La leggenda del faro

passi scelti dal  romanzo di Dario Alfonso Ricci

"Dedicato a tutte le persone che amano il mare,

che vivono il mare, che rispettano il mare

e che lavorano sul mare.

Ma soprattutto a coloro che credono 

nell'eterno mistero che esso racchiude"

 

PROLOGO

Il vecchio nonno Carlo era un piccolo impresario edile venuto dalle campagne del senese a cercare lavoro e fortuna sulla costa. Qui sul mare, nei rari momenti di sosta fra uno scavo di fondamenta e un'intonacatura di facciata, se ne andava col suo barchino a pescare tra gli scogli e le calanche sabbiose del litorale.
 Fu con lui, un giorno lontano della mia infanzia, che andai a calare un palamito sotto il promontorio del faro, dove finisce la terra e inizia l'infinito mistero dell'oceano.
Dal barchino, il nonno levò la mano ad indicarmi la svelta altera sagoma del faro, dipinta a fasce rosse e bianche, immota e viva.   
"Molti anni fa sono stato lassù con quindici operai. Abbiamo rimesso a nuovo la torre e il casamento.  
Si dormiva per terra su pagliericci portati dai militari, si mangiava il rancio come nel '15 nelle buche dell'Isonzo e meno male che non c'erano i cecchini che sparavano.
Però, non so perché, la notte in quel luogo c'era un po' di paura, specie quando il tempo era cattivo, o quando c'era la nebbia e il segnale ci urlava nelle orecchie. Che roba, nipote...."  
Avevo sette, forse otto anni. Non ricordo il resto dei discorsi del nonno, ma il faro m'incute ancora rispetto anche quando lo vedo da lontano, le rare volte che ritorno da queste parti.  
È stato l'anno scorso, tornato qui per le vacanze a smaltire nel mare estivo la stanchezza di terre lontane e di lavoro invernale, che mi sono deciso ad affrontare da vicino il faro del promontorio.
Con la mia nuova barca ho ripercorso quelle acque della mia infanzia, e vinta ogni paura del mistero, sono sceso a terra, ho fatto la grande arrampicata lungo il sentiero che porta al faro, e qui ho incontrato due persone dolcissime che, con la saggezza della loro vecchiaia felice, mi hanno svelato la leggenda del faro e hanno disperso le insicurezze e i timori della fanciullezza.
La leggenda del faro: in essa è forse la chiave di tante verità della vita che gli uomini non sanno più vedere, o almeno non sanno più apprezzare.

Dario Alfonso Ricci

 

 

 

Tratto dal capitolo VI: "LA NAVE REGINA"

 

"Venerdì' 13 agosto 1896 ore 06.10, spento riflettore, vento da maestrale a 10 nodi, mare calmo, cielo sereno, visibilità buona, nave a vela incagliata sulle secche, mi reco sul posto per verifica di controllo".
Prese le scale e con passo svelto scese giù.
In poco meno di dieci minuti era sulla spiaggetta sottostante, varò la piccola lancia a remi e vela che aveva a disposizione, uscì remando per qualche decina di metri, e poi issò la vela.
La barca si trovava incagliata sugli scogli esistenti mezzo miglio fuori il promontorio di Capo Arocco, il vento di maestrale era moderato ma pressoché di prua alla lancia del farista, quindi lo costrinse a bordeggiare, poi decise di allargarsi, prendere il vento al lasco, superare la secca sul lato Nord, virare e raggiungere la barca incagliata con il vento in poppa. Doveva stare attento Luigi, si sarebbe potuto trovare in grave pericolo se avesse danneggiato la propria lancia, magari finendo anche lui sugli insidiosi scogli.
Non sapeva ancora che gli scogli; il vento e la natura l'avrebbero invece protetto ed aiutato, come del resto avevano protetto fermando e cullando quella barca incagliata sulla secca.
Navigava veloce spinta dalla fresca brezza di maestrale la barca del farista, e Luigi la pilotava con bravura e prudenza. Era li Luigi, teso e preoccupato, con quella barchetta in mezzo al mare aperto, elegante e bello con quella sua divisa pulita e stirata, ingallonato con gradi da brigadiere, rappresentava in quel momento la sua Marina ed il suo faro, unica istituzione del luogo, era in veste ufficiale lui; il guardiano del faro era sceso dal suo eterno presidio per andare a controllare una situazione non chiara.
Ogni tanto si voltava a guardare in lontananza la maestosità e la bellezza del promontorio.

