Gianmario Lucini
In memoriam
Il 6 febbraio di quest’anno cade il decimo anniversario della morte di David Maria Turoldo, frate dei Servi di Maria, teologo, poeta, uomo di straordinaria sensibilità e generosità segnate da una caratteristica che lo distingue nel panorama culturale del secondo novecento: la passione per l’uomo. Verrebbe da obiettare, anche al più sprovveduto dei lettori di poesia, che Turoldo fu un grande poeta religioso, un salmista (come il re David), forse il maggior scrittore di poesie religiose del nostro ‘900 e che, dunque, si dovrebbe dire che la caratteristica principale del suo canto fu la passione per Dio. Ma, a mio avviso, non trovo contraddizione in questi due aspetti perché, a ben vedere, sono la stessa cosa. La passione infatti è una grande forza morale, una fonte preziosa di energia che, fatalmente, o la si volge al positivo, in favore-di, - e dunque in amore-per – o la si volge al negativo, e si avrà allora un sentimento di distruttività, di squalifica, di rancore, di odio per la vita: il grande male come lo chiamerà Turoldo. La passione per Dio e per l’uomo sono pertanto la stessa cosa (come dicono le scritture, Cristo stesso, S. Paolo, ecc.), così come una poesia per l’uomo, in ultima analisi, è anche una fatto religioso. Mi si conceda questa affermazione, che non posso qui sviluppare e argomentare, per non discostarmi dal tema. D’altra parte, la consapevolezza di Turoldo su questo punto è persino dichiarata: “Vivi di noi. / Sei / la verità che non ragiona. / Un Dio che pena / nel cuore dell’uomo”. Turoldo incarnava, anche fisicamente, questa grande forza morale, così grande da essere contenuta a fatica, da infiammarsi e provocare scandalo in certi ambienti tiepidi e benpensanti del cattolicesimo pre-conciliare (e anche post-conciliare, a ben vedere). Appunto da questo contesto, da questo momento storico (gli anni della 2° guerra mondiale), prenderò gli spunti per tentare alcune considerazioni sulla prima opera di Turoldo, (mi fermo infatti al commento della prima raccolta del poeta, Io non ho mani, scritta appunto in quegli anni - dal 1935 in poi - e insignita, nel 1947, del Premio Saint-Vincent). Gli anni della guerra sono cruciali per la formazione del giovane poeta. Nel 1940 è ordinato Sacerdote e inviato, con l’inseparabile confratello Camillo De Piaz (l’amico e consigliere di Turoldo, del quale si fidava più che di se stesso) a Milano. Lì il poeta inizia, fra mille difficoltà e fortemente turbato dalla complessa realtà metropolitana, la sua attività ministeriale, in estrema povertà. Viene iscritto, con Camillo, all’Università Cattolica ed ha fra i suoi maestri un filosofo del calibro di Bontadini (che lo vorrà poi ad Urbino come assistente di filosofia teoretica), e il grande critico Mario Apollonio, che incoraggiò la sua vocazione letteraria. Sono anche gli anni in cui le contraddizioni del regime fanno nascere la resistenza; Turoldo e De Piaz, con alcuni amici e alcuni docenti dell’Università Cattolica, fondano il giornale clandestino L’Uomo (non a caso, questo titolo [1]), che ha il merito di contrapporre all’odio e al vuoto del nazifascismo, un umanesimo cristiano basato su una radicale interpretazione del Vangelo, segnatamente del comando “ama il tuo nemico”. Tutto ciò si contrappone, coraggiosamente e con una intuizione già in linea con i più avanzati princìpi del Concilio Vaticano II di vent’anni dopo, alla cultura clerico-fascista (come la definirà Pasolini) e nazi-fascista da una parte, e le culture laiche (liberali, socialisti ecc.) dall’altra che, pur nella sostanziale motivazione umanistica del loro antifascismo, nondimeno tolleravano o comunque non reprimevano con il dovuto vigore posizioni, seppur isolate, di giustizialismo sommario e sentimenti di vendetta – che poi esplosero, certo in pochi e isolati casi, nei giorni immediatamente seguenti la caduta del fascismo, in vicende di massa e individuali, non certo degne della levatura morale della Resistenza [2]). In ogni caso, l’esperienza di questa rivista fu