Gaspara Stampa

(1523 - 1554)

 

                               

EPITAFFIO

Per amar molto ed esser poco amata

visse e morì infelice, ed or qui giace

la più fidel amante che sia stata.

Pregale, viator, riposo e pace,

ed impara da lei, sì mal trattata,

a non seguir un cor crudo e fugace.

Gaspara Stampa, la voce più autentica e spontanea della poesia erotica italiana del sedicesimo secolo, nacque a Padova nel 1523 da una famiglia milanese nobile e colta ma di scarse risorse economiche, perciò costretta a passare al commercio e, nel 1531, alla morte del padre Bartolomeo, si trasferì a Venezia con la madre, il fratello Baldassarre (anche lui poeta) e la sorella Cassandra.
A Venezia tutti e tre i giovani ebbero una buona educazione letteraria ed artistica purtroppo Baldassarre, dalla solida cultura umanistica e ottimo verseggiatore, morì a soli vent’anni, però quest’evento, che pure colpì le donne dolorosamente, non le spinse ad isolarsi e a chiudersi, anzi, ben presto la loro casa divenne centro di vita mondana, aperta ai nobili e ai letterati veneziani, che la frequentavano attratti dalle due sorelle, di bell’aspetto e brave suonatrici e cantatrici; in particolare Gaspara, che conduceva vita libera e spregiudicata, si meritò grande ammirazione per la sua vivacità intellettuale, per l’arte dimostrata nel canto e nella poesia, e per la straordinaria bellezza. 
Pare che Gaspara fosse anche socia dell’Accademia dei Dubbiosi col nome arcadico di Anassilla, nome pastorale che aveva tradotto dal termine latino del Piave (Anaxum), il fiume che bagnava il feudo di Collaltino, l’uomo amato perdutamente, e che prendesse parte alle feste pubbliche allestite dai soci della "Compagnia della Calza", apprezzata e vezzeggiata insieme alla sorella Cassandra.
Frequentando tale ambiente, conducendo un tipo di vita libero, appare evidente che fosse semplice perdervisi, è per questo che, anche se per lungo tempo il calore e l'ingenuità di certi suoi componimenti l’avevano fatta credere una semplice fanciulla amata e poi abbandonata da un gentiluomo veneto, molti studiosi hanno avanzato l’ipotesi che la Stampa praticasse un professionismo d’amore, addirittura che fosse iscritta in un vero e proprio catalogo pubblico con tariffario. Molti elementi inducono, infatti, a pensare che fosse una cortigiana, una di quelle cortigiane colte ed eleganti, d’alto rango, "onesta", come allora si usava dire, di cui specialmente Venezia nel Cinquecento era piena, che vivevano in un ambiente raffinato, composto di nobili e artisti, che avevano il culto della poesia, della musica e delle arti in genere. 
Comunque nessun documento suffraga quest’ipotesi e piace di più pensare che tutto il suo amore sia stato rivolto esclusivamente al conte Collaltino di Collalto e, naturalmente, qualunque sia la sua biografia, di cortigiana oppure no, Gaspara dovette essere una donna che, con prontezza d’ingegno e vivacità, riuscì a vivere in una certa libertà di affetti e di costumi, svincolata da rigidità morale; ciò nulla toglie alla considerazione dei suoi versi, spesso severamente giudicati.
Se è vero, infatti, che alla forza del sentimento non sempre si accompagna una vetta artistica, e che spesso i suoi versi traboccano in una foga verbale tipica più della retorica che della poesia, anche perché l’adesione al petrarchismo la portava alla fredda ripetizione di parole e frasi, tuttavia il fascino emanato dalla spontaneità del sentimento fa dimenticare ogni altra lacuna.
La sua breve vita di donna libera e spregiudicata trascorse, dunque, intensa tra amori fugaci e appassionati, tra i quali dominò la tormentosa relazione d’amore, poi troncata dall’amante, che dal 1548 al 1551 la legò al conte Collaltino di Collalto, di cui pianse la lontananza quando il conte andò in Francia al servizio del re e poi l’abbandono.
