’ispirarono John Keats e Anatole France). Nel dipinto di Hunt, Isabella,
dai lunghi capelli scuri disciolti su un vaso di
basilico, lo cinge d’un languido amorevole
abbraccio: quel vaso di basilico in realtà contiene
la testa del suo innamorato, ferocemente
assassinato dai suoi fratelli. Questa la storia raccontata
dal Boccaccio.
A Messina vivevano, insieme
alla sorella, Lisabetta, bella ma non ancora
sposata, tre ricchi fratelli mercanti
(effettivamente nel Due-Trecento, in questa città vivevano
diverse colonie di mercanti provenienti da San Gimignano, tra Certaldo e Siena, che aveva una
fiorentissima Arte della lana, e si ha notizia che
gli Ardinghelli, mercanti sangimignanesi, alla
metà del Duecento si trasferirono da Messina a
Napoli, come i fratelli di Lisabetta), per i quali
lavorava Lorenzo, un giovane gentile e di bell’aspetto.
Lorenzo e Lisabetta si
innamorarono, ma una notte, mentre la giovane
furtivamente andava da lui, uno dei fratelli li
scoprì. L’indomani raccontò tutto agli altri
fratelli, con i quali concordò di agire per salvare
l’onore della famiglia. Condotto Lorenzo in un luogo
isolato, lo uccisero e lo seppellirono. Preoccupata per l'assenza
dell'innamorato, Lisabetta chiese notizie ai
fratelli, che le risposero che Lorenzo era assente
per una commissione.
Tardando il suo ritorno,
Lisabetta piangeva afflitta, ma una notte Lorenzo
le andò in sogno (tanto posto ebbero nella
letteratura medievale, ed in Boccaccio, i sogni
rivelatori!),
e le rivelò di essere
stato ucciso, indicando il luogo in cui giaceva il
suo cadavere.
L’indomani, col pretesto di
dover uscire con un' amica, la giovane si recò sul
luogo indicatole in sogno, scavò e scoprì il
cadavere dell'innamorato. Allora, con un coltello staccò
dal corpo la testa, di nascosto la portò a casa e la
sotterrò in un vaso di basilico, che di continuo
bagnava con le sue lacrime, tanto che, rigoglioso,
vi crebbe l’odoroso aroma.
Ma i suoi fratelli, appreso
dai vicini che la loro sorella trascorreva intere
giornate a curare il basilico, consumando la
propria bellezza, glielo sottrassero e, svuotatolo,
riconobbero il capo putrefatto di Lorenzo. Nel
timore che il loro reato potesse essere scoperto, si
trasferirono a Napoli.
Lisabetta, privata della
preziosa reliquia, morì di dolore.
A conclusione della novella,
fortemente caratterizzata dal pianto e dal
vagheggiamento, ossessivi connotati di Lisabetta, in tutto il racconto sempre triste, afflitta,
in muta adorazione, quasi religiosa, e in rimpianto
dell’amato Lorenzo, Boccaccio appose questi versi:
Quale esso fu lo malo cristiano,
che
mi furò la grasta, ecc.
Sono, questi, i primi versi
di una ballata popolare di un autore anonimo, la
“Canzone del basilico”, nata, forse, proprio per
commemorare la sventurata Lisabetta da Messina, cui
i fratelli sottrassero il vaso che celava la testa
dell’ amato Lorenzo, trasmessaci integralmente in
“Cantilene e ballate dei secoli XII e XIV”, a cura
di G. Carducci, con esordio leggermente diverso (Qual
esso fu lo malo cristiano/ che mi furò la mia grasta
/del bassilico mio selemontano?), ma l’accorato
rimpianto della donna che lamenta il trafugamento
del suo vaso (grasta) di basilico potrebbe anche
riferirsi genericamente, meno drammaticamente, ad
un bene irrimediabilmente perduto, comunque fornì lo
spunto al Boccaccio per la pietosa novella, che
profondamente commosse e suggestionò poeti ed
artisti, ma della vicenda da lui elaborata non si
ritrova traccia nella canzone. Nella sua novella,
Boccaccio fa raccontare da Filomena la storia
dell’infelice amore di Lisabetta, siciliana, di
cuore gentile, trovatasi a vivere in un ambiente
sordo agli affetti, marchiato dalla vergogna e
dall'offesa all'onore familiare, troncato
barbaramente dal delitto, svelato dall’apparizione
in sogno dell'ucciso che rivela il luogo della
sepoltura, e che conduce al disseppellimento e
all'asportazione del capo, conservato nel vaso di
basilico e adorato fino alla morte, elementi macabri
elusi o ingentiliti dai particolari narrativi
dell’autore (il bel drappo, l’acqua rosata e di
fior d’aranci, le lacrime). Dominante, in tutto lo
spazio narrativo, è la tristezza di Lisabetta, in
muta vagheggiamento dell’amore per sempre perduto.