molto complessa e non liquidabile con questi pochi accenni e senz’altro ne parleremo in futuro. Nella prima raccolta poetica di Turoldo [3] emergono appunto questi temi: la sofferenza fisica e spirituale, la passione e la rivolta, il sentimento della propria scomodità, l’amore per l’uomo e la denuncia del “grande male”, il nulla, da non confondere con il Nulla mistico, altro tema della poesia turoldiana, che sarà onnipresente negli ultimi lavori, incrociandosi con il tema del dubbio e dell’inquietudine esistenziale simboleggiati dal personaggio di Qohélet. A quel tempo, sollecitato da Apollonio, la sua poesia prende le mosse dall’ermetismo di Ungaretti (che in seguito gli dedicherà una nota in prefazione alla seconda raccolta, Udii una voce, del 1952), ma già in questa prima opera poco c’è di ermetico: la parola di Turoldo si libera nella sua naturalezza popolare e contadina, diretta non tanto ai letterati, quanto agli amici, alla gente, all’uomo. Si percepisce, anche da una lettura superficiale, che la preoccupazione del poeta è principalmente quella di farsi capire, di comunicare contenuti a più livelli di comprensione, per sensibilità raffinate e acculturate, ma anche per lettori occasionali. Per Turoldo, in fin dei conti, la poesia è solo un genere letterario per dire ciò che gli sta più a cuore: non è mai un fatto principalmente, estetico, condizionato da particolari convenzioni o forme o artifici o dettami di una certa corrente. La voce di Turoldo è già, fin dal primo momento, sua e irripetibile, orientata alla calma interiore del Salmo e della Laude che, io credo, siano i modelli “letterari” più diretti della sua ispirazione. Non che esprima una “calma”, beninteso, ma provenendo da una grande burrasca, di cui porta segni e ferite, punta a una zona di calma mistica. In ogni sua poesia è possibile notare l’atteggiamento dell’orante: un tono alto pur nella semplicità del linguaggio, un’allusione profonda pur nella semplicità della parola. Non ci si rivolge al Trascendente con parole forbite e con la preoccupazione estetica, ma col messaggio diretto, spontaneo, salvando l’im-mediatezza del sentimento. Un poeta come Turoldo scriveva, per così dire, alla presenza del Trascendente, con i pensieri orientati a/da questa presenza, in questo orizzonte di senso, anche quando non si riferisce esplicitamente a Dio. L’analisi testuale mostra che moltissimi sono i riferimenti extratestuali alle Sacre Scritture, di cui Turoldo fu un grande studioso [4] – ed appunto le Sacre Scritture, in modo esemplare i Vangeli, ma anche le espressioni religiose dei popoli antichi, sono l’esempio più diretto di questa concretezza e immediatezza espressiva, che pur si presta a diversi livelli di profondità interpretativa, riuscendo ad esprimere messaggi che tutti, a seconda della loro cultura, compresi i bambini, riescono a decodificare e interiorizzare. Taluni sostengono che la poesia religiosa sia un genere a parte, in ragione della particolare natura dei temi ivi trattati: non tutti infatti credono nella trascendenza e pertanto per essi, questa poesia, risulterebbe estranea. Non voglio soffermarmi su questo aspetto [5], che produrrebbe innumerevoli considerazioni e argomentazioni. Resta comunque in fatto che, in Turoldo, il riferimento religioso è sempre strettamente intrecciato, come si diceva, alle vicende umane, alla storia, alla vita sociale, e sicuramente, nel suo caso, il problema non si pone, se consideriamo l’opera in senso globale – è comunque indubbio che, in alcune poesie, avulse dal contesto delle raccolte entro le quali sono state collocate dall’autore, c’è il confronto diretto Io/Dio, ossia la preghiera vera e propria. Ma, in sostanza, che differenza c’è, agli effetti della cosiddetta “poeticità”, fra un modo di scrivere “secolare” e un modo di scrivere “religioso”? A mio avviso nessuna, se non nel tono e nell’intenzione. Il tono “alto” di Turoldo, lo è in modo spontaneo, quasi per coerenza interna ad un modo naturale di rapportarsi con il Trascendente – nel quale la