dal libro "Donna non sol ma torna musa all'arte"

di Francesca Santucci

 Maria di Francia

 

(secolo XII)

                               

Di Maria di Francia, la più antica poetessa francese, vissuta in Inghilterra nella seconda metà del XII, non sappiamo quasi nulla.
Nacque in Normandia ma visse e operò in Inghilterra, dal 1160 al 1190, sotto il dominio normanno, nell’ambiente cortese dominato da Aliénor, la duchessa d’Aquitania che, sposando in seconde nozze Enrico II il Plantageneto, portò in Inghilterra, come già aveva portato nella Francia del nord, la cultura trobadorica.
Donna di grande cultura, che conosceva il latino, il francese, l’inglese, scrisse un Isopet (raccolta di favole esopiche così chiamate dal nome dell’inventore delle favole, Esopo) che rinnovavano la tradizione della favola latina ed erano molto in voga già nell’XI secolo, ma è celebrata soprattutto per i suoi lais (la parola è di origine bretone e significa, etimologicamente, canzone), racconti fiabeschi, novelle in versi, brevi
poemi narrativi in ottonari rimati (il più lungo, Eliduc, consta di quasi 1200 versi, il più breve, Il caprifoglio, non arriva a 120) intrisi di malinconìa e dolcezza, che i menestrelli bretoni recitavano accompagnandosi con una specie di arpa detta rote, che stanno al grande romanzo cortese come la novella ai nostri romanzi moderni e che figurano tra i più tipici esempi della letteratura cortese.
Dei lais ne restano una dozzina, di lunghezza variabile tra i 118 e i 1184 versi; redatti probabilmente prima del 1170, narrano vicende bretoni, spesso collegate al ciclo arturiano.
Componimento caratteristico è Guigemar, in cui un giovane cavaliere, che sdegna l’amore, per opera di una fata viene asservito alle sue leggi; dopo molte avventure lui e la sua dama si legano per sempre, cingendosi con un duplice nodo, simbolo della loro indissolubile fedeltà.
La poesia di Maria di Francia si distingue per la delicatezza e la grazia con le quali descrive i sentimenti di donne infelici per amore, in uno spazio sospeso tra favola e leggenda, e il suo mondo è quello incantato della "materia di Bretagna": la realtà trascolora, senza sforzo, in sortilegio magico, i contorni delle cose sfumano e palpitano sotto l’urgenza di una carica interiore di fantasia e di incantesimo.
Si ha spesso l’impressione che Maria attinga a larghe mani a un fondo di leggende, di tradizione orale, di un preciso contenuto da iniziati, che ella utilizza senza comprenderne a fondo la portata, sedotta esclusivamente dal loro incomparabile valore di poesia.
Tale è certamente il caso di Lanval, il mortale amato da una fata (o una dea?), che si assicura una felicità ultraterrena, ma a patto di rinunciare a questa vita e di abbandonare tutto se stesso nelle mani esigenti della sua immortale compagna; rielaborazione del vecchio mito della creatura che vende la sua anima al diavolo, che diviene invece, sotto la penna di Maria, una delicata storia d’amore, dai colori splendidi come una miniatura.
Anche Eliduc è una novella fiabesca malinconica e delicata; celebre la parte finale, con l’episodio della donna e la singolare prova d’amore che la tenera e materna Guildeluec dà al suo sposo, innamorato di un’altra donna e disperato per la morte di lei: Guildeluec la salverà, la condurrà dal marito e, pur di renderlo felice, restituirà a quest’ultimo la libertà e lei prenderà il velo.
Il delicato poemetto il Lai du Chèvrefeuille, Il caprifoglio, rappresenta invece il solo esempio giunto fino a noi di incursione, da parte di Maria di Francia, nella materia della leggenda di Tristano, esempio particolarmente felice, in cui la poetessa dà tutta la misura della sua finezza e sensibilità.
Siamo nel momento in cui Tristano, bandito dalla Corte per la denuncia di cortigiani invidiosi che hanno svelato il segreto del suo amore, langue per la lontananza di Isotta: incapace di resistere ulteriormente, torna in Cornovaglia, si nasconde nella foresta e riesce a comunicare alla dama la sua presenza con un messaggio convenzionale. Per un breve momento i due possono incontrarsi e scambiarsi lacrime e carezze, ma subito la dura realtà che li separa riprende il sopravvento e ciascuno deve ripartire per la sua strada: la Regina verso la Corte e il fasto che non hanno per lei alcun significato, il povero proscritto verso l’esilio e l’incerto domani.
Questo il semplice episodio, ma sarebbe difficile citare un altro testo in cui con eguale senso dell’arte sia puntualizzato lo struggimento infinito che costituisce l’essenza dell’amore di Tristano e Isotta.


