Vittoria Colonna

(1492-1547)

                            

A Vittoria Colonna

 

Un uomo in una donna, anzi uno dio,

per la sua bocca parla,

ond'io per ascoltarla

son fatto tal, che ma'  più sarò mio.

I' credo ben, po' ch'io

a me da lei fu' tolto,

fuor di me stesso aver di me pietate;

sì sopra 'l van desìo

mi sprona il suo bel volto,

ch'io veggio morte in ogni altra beltate.

O donna che passate

per acque e foco l'alme

a' liei giorni,

deh, fate c'a me stesso più non torni.

(Rime, Michelangelo))

E' Michelangelo Buonarroti che dedica questi versi a Vittoria Colonna, una delle donne più illustri e colte del Rinascimento, figlia  di Agnese di Montefeltro e del principe e condottiero Fabrizio.
Ammirata e stimata nella società letteraria dell'epoca, divise il suo tempo fra il convento di Viterbo, dove si dedicò alla poesia e a programmi di rinnovamento religioso, e Roma, dove, nel 1536, conobbe Michelangelo, che l'amò  e al quale fu  legata da una grande affinità spirituale e da una stretta corrispondenza epistolare pubblicata postuma. 
Michelangelo nutrì sempre una grande ammirazione nei suoi confronti; per lei eseguì diversi disegni di soggetto religioso, le dedicò varie rime, tra cui un famoso madrigale, e fu stimolato dal suo esempio ad approfondire la propria fede.
Nata nel 1492 a Marino, sui Colli Albani, feudo della nobile famiglia dei Colonna, Vittoria ricevette una raffinata educazione improntata agli studi umanistici e, nel 1509, a soli diciannove anni, sposò,  nell'isola d'Ischia, l'uomo che le era stato predestinato sin da bambina su preciso disegno del Re di Napoli, Francesco Ferrante d’Avalos, marchese di Pescara e capitano  generale delle truppe imperiali di Carlo V, al quale fu sempre devota e fedele, seguendone da lontano le vicende e trepidando per la sua sorte, nonostante il matrimonio fosse scaturito da motivi politici e l'uomo si assentasse spesso richiamato dai doveri militari.
Il 5 dicembre del 1525 il marito, dopo una vita densa di avvenimenti, e con la prospettiva di una possibile successione al Regno di Napoli, morì in seguito alle ferite riportate nella battaglia di Pavia, lasciando la moglie in un grande sconforto. 
Rimasta sola e senza figli, Vittoria avrebbe voluto entrare in convento, ma ne fu dissuasa da papa Clemente, tuttavia, dopo un periodo in cui fu molto legata agli ambienti culturali napoletani, riuscì ugualmente ad isolarsi dalla società  per servire Dio con più dedizione, trascorrendo il resto della sua vita in modo austero e quasi claustrale, prodigandosi in opere di carità, vagabondando in varie città d'Italia, spostandosi da un convento all'altro e appassionandosi alle dispute religiose.
Animata da una forte tensione spirituale, e da severe esigenze riformatrici,  per qualche tempo condivise anche le tesi di Juan de Valdés e di Bernardino Ochino, che predicavano la riforma della Chiesa, e che poi abbandonò quando costoro aderirono al Protestantesimo.
Proprio negli anni della vedovanza Vittoria divenne il simbolo dello spiritualismo cinquecentesco; compendiando in sé fede cattolica e filosofia platonica,  partecipe delle inquietudini religiose  e dell'esigenza di riforma e restaurazione morale della Chiesa dell'epoca, si dedicò ad un'intensa vita intellettuale, ma anche al culto della memoria del marito. 
Morì a Roma nel 1547, nel convento delle suore benedettine di Sant’ Anna, dove si era ritirata a vivere dopo un'esistenza caratterizzata da continue crisi spirituali e religiose.
La figura e la produzione poetica di Vittoria Colonna sono la perfetta espressione del secolo in cui visse; in connubio profondo di cristianesimo e platonismo, interpretò le esigenze e le speculazioni degli intellettuali del tempo, e proprio per le sue postulazioni  filosofiche i suoi versi risultano intrisi di "logicità" piuttosto che di "passione", con una forza di persuasione che suscitò l'ammirazione dei contemporanei e che fece ravvisare in lei, da Michelangelo, Un uomo in una donna, anzi uno dio.
Vasto è il corpus della sua produzione poetica,  ristampato spesso anche dopo la morte, che, oltre alle Rime, comprende anche il Pianto sulla passione di Cristo e l'Orazione sull'Ave Maria, e cospicui i versi dedicati al marito, che fece pubblicare solo quando furono trascorsi  dieci anni di lutto.
Le Rime, che attualizzano gli schemi petrarcheschi, edite a Venezia nel 1544, suddivise in due parti, le rime amorose e le rime spirituali,  armoniosamente legate fra loro, hanno il chiaro intento di magnificare l'eroica figura del marito e sono ispirate da riflessioni religiose e morali che rispecchiano interamente, anche nello stile, sovente considerato troppo concettoso e freddo, più intellettuale che sentimentale,  la sua virtuosità e rigorosità.
Nella prima parte sono raccolti i versi dedicati appunto alla celebrazione delle virtù cavalleresche di Ferrante, accoratamente rimpianto e considerato  guida e sostegno morale , nella seconda abbiamo le rime di ispirazione più propriamente religiosa, dove trovano spazio l'espressione della sensibilità per i temi della fede e delle  profonde meditazioni di Vittoria Colonna, ed anche l'esigenza di un rinnovamento della Chiesa.


QUAND'IO RIGUARDO IL MIO SI' GRAVE ERRORE

Quand'io riguardo il mio sì grave errore,

confusa al Padre Eterno il volto indegno

non ergo allor, ma a te, che sovra il legno

per noi moristi, volgo il fedel core.

 

Scudo delle tue piaghe e del tuo amore

mi fo contro l'antico e novo sdegno,

tu sei mio vero prezioso pegno,

che volgi in speme e gioia ansia e timore.

 

Per noi su l'ore estreme umil pregasti,

dicendo: Io voglio, o Padre, unito in cielo

chi crede in me, sì ch'or l'alma non tene.

 

Crede ella e scorge (tua mercé) quel zelo

del quale ardesti sì, che consumasti

te stesso in croce e le mie colpe insieme.

 

MADRIGALE

Il bianco e dolce cigno

cantando muore, ed io

piagnendo giungo al fin del viver mio.

Strana e diversa sorte:

ch'ei muore sconsolato,

ed io moro beato!

Dolce e soave morte,

a me vie più gradita

d'ogni gioiosa vita!

Morte, che nel morire

m'empi di gioia tutto e di desire,

per te son sì felice

ch'io moro e nasco al par de la fenice.


Francesca Santucci