sua passione trovava un freno per non dilagare e bruciare se stessa. Il poeta “secolare” non necessariamente ha presente, nel suo orizzonte mentale, la trascendenza, quando scrive. In Turoldo nulla – come si diceva-, neppure un verso, è scritto senza la presenza di questo orizzonte, che è la sua ancora, il suo punto di riferimento che gli permette di trovare un senso anche nel vuoto e nei dolorosi paradossi dell’esistenza, impedendo a questa sua passione di tramutarsi in paralizzata disperazione di fronte a troppe domande che non possono trovare risposte logicamente accettabili (come accadrà in Camus, ad esempio). Ciò che cambia non è quindi la “poeticità” del testo, ma il suo contenuto, la sua intenzione: dal punto di vista artistico-estetico non c’è differenza. Peraltro la poesia di Turoldo, ha una precisa proposta innovativa, proprio per le ragioni che ho sopra esposto e che si riferiscono alla straordinaria polisemia di questo linguaggio, capace di farsi intendere da culture e sensibilità molto diverse fra di loro. Questo è un aspetto della sua poesia che senza dubbio metterei in rilievo, perché, oltre a presentare, in anticipo sui tempi, forti tratti innovativi nella poesia italiana, può essere considerato una valida proposta stilistica e disciplinare, tutta ancora da scoprire. Non ci nascondiamo infatti che, se la poesia in Italia è poco letta, non dipende soltanto dal lettore incolto e insensibile, ma anche dalla incapacità dei versi di veicolare contenuti simbolici, senso; le vicende della poesia di questi ultimi decenni purtroppo, così segnate da preoccupazioni più estetiche, tecniche, linguistiche, ecc. piuttosto che comunicazionali, sono, a mio avviso, una delle cause del disamore del lettore per la poesia. Anche i nostri massimi esponenti (non voglio qui fare nomi) sono a volte difficili da leggere, come se la qualità del testo sia proporzionale alla sua difficoltà interpretativa. Vedo pertanto nella scrittura semplice e cristallina di Turoldo, una possibile via per un rinnovamento stilistico, anche formale: su questo non ho dubbi. E mi sembra un dato, questo, da sottolineare con forza, evitando anche l’errore opposto a quello menzionato poc’anzi, ossia di giudicare la poesia religiosa in quanto religiosa (e quindi con un valore che possa reggersi a prescindere dalla sua validità artistica). Questa nota pertanto intende riferirsi al Turoldo poeta, non al Turoldo scrittore di belle preghiere in versi: intende essere “laica”, ma non può ovviamente prescindere dall’evidente riferimento religioso di temi e figure (e, d’altra parte, è banale notare che la poesia, nelle sue prime manifestazioni storiche, è quasi del tutto religiosa, dal poema di Gilgamesh, ai testi vedici, al Cantico dei Cantici, ai Salmi, alla Teogonia di Esiodo, ecc. – la religione è pertanto un fatto storico e antropologico, un’espressione tipica dell’umano, che trova nella poesia il suo naturale linguaggio). Oserei dire che questo onnipresente legame fra spiritualità religiosa e poesia, fu il motore stesso della produzione artistica di Turoldo: a un certo punto, leggendo le sue opere, viene da pensare che egli non potesse dedicare nessun pensiero alla sua spiritualità senza che ne uscisse un verso, come per suggellare con la sublimità della parola poetica il pensiero stesso. Solo in questo modo possiamo conciliare il dato della sua forma mentis (logica, estremamente sottile, abituata ai ragionamenti filosofici e teologici, argomentativa e dialettica) con il risultato di questa passione che esce nella poesia: ciò che diventa verso è una sicurezza del pensiero (pur soggettiva, ben inteso) che si tramuta in emozione e in sentimento. Quello che accade nei Salmi, nel libro di Giobbe, nel Qohèlet. Ma non solo: in emozione e sentimenti fortemente ancorati al presente, alla vicenda personale e collettiva di quegli anni, durissimi, per lui e per Milano. Prendiamo una poesia a caso, la prima:
MEMORIA
E’ la memoria una distesa di campi assopiti e i ricordi in essa chiomati di nebbia e di sole.
