Neapolis, Palepolis,
Partenope: la magia di Napoli è già tutta racchiusa nei miti delle
origini. Secondo gli antichi storici greci e romani la nascita della
città sarebbe da collegare alla leggenda della semidea marina, la
bellissima Partenope; non essendo riuscita ad ammaliare col suo
canto Ulisse che, per resisterle, si era fatto legare dai compagni
all’albero della nave, si lasciò morire.
Nel luogo dove si trovava la tomba della sirena sarebbe sorta la
città di Partenope.
Secondo Stazio e Licofrone, invece, il nome e l’origine della città
sarebbero da collegare a Partenu-Opsis, la figlia di Eumelo, re
della Tessaglia, che morì dopo essere sbarcata sul nostro litorale,
e qui, in suo onore, sarebbe nata la città.
Nelle leggende Napoli è sempre legata alla bellezza e alla morte
(intesa come rigenerazione, certo), sarà forse per questo che è noto
il detto “Vedi Napoli e poi muori”, e che Goethe scrisse: Da quanto
si dica, si narri, o si dipinga, Napoli supera tutto: la riva, la
baia, il golfo, il Vesuvio, la città, le vicine campagne, i
castelli, le passeggiate… Io scuso tutti coloro ai quali la vista di
Napoli fa perdere i sensi!
Qualunque sia la verità delle origini è indubbio che è una città
davvero ammaliante!
Cielo e mare paiono confondersi nelle identiche tonalità d’azzurro,
gli scogli sembrano candidi confetti baciati e ribaciati da un sole
sempre tiepido, il Vesuvio, da tempo ormai inattivo (ma non per
questo meno pericoloso!), si pone quasi come una presenza benigna e
rassicurante, guardiano fedele o angelo protettivo, le isole di
Capri, Ischia, Procida, sono simili a gemme disseminate nell’acqua
trasparente.
Già le bellezze naturali, da sole, valgono ad affascinare e ad
invitare alla sua scoperta, ma Napoli non è solo “cartolina” e
folklore, è storia, è tradizione, è musica e tanta sensibile
letteratura: basti pensare ai versi perfetti ed armoniosi di
Salvatore Di Giacomo, il padre della letteratura partenopea, o alle
commedie ricche di umanità del grande Eduardo.
Ed è anche sorriso, con cui i napoletani hanno condito le miserie
del passato e continuano a farlo nel presente.
E poi c’è la canzone; la melodia napoletana è un classico, esportata
in tutto il mondo, famosa a tal punto che, tempo fa, in Giappone, in
occasione di una manifestazione sportiva, fu suonata, credendola
erroneamente l’inno italiano, “O sole mio”, ma c’è anche tanta buona
musica attuale che ben coniuga tradizione e innovazione.
Come cantava Pino Daniele: Napule è mille culure… ’na camminata inte
viche miezo all’ato.
E, forse, proprio questo è il modo migliore per conoscerla, viaggiarci
dentro, addentrarsi nei vicoli, scoprirne i colori, annusarne i
profumi, ascoltarne i suoni, lasciandosi sorprendere dai tesori che
racchiude, insinuarsi in quel budello di strada come Spaccanapoli
che veramente taglia in due la città, visitare il Museo di Capodimonte, fare un altro salto indietro nel tempo visitando il
Palazzo Reale dove si sono avvicendati Angioini, Aragonesi, Borboni,
entrare nel Duomo dove da secoli si rinnova il miracolo del Santo
protettore, San Gennaro, evento religioso, certamente, ma anche
spettacolare, al quale bisogna proprio assistere.
Fu nel 305, in seguito all’editto di Diocleziano che autorizzava la
persecuzione dei cristiani, che Ianuario, vescovo di Benevento,
venne decapitato presso la solfatara di Pozzuoli; il sangue sgorgato
dalla testa del martire venne raccolto dalla nutrice Eusebia e
conservato in due ampolle nelle quali, solo dopo diverse migliaia di
anni, precisamente nel 1389, cominciò a ribollire facendo gridare al
miracolo.
Da allora, puntualmente ogni anno, il primo sabato di maggio, il 19
settembre e il 16 dicembre, nel Duomo di Napoli, esortato dalla
folla che lo acclama e lo implora, lo supplica ed anche lo
rimprovera (quando il Santo tarda all’appuntamento l’appellativo è
faccia ‘ngialluta) 1 il miracolo si ripete.
