Amo lo studio
disciplinato, ma anche esaltare la fantasia, l’elaborazione del
Sentimento autentico in poesia, e pure l’osservazione da cui può
generarsi una storia lieve, e variamente sperimentare i generi, la
poesia, il racconto, il saggio, “giocando” sui vari registri,
drammatico/comico, ma il raccontino che qui propongo non ha alcuna
pretesa letteraria, è nato di getto, un giorno in cui mi premeva
risollevare l’umore un poco sconfortato di un’amica carissima.Se
l’avessi avuta accanto l’avrei abbracciata forte, ma lei vive
lontana; allora elaborai questa storia, un poco reale, un poco
menzognera (ma chiunque scriva attinge sia alla realtà che al
sogno), fu una specie di lungo abbraccio che riuscii a farle
pervenire, e che qui le rinnovo.
Capsicum annuum:
cos’è? E’ il peperone.
Pianta erbacea annua della famiglia delle Solanacee, con fusti
eretti, verdi, angolosi, ha foglie ovali o ellittiche, acuminate o
a margine intero, di colore verde scuro, lucenti, di dimensioni
variabili; i fiori sono piccoli e bianchi, i frutti sono bacche
carnose, cave all’interno, divise da setti in 2 o 3-4 loculi, di
forma, colore e sapore diverso nelle varie coltivazioni.
Proveniente dall’America meridionale (alcuni pensano che derivi
dal Brasile, altri dalla Giamaica), giunse sulle tavole europee
intorno al XVI secolo.
Farciti, essiccati, sott’olio, sott’aceto, sciroppati, in
peperonata, in padella, in salsa, al naturale, in salamoia, in
vario modo concludono il loro viaggio i peperoni; a Napoli, per
l’inclinazione che il suo popolo ha sempre avuto per la buona
cucina, fin da quando la città si chiamava Neapolis o Parthenope
(pare, infatti, che il culto partenopeo per la gastronomia derivi
dai progenitori greci), differentemente preparati, ma soprattutto
imbottiti, con un impasto di pane, acciughe spinate a pezzettini,
capperi finemente tritati, aglio e olive nere (facoltativamente
anche con pezzetti di melanzane, secondo le scuole di pensiero, e,
addirittura, il marchese di Campolattaro1 li faceva riempire di
maccheroni), richiusi, poi, con il “turzo”, disposti in una teglia
con un bel filo d’olio e messi in forno, hanno sempre avuto un
posto d’onore.
Gialli, rossi, verdi, coloratissimi e bellissimi a vedersi, i
carnosi, dolci o piccanti, peperoni, che contengono pure sostanze
medicamentose, piacciono a tutti, ma non tutti li digeriscono.
Anche a me piacciono, ma non li digerisco, è stato sempre così.
Allora, faccio un salto, indietro nel tempo, e vado a raccontare.
Tempo d'estate, stessa spiaggia, stesso mare, ogni anno,
Castelvolturno, al centro del litorale domizio, fra Pozzuoli e
Gaeta, fra Napoli e Roma. Levatacce alle 4 del mattino,
puntualmente ogni domenica a partire da giugno, mia madre a
cucinare all'alba ragù, pasta al forno, parmigiana di melanzane,
peperoni in padella o ripieni, patate al forno e salsicce (lungo
la strada, poi, si acquistavano pure mozzarelle di bufala, taralli
sugna e pepe, enormi cocomeri rossi... hai visto mai che si
dovesse patire la fame!!!… E blocchi enormi di ghiaccio da
spezzettare, per refrigerare vini di campagna e bibite
metropolitane); si andava con zii, zie, cugini, cugine, una tribù,
insomma, tutti insieme per poter prendere anche in affitto vicino
le cabine (hai visto mai che ci si dovesse perdere a non stare
tutti vicini vicini!!!).
Io stavo male tutto il tragitto, soffrivo di chinetosi (mal
d'auto), ogni viaggio per me era un travaglio, arrivavo in
spiaggia con il volto cereo come quello d’un cadavere, e pure al
ritorno, a casa, mai rossa di sole, sempre cerea in volto come un
cadavere (già allora mi trovavano sensibile… scrive poesie!...
romantica… ma ero anche delicata di stomaco e tutti sembravano
sottovalutarlo).
Di pomeriggio, per smaltire quel pranzo pantagruelico, le donne
chiacchieravano costrette negli attillati costumi neri col
modellatore interno, gli uomini giocavano a carte, in espressioni
corrucciate, tenendo fra le labbra le sigarette di traverso, i
bambini tramestavano allegri, coi secchielli e le palette, sotto
agli ombrelloni.