Respira una pianura rotta solo da eguali ciuffi di sterpi:
in essa unico albero verde la mia serenità.
E’ facilmente rintracciabile, in questa breve poesia, il senso di quanto ho detto sopra. Dal punto di vista dello stile e della struttura, è riconoscibilissima la forma ermetica delle prime poesie ungarettiane, persino dalla prosodia di alcuni versi (si noti ad esempio: “Respira / una pianura / rotta solo”). Ma è una poesia che persino un bambino può leggere traendone un qualche messaggio adatto a lui, oppure un contadino, un operaio di Milano. Il linguaggio è volutamente semplice, senza fronzoli o giochi di parole, ma fortemente evocativo (si noti, in così poche righe, il richiamo di importanti archetipi: la nebbia, il sole, gli sterpi, la pianura, l’albero). A livello profondo le cose cambiano: la poesia mostra una complessità se riferita a una situazione sociale e politica, della quale è innegabile la metafora. E’ leggibile anche come riferimento alla vicenda umana del poeta in quegli anni. E infine è leggibile in senso religioso, come affidamento al trascendente (essenzialmente per l’ultimo verso, del quale non vedo altra interpretazione possibile: il fatto stesso di dichiarare una “serenità” significa che la si è ottenuta, al suo prezzo, e basandosi su qualcosa o su Qualcuno – il senso della trascendenza, appunto, sottesa dal movimento ascensionale dell’albero nei “campi assopiti” fra “eguali ciuffi d’erba”: il senso dell’orizzontale cui si contrappone il verticale nella figura del poeta-albero). Senza una interpretazione riferita al trascendente, la poesia perderebbe gran parte del suo significato e sarebbe stemprata; l’ultimo verso si perderebbe in un’immagine quasi di maniera, senza alcun significato vivo. E’ insomma una poesia che parla di un movimento, una crescita, una salita pur se in una condizione di impedimento, di radicamento, di difficoltà. Il quotidiano-storico è rintracciabile peraltro in quasi tutte le poesie; soprattutto è interiormente vissuto, ma in alcune allusioni si riferisce a fatti accadutigli personalmente. Come la vicenda che lo vide, assieme a padre Camillo, rifiutare di prestare servizio religioso nelle parrocchie milanesi con lo stesso spirito (diffuso nel clero del tempo) col quale uno va in ufficio o in fabbrica, per un compenso (col quale peraltro sostenere il convento). La poesia che suggella quell’avvenimento, si intitola, appunto VICENDA, ed è fatta di una sola quartina:
Finalmente ho disturbato la quiete di questo convento altrove devo fuggire e rompere altre paci.
