EPITAFFIO
Per amar molto ed esser poco amata
visse e morì infelice, ed or qui giace
la più fidel amante che sia stata.
Pregale, viator, riposo e pace,
ed impara da lei, sì mal trattata,
a non seguir un cor crudo e fugace.
Gaspara Stampa, la voce più autentica e spontanea della poesia erotica
italiana del sedicesimo secolo, nacque a Padova nel 1523 da una famiglia
milanese nobile e colta ma di scarse risorse economiche, perciò costretta a
passare al commercio e, nel 1531, alla morte del padre Bartolomeo, si trasferì
a Venezia con la madre, il fratello Baldassarre (anche lui poeta) e la sorella
Cassandra.
A Venezia tutti e tre i giovani ebbero una buona educazione letteraria ed
artistica purtroppo Baldassarre, dalla solida cultura umanistica e ottimo
verseggiatore, morì a soli vent’anni, però quest’evento, che pure colpì
le donne dolorosamente, non le spinse ad isolarsi e a chiudersi, anzi, ben
presto la loro casa divenne centro di vita mondana, aperta ai nobili e ai
letterati veneziani, che la frequentavano attratti dalle due sorelle, di bell’aspetto e brave suonatrici e cantatrici; in particolare Gaspara, che
conduceva vita libera e spregiudicata, si meritò grande ammirazione per la sua
vivacità intellettuale, per l’arte dimostrata nel canto e nella poesia, e per
la straordinaria bellezza.
Pare che Gaspara fosse anche socia dell’Accademia dei Dubbiosi col nome
arcadico di Anassilla, nome pastorale che aveva tradotto dal termine latino del
Piave (Anaxum), il fiume che bagnava il feudo di Collaltino, l’uomo amato
perdutamente, e che prendesse parte alle feste pubbliche allestite dai soci
della "Compagnia della Calza", apprezzata e vezzeggiata insieme alla
sorella Cassandra.
Frequentando tale ambiente, conducendo un tipo di
vita libero, appare evidente che fosse semplice perdervisi, è per questo che,
anche se per lungo tempo il calore e l'ingenuità di certi suoi componimenti l’avevano
fatta credere una semplice fanciulla amata e poi abbandonata da un gentiluomo
veneto, molti studiosi hanno avanzato l’ipotesi che la Stampa praticasse un
professionismo d’amore, addirittura che fosse iscritta in un vero e proprio
catalogo pubblico con tariffario. Molti elementi inducono, infatti, a pensare
che fosse una cortigiana, una di quelle cortigiane colte ed eleganti, d’alto
rango, "onesta", come allora si usava dire, di cui specialmente
Venezia nel Cinquecento era piena, che vivevano in un ambiente raffinato,
composto di nobili e artisti, che avevano il culto della poesia, della musica e
delle arti in genere.
Comunque nessun documento suffraga quest’ipotesi e piace di più pensare
che tutto il suo amore sia stato rivolto esclusivamente al conte Collaltino di
Collalto e, naturalmente, qualunque sia la sua biografia, di cortigiana oppure
no, Gaspara dovette essere una donna che, con prontezza d’ingegno e vivacità,
riuscì a vivere in una certa libertà di affetti e di costumi, svincolata da
rigidità morale; ciò nulla toglie alla considerazione dei suoi versi, spesso
severamente giudicati.
Se è vero, infatti, che alla forza del sentimento non sempre si accompagna
una vetta artistica, e che spesso i suoi versi traboccano in una foga verbale
tipica più della retorica che della poesia, anche perché l’adesione al
petrarchismo la portava alla fredda ripetizione di parole e frasi, tuttavia il
fascino emanato dalla spontaneità del sentimento fa dimenticare ogni altra
lacuna.
La sua breve vita di donna libera e spregiudicata trascorse, dunque, intensa
tra amori fugaci e appassionati, tra i quali dominò la tormentosa relazione d’amore,
poi troncata dall’amante, che dal 1548 al 1551 la legò al conte Collaltino di
Collalto, di cui pianse la lontananza quando il conte andò in Francia al
servizio del re e poi l’abbandono.