Nel secolo scorso uno scienziato ritenne che il supposto composto
ematico altro non fosse che un bel frullato di zucchero, cioccolato
in polvere ed acqua, ai giorni nostri ancora si sospetta che il
sangue del Santo altro non sia che una sostanza fluida suscettibile
di fenomeni chimici; comunque sia, innegabile è che la spiegazione
scientifica non è mai arrivata e che il miracolo, a dispetto degli
scettici e dei miscredenti, continua a ripetersi da secoli
conservando intatto il fascino e il mistero, e continuando a
confortare quanti, napoletani e non, hanno bisogno di credere in un
segno della presenza divina.
E San Gennaro, anima di Napoli, che tanto ama questa città, che da
secoli gli tributa incondizionato affetto, non manca mai di
ricambiare; certo qualche volta il miracolo tarda ad arrivare (e
allora sono disgrazie e tragedie, terremoti e carestie), ma si
tratta solo di un piccolo ritardo poiché già l’indomani il Santo non
manca di correre ai ripari.
Altro evento da non perdere, perché è un grande momento di
partecipazione collettiva del popolo napoletano, è la festa del
Carmine; nella popolarissima piazza del Mercato, famosa anche per
essere stata, in epoche diverse, lo scenario di fatti tristi, come
l’esecuzione di Corradino di Svevia, di Masaniello e dei
rivoluzionari della repubblica partenopea del 1799, il 16 luglio si
festeggia la Madonna del Carmine, la Vergine detta: “Santa Maria la
Bruna”.
Un tempo questa era la festa dei pescivendoli di Porta Capuana e
della zona circostante la Marina, che rievocavano la Battaglia della
Goletta con i Turchi issando un castelletto difeso dagli infedeli
contro i quali, dandogli fuoco, i cristiani riportavano la vittoria;
in seguito al castelletto venne. poi. sostituito il campanile detto
di fra’ Nuvolo. Una volta all’anno l’antica Basilica, dedicata alla
Madonna omonima, viene riccamente decorata e scenograficamente
illuminata dai fuochi pirotecnici, ma il vero soggetto della festa è
il campanile che s’illumina e s’incendia stagliandosi come un
tizzone ardente contro il cielo scuro della sera. Infine, tra gli
applausi della folla festante, gli inni dei fedeli e il suono delle
campane, compare l’effigie della Madonna Bruna che compie il
miracolo spegnendo "l’incendio”, opera di abili fuochisti, e
salvando così il campanile.
E per conoscere Napoli e la napoletanità non può nemmeno mancare
la visita alla Chiesa di San Gregorio Armeno.
È proprio in via San Gregorio Armeno, il 3 novembre, subito dopo i
morti, che a Napoli inizia il Natale; allora dalle bancarelle
allestite per l’occasione fanno bella mostra di sé i pastori dalle
mille facce, i fili d’oro e d’argento, le luci multicolori e i
mille diversi addobbi natalizi.
È in questa strada che si trova l’omonima chiesa, detta anche di
Santa Patrizia, con annesso monastero che, pare, secondo alcuni,
fondata da Sant’Elena, madre dell’Imperatore Costantino. Secondo
altri, in seguito al decreto dell’imperatore Leone III contro il
culto delle immagini sacre, un gruppo di monache dell’ordine di San
Basilio poco dopo il 726 fuggì a Napoli con le reliquie di San
Gregorio vescovo d’Armenia, e qui, sui resti di un antico tempio
pagano dedicato alla dea Cerere Attica, come testimoniano alcuni
ruderi di opus reticulatum di mattoni e tufo esistenti in vico Santa
Luciella, alla sinistra dell’abside, fondò un monastero intitolato
al Santo d’Armenia che, dopo aver subito terribili supplizi,
convertì al Cristianesimo il re Tiridate.
Durante il periodo normanno il monastero fu unito a quello dedicato
al Salvatore e a San Pantaleone, ed assunse la regola benedettina.
Nel 1864 vi furono trasferite le reliquie di Santa Patrizia il cui
culto, vivissimo ancora oggi, ha fatto conoscere la chiesa anche col
nome di Santa Patrizia.
Era in questa chiesa che un tempo si portavano i neonati per le
offerte. Una monaca collocava il bambino su una ruota, lo pesava, e
quanto era il peso del neonato, tanta cera veniva offerta dalla
famiglia.
Fu solo alla fine del Cinquecento, però, che la chiesa,
completamente rifatta, collocata al centro del convento, prese
l’attuale assetto, con un’unica navata e cinque cappelle laterali
ricche di decorazioni, con stucchi dorati e marmi policromi
risalenti al XVII secolo.