da LANVAL

…Dentro a quella tenda era la damigella. Passava di bellezza il giglio e la rosa novella, quando appare ver l’estate. Giaceva su di un bellissimo letto (che le lenzuola valevano un castello) con la semplice camicia; era di forme belle e gentili. In parte la riparava un prezioso mantello di bianco ermellino, coperto di porpora alessandrina; ma lasciava libero il fianco, il petto, il collo e il viso; era più bianca che fior di spina.
Il cavaliere si fece innanzi e la damigella lo chiamò a sé; egli si assise di fronte al letto: "Lanval"- diss’ella;bell’amico, per voi sono uscita fuor della mia terra, di lontano sono venuta a cercarvi. Se voi siete prode e cortese, né imperatore né conte né re ebbe mai tanta gioia e tanti beni, ché io v’amo sopra ogni cosa".
Egli la mirò e sì la vide bella; amore lo punse d’una scintilla, che s’apprese al suo cuore e lo infiammò. Rispose con bel garbo:
"Bella dama, se a voi piaccia, e m’avvenga tal gioia d’esser amato da voi, eseguirò a mio potere ogni vostro comando, e sia volto a follia od a saggezza. Io vi servirò e abbandonerò tutti per voi. Chiedo d’esservi sempre vicino: quest’è la cosa che più desidero".
Quando la damigella udì ch’egli poteva amarla a tal segno,gli accordò il suo affetto e il suo cuore.
Ora è Lanval per la diritta via! Dopo, ella gli fece tal dono, che mai non vorrà cosa, di cui non abbia a suo talento: doni e spenda largamente, ch’ella gli fornirà quanto basta. Ora è Lanval ben provveduto! Più spenderà riccamente più avrà oro ed argento.
"Amico" diss’ella "ora vi ammonisco; ve ne prego e raccomando, non iscoprite la cosa a nessuno. Vi basti sapere che m’avrete perduta per sempre se altri conoscerà quest’amore; non mi potrete vedere, né possedere mai più."
Egli risponde che terrà fede al suo comando…


da ELIDUC:

LE DUE MOGLI DI ELIDUC

…La moglie prende con sé il valletto che la guida nell’eremo. Quando entrò nella cappella,vide il letto della fanciulla che pareva una rosa novella;le tolse la coperta e vide quel corpo così snello,le lunghe braccia e le mani bianche,le dita sottili, lunghe e lisce. Ora sa la verità,sa perché il suo signore soffriva tanto. Chiamò il valletto e gli mostrò quella meraviglia:";Vedi" dice "questa donna che è bella come una gemma?E’ l’amica del mio signore,per lei egli soffre tanto. Davvero non me ne stupisco,poiché è morta una donna così bella. Sia per pietà che per amore,mai più sarò felice".
Comincia allora a piangere e lamentare la morte della fanciulla.Si sedette in lacrime davanti al letto. Arrivò correndo una donnola, era uscita da sotto l’altare, e il valletto la colpì, perché era passata su quel corpo, la uccise con un bastone che aveva.La gettò in mezzo alla navata.In un attimo, accorse una sua
compagna, vide dov’era distesa.Le girò attorno al capo e più volte la pestò con la zampa. Poiché non riuscì a farla alzare, cominciò, così pareva, a disperarsi. Uscì dalla cappella, corse fra le erbe del bosco, coi denti prese un fiore tutto di color vermiglio. Tornò velocemente indietro;lo mise in bocca alla sua compagna che il valletto aveva ucciso, e subito eccola tornata in vita.
La dama l’ha scorta, e grida al valletto:"Tienila, colpisci, da bravo, non deve scappare!" E l’altro tirò, la colpì facendole cascare il fiorellino. La dama si alza e lo prende, torna rapidamente indietro, dentro la bocca della fanciulla mette quel fiore tanto prezioso. Trascorse un po’ di tempo, e quella rinvenne e sospirò. Poi parlò e aprì gli occhi:"Dio mio", dice,quanto ho dormito!"