La canzone del basilico
Qual
esso fu lo malo cristiano
che mi
furò la mìa grasta
del
bassilico mio selemontano?
Cresciut’era in gran podesta,
e io
lo mi chiantai colla mia mano:
fu lo
giorno de la festa.
Chi
guasta - l'altrui cose, è villania.
Chi
guasta l'altrui cose, è villania
e
grandissimo peccato.
E io,
la meschinella, ch'i' m'avia
una
grasta seminata!
Tant'era
bella, ch'a l'ombra stasia
da la
gente invidiata.
Fummi
furata - davanti a la porta.
Fummi
furata davanti a la porta:
dolorosa ne fu' assai.
Ed io,
la meschinella, or fosse io morta,
che sì
cara l'accattai!
È pur
l'altrier ch'i' n'ebbi mala scorta
dal
messer cui tanto amai.
Tutta
la 'ntorniai di maiorana.
Tutta
la ' ntorniai di maiorana:
fu di
maggio lo bel mese-
Tre
volte la 'nnaffiai la settimana,
che
son dozi volte el mese,
d'un'acqua chiara di viva fontana.
Sir'
Idio, com' ben s'aprese!
Or è
in palese - che mi fu raputa.
Or è
in palese che mi fu raputa:
non lo
posso più celare.
Sed io
davanti l'avessi saputo
che mi
dovesse incontrare,
davanti a l'uscio mi sare' iaciuta
per la
mia grasta guardare.
Potrebbemene atare - l'alto Iddio.
Potrebbemene atare l'alto Iddio,
se gli
fusse in piacimento.
de
l'uomo che m'è stato tanto rio,
messo
m’ha in pene e 'n tormento,
ché
m'ha furato il bassilico mio
ch'era
pien d'ogni ulimento.
Suo
ulimento - tutta mi sanava.
Suo
ulimento tutta mi sanava,
tant'avea
freschi gli olori;
e la
mattina, quando lo 'nnaffiava
a la
levata del sole,
tutta
la gente si maravigliava:
- Onde
vien cotanto aulore? -
e io
per lo suo amor - morrò di doglia.
E io
per lo suo amor morrò di doglia,
per
l'amor de la grasta mia.
Fosse
chi la mi rinsegnar di voglia,
volontier la raccateria;
cento
once d'oro ch'i' ho ne la fonda
volentier gli le doneria,
e
doneria- gli un bascio in disianza.
Francesca
Santucci
Everett Millais, Lorenzo
and Isabella.
Dal "Decamerone"
Lisabetta da Messina
I fratelli dell'Ellisabetta
uccidon l'amante di lei; egli l'apparisce in sogno e
mostrale dove sia sotterrato. Ella occultamente
disotterra la testa e mettela in un testo di
bassilico; e quivi su piagnendo ogni dì per una
grande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne
muore di dolore poco appresso.
Finita la novella d'Elissa, e
alquanto dal re commendata, a Filomena fu imposto
che ragionasse; la quale, tutta piena di compassione
del misero Gerbino e della sua donna, dopo un
pietoso sospiro incominciò.
La mia novella, graziose
donne, non sarà di genti di sì alta condizione, come
costoro furono de'quali Elissa ha raccontato, ma
ella per avventura non sarà men pietosa; e a
ricordarmi di quella mi tira Messina poco innanzi
ricordata, dove l'accidente avvenne.