Il soffitto, commissionato dalla badessa Beatrice Carafa, è a
cassettoni e costituito da tavole del pittore fiammingo Teodoro
d’Errico che vi lavorò insieme ai suoi apprendisti, ad altri
connazionali e a Teodoro Magliulo. Suddiviso in venti scomparti,
contiene sedici tavole narranti i martirii dei Santi le cui reliquie
sono custodite nel convento. Appartengono invece a Luca Giordano gli
affreschi del’600 con le Storie di San Gregorio Armeno e San
Benedetto; del Fracanzano sono le Storie di San Gregorio, mentre
l’altare maggiore, in commesso marmoreo, è di Dionisio Lazzari.
L’ambiente interno contiene la famosa “Scala santa” che, un tempo,
in penitenza tutti i venerdì del mese di marzo, le monache dovevano
salire in ginocchio.
Uscendo dalla chiesa, attraverso la via San Gregorio Armeno, famosa
anche all’estero per le botteghe dei pastori e dell’artigianato
sacro, si arriva al chiostro e al Convento di San Gregorio, opera
dell’architetto Vincenzo della Monica (al cui ingresso, dove si
trovano ancora, unico tramite delle suore di clausura col mondo
esterno, le ruote in cui venivano posti i bambini), si accede
tramite un ampio scalone decorato con affreschi di Giacomo del Po.
Nell’ampio chiostro, nel quale si affacciano gli alloggi delle
suore, c’è, al centro, la splendida fontana barocca in marmo,
decorata con delfini, cavalli marini e maschere, e due grandi
sculture, raffiguranti Cristo e la Samaritana, di Matteo
Bottiglieri.
Da qui si accede alla Sala della Badessa, con affreschi del’ 700 e
decori floreali, al primo coro, con gli stalli lignei del ‘500, al
corridoio delle monache e alla cappella della Madonna dell’Idria,
uniche parte sopravvissute della chiesa originaria.
È su questa parte del Chiostro che si trovano il Refettorio e
l’antico forno nel quale le monache di San Gregorio, eccelse
nell’arte culinaria, cuociono ancora oggi, con leggendaria bravura,
delle sfogliatelle veramente divine.
Dal sacro al profano, bisogna pure andare a rabbrividire nella
cappella di Sansevero, dov’è conservata una coppia (forse i suoi
servi) sui quali personalmente il principe Raimondo de‘ Sangro,
illustre napoletano del secolo dei lumi, tra stregoneria e magia,
pare avesse compiuto degli esperimenti.
La cappella patronale della famiglia de’ Sangro, nota come Cappella
Sansevero, ma chiamata anche Santa Maria della Pietà o Pietà dei
Sangro (o Pietatella perché, secondo una leggenda, una notte vi
sarebbe stato arrestato un ladro che, per ottenere la libertà,
avrebbe chiesto pietà alla Vergine e, poi liberato, da allora
l’immagine sacra fu chiamata Pietatella), è un mirabile esempio
napoletano di scultura barocca omogenea dell’arte settecentesca.
La prima pietra fu posta dal duca Giovan Francesco di Sangro di
Torremaggiore, valoroso soldato, in seguito ad un voto (dopo essere
stato miracolosamente guarito da una malattia), fatto alla Vergine
della Pietà, la cui effigie in origine era in affresco su un muro
del giardino del suo palazzo; nel 1590 l’affresco fu poi staccato
dal muro e collocato nella Cappella, allora congiunta al Palazzo de’
Sangro mediante un passaggio distrutto nel 1889.
Il vero fondatore della Cappella Sansevero fu, però, Raimondo de’
Sangro, principe di Sansevero e di Castelfranco, duca di
Torremaggiore e Grande di Spagna che, ai suoi tempi, si distingueva
per gli studi, la cultura e l’amore per l’arte.
Tra stregoneria ed alchimia, sul suo conto la diceria popolare
elaborò e demolì miti e leggende esistenti solo nella fantasia; si
disse che il principe, in continuo contatto col diavolo, nel suo
palazzo si fosse macchiato di crimini orrendi, stupri e sevizie, che
avesse fatto accecare lo scultore Sammartino per paura che questi
potesse concepire un altro “Cristo velato”, che avesse personalmente
condotto esperimenti sui vivi, in particolare su una coppia di
servi, oggi scheletri nella Cappella (macchine anatomiche
suggestivamente conservate in una cavea sotterranea, alla quale si
accede tramite una ripida scaletta) perché la donna si era ribellata
alle sue voglie, che avesse fatto costruire poltrone con ossa umane
e, in odore di sacrilegio, anche con pelle di…cardinali, che il cavo
della sua lampada eterna fosse il cranio di una cameriera.
