Estratti:
SYLVIA
PLATH
pp. 36-39
Con enfasi ancor più viva afferma Plath in
data13 ottobre 1959: «Ted è la mia salvezza.
È unico, speciale: chi altro mi
sopporterebbe? Š Impara da Ted: lui lavora,
lavora, riscrive, lotta, si perde. Devo
sforzarmi di raggiungere l¹indipendenza.
Renderlo orgoglioso. Tenere per me dolore e
scoraggiamento. Continuare a lavorare per il
mio amor proprio: studiare le lingue,
leggere avidamente. Lavorare, senza
aspettarmi dei miracoli da un niente scritto
di corsa» . E pochi giorni dopo, in data 22
ottobre: «Oggi una passeggiata dopo
colazione, prima di mettermi a scrivere. Il
colore incredibile degli alberi: caverne di
giallo, piume rosse. Profonde golate di aria
ferma e gelata. Una purificazione, un
battesimo. A volte mi sembra possibile
avvicinarmi al mondo, amarlo. Al caldo nel
letto con Ted provo un conforto animale. Che
cos¹è la vita? Per me sta così poco nelle
idee. Le idee mi tiranneggiano: le idee del
mio Super-Io livoroso di strega-regina,
quello che dovrei, quello che sarebbe giusto
che» .
Mille accenti di fervore intenso (quanto
patetico). Proteste di bene sconfinato,
slanci di immagata riconoscenza.
E si ammucchiano e si accentuano fino al 18
maggio 1962, quando entra nella vita di
Plath, ospite con il marito David Wevill a
Court Green, Assia Gutmann pubblicitaria,
«donna affascinante, con grandi occhi
grigio-viola, la voce roca e un accento
intrigante Š Assia racconterà in seguito che
l¹attrazione tra lei e Ted è immediata, e lo
stesso riconoscerà trentacinque anni dopo
Ted in Birthday Letters (Dreamers).
Sylvia li sorprende insieme in cucina:
stanno solo parlando ma lei evidentemente
intuisce qualcosa» .
Il mese successivo Hughes rivede Assia a
Londra e dà inizio alla loro relazione, ben
presto (9 luglio) scoperta da Sylvia. A
partire da quel giorno infausto, non ostante
ogni tentativo di (re)azione, non ostante le
apparenze che a tratti possono rassicurare,
Plath si avvicina, senza alternativa veruna,
alla tragica fine: vuole staccarsi per
sempre dal marito e dal suo meschino
abbandono ma l¹amore, che la sovrasta come
un «uncino», continua a straziarla: «Tutti i
vincoli, in realtà, sono ganci che afferrano
e tormentano le carni. La prende un grande
desiderio di sprofondare, vorrebbe stare
distesa, diventare un¹effigie sul sarcofago,
al buio. È stanca, esausta Š Pensa al padre
e anche se è già morto, lo uccide di nuovo,
gli ficca un palo nel cuore Š Pensa alla
madre Š È piena di odio. Soffoca per l¹odio.
Cessando di amare l¹anima cade all¹inferno.
Ha la febbre alta. Invoca il Lete, l¹oblio.
Nella derelizione, nell¹abbandono vince il
demonio. Indemoniata Sylvia si scatena nel
galoppo come una bianca Godiva, scalpita,
schiuma, è la freccia che vola. Aggiunge:
suicida. E nell¹aggettivo anticipa la
direzione che prenderà pochi mesi dopo la
sua esistenza» .
Muore d¹amore dunque, la grande Sylvia
Plath. E di vendetta.