Il conte, suo coetaneo, era un mediocre rimatore, un mecenate molto lodato dall’Aretino, che apparteneva ad una valorosa famiglia di discendenza longobardica, proprietaria di tre feudi nella marca trevigiana: il castello di Collalto, non lontano dal Piave, quello di San Salvatore, su una pittoresca collina, e quello di Credazzo e Rai nella pianura. Il Sansovino, anche lui, elogiò il giovane, scrivendo: fu grazioso e gentil cavaliere: fautore delle lettere e amatore dei virtuosi.
Amico di Baldassarre, e dei frequentatori di casa Stampa, Collaltino entrò in relazione con le due sorelle, e presto Gaspara ne restò affascinata. Da parte sua fu un amore sincero, accolto con dedizione totale, un sentimento quasi disperato, specie quando nella giovane si accentuò il senso d’inferiorità rispetto al suo signore, che deve averla amata senza slancio, se pur l’amò, più per vanità che per trasporto.
Collaltino si assentava spesso, era lontano da lei, nei suoi feudi, a Parigi, al seguito del re di Francia o, attratto dal mestiere delle armi, a combattere in giro per l’Italia, e Gaspara soffriva immensamente della lontananza, seguendone le imprese con ansia, aspettandolo con trepidazione e, quando lo sapeva nei suoi feudi, lo raggiungeva al castello, umiliandosi in un amore che riconosceva essere disuguale,  ma al quale non sapeva rinunziare.
Tempestoso e doloroso fu dunque il suo legame con il conte, ma tutto perdonò e tutto accettò in profonda sottomissione per tre anni, infine, sopraffatta dalla propria gelosia, e dalla lontananza e indifferenza dell’uomo, pur essendone ancora innamorata si legò ad un secondo amore, il patrizio veneto Bartolomeo Zen.
In seguito alla separazione dal conte tuttavia il cuore della giovane non si rasserenò, anzi, Gaspara cominciò a ripensare alla tumultuosa vicenda, e ciò fu da preludio a un distacco da quanto avevo reso agitato e febbrile la sua breve esistenza. 
E così, insieme ai sonetti di trepido sbigottimento, troviamo quelli animati da fervore religioso, che pure non placano l’ardore del suo cuore.
Testimonianza di questo grande amore, sicuramente blandamente ricambiato, se non addirittura unilaterale per il conte Collaltino di Collalto, uomo ricco e vanitoso, sfuggente e infedele, sono le Rime, un canzoniere, dedicato a Giovanni Della Casa, che raccoglie trecentoundici composizioni, sonetti, madrigali, canzoni, sestine e capitoli, su modello petrarchesco, una sorta di diario lirico, espressione e strumento del suo sentimento, impostato su schermi bembistici, ma semplificati e liberati dalla ripetitività attraverso l' autentica spontaneità, espressione di una personalità che sembra precorrere certi motivi tipici del Romanticismo, sostenute da grande forza stilistica ed alimentate da un’autentica passione che narrano in gran parte, tra desiderio, gioia, gelosìa, allontanamento, tutta la vicenda amorosa.
Così si espresse Benedetto Croce sulle Rime:
Il canzoniere di Gaspara Stampa non attirò l’attenzione dei contemporanei, troppo letterati per gustare quelle disadorne rime, e poco sensibili alla commossa realtà umana;rimase obliato per circa due secoli, quando fu ridato in luce per la storica vanità dei discendenti di quel feudatario veneto che ella aveva amato ed esaltato nei suoi versi;e, in questa ricomparsa, venne collocato in luce alquanto falsa.E diversamente falsa fu anche la luce che vi riverberò la critica romantica o romanticheggiante, disposta a vedersi raffigurata la vergine illusa, ingannata, tradita e morta dallo schianto. Ma ora che si può leggerlo senza preconcetti sentimentalistici e
moralistici, aiutati altresì dalle indagini degli eruditi su quei circoli della società veneziana nei quali Gaspara visse la sua calda e rapida vita d’arte e di amore, ha ripreso le genuine sembianze e piace in quello che vuol essere ed è: non già alta poesia, ma, come si è detto, un epistolario o un diario d’amore. Altre letterature, e segnatamente la francese, hanno molti di tali famosi epistolari e diari: nella letteratura italiana c’è almeno quest’uno schietto e sincero, in versi.