Il conte, suo coetaneo, era un mediocre rimatore, un mecenate molto lodato dall’Aretino, che apparteneva ad una valorosa famiglia di discendenza
longobardica, proprietaria di tre feudi nella marca trevigiana: il castello di
Collalto, non lontano dal Piave, quello di San Salvatore, su una pittoresca
collina, e quello di Credazzo e Rai nella pianura. Il Sansovino, anche lui,
elogiò il giovane, scrivendo: fu grazioso e gentil cavaliere: fautore
delle lettere e amatore dei virtuosi.
Amico di Baldassarre, e dei frequentatori di casa Stampa, Collaltino entrò in
relazione con le due sorelle, e presto Gaspara ne restò affascinata. Da parte
sua fu un amore sincero, accolto con dedizione totale, un sentimento quasi
disperato, specie quando nella giovane si accentuò il senso d’inferiorità
rispetto al suo signore, che deve averla amata senza slancio, se pur l’amò,
più per vanità che per trasporto.
Collaltino si assentava spesso, era lontano da lei, nei suoi feudi, a Parigi,
al seguito del re di Francia o, attratto dal mestiere delle armi, a combattere
in giro per l’Italia, e Gaspara soffriva immensamente della lontananza,
seguendone le imprese con ansia, aspettandolo con trepidazione e, quando lo
sapeva nei suoi feudi, lo raggiungeva al castello, umiliandosi in un amore che
riconosceva essere disuguale, ma al quale non sapeva rinunziare.
Tempestoso e doloroso fu dunque il suo legame con il conte, ma tutto perdonò
e tutto accettò in profonda sottomissione per tre anni, infine, sopraffatta
dalla propria gelosia, e dalla lontananza e indifferenza dell’uomo, pur
essendone ancora innamorata si legò ad un secondo amore, il patrizio veneto
Bartolomeo Zen.
In seguito alla separazione dal conte tuttavia il cuore della giovane non si
rasserenò, anzi, Gaspara cominciò a ripensare alla tumultuosa vicenda, e ciò
fu da preludio a un distacco da quanto avevo reso agitato e febbrile la sua
breve esistenza.
E così, insieme ai sonetti di trepido sbigottimento,
troviamo quelli animati da fervore religioso, che pure non placano l’ardore
del suo cuore.
Testimonianza di questo grande amore, sicuramente blandamente ricambiato, se
non addirittura unilaterale per il conte Collaltino di Collalto, uomo ricco e
vanitoso, sfuggente e infedele, sono le
Rime, un canzoniere, dedicato a
Giovanni Della Casa, che raccoglie trecentoundici composizioni, sonetti,
madrigali, canzoni, sestine e capitoli, su modello petrarchesco, una sorta di
diario lirico, espressione e strumento del suo sentimento,
impostato su schermi bembistici, ma semplificati e liberati dalla ripetitività
attraverso l' autentica spontaneità, espressione di una personalità che
sembra precorrere certi motivi tipici del Romanticismo, sostenute da grande
forza stilistica ed alimentate da un’autentica passione che narrano in gran
parte, tra desiderio, gioia, gelosìa, allontanamento, tutta la vicenda amorosa.
Così si espresse Benedetto Croce sulle Rime:
Il canzoniere di Gaspara Stampa non attirò l’attenzione dei
contemporanei, troppo letterati per gustare quelle disadorne rime, e poco
sensibili alla commossa realtà umana;rimase obliato per circa due secoli,
quando fu ridato in luce per la storica vanità dei discendenti di quel
feudatario veneto che ella aveva amato ed esaltato nei suoi versi;e, in questa
ricomparsa, venne collocato in luce alquanto falsa.E diversamente falsa fu anche
la luce che vi riverberò la critica romantica o romanticheggiante, disposta a
vedersi raffigurata la vergine illusa, ingannata, tradita e morta dallo
schianto. Ma ora che si può leggerlo senza preconcetti sentimentalistici e
moralistici, aiutati altresì dalle indagini degli eruditi su quei circoli della
società veneziana nei quali Gaspara visse la sua calda e rapida vita d’arte e
di amore, ha ripreso le genuine sembianze e piace in quello che vuol essere ed
è: non già alta poesia, ma, come si è detto, un epistolario o un diario d’amore.