La verità è che il principe di Sansevero, com’è poi emerso dai
numerosi approfondimenti storici e dal ritrovamento di una serie di
documenti, rinvenuti in parte presso l’Archivio Notarile di Napoli e
in parte presso una collezione privata, non era affatto un
mago-stregone ma un uomo colto, scienziato ed alchimista, inventore
persino di macchine idrauliche, gran mecenate e figura carismatica
che occupò un posto rilevante nella vita culturale della Napoli
settecentesca.
Nel 1750 Raimondo iniziò l’opera chiamando a Napoli alcuni dei
migliori artisti italiani dell’epoca, tra cui il Corradini, il
Queirolo, il pittore Nicola Maria Rossi, Francesco Celebrano,
pittore e scultore, Paolo Persico e Francesco Maria Russo, che si
adoprarono al massimo per edificare questa splendida costruzione.
La facciata, in verità, è alquanto modesta ma, dalla piccola
porticina alla calata San Severo o dalla Porta Grande, si entra in
un ambiente talmente affascinante da risultare simile ad
un’apparizione fiabesca; una lapide è datata 1766, ricordo dell’anno
in cui il principe ritenne di aver portato a termine la sua opera.
Questa chiesetta è di forma rettangolare, con un’unica navata con
quattro grandi archi per le quattro Cappelle; tra gli archi acuti e
il cornicione si trovano dei capitelli corinzi in stucco, disegnati
dallo stesso principe, e la volta, affrescata dal Russo nel 1749,
rappresenta la “Gloria del Paradiso” con cupolette, costoloni, archi
e finestre da cui si affacciano i sei santi della famiglia. Sempre
del Russo sono la cupoletta, affrescata sulla volta dell’altare, e i
disegni sulla piccola balconata, mentre invece sono opera del
Queirolo gli archi delle cappelle, con i cardinali della famiglia
nei sei medaglioni e altri quattro medaglioni con ritratti
decorativi sui monumenti. Sulla porta maggiore è collocata una
piccola tribuna dalla quale partiva il passaggio tra la chiesetta e
il Palazzo.
Il pavimento è formato da marmette colorate eseguite, pare,
personalmente dal principe, con disegno non finito, quasi uguale al
rilievo dell’intarsiatura; l’altare maggiore è diviso dalla Cappella
da un arco, sulla cui volta è affrescata una cupola con cupolina,
con un effetto, una prospettiva ed una luce tali da ingannare
facilmente l’osservatore sulla reale esistenza della cupola. Sotto
ogni arco c’ è un monumento sepolcrale con la statua del componente
della famiglia lì sepolto e presso ogni pilastro l’urna della
rispettiva consorte, con sculture rappresentanti le virtù della
dama. Completano le opere un medaglione con ritratto, lo stemma
della casata e le iscrizioni latine dettate da Raimondo;
sull’altare, sostenuta da angeli di stucco, è collocata l’immagine
della “Pietatella”.
Nella Cappella si trovano opere splendide tra le quali spiccano il
Sepolcro di Cecco di Sangro e la Deposizione del Celebrano, e le tre
splendide sculture “velate”: “La Pudicizia” del Corradini, “Il
Disinganno” del Queirolo e, soprattutto, il famoso “Cristo Velato” o
“Cristo morto” del 1753, opera di Giuseppe Sammartino su bozzetto
del Corradini, di eccezionale espressività, che fa parte dei
trentasei modelli lasciati al principe de’ Sangro, prima della
morte, dallo stesso Sammartino.
Cristo velato,
Giuseppe Sammartino
Posta al centro del pavimento della Cappella l’opera s’impone per la
bellezza e la singolarità, e non può che destare ammirazione e
meraviglia, pensando anche che sarebbe stata eseguita in soli tre
mesi. Unanime è il giudizio positivo su quest’opera per il
sorprendente realismo e per l’espressività.
La statua, ultimata, fu in un primo momento portata nella bottega
del Queirolo e poi successivamente trasportata nella cappella
stessa, con una base rettangolare recintata da una ringhiera di
ferro.