Nei suoi versi Gaspara confessò l’esaltazione dei momenti felici e mise a nudo le ansie e i turbamenti dell’animo, scosso dai fremiti della gelosia e del sospetto, che si trasformò in dolorosa certezza nel momento dell’abbandono definitivo.
La struttura di questo diario d’amore è dichiaratamente petrarchesca: il canzoniere si apre con un sonetto proemiale, Voi, ch’ascoltate in queste meste rime, e si chiude con una poesia di pentimento. Le citazioni dal Petrarca sono innumerevoli, ma la Stampa non riesce a dominare lo stile e adopera il lessico e i moduli petrarcheschi in modo superficiale ed ingenuo, fermandosi ad un’imitazione di maniera.
Ciò che conferisce grande fascino ai suoi versi è l’ispirazione sincera, che risiede specialmente nella forza e nel tormento della passione, e che l’autrice riesce a far vivere nel testo poetico con accenti di autentica drammaticità. Questa umanità è resa più intensa, in alcuni momenti, dall’acume con il quale la poetessa coglie e indaga le contraddizioni legate al suo stato di cortigiana, non protetta dal matrimonio o da una condizione socialmente accettata; tuttavia la confessione dei moti dell’animo, se ha grande interesse umano e psicologico, nuoce alla riuscita stilistica, perché ostacola il pieno controllo degli strumenti espressivi e danneggia l’equilibrio formale.
Nell’artefatto petrarchismo del tempo tuttavia la Stampa si distingue per la sincerità nuova che vince ogni retorica e la spinge a rivelare un mondo interiore femminile mai confessato prima con tanto coraggio; lampi di desiderio e di passione, colloqui ardenti, soliloqui disperati, abbandono di se stessa alla febbre della passione, illuminazione per una gioia inaspettata, implorazione e abbattimento, struggimento: nelle Rime troviamo espresso tutto il sentimento che squassò la sua anima fino a lasciarle il vuoto che cercò di colmare rivolgendosi a Dio, ma ogni fibra del suo essere era ancora protesa verso il dolce signore, padrone del suo cuore.
Di particolare interesse, poi, i componimenti nei quali rivendica la propria autonomia di scrittrice, il diritto ad avere una propria libertà d’espressione e di sofferenza per amore, sfida insieme alla società e al destino. Essempio infelice del suo sesso si riconosce la Stampa, ma, insieme, non può impedirsi di vivere in foco, di vivere ardendo e non sentire il male, sconsigliando, però, nel contempo le altre donne dal comportarsi come lei: Prendano esempio l’altre che verranno.
Si pensa che Gaspara abbia soggiornato per un certo periodo a Firenze, di certo morì a Venezia nel 1554, dopo quindici giorni di febbre; poco dopo la sorella Cassandra fece pubblicare le sue poesie e tre anni dopo Collaltino di Collalto si sposò.
Le Rime, dopo la prima pubblicazione, caddero nell’oblio per quasi due secoli, solo verso la metà del Settecento, per iniziativa del conte Antonio Rambaldo di Collalto, discendente di Collaltino, ne fu preparata la seconda edizione e, insieme alle poesie della Stampa, furono pubblicati undici sonetti di Collaltino e i versi del fratello di lui, ma è soprattutto in epoca romantica che sarà amata la sua poesia, e ancora ai primi del Novecento un suo celebre verso, viver ardendo e non sentire il male, è fatto proprio dal personaggio più autobiografico di Gabriele d’Annunzio, Stelio Effrena, protagonista del romanzo "Il fuoco" che, a suggello di una particolare concezione della vita, diceva della Stampa: Io so di lei un verso magnifico: Vivere ardendo e non sentire il male.
Fuorviante può essere però questa considerazione estetizzante per la comprensione della Stampa, il cui valore poetico rimane quello d’aver rifiutato l’esperienza retorica dei contemporanei e l’aver piegato la poesia all’uso immediato dell’espressione della sua verità autobiografica, il suo diario amoroso, riconducendo termini e luoghi del dettare sublime al  linguaggio privato, talvolta in trascrizione meccanica del petrarchismo o con l’uso di un linguaggio parlato e prosastico, ma in passione e sincerità, che non può non renderla voce unica nel panorama letterario del Cinquecento.