IL CAPRIFOGLIO

Assai mi piace, e ben lo voglio, del lai che si chiama "Caprifoglio" ch’io vi narri il vero, come fu fatto, ed in quale occasione. Molti me lo hanno detto e raccontato, ed io l’ho trovato in iscritto, di Tristano e della regina, del loro amore che fu tanto fino, ond’ebbero tanti dolori, e poi ne morirono nello stesso giorno.
Il re Marco era in corruccio: s’era adirato con Tristano suo nipote: lo licenziò dalla sua terra perché amava la regina. Quegli se n’è andato al suo paese, nel Sudgalles dov’era nato; vi rimase un anno intero, ché non gli era dato far ritorno; ma poi si mise in abbandono di morte e rovina.
Non dovete farne meraviglia: perché chi ama lealmente è ben dolente e affannato quand’è privo di ciò che desidera.
Dolente e pensoso è Tristano: perciò si diparte dal suo paese; se ne va diritto in Cornovaglia, là dove abitava la regina. Tutto solo si caccia nella foresta, ché non voleva essere veduto; sull’imbrunire se ne usciva, quand’era tempo di ripararsi, e alloggiava la notte coi contadini e la povera gente. Chiedeva loro le notizie di quel che faceva il re; e quelli gli dicono di aver sentito che i baroni erano chiamati da un bando: debbono venire a Tintagel, il re vi vuole tener festa, per la Pasqua di rose ci saranno tutti; vi sarà gran gioia e diletto, e col re sarà la regina.
Tristano l’udì; se ne allietò molto; essa non potrà far quel cammino ch’egli non la veda passare.
Il giorno che il re si mosse, Tristano è tornato nel bosco lungo la strada che, a quel che sapeva, avrebbe percorso il corteo. Tagliò per mezzo un nocciòlo, e lo squadrò per bene. Poi ch’ebbe pronto il bastone, col coltello vi scrisse il suo nome.
Se la regina se ne accorgerà, ch’essa vi stava molto attenta – altra volta le era accaduta che l’aveva scorto così – ben conoscerà nel vederlo il segnale dell’amico suo.
Ecco in breve quant’egli le aveva scritto: che a lungo era stato colà, e soggiornato in attesa, per ispiare e conoscere come avrebbe potuto vederla, perché non poteva vivere senza di lei. Di loro due era proprio com’è del caprifoglio che s’apprende al corilo: quando s’è allacciato e avvinto e s’è messo tutt’intorno al fusto, insieme possono ben durare; ma chi poi vuol separarli, presto il corilo se ne muore e del pari il caprifoglio. "Bell’amica, così è di noi: né voi senza di me, né io senza di voi". La regina se ne vien cavalcando; guardò tutto un declivio, vide il bastone: ben lo ravvisò e vi distinse ogni lettera. Ai cavalieri che la scortavano e procedevano insieme, tosto comandò di fermarsi: voleva scendere e riposare; essi hanno obbedito.
La regina si allontana dalla sua gente, chiama a sé la sua ancella, Brangania, che le era molto fida. Si scostò alquanto dalla strada; entro il bosco trovò colui che amava più d’ogni cosa al mondo. Fra loro si danno a un gran giubilo. Egli le parlò a tutto suo agio, ed ella gli manifestò il suo piacere; poi gli espose in qual modo potrà conciliarsi col re e che molto le era spiaciuto che gli avesse dato congedo: per le altrui accuse vi si era indotto.
A tanto si diparte, lascia l’amico suo; ma mentre si separavano, ecco si misero a piangere. Tristano ritornò al paese di Galles, fin che suo zio lo fece chiamare
Per la gioia che aveva avuta della sua donna, quel dì riveduta, e, volle così la regina, per rimembrar le parole che le aveva scritto, Tristano che ben sapeva arpeggiare ne aveva composto un nuovo lai.
Senz’altro ne dirò il nome: "Gotelef" lo chiamano gl’Inglesi, e i Francesi "Chevrefoil".
Detta vi ho la verità del lai che ho qui narrato.

Francesca Santucci