Erano adunque in Messina tre
giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini
rimasi dopo la morte del padre loro, il qual fu da
San Gimignano, e avevano una lor sorella chiamata
Lisabetta, giovane assai bella e costumata, la
quale, che che se ne fosse cagione, ancora maritata
non aveano. E avevano oltre a ciò questi tre
fratelli in uno lor fondaco un giovinetto pisano
chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti guidava e
faceva, il quale, essendo assai bello della persona
e leggiadro molto, avendolo più volte l'Isabetta
guatato, avvenne che egli le 'ncominciò stranamente
a piacere. Di che Lorenzo accortosi e una volta e
altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti
di fuori, incominciò a porre l'animo a lei; e sì
andò la bisogna che, piacendo l'uno all'altro
igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi,
fecero di quello che più disiderava ciascuno.
E in questo continuando e
avendo insieme assai di buon tempo e di piacere, non
seppero sì segretamente fare che una notte, andando
l'Isabetta là dove Lorenzo dormiva, che il maggior
de'fratelli, senza accorgersene ella, non se ne
accorgesse. Il quale, per ciò che savio giovane era,
quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere, pur
mosso da più onesto consiglio, senza far motto o dir
cosa alcuna, varie cose fra sé rivolgendo intorno a
questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò.
Poi, venuto il giorno, a'suoi
fratelli ciò che veduto avea la passata notte dell'Isabetta
e di Lorenzo raccontò, e con loro insieme, dopo
lungo consiglio, diliberò di questa cosa, acciò che
né a loro né alla sirocchia alcuna infamia ne
seguisse, di passarsene tacitamente e d'infignersi
del tutto d'averne alcuna cosa veduta o saputa
infino a tanto che tempo venisse nel qua le essi,
senza danno o sconcio di loro, questa vergogna,
avanti che più andasse innanzi, si potessero torre
dal viso.
E in tal disposizion
dimorando, così cianciando e ridendo con Lorenzo
come usati erano avvenne che, sembianti faccendo
d'andare fuori della città a diletto tutti e tre,
seco menarono Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto
solitario e rimoto, veggendosi il destro, Lorenzo,
che di ciò niuna guardia prendeva, uccisono e
sotterrarono in guisa che niuna persona se ne
accorse. E in Messina tornati dieder voce d'averlo
per lor bisogne mandato in alcun luogo; il che
leggiermente creduto fu, per ciò che spesse volte
eran di mandarlo attorno usati.
Non tornando Lorenzo, e l'Isabetta
molto spesso e sollicitamente i fratei domandandone,
sì come colei a cui la dimora lunga gravava, avvenne
un giorno che, domandandone ella molto instantemente,
che l'uno de'fratelli le disse:
- Che vuol dir questo? Che hai
tu a fare di Lorenzo, ché tu ne domandi così spesso?
Se tu ne domanderai più, noi ti faremo quella
risposta che ti si conviene.
Per che la giovane dolente e
trista, temendo e non sappiendo che, senza più
domandarne si stava, e assai volte la notte
pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse, e
alcuna volta con molte lagrime della sua lunga
dimora si doleva e, senza punto rallegrarsi, sempre
aspettando si stava. Avvenne una notte che, avendo
costei molto pianto Lorenzo che non tornava, ed
essendosi alla fine piagnendo addormentata, Lorenzo
l'apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato e
con panni tutti stracciati e fracidi indosso, e
parvele che egli dicesse:
- O Lisabetta, tu non mi fai
altro che chiamare e della mia lunga dimora
t'attristi, e me con le tue lagrime fieramente
accusi; e per ciò sappi che io non posso più
ritornarci, per ciò che l'ultimo dì che tu mi
vedesti i tuoi fratelli m'uccisono.
E disegnatole il luogo dove
sotterrato l'aveano, le disse che più nol chiamasse
né l'aspettasse, e disparve.