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Tratto dal capitolo X: "NAUFRAGHI"

Il buio della notte oramai era sceso, nel cielo a causa delle nuvole non erano visibili né luna e né stelle, l'unica cosa che confortava Fausto era la potente luce del faro, che con i suoi lampi, lo incoraggiava ad andare avanti, ma con quel buio era pressoché impossibile scorgere i due naufraghi, ammesso che fossero ancora vivi.
Il vento era aumentato, ora nebulizzava gli schizzi dell'acqua e li faceva volare velocemente di poppavia, l'acqua fredda e pungente spinta dalle forti raffiche di vento sferzava il viso di Fausto e quasi gli toglieva il respiro.
In quel momento regolandosi con la luce del faro e la bussola, il farista stimò che all'incirca doveva essere sulla posizione dove, dalla plancia del faro, aveva avvistato i due piloti, pensò però che la forte corrente presente gli avesse spostati di diverse centinaia di metri in direzione Sud Est, e quindi in direzione del grande canale, che una volta scapolato il promontorio di Capo Arocco si allargava aprendosi al mare aperto e alle acque internazionali.
Decise così di accostare dolcemente a Sud Est, e procedendo più lentamente cercava di girare in circolo così da coprire ogni giro che faceva un raggio di 50 60 metri, la situazione era molto difficoltosa, quando il gozzo mostrava i fianchi al traverso del mare le rollate divenivano terribilmente grosse e pericolose, Fausto che spesso rischiava di essere sbalzato in mare, aveva indossato un salvagente a giubbotto, e con una sagola si era legato alla bitta della barca, ora usando la potente lampada in dotazione perlustrava la superficie del mare circostante, e spesso con occhio attento controllava osservando la bussola e i lampi del faro che la corrente non lo portasse fuori posizione.

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Tratto dal capitolo IX: "IL VIAGGIO"

 

All'esterno un ampio piazzale in terra battuta, qualche lampione, un piccolo monumento alle ferrovie un po' polveroso, e un muretto a delimitare il perimetro della piazza, eretto sulle sponde di due fosse camperecce. All'estremità del piazzale, un ponticello in muratura a volta, e da lì una strada asfaltata a tratti che conduceva al paese di Storiano, sito sul cucuzzolo di una collina in fronte alla stazione.
Vicino alla porta di ingresso della stazione un cartello indicante la fermata di una corriera.
Questa non tardò ad arrivare avvolta in una nuvola di polvere sollevata dalle sue ruote.
Il forte rumore che accompagnava l'autobus faceva capire che la sua marmitta era completamente sfondata, e al suo passaggio gli uccelli appollaiati sui cipressi che costeggiavano la stretta strada volavano impauriti alla volta dei fili telegrafici posti nel mezzo di un vicino campo.
Fausto salì sulla corriera, e mentre raggiungeva il bigliettaio, sudato e seduto su un sedile con davanti il banchetto per la custodia dei soldi e dei biglietti, sentiva l'inconfondibile odore dei rivestimenti in skai color rosso che impregnava l'aria interna dell'autobus.
Correva veloce la corriera su quelle tortuose stradine, a bordo del mezzo c'erano; Fausto, l'autista, il bigliettaio, due vecchi forse contadini e una signora giovane e bella.
Man mano che l'autobus si avvicinava al paese, il paesaggio esterno cambiava divenendo sempre più armonioso, le piante più rigogliose, la monotonia era rimasta giù alla stazione, al centro del paese dove Fausto scese c'era un'aria festosa, i negozi aperti, la gente sorridente, le strade pulite, le case ben tenute, i bar sparsi nelle vie cittadine trasmettevano un calore intenso.

