Gianmario Lucini
Uccelli 1
Sovente vengono uccelli al davanzale e beccano miche di pane. Lo specchio dei vetri nasconde al loro fervido scrutare il mio immobile sostare di minaccia e trattengo il respiro. C’è un lieve diaframma di vetro fra la mia mano e quel serico morbido piumaggio ma l’occhio scruta l’ambiguo al di là con curioso sospetto e coraggio, cuore in gola e respiro affannato. Finestra chiusa che pur dà vita se morte s’accontenta di guardare... 2 Chissà se un pensiero dentro il capino arruffato dai réfoli del vento, chissà se pensa, l’uccello. Si china presto sul pane e becca a scatti, intento indaga ogni senso, il moto impercettibile del mio corpo – la musica, invece, la musica lo blocca, come se un terribile dio lo chiamasse e un’improvvisa luce lo folgorasse in pieno giorno. Ascolta Mozart con attenzione l’uccello – un po’ meno la musica rock delle grandi occasioni. 3 Il più saggio è il merlo – così pare. Il maschio ha il becco giallo ed è più scuro, più sprovveduto e meno attento ai miei piccoli raggiri: un lento impercettibile moto del capo - così, per vedere se mai mi noti – o uno scatto quand’esso guarda altrove, un fischio sottile, modulato, un parlare a lui tu per tu per celiare. Ma s’avvede subito la femmina e non sta al gioco: spicca un saltello, s’immerge nell’aria guadagna un cespuglio – più non la scorgi. 4 Perché nutrire con miche di pane questi gracili spietati carnivori mi chiedo a volte, ma, si sa l’inverno è duro e la nostra coscienza d’uomini sempre confusa e insicura - e non sarà mai come nutrire di carcasse di loro specie le vacche e l’avventura ignobile che n’è seguita. Noi siamo diversi gli uccelli ed io, nel patto provvisorio di qualche mese invernale: tu becchi da davanzale, io ti spio. 5 Hai mai veduto il passero meditare? se ne sta sul davanzale, proteso sull’abisso come a contemplare davanti a sé il mare dei prati, l’inatteso sole marzolino che a vita lo richiama; o forse ascolta quell’adagio mozartiano che da oltre il mistero pare ravvivare di toni più vivi il giallo e il verde di fine inverno. Che pensiero misterioso può essere il pensare d’un passero, rabbuffate le piume al primo vento che lo punge; e che strano sentimento m’incute il vederlo sulla pietra nuda nell’aria appena stemprata senza più miche di pane – poi che, avanti, in breve una famelica truppa tutto ha divorato. E’ come la nottola della filosofia che giunge dopo la festa del giorno, ristà, dice e non dice ma non se ne va via... 6 Talvolta, quando il cibo è poco li senti vociare, begare, in frulli d’ali brevi assalti e micidiali, beccate malandrine e fughe di lato sul cornicione: uno strepito molesto che ti distoglie – segno che devi aumentare quel poco conteso tesoro, coi resti d’un pane e qualche granaglia. Ma anche se il bottino s’accresce e sazia i convitati, non scema la schermaglia e anzi cresce – come a dire che non è saziare la fame vera conquista ma un affare più fino, un perché non necessariamente connesso a un fatto che si riporti a una ragione. La festa dura sempre troppo se si ha poco e poco pare sempre quel ch’è troppo. E a chi se ne sta fuori rimane solo il chiasso. 7 Graziosi e indifesi batuffoli che pulsano e fremono che inteneriscono e incutono un sentimento etico ed estetico. Ma non fidarti dell’apparenza: se fossi un verme sapresti di voraci spietati assassini che si muovono come macchine di morte – e quel morbido piumaggio ti parrebbe un abito non certo indossato da monaco. Sono anche, nel genere mammifero, simili spietati animali pur se non hanno l’ali, non divorano ma fanno a pezzi le vittime. 8 Ed è il mattino l’ora degli uccelli. Quando arrossa il cielo dell’aurora, il cinguettare acuto ti distoglie da un meccanico seguitare il rito d’un tragitto, che ti porta alla morte lenta dell’impiegato. Fanno allegra gazzarra e solo il botto improvviso del petardo d’un ragazzo - è carnevale – o un improvviso strappo al procedere del ritmo regolare del mattino li zittisce per un breve, o quando s’annuncia un’ubbia di neve e la cappa del cielo preme oscura. Sono parte del mondo, essi, natura incarnata che vive e muore un poco giorno per giorno, allegri in divenire senza cura di morte vivono immortali. 9 Ed è la sera un fioco pigolare dopo il furioso battere di cuore del giorno – quando il loro dio allegro ramato, sanguinando s’inabissa nella tragedia cupa della notte. E’ un recitare il senso del mistero, il mito d’un’ambigua sorte che si decide nella notte precaria. Sanno e forse non sanno gli uccelli gli orpelli del giorno e l’ansie della notte ma nella tresca obliqua del destino il loro mondo in pace ritagliano al nostro parallelo e s’abbandonano inermi alla sorte – resistere è agire ch’essi ignorano, quasi felici.
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