La giovane destatasi, e dando
fede alla visione, amaramente pianse. Poi la mattina
levata, non avendo ardire di dire al cuna cosa a'fratelli,
propose di volere andare al mostrato luogo e di
vedere se ciò fosse vero che nel sonno l'era paruto.
E avuta la licenza d'andare alquanto fuor della
terra a diporto, in compagnia d'una che altra volta
con loro era stata e tutti i suoi fatti sapeva,
quanto più tosto potè là se n'andò; e tolte via
foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le
parve la terra quivi cavò; né ebbe guari cavato, che
ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna
cosa ancora guasto né corrotto; per che
manifestamente conobbe essere stata vera la sua
visione. Di che più che altra femina dolorosa,
conoscendo che quivi non era da piagnere, se avesse
potuto volentieri tutto il corpo n'avrebbe portato
per dargli più convenevole sepoltura; ma, veggendo
che ciò esser non poteva, con un coltello il meglio
che potè gli spiccò dallo 'mbusto la testa, e quella
in uno asciugatoio inviluppata e la terra sopra
l'altro corpo gittata, messala in grembo alla fante,
senza essere stata da alcun veduta, quindi si partì
e tornossene a casa sua.
Quivi con questa testa nella
sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e
amaramente pianse, tanto che tutta con le sue
lagrime la lavò, mille baci dandole in ogni parte.
Poi prese un grande e un bel testo, di questi nei
quali si pianta la persa o il bassilico, e dentro la
vi mise fasciata in un bel drappo, e poi messovi su
la terra, su vi piantò parecchi piedi di bellissimo
bassilico salernetano, e quegli di niuna altra acqua
che o rosata o di fior d'aranci o delle sue lagrime
non inaffiava giammai; e per usanza avea preso di
sedersi sempre a questo testo vicina, e quello con
tutto il suo disidero vagheggiare, sì come quello
che il suo Lorenzo teneva nascoso; e poi che molto
vagheggiato l'avea, sopr'esso andatasene, cominciava
a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il
bassilico bagnava, piagnea.
Il bassilico, sì per lo lungo
e continuo studio, sì per la grassezza della terra
procedente dalla testa corrotta che dentro v'era,
divenne bellissimo e odorifero molto. E servando la
giovane questa maniera del continuo, più volte
da'suoi vicini fu veduta. Li quali, maravigliandosi
i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che
gli occhi le parevano della testa fuggiti, il disser
loro:
- Noi ci siamo accorti, che
ella ogni dì tiene la cotal maniera.
Il che udendo i fratelli e
accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa e
non giovando, nascosamente da lei fecer portar via
questo testo. Il quale, non ritrovandolo ella, con
grandissima instanzia molte volte richiese; e non
essendole renduto, non cessando il pianto e le
lagrime, infermò, né altro che il testo suo nella
infermità domandava.
I giovani si maravigliavan
forte di questo addimandare e per ciò vollero vedere
che dentro vi fosse; e versata la terra, videro il
drappo e in quello la testa non ancor sì consumata
che essi alla capellatura crespa non conoscessero
lei esser quella di Lorenzo. Di che essi si
maravigliaron forte e temettero non questa cosa si
risapesse; e sotterrata quella, senza altro dire,
cautamente di Messina uscitisi e ordinato come di
quindi si ritraessono, se n'andarono a Napoli.
La giovane non restando di
piagnere e pure il suo testo addimandando, piagnendo
si morì; e così il suo disavventurato amore ebbe
termine. Ma poi a certo tempo divenuta questa cosa
manifesta a molti, fu alcuno che compuose quel la
canzone la quale ancora oggi si canta, cioè:
Quale esso fu lo malo
cristiano,
che mi furò la grasta,
ecc.
Testi
Giovanni Boccaccio, Decamerone, vol I
Mondadori, 1985, Milano.
Folco
Zanobini, Il presente della memoria, vol. I,
Bulgarini, Firenze, 1990.
Episodi e personaggi della letteratura, I parte, Electa,
Milano, settembre 2004.
Cantilene e ballate dei
secoli XII e XIV, a cura di G. Carducci.
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