Adriano Napoli

 


 

L’orizzonte dei Cani di pietra

 

Ho scritto I cani di pietra in poche ore di un pomeriggio di luglio dello scorso anno, costretto a stare in casa per un acquazzone. Mi sono seduto alla scrivania  , ho acceso il pc e ho cominciato a tentare sulla tastiera una combinazione di parole, più che altro per ingannare il tempo. Credo che avesse ragione Alberto Savinio a sospettare che , dopo una lunga consuetudine,una misteriosa simbiosi, un fluido subliminale leghi le dita dello scrittore ai tasti della macchina per scrivere,fino al punto che quest’ultima possa "sentire" e dare forma all’ispirazione dell’autore quasi leggendogli nel pensiero e , più dentro ancora, nel più profondo dell’inconscio.  Sta di fatto che, inaspettatamente ,ho letto in carattere maiuscoletto sullo schermo del mio portatile una breve frase  : "La parola genera mostri", e subito ho capito che era il verso che stavo cercando da tempo e che un mondo ancora informe ma desideroso di svelarsi ormai mi assorbiva prepotentemente nella sua eco. Dopo quel verso , che è effettivamente  diventato l’incipit  della raccolta,ho sentito che tutto il disegno era già chiaro. Ricordavo bene che qualcosa di analogo mi era successo anni prima quando, dopo aver cincischiatoun pomeriggio intero  su un foglietto di carta una serie di tentativi infruttuosi, un verso perfetto e di abbacinante verità mi aveva guidato la mano nella composizione della prima poesia veramente compiuta della mia vita .Il verso era: "Ora cercheremo insieme il sonno", incipit di una poesia che intitolai Domani e che poche settimane dopo ebbi la soddisfazione di vedere pubblicata nella rubrica "Scuola di poesia" de "Lo Specchio della Stampa"(febbraio  1998).
Poche settimane dopo scrissi quindici composizioni che decisi di inviare al "Premio Internazionale di poesia Eugenio Montale" organizzato a Roma dall’omonimo Centro presieduto da Maria Luisa Spaziani . Ottenni la vittoria nella sezione "inediti" e un anno più tardi (maggio 1999) quei testi apparvero nell’antologia (l’ultima di una lunga serie!!) di Vanni Scheiwiller " 7 Poeti del Premio Montale 1998". Fu molto più arduo trovare un titolo per quelle composizioni. Ne avrei fatto volentieri a meno. Alla fine mi risolsi a battezzare un titolo artatamente impoetico, fuorviante, direi addirittura insipido: Visitando antiche dimore, ma perché mai? Si trattava, necessariamente, di escogitare ,almeno nel titolo ,un deterrente, un argine  a una tramatura di versi tutti giocati sul registro patetico e solenne dell’elegia. Quelle poesie erano un requiem per mio padre, la dolcezza della partitura strofica e metrica, il  malioso caribo di quel verso "retrattile" (così lo definì la Spaziani nella preface al libro) lasciavano emergere a tradimento, paradossalmente ancora più nitido e crudo,  il grumo feroce di un dolore che solo in poesia ho saputo circoscrivere e sentire nella sua incessante profondità. Quelle poesie seppero raggiungere (si, direi proprio autonomamente: ancora mi ostino a credere nella loro vitalità propria , ribelle ai miei limiti e pudori) un equilibrio tra dolore e Grazia , coniugando elegia e crudezza, fino a trascendere le mie povere intenzioni , i miei progetti ,ancora una volta(e per fortuna) destinati ad annullarsi in qualcosa di più semplice e più vero ; in alto, molto più in alto dei pozzi profondi del mio pensare .