Una vendetta che può sembrare crudele e
assurda, una rivalsa atroce: destinata però
a divenire, in qualche modo e misura,
fulgente vittoria. Poiché la sua scomparsa
immatura inevitabile sconvolge la vita
dei familiari lasciati, anzi tutto di
Hughes, che «si trincera dentro un ostinato
silenzio Š Nulla sembra sottrarlo
all¹isolamento mentale». E tuttavia, sempre
nelle parole di Stefano Mangione, il suo
assoluto mutismo «è solo apparente: morta
Sylvia, Sylvia acquista nuova vita. Si
staglia prepotente nei luoghi» quotidiani,
«riempie le stanze, nude per la sua assenza
Š si insedia nella mente e nel cuore di Ted,
riempie il suo pensiero, determina e guida
le sue azioni, è il fulcro della sua
volontà. Sylvia, ora, è la sua poesia, è le
composizioni sparse, che Ted raccoglie e
ordina. Attraverso di lei ricompone i
giorni, rende concreto e attuale il tempo
astratto e trascorso. Sylvia è Ariel,
il libro che Ted pubblica, nel 1965» .
Dunque. Per «lunghissimi anni più di
trenta Ted Hughes tace». A dispetto di ciò
(anzi: a motivo di ciò) «giorno dopo giorno,
anno dopo anno Š si riappropria della sua
vita, che è quella di Sylvia, la fa
risorgere dalle ceneri, ricompone gli
attimi, centellinandoli ad uno ad uno e li
ricompone tempo, azione, emozioni, vita
(anche nell¹accezione suprema della morte).
E i giorni e le vicende riemergono e la loro
storia diventa realtà attuale e viva, nella
memoria e nel cuore, certo (poiché l¹opera
di Hughes nulla ha dell¹attività del
visionario: nasce dal sentimento, ma
soprattutto dalla ragione critica) Š La
stessa vita di Ted non sembra avere
consistenza autonoma. Appare generata da
quella di Sylvia e la stessa poesia si è,
forse, concretizzata perché imposta più
dalla sua volontà che da quella di Ted» .
Ecco, allora: «Sulle pagine di Lettere di
Compleanno, non si dipanano parole, non
scorrono versi, non si esplicano concetti e
sentimenti attraverso il segno grafico o il
suono della lettura, ma è il tempo concreto
e attuale che si snoda, sono i corpi che
vibrano, sono le menti che formulano e
ideano, sono i sentimenti che attraggono. Ed
ora conclude Mangione è la vita reale,
perché chiarisce tutti i sensi del vivere,
perché è vista in chiave consapevole e
critica e scorre più lentamente attraverso
la riflessione, che favorisce la
valorizzazione degli aspetti, anche di
quelli più insignificanti» .
Cotale dunque (blandamente consolatorio) il
miracolo della risurrezione ( = il mea
culpa?) compiuto, con l¹aiuto del tempo, da
Hughes. Il cui influsso sulla genesi (e
strutturazione) della scrittura plathiana
fu, non si ripeterà mai abbastanza,
tutt¹altro che secondario: un fascino
meduseo (è il caso di dirlo), non tanto al
livello di poetica quanto a un più profondo
livello personale e psicologico basti
ricordare, dettaglio nient¹affatto
trascurabile, che anche la seconda compagna,
Assia, si suicidò , uccidendo pure Shura, la
loro figlia quattrenne.
pp. 68-71
MEDUSA
Nell'epica così detta omerica, è risaputo,
il capo reciso compare anzi tutto nel libro
quinto dell'Iliade, dove Atena Š si
appresta a indossare le armi micidiali,
perfette: «Gettò sopra le spalle l'egida
frangiata, orrenda, cui tutt¹intorno fanno
corona il Terrore, la Lotta, la Violenza,
l¹Inseguimento agghiacciante: v¹è il capo
della Gorgone, dell¹orribile mostro,
spaventoso, tremendo, prodigio di Zeus
egíoco» (738-742).
Sull¹egida di Pallade, a «formidabile
sintesi figurale della guerra», è dunque la
maschera che più raggela e disgusta a
occupare il «centro della composizione», a
imporre «la circolarità del disegno. Il
terrore e tutta la fenomenologia della
paura, rappresentato da Phobos e da Iokè,
sono, in questo senso, solo gemme che gli
fanno corona Š Nucleo primigenio della
violenza, è Medusa a stare in primo piano
conquistando Š l¹attenzione» e rimbalzando
«ai guerrieri l¹immagine più autentica del
loro crimine ontologico» . Poiché,
«orripilante», Medusa è nel contempo
«orripilata» costretta com¹è a vedere la
sua stessa distruzione e ad esternare in tal
modo un «orrore mostrato nei suoi effetti.
