|
A Vittoria Colonna
Un uomo in una donna, anzi uno dio,
per la sua bocca parla,
ond'io per ascoltarla
son fatto tal, che ma' più sarò mio.
I' credo ben, po' ch'io
a me da lei fu' tolto,
fuor di me stesso aver di me pietate;
sì sopra 'l van desìo
mi sprona il suo bel volto,
ch'io veggio morte in ogni altra beltate.
O donna che passate
per acque e foco l'alme
a' liei giorni,
deh, fate c'a me stesso più non torni.
(Rime, Michelangelo))
E' Michelangelo Buonarroti che dedica questi versi a
Vittoria Colonna, una delle donne più illustri e colte del
Rinascimento, figlia di
Agnese di Montefeltro e del principe e condottiero Fabrizio. Ammirata e stimata nella società letteraria dell'epoca, divise il suo tempo fra il convento di Viterbo, dove si
dedicò
alla poesia e a programmi di rinnovamento religioso, e Roma, dove, nel
1536, conobbe Michelangelo, che l'amò e al quale fu legata da una grande affinità
spirituale e da una stretta corrispondenza epistolare pubblicata postuma. Michelangelo nutrì sempre una
grande ammirazione nei suoi confronti; per lei eseguì diversi disegni di soggetto religioso, le
dedicò varie rime, tra cui un famoso madrigale, e fu stimolato dal suo
esempio ad approfondire la propria fede. Nata nel 1492 a Marino, sui Colli Albani,
feudo della nobile famiglia dei Colonna, Vittoria
ricevette una raffinata educazione improntata agli studi umanistici e, nel
1509, a
soli diciannove anni, sposò, nell'isola d'Ischia, l'uomo che le era stato predestinato sin da
bambina su preciso disegno del Re di Napoli, Francesco Ferrante d’Avalos, marchese di Pescara e
capitano generale delle truppe imperiali di Carlo V, al quale fu sempre devota e fedele,
seguendone da lontano le vicende e trepidando per la sua sorte, nonostante
il matrimonio fosse scaturito da motivi politici e l'uomo
si assentasse spesso richiamato dai doveri militari. Il 5 dicembre del 1525 il marito,
dopo una vita densa di avvenimenti, e con la prospettiva di una possibile successione
al Regno di Napoli, morì in seguito alle ferite riportate nella battaglia
di Pavia, lasciando la moglie in un grande sconforto. Rimasta
sola e senza figli, Vittoria avrebbe voluto entrare in convento, ma ne fu
dissuasa da papa Clemente, tuttavia, dopo un periodo in cui fu molto
legata agli ambienti culturali napoletani, riuscì ugualmente ad isolarsi
dalla società per servire Dio con più dedizione, trascorrendo il resto
della sua vita in modo austero e quasi claustrale, prodigandosi in opere di carità,
vagabondando in varie città d'Italia, spostandosi da un convento all'altro
e appassionandosi alle dispute religiose. Animata da una forte
tensione spirituale, e da severe esigenze riformatrici, per qualche
tempo condivise anche le
tesi di Juan de Valdés e di Bernardino Ochino, che predicavano la riforma
della Chiesa, e che poi abbandonò quando costoro aderirono al
Protestantesimo. Proprio negli anni della
vedovanza Vittoria divenne il simbolo dello spiritualismo cinquecentesco;
compendiando in sé fede cattolica e filosofia platonica, partecipe
delle inquietudini religiose e dell'esigenza di riforma e
restaurazione morale della Chiesa dell'epoca, si dedicò ad un'intensa vita intellettuale,
ma anche
al culto della memoria del marito. Morì a Roma nel 1547, nel convento delle suore
benedettine di Sant’ Anna, dove si era ritirata a vivere dopo
un'esistenza caratterizzata da continue crisi spirituali e religiose. La figura e la produzione
poetica di Vittoria Colonna sono la perfetta espressione del secolo in cui
visse; in connubio profondo di cristianesimo e platonismo, interpretò le
esigenze e le speculazioni degli intellettuali del tempo, e proprio per le
sue postulazioni filosofiche i suoi versi
risultano intrisi di "logicità" piuttosto che di "passione", con una forza
di persuasione che suscitò l'ammirazione dei contemporanei e che fece
ravvisare in lei, da Michelangelo, Un uomo in una donna, anzi uno
dio. Vasto è il
corpus della sua produzione poetica, ristampato spesso anche dopo la morte, che, oltre alle Rime, comprende anche
il Pianto sulla passione di Cristo e l'Orazione sull'Ave Maria,
e cospicui i versi dedicati al
marito, che fece pubblicare solo quando furono trascorsi dieci
anni di lutto. Le Rime, che attualizzano gli schemi
petrarcheschi, edite a Venezia nel
1544, suddivise in due parti, le rime amorose e le rime spirituali, armoniosamente legate fra loro, hanno il
chiaro intento di magnificare l'eroica figura del marito e sono ispirate da
riflessioni religiose e morali che rispecchiano interamente, anche nello stile,
sovente considerato troppo concettoso e freddo, più intellettuale che
sentimentale, la sua virtuosità e
rigorosità. Nella prima parte sono raccolti i versi dedicati
appunto alla celebrazione delle virtù cavalleresche di Ferrante, accoratamente rimpianto
e considerato guida e sostegno morale , nella seconda abbiamo le rime di ispirazione più propriamente
religiosa, dove trovano spazio l'espressione della
sensibilità per i temi della fede e
delle profonde meditazioni di Vittoria Colonna, ed anche l'esigenza
di un rinnovamento della Chiesa.
QUAND'IO RIGUARDO IL MIO SI' GRAVE
ERRORE
Quand'io riguardo il mio sì grave errore,
confusa al Padre Eterno il volto indegno
non ergo allor, ma a te, che sovra il legno
per noi moristi, volgo il fedel core.
Scudo delle tue piaghe e del tuo amore
mi fo contro l'antico e novo sdegno,
tu sei mio vero prezioso pegno,
che volgi in speme e gioia ansia e timore.
Per noi su l'ore estreme umil pregasti,
dicendo: Io voglio, o Padre, unito in cielo
chi crede in me, sì ch'or l'alma non tene.
Crede ella e scorge (tua mercé) quel zelo
del quale ardesti sì, che consumasti
te stesso in croce e le mie colpe insieme.
MADRIGALE
Il bianco e dolce cigno
cantando muore, ed io
piagnendo giungo al fin del viver mio.
Strana e diversa sorte:
ch'ei muore sconsolato,
ed io moro beato!
Dolce e soave morte,
a me vie più gradita
d'ogni gioiosa vita!
Morte, che nel morire
m'empi di gioia tutto e di desire,
per te son sì felice
ch'io moro e nasco al par de la fenice.
Francesca Santucci
|