DALLE RIME:

METAFORA DEL GIACINTO

Quasi vago e purpureo giacinto

che ‘n verde prato, in piaggia aprica e lieta,

crescendo ai raggi del più bel pianeta,

che lo mantien degli onor suoi dipinto,

subito torna languidetto e vinto,

sì che mai non si vide tanta pièta,

se di veder gli usati rai gli vieta

nube, che ‘l sol abbia coperto e cinto,

tal la mia speme, ch’ognor s’erge e cresce,

dinanzi a ‘rai de la beltà infinita,

onde ogni sua virtute e vigor cresce.

Ma la ritorna poi fiacca e smarrita

oscura tema, che con lei si mesce,

che la sua luce fia tosto sparita.

Sonetto elaborato su eleganti corrispondenze metaforiche: l’amato è il sole, l’assenza dell’amato è il venir meno della luce, e la speranza, come il giacinto, vive della presenza e illanguidisce per l’assenza.
L’imitazione del Petrarca si riconosce nei ricorrente binomi aventi funzione ritmica più che semantica: vago e purpureo, aprica e lieta, languidetto e vinto, coperto e cinto, s’erge e cresce, virtute e vigor, fiacca e smarrita.

GIOCHI VERBALI SULLE PENE D’AMORE

Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto;

piangerò, arderò, canterò sempre

(fin che Morte o Fortuna o tempo stempre

a l’ingegno, occhi e cor, stil, foco e pianto)

la bellezza, il valor e ‘l senno a canto

che ‘n vaghe, sagge ed onorate tempre

Amor, natura e studio par che tempre

nel volto, petto e cor del lume santo;

che, quando viene, e quando parte il sole,

la notte e ‘l giorno ognor, la state e ‘l verno,

tenebre e luce darmi e tormi suole,

tanto con l’occhio fuor, con l’occhio interno,

agli atti suoi, ai modi, a le parole,

splendor, dolcezza e grazia ivi discerno.

Versi in lode dell’amato, affollati da coniugazioni verbali, da enumerazioni e corrispondenze incrociate, in cui la Stampa utilizza le unità del lessico amoroso petrarchesco come tessere di un bizzarro mosaico, in un gioco palese, con risultati spesso autoironici.

SCORTA AMOROSA

Il cor verrebbe teco,

nel tuo partir signore,

s’egli fosse più meco,

poi che con gli occhi tuoi mi prese Amore.

Dunque verranno teco i sospir miei,

che sol mi son restati

fidi compagni e grati,

e le voci e gli omèe:

e se vedi mancarti la lor scòrta,

pensa ch’io sarò morta.

 

In questo madrigale il concetto espresso, che era solito essere materia di simili componimenti brevi, acquista originalità per la musicalità sospirosa, che anima immagini lievi e si rompe, infine, quasi in un singhiozzo represso.

 

RIMANDATEMI IL COR

Rimandatemi il cor, empio tiranno,

ch’a sì gran torto avete ed istraziate,

e di lui e di me quel proprio fate,

che le tigri e i leon di cerva fanno.

Son passati otto giorni,a me un anno,

ch’io non ho vostre lettre od ambasciate,

contra le fé che voi m’avete date,

o fonte di valor, conte,e d’inganno.

Credete ch’io sia Ercol o Sansone

A poter sostener tanto dolore,

giovane e donna e fuor d’ogni ragione,

massime essendo qui senza ‘l mio core

e senza voi a mia difensione,

onde mi suol venir forza e vigore?

 

Sonetto tipico della misura media della Stampa ed anche delle sue possibilità più vere e caratteristiche, qui la poesia è piegata ad un uso assolutamente pratico, sconosciuto alla grande lirica; ma proprio in tale uso e nel coraggio dimostrato nell’osarlo, risiede la grande originalità, e forza poetica, della voce della Stampa, nel suo secolo e in generale nella letteratura italiana.

 


    

Francesca Santucci