Altre letterature, e segnatamente la francese, hanno molti di tali famosi
epistolari e diari: nella letteratura italiana c’è almeno quest’uno
schietto e sincero, in versi.
Nei suoi versi Gaspara confessò l’esaltazione dei momenti felici e mise a
nudo le ansie e i turbamenti dell’animo, scosso dai fremiti della gelosia e
del sospetto, che si trasformò in dolorosa certezza nel momento dell’abbandono
definitivo.
La struttura di questo diario d’amore è dichiaratamente petrarchesca: il
canzoniere si apre con un sonetto proemiale, Voi, ch’ascoltate in queste meste
rime, e si chiude con una poesia di pentimento. Le citazioni dal Petrarca sono
innumerevoli, ma la Stampa non riesce a dominare lo stile e adopera il lessico e
i moduli petrarcheschi in modo superficiale ed ingenuo, fermandosi ad un’imitazione
di maniera.
Ciò che conferisce grande fascino ai suoi versi è l’ispirazione sincera,
che risiede specialmente nella forza e nel tormento della passione, e che l’autrice
riesce a far vivere nel testo poetico con accenti di autentica drammaticità.
Questa umanità è resa più intensa, in alcuni momenti, dall’acume con il
quale la poetessa coglie e indaga le contraddizioni legate al suo stato di
cortigiana, non protetta dal matrimonio o da una condizione socialmente
accettata; tuttavia la confessione dei moti dell’animo, se ha grande interesse
umano e psicologico, nuoce alla riuscita stilistica, perché ostacola il pieno
controllo degli strumenti espressivi e danneggia l’equilibrio formale.
Nell’artefatto petrarchismo del tempo tuttavia la Stampa si distingue per
la sincerità nuova che vince ogni retorica e la spinge a rivelare un mondo
interiore femminile mai confessato prima con tanto coraggio; lampi di desiderio
e di passione, colloqui ardenti, soliloqui disperati, abbandono di se stessa
alla febbre della passione, illuminazione per una gioia inaspettata,
implorazione e abbattimento, struggimento: nelle Rime troviamo espresso tutto il
sentimento che squassò la sua anima fino a lasciarle il vuoto che
cercò di colmare rivolgendosi a Dio, ma ogni fibra del suo essere era ancora
protesa verso il dolce signore, padrone del suo cuore.
Di particolare interesse, poi, i componimenti nei quali rivendica la propria
autonomia di scrittrice, il diritto ad avere una propria libertà d’espressione
e di sofferenza per amore, sfida insieme alla società e al destino. Essempio
infelice del suo sesso si riconosce la Stampa, ma, insieme, non può
impedirsi di vivere in foco, di vivere ardendo e non
sentire il male, sconsigliando, però, nel contempo le altre donne dal
comportarsi come lei: Prendano esempio l’altre che verranno.
Si pensa che Gaspara abbia soggiornato per un certo periodo a Firenze, di
certo morì a Venezia nel 1554, dopo quindici giorni di febbre; poco dopo la
sorella Cassandra fece pubblicare le sue poesie e tre anni dopo Collaltino di
Collalto si sposò.
Le Rime, dopo la prima pubblicazione, caddero nell’oblio per quasi due
secoli, solo verso la metà del Settecento, per iniziativa del conte Antonio
Rambaldo di Collalto, discendente di Collaltino, ne fu preparata la seconda
edizione e, insieme alle poesie della Stampa, furono pubblicati undici sonetti di Collaltino
e i versi del fratello di lui, ma è soprattutto in epoca romantica che sarà
amata la sua poesia, e ancora ai primi del Novecento un suo celebre verso,
viver ardendo e non sentire il male, è fatto proprio dal
personaggio più autobiografico di Gabriele d’Annunzio, Stelio Effrena,
protagonista del romanzo "Il fuoco" che, a suggello di una particolare concezione
della vita, diceva della Stampa: Io so di lei un verso magnifico: Vivere
ardendo e non sentire il male.
Fuorviante può essere però questa considerazione estetizzante per la
comprensione della Stampa, il cui valore poetico rimane quello d’aver
rifiutato l’esperienza retorica dei contemporanei e l’aver piegato la poesia
all’uso immediato dell’espressione della sua verità autobiografica, il suo
diario amoroso, riconducendo termini e luoghi del dettare sublime al linguaggio privato,
talvolta in trascrizione meccanica del petrarchismo o con l’uso di un linguaggio parlato e prosastico, ma in passione e sincerità, che
non può non renderla voce unica nel panorama letterario del Cinquecento.