Il cadavere del Cristo, col capo leggermente reclinato a destra e
adagiato su due guanciali, è collocato su un materasso di marmo
bianco, poggiante su una base con panneggio in marmo bardiglio. Un
sudario, drappeggiato in pieghe minutissime, aderisce per intero
alla figura, facendo perfettamente trasparire la muscolatura del
corpo e persino i fori dei chiodi alle mani e ai piedi. L’esecuzione
del velo, leggero e trasparente sul corpo senza vita, è
straordinaria, con effetti plastici che meravigliano per il realismo
dell’esecuzione che da sempre colpisce l’osservatore, sia l’uomo
comune che lo studioso. Lo stesso Canova, ammirato da tale maestria,
cercò di acquistare l’opera a qualsiasi prezzo.
Studi approfonditi sono giunti alla conclusione che il velo non è di
marmo, bensì di stoffa finissima marmorizzata dal principe con
procedimento alchemico così perfetto da costituire, insieme alla
scultura sottostante del Sammartino, un’unica opera.
Calcina viva nuova 10 libbre, acqua barilli 4, carbone di
frassino.Covri la grata della fornace co’ carboni accesi a fiamma di
brace; con ausilio di mantici a basso vento. Cala il Modello da
covrire in una vasca ammattonata; indi covrilo con velo sottilissimo
di spezial tessuto bagnato con acqua e Calcina. Modella le forme e
gitta lentamente l’acqua e la Calcina Misturate.Per l’esecuzione:
soffia leve co’mantici i vapori esalati dalla brace nella vasca
sotto il liquido composito. Per quattro dì ripeti l’Opera rinnovando
l’acqua e la Calcina. Con Macchina preparata alla bisogna Leva il
Modello e deponilo sul piano di lavoro, acciocché il rifinitore
Lavori d’acconcia Arte. Sarà il velo come di marmo divenuto al
Naturale e il Sembiante del modello Trasparire.2
Ideata ed usata personalmente dal principe per preparare il “marmo a
velo”, è questa l’autentica ricetta segreta, contenuta in un
documento ritrovato all’Archivio Notarile di Napoli nel quale il
Sammartino s’impegnava anche a non svelarla. Lo stesso procedimento
alchemico sicuramente fu usato per le altre due sculture “velate”:
“La Pudicizia” e il “Disinganno”.
… E per quanto riguarda la gastronomia la cucina partenopea è
decisamente ottima: trionfano maccheroni e pizze, ma anche
mozzarelle di bufala, parmigiana di melanzane, zucchine alla
scapece, roventi impepate di cozze, polipi affogati, sauté di frutti
di mare e ottimi fritti di pesce, e per il dolce c’è solo
l’imbarazzo della scelta, l’amletiano dilemma se tuffarsi prima in
un babà al rum o assaltare direttamente le sfogliatelle ricce o
frolle, se la pastiera o le zeppole con la crema e la marmellata di
amarene.
… Ci torno spesso a Napoli in sogno, col
pensiero, con la fantasia, e rifaccio sempre lo stesso percorso: in
nostalgica escursione parto dalla popolare via Arenaccia, dove sono
nata (così chiamata perché, proprio dove ora ci passa la
tangenziale, un tempo lontanissimo c’era la spiaggia), taglio per
via Carlo Pecchia (goliardicamente ribattezzata dagli studenti via
Carlo Pacchia) dove si trova il liceo classico che ho frequentato,
il "Giuseppe Garibaldi", arrivo in
Piazza Carlo III, risalgo il corso Garibaldi, supero la stazione
centrale, piego a destra, imbocco il corso Umberto, sosto davanti
all’Università Federico II, ripensando malinconicamente agli anni in
cui ci ho studiato, giungo in piazza Municipio, mi siedo un po’ tra
i prati circostanti il Maschio Angioino, poi attraverso Piazza del
Plebiscito e, finalmente, imbocco via Caracciolo.
Da qui raggiungo una vecchia postazione che per me conserva intatto
il suo fascino: gli scogli dai quali mi sporgevo e stupivo quando
credevo che il mare di Napoli fosse realmente abitato dalle sirene!
Questo è il mio percorso, ma Napoli ha mille percorsi da offrire. Se
ancora non ci sei mai stato, tu che mi stai leggendo, devi andarci
almeno una volta nella vita, perché Napoli è davvero una città
magica!
(Francesca Santucci,
1995)
1) Faccia gialla.
2) Da Art dossier “Arte e alchimia”, di Maurizio Calvesi, Giunti,
1986, p. 62-63.
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