La testa mozzata centripeta l¹attenzione e
condensa i significati del simbolo. Da un
lato, allude a una violenza che, accanendosi
sul corpo», oltre a togliergli la vita
«lavora a disfarne l¹unità figurale, a
ferirlo e smembrarlo, staccarne la testa»,
d¹altro lato sottolinea che, a essere
colpita, è «quell¹unicità della persona che
già i Greci collocavano in questa parte del
corpo» .
Di qui, istintivo, non può non scoppiare il
«disgusto per una violenza che, non
accontentandosi di uccidere perché uccidere
sarebbe troppo poco, mira a distruggere
l¹unicità del corpo e si accanisce sulla sua
costitutiva vulnerabilità». Ciò che è in
giuoco infatti, è non soltanto (!) la fine
di una vita umana, «bensì la condizione
umana stessa in quanto incarnata nella
singolarità di corpi vulnerabili» .
Per tornare all'Iliade, l'orrorismo
gorgonico ricorre altresì nel libro
undecimo, a fregiare «lo scudo grande,
adorno, robusto, bellissimo» del comandante
in capo acheo, Agamennone figlio di Atreo:
«Correvano in giro dieci cerchi di bronzo e
in mezzo v'erano venti borchie di stagno,
bianche, nel centro una di smalto nerastro;
faceva corona allo scudo la Gorgone,
tremenda visione, che torvo guarda: intorno
a lei Terrore e Disfatta» . Sul contrapposto
fronte dei Troiani, al nobile Ettore è
prevedibilmente riservato il diretto
raffronto con l¹ibrido: «Avanti, indietro, i
cavalli belle criniere girava Ettore
intanto, con lo sguardo della Gorgone,
d¹Ares flagello degli uomini» (8. 347 s.).
Nel poema iliadico, quindi, maschera e
occhio gorgonici «operano in un contesto ben
definito Š integrati all¹attrezzatura
bellica, alla mimica, alla smorfia stessa
del guerriero (uomo o dio) posseduto dal
ménos Š concentrano in qualche modo la
potenza di morte che irradia dalla persona
del combattente ricoperto dell¹armatura e
pronto a manifestare la straordinaria
vigoria nella battaglia Š La folgorazione
dello sguardo di Medusa agisce
congiuntamente allo splendore del bronzo
rilucente i cui barbagli, dall¹armatura e
dall¹elmo, salgono fino al cielo e
diffondono il panico» .
In particolare: la bocca dell¹ibrido,
sbarrata, evoca il terrificante grido di
guerra che Achille, vivido di fiamma, lancia
a tre riprese, dal culmine del «fossato
fuori dal muro» (18. 215), prima che si
accenda la pugna attorno al defunto
Patroclo: «Qui ritto gridò, e Pallade Atena
al suo fianco urlava; fra i Teucri sorse
tumulto indicibile. Come è sonora la voce
della tromba che squilla quando i nemici
massacratori assediano una città, così fu
sonora allora la voce dell¹Eacide. E quelli,
come udirono la bronzea voce dell¹Eacide, a
tutti balzò il cuore; ed ecco i cavalli
belle criniere subito voltarono i carri;
dolori previdero in cuore; gli aurighi
inebetirono, come videro il fuoco indomabile
tremendo, sopra la testa del Pelide
magnanimo ardente; e l¹accendeva la dea
Atena occhio azzurro. Tre volte sopra il
fossato gridò alto Achille glorioso, tre
volte furon sconvolti i Troiani e gli
illustri alleati. E dodici eroi fortissimi
morirono allora, sotto i carri e per l¹aste
lor proprie» (18. 217-231).
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