DALLE RIME:
METAFORA DEL GIACINTO
Quasi vago e purpureo giacinto
che ‘n verde prato, in piaggia aprica e lieta,
crescendo ai raggi del più bel pianeta,
che lo mantien degli onor suoi dipinto,
subito torna languidetto e vinto,
sì che mai non si vide tanta
pièta,
se di veder gli usati rai gli vieta
nube, che ‘l sol abbia coperto e cinto,
tal la mia speme, ch’ognor s’erge e cresce,
dinanzi a ‘rai de la beltà infinita,
onde ogni sua virtute e vigor cresce.
Ma la ritorna poi fiacca e smarrita
oscura tema, che con lei si mesce,
che la sua luce fia tosto sparita.
Sonetto elaborato su eleganti corrispondenze metaforiche: l’amato è il
sole, l’assenza dell’amato è il venir meno della luce, e la speranza, come
il giacinto, vive della presenza e illanguidisce per l’assenza.
L’imitazione del Petrarca si riconosce nei ricorrente binomi aventi
funzione ritmica più che semantica: vago e purpureo, aprica e lieta,
languidetto e vinto, coperto e cinto, s’erge e cresce, virtute e vigor, fiacca
e smarrita.
GIOCHI VERBALI SULLE PENE D’AMORE
Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto;
piangerò, arderò, canterò sempre
(fin che Morte o Fortuna o tempo stempre
a l’ingegno, occhi e cor, stil, foco e pianto)
la bellezza, il valor e ‘l senno a canto
che ‘n vaghe, sagge ed onorate tempre
Amor, natura e studio par che tempre
nel volto, petto e cor del lume santo;
che, quando viene, e quando parte il sole,
la notte e ‘l giorno ognor, la state e ‘l
verno,
tenebre e luce darmi e tormi suole,
tanto con l’occhio fuor, con l’occhio interno,
agli atti suoi, ai modi, a le parole,
splendor, dolcezza e grazia ivi discerno.
Versi in lode dell’amato, affollati da coniugazioni verbali, da enumerazioni e corrispondenze incrociate, in cui la Stampa utilizza le unità
del lessico amoroso petrarchesco come tessere di un bizzarro mosaico, in un gioco palese, con risultati spesso
autoironici.
SCORTA AMOROSA
Il cor verrebbe teco,
nel tuo partir signore,
s’egli fosse più meco,
poi che con gli occhi tuoi mi prese Amore.
Dunque verranno teco i sospir miei,
che sol mi son restati
fidi compagni e grati,
e le voci e gli omèe:
e se vedi mancarti la lor scòrta,
pensa ch’io sarò morta.
In questo madrigale il concetto espresso, che
era solito essere materia di simili componimenti brevi, acquista originalità per
la musicalità sospirosa, che anima immagini lievi e si rompe, infine, quasi in
un singhiozzo represso.
RIMANDATEMI IL COR
Rimandatemi il cor, empio tiranno,
ch’a sì gran torto avete ed istraziate,
e di lui e di me quel proprio fate,
che le tigri e i leon di cerva fanno.
Son passati otto giorni,a me un anno,
ch’io non ho vostre lettre od ambasciate,
contra le fé che voi m’avete date,
o fonte di valor, conte,e d’inganno.
Credete ch’io sia Ercol o Sansone
A poter sostener tanto dolore,
giovane e donna e fuor d’ogni ragione,
massime essendo qui senza ‘l mio core
e senza voi a mia difensione,
onde mi suol venir forza e vigore?
Sonetto tipico della misura media della Stampa ed anche delle sue possibilità
più vere e caratteristiche, qui la poesia è piegata ad un uso assolutamente
pratico, sconosciuto alla grande lirica; ma proprio in tale uso e nel coraggio
dimostrato nell’osarlo, risiede la grande originalità, e forza poetica, della
voce della Stampa, nel suo secolo e in generale nella letteratura italiana.
Francesca
Santucci
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