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Tratto dal capitolo IX: "IL RITORNO"

Anche la sua anima sembrò ferita, difatti per alcune notti sembrò quasi rifiutare di accendere la sua lanterna, forse in ribellione a quegli automatismi portati da gelido progresso.
Spesso il timer si danneggiò, ed in quelle settimane la natura, in ribellione all’accaduto, sferrò in quei luoghi tempeste e burrasche terribili.
Era evidente che il faro, il mare, gli scogli, le onde, il vento, gli alberi, il sole, gli animali, la luna, volevano lì, a presidiare quella postazione, il loro eterno guardiano, compagno fedele di mille avventure.
Fausto ritornò provvisoriamente a vivere nella sua casa di Stuttigliano.
Quando arrivò con il treno al paese scese in quella stazione dalla quale anni prima era partito.
Anche lì vide che i segni irreversibili del progresso avevano colpito la stessa stazioncina; anch’essa ora era stata automatizzata e distrutta nel suo fascino solitario, proprio nello stesso atroce modo del faro.
Fausto appena sceso dal treno si incamminò verso l’uscita e con malinconia e rimpianto vide la vasca dei pesci rossi completamente asciutta e ora riempita di cartacce e rifiuti, la fontanella di ghisa sparita e al suo posto una vistosa e orrenda toppa di cemento.
L’erbaccia e la gramigna, lì, lasciate a invadere binari e banchina, dall’altra parte il fabbricato della stazione, scrostato e ricoperto da muschio e muffe varie, opaco e triste nella sua solitudine e abbandono eterno. Nessuna campanella suonava più a smorzare quel silenzio irreale, e nessuno scambio era più azionato dalla mano esperta e fedele di un ferroviere.

 

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Nota critica

 

"La leggenda del faro", opera prima di Dario Alfonso Ricci, è proprio una bella storia, ricca di passaggi magici ed immagini poetiche; narra le vicende dei faristi e degli altri personaggi che si snodano per oltre un secolo, dalla fondazione all’automatizzazione, intorno al leggendario faro di capo Arocco, presenza viva, tangibile, animata, creatura dotata di proprie pulsioni e volontà, in rapporto ambivalente con l’Uomo, ora in armonia ora in conflitto, ora presenza benevola e salvifica ora forza distruttrice e devastante, comunque sempre in sintonia con la Natura.
L’ultimo capitolo, poi, che, similmente ad una conchiglia che racchiude in sé la perla preziosa, è il racconto dell’antefatto, il disvelamento delle motivazioni che hanno spinto alla stesura del libro (che si pone a suggello della storia ma avrebbe anche potuto costituirne l’incipit), è un finale perfetto e ad effetto; romantico, quasi magico appare il verso finale, con l’alternanza fra luce ed eclisse, espressioni del faro che, per tutta la storia, ora ha illuminato ora ha celato, ma anche metafora della vita, sempre in sospensione fra la chiarità e l’ombra.
Vividi emergono l’amore per il mare, la conoscenza dell’elemento e il rispetto che l’Autore nutre per tutte le creature della Natura in generale, "la luna, il vento, le onde, gli scogli, gli alberi e gli animali", e con forza s’impongono i valori morali in cui crede: il senso del dovere, la dedizione al lavoro, il rispetto, l’amore.
Una volta scritte, le parole più non appartengono allo scrittore, e ciascuno le legge in modo personale, eppure, in questo romanzo, è possibile rinvenire un significato universale nel messaggio finale, affidato a Giovanni, il vecchio farista che, nel congedarsi, raccomanda a Fausto: La natura ti aiuterà, lo ha fatto con tutti. Basta rispettarla ed amarla.

Francesca Santucci