Io, invece, guardavo i luccichii dei raggi sul mare, mi perdevo
con lo sguardo all’orizzonte, lì, dove cielo e mare parevano
congiungersi, e, mentre la pelle fremeva, riscaldata al primo
caldo sole dell’estate, fantasticavo, leggevo un libro, mi
annoiavo, sognavo... sognavo il principe azzurro sul bianco
destriero (… sarebbe arrivato cavalcando sulla spiaggia?...
Sarebbe disceso dalle alture?... E in quale idioma si sarebbe
espresso?... In francese, lo sognavo francese… oui… mon coeur… mon
amour… mon prince… je t’aime… e se, invece, avesse parlato in
vernacolo napoletano?... Certamente non lo avrei voluto
siciliano!... Oggi no, certo, oggi no, i siciliani sono ben
evoluti, lasciano che le loro donne si valorizzino e s’affermino,
ma allora no, allora no… e poi avevano troppi capelli ricci e i
baffi, e i baffi pungono… no, siciliano proprio non l’avrei
voluto… nemmeno se m’avesse detto giuiuzza bedda e ti vogghiu beni
amuri).
Ma un anno, intorno ai 14/15 anni, alta, bellina (ma non velina,
senza grilli per la testa), capelli scuri e lunghi, costume
azzurro del colore dei miei occhi (azzurri al mare, in campagna,
invece, perfettamente verdi), forse un po' di caldo m'andò alla
testa, perché, entrata in amicizia con un gruppo, mi presi la
cotta per Emilio (più grande di me), occhi obliqui del colore
delle olive di Gaeta, capelli ricci del colore dell’ala dei corvi.
Emilio frequentava l'Istituto navale ed era bello come un Dio,
come il capitano Ulisse, e s'interessava a me.
Un pomeriggio riuscii ad avere il permesso di allontanarmi dalle
"nostre" cabine; si era sulla spiaggia, a giocare il gioco della
bottiglia. A turno, ogni "puntato" dalla bottiglia pagava un
pegno, erano tutti bravi ragazzi, però, niente bacini, il pegno
consisteva nel raccontare qualcosa di sé.
Venne il mio turno; per attirare maggiormente l'attenzione di
Emilio, quando mi fu chiesto se avessi mai avuto un fidanzatino
(mai avuto!) dissi di sì, mentii spudoratamente, e dissi pure che
era durata pochi mesi la storia, perché “lui” era morto in un
incidente stradale (in verità avevo avuto un assiduo, petulante,
asfissiante corteggiatore, non francese, napoletanissimo, che si
chiamava Ciro e, mesi addietro, aveva avuto un incidente di moto,
“obbligandomi” moralmente a fargli visita ogni giorno facendomi
strada fra la folla di parenti che s’accalcavano nel suo letto
d’ospedale... ma sulla sua morte mentii, chissà, inconsciamente,
avevo desiderato che morisse, perciò dissi quella bugia... oppure,
forse, già si faceva strada la vocazione per la scrittura).
Appena detta la bugia (gli sguardi di tutti compassionevoli su di
me), girai la testa ed abbassai lo sguardo, intanto che Emilio mi
sussurrava dolce:
-Guardami, Francesca, altrimenti come faccio a dirti che ti amo?-
Scappai via di corsa, arrivai al gruppo delle "nostre" cabine,
m'imbattei in mia madre, il tempo di dirle "sto male", mi appartai
in un angolo e, mentre lei mi teneva ben salda la mano fresca
sulla fronte, vomitai: i maledetti peperoni che m'erano rimasti
sullo stomaco!
Dopo circa un’ora venne a cercarmi l'anziano del gruppo, signor
Antimo, un professore (anziano, mo’, avrà avuto 31 anni, ma per me
allora era anziano), io mi ero rannicchiata sulla sdraio (no, non
a pensare ad Emilio, ma al mio stomaco stravolto e al viaggio di
ritorno che m'attendeva (il mio incubo, sarei stata di nuovo
male!). Nell'assopimento sentii confabulare mia madre e signor
Antimo che, da vero signore, non scese in dettagli svelando, così,
alla mia mamma, la mia bugia (il fidanzatino morto in moto!), e
mia madre, da vera signora, non parlò dei peperoni (che mai avevo
digerito!), comunque li sentii concordare sulla mia sensibilità.
Poi quel giorno passò, in pallore cadaverico ritornai a casa,
riapprodando fra le braccia protettive della nonna, che ben
conosceva la mia debolezza di stomaco (e pure era al corrente dei
risvolti con Ciro), e dopo un po’ mi ripresi.
... Ah, volete sapere di Emilio? Ci scambiammo, sì, poi, dei
bacini (di nascosto)... ma non mi piacquero; si vede che con
l'indigestione m’era passato pure l'amore!
Francesca Santucci
Nota
V. Gleijeses, Feste, farina e forca, Società editrice napoletana,
1977, Napoli, p. 246.
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