A distanza di un lustro anche questa nuova raccolta mi appare visitata dalla medesima Grazia. Come una pianta allevata con cura e sapienza da mani esperte e amorevoli , ma fecondata nel mistero della terra e del seme ( e chi di noi , direbbe il grande Franco Loi, saprà mai dire di che cosa è fatto un seme?). Questa volta il titolo non era un "trompe-l-oeil"., ma il cuore dell’ispirazione , il battito stesso  di quei versi.In quei giorni di estate vagabondavo per i miei paesi quotidianamente. Portavo con me qualche libro ( ho riletto i Canti orfici) ma soprattutto mi lasciavo innamorare dai paesaggi che , per un poeta, sono creature viventi e partecipi. Gaiano, Castiglione, Frassineto, Fontana, Carpineto, e più di tutte Villa di Fisciano sono i nomi che contengono in un solo sentimento  la mia nostalgia ( nostos: ritorno) e il mio bisogno di spingere millimetricamente più avanti l’orizzonte. Questo sono io. A Villa , poche case presepio accucciate intorno a una chiesa matrice con un campanile vagamente moresco, mi fermavo in  prossimità di una casetta contornata da alberi e fiori , incorniciata da muri bassi chiusi da un cancello con due pilastri sormontati da due statuine: due cani di pietra appunto, che guardano  fisso i tramonti della vallata dell’Irno , e abbracciano in un solo sguardo gli edifici del campus universitario , le cittadine di Mercato e di Baronissi, la campagna sterminata di viti ,nocelleti e castagni, e lontana, quasi un serpente  formicolante di notte, l’autostrada per Roma. Quella che prendo io tutte le volte che devo partire, nuovamente , per intraprendere altre strade. I cani guardano li, verso quel confine. Mi ha fatto tremare l’intuizione che ogni mia partenza, ogni mio ritorno siano presagiti , carezzevolmente guidati da questi custodi di pietra. Nello stesso periodo, ad aumentare il pathos , ho scovato prima in Internet e dopo in una libreria un libretto intitolato ……."Cani di pietra", un’antologia di raffinati epicedi di poeti rinascimentali in morte dei più illustri signor e cortigiani del tempo.. Ecco un’altra epifania presentita e timorosamente tenuta nei miei pozzi più profondi prima che la poesia  la facesse riemergere: la "nekya", la discesa nel giù , nel mondo da cui non si torna, e quel dialogo irrimediabile eppure nutritivo con i morti che ha scandito i versi più profondi del mio lavoro di poeta.
Sta di fatto che questa epifania polisemica dei cani di pietra  mi ha aperto tante possibilità: di inscrivere  in un paesaggio familiare tante immagini e cose che da sempre nutrono memoria e destino e di cui sentivo il desiderio di riappropriarmi ( mio padre, la casa, la campagna che mi ha visto nascere, mia nonna, e persino il mio gattino nero che mi ha fatto compagnia per anni  e ed è morto l’estate scorsa , con la stessa discrezione con cui era vissuto,  acciambellata macchiolina nera  su di una bianca poltrona nel cortile di casa) ; ma soprattutto una riflessione essenziale sulla parola poetica e sul suo "valore". Non a caso vorrei ricordare ancora il verso e la poesia proemiali. Questa poesia riflette a ben vedere su se stessa. Tenta  a se stessa di chiarire la sua necessità. Non è pertanto esatto calcare l’accento SOLO sulla gradazione di memoria , di nostalgico revival del passato che pure permea questi versi, bensì, come ho già detto, contemperarne la potenzialità  in un equilibrio difficile ma qui miracolosamente compiuto tra nostos e necessità di nuovi viaggi, nuove partenze. La memoria dei cani di pietra è una bergsoniana "evoluzione creatrice", svela e denuda un io che è fatto di tutti i sogni che ha sognato e delle azioni che ha compiuto, ma questa corrente impetuosa è proiettata in avanti, la prepotenza del suo passato già sfocia nelle acque impalpabili di ciò che sarà . E’ costruzione , è destino. Ecco perché ho immaginato una forza "eiaculatrice" negli occhi dei cani di pietra. E di questa forza  è , parzialmente,poveramente,ma con innamorata compartecipazione fisica e ascolto di  ciò che è autentico , la parola poetica che in questi versi e prose , dieci in tutto, ho cercato di testimoniare nel suo destino di avvenimento , nel cuore della sua incessante metamorfosi.

Adriano Napoli

I cani di pietra