Il riferimento extratestuale, in questo caso, è l’allusione a Mt. 10,34: “sono venuto a portare la spada”, che è poi il richiamo alla radicalità dell’impegno religioso, a costo di turbare quella “quiete” che, in molti casi, è tolleranza del lassismo in nome del quieto vivere (qui entra in gioco il Super Io del poeta, che coincide essenzialmente con l’idea religiosa). Così, anche in altre vicende soprattutto politiche e sociali che lo videro coinvolto in seguito. Se c’è una chiave di lettura dei suoi atteggiamenti “rivoluzionari” (o, come si diceva negli anni ’70 con una punta di disprezzo esibito con una certa spocchia: “cattocomunisti” [6]), va ricercata in questo fondamento, perché la passione di Turoldo non fu mai ideologica e segnata da un dogmatismo di parte (neppure di parte religiosa), ma fondata sull’interpretazione di un modello di vita proposto dal messaggio dei Vangeli, accolto certo come verità, ma sempre criticamente, in modo aperto e disponibile a mettersi in discussione con chiunque. Non fu invero una fede remissiva e passiva, quella di Turoldo, ma una fede sofferta sino all’ultimo, come lasciano intendere le ultime e problematiche raccolte (significativo è il richiamo insistente al principe Qohèlet, negli ultimi lavori, il personaggio forse più “scettico” di tutta la Bibbia, e certo il più vicino al moderno disorientamento di cui parlava già Nietzsche ne La gaia Scienza [7]).. Già in questa prima raccolta si profila il tema fondamentale della poesia di Turoldo, che sarà la ricerca del significato del male e del dolore, l’inquietudine per il dolore degli innocenti che pagano il male commesso da altri, l’ingiustizia insita nella stessa condizione umana. E’ il tema della teodicea, dunque, vecchio e sofferto argomento della teologia e della filosofia (l’ultimo Schelling ad esempio, che teorizzava la provenienza del tutto dall’Essere e quindi, di conseguenza, l’impossibilità che il Male e il Nulla potessero aver fondamento fuori da questo Essere, pena l’accettazione del principio dualistico in filosofia), ma è anche il tema di una sofferta ricerca psicologia e antropologica, che già troviamo in autori come Dostoewskij; o di un sofferto interrogarsi della contemporanea filosofia esistenzialista (autori come Sartre, il giovane Pareyson, Marcel), della letteratura (emblematico sarà poi il romanzo “La peste”, di Camus), della scoperta del vuoto e del niente esistenziale peraltro già annunciati da Nietzsche – sentimento che si esprimerà con opere come La nausea e Il muro di Sartre, Gli indifferenti di Moravia, fino allo splendido racconto “La notte”, di Wiesel o anche il dramma “Il processo di Shamgorod”, editi da Giuntina, ecc. L’esperienza della guerra, la sua crudeltà, la sfiducia nella natura umana e lo scetticismo verso il futuro, caratterizzano la cultura dell’epoca e sfoceranno, nell’immediato dopoguerra, in movimenti di pensiero ed espressioni artistiche caratterizzati da profonda impasse mentale. Il giovane Turoldo prende di petto l’argomento, ad esempio con questa intensa poesia:
IL SEGRETO DI CAINO
Ormai sono uomo senza mistero. Già dal primo bruciato meriggio ho visto il volto di Dio.
Ormai sono vacuità assoluta; deserto orrido serale, solo con l’amara gioia di non incontrarmi più.
Ora sovrasta la notte, ma con lena cammino ancora solo a lasciare orme sull’arsa duna; e gli altri a dire: «fino là oltre andò a esplorare...».
Oh! dietro a nessun inganno io corro! un’unica sete amo che mi allunga la vita.
Ma se tra i campi restavo coi bruti che più amo a far solchi e poi stanco dormire roco su qualunque selciato, questo m’avrebbe forse fatto pago?
Torture del cuore mi hanno spinto sul fratello pastore, ad avere pietà di lui; la voluttuosa pietà di provare cos’era l’uccidere; poi da torture d’Iddio a patire.
E non ho ucciso per essere solo (la solitudine mia fu purulento tumulto di foce a cui s’aggruma la feccia di fracide alghe).
Urlando per sopraffare l’assurdo silenzio che m’inseguiva dalle selve fuggii a costruire città.
Non ho ucciso per gelosia d’Iddio: verso lui nell’offrirgli primizie la faccia tenevo ostinatamente in seno.
Non perché vedessi le fiere lanciarsi su fiere; ricordo, tutto era placido ancora, sommerso in pace profonda come vergine in sonno. Avevano ancora un sorriso innocente le cose.
Mi sono annerite d’un tratto le vene, un misterioso essere danzava in me. Fu rotto alfine l’atroce equilibrio. Silenzio delle cose dell’anima rotto alfine da Caino.
E d’allora scavai con le mani la fossa ma senza morire: là dentro m’insegue l’immane ruggito di tutti i ricordi: ora io cerco l’infinito silenzio, e attendo che dentro mi getti Qualcuno.
E’ una poesia straordinaria non soltanto dal punto di vista artistico. Tralascio qui ogni commento, tant’è evidente la sua scultorea potenza e bellezza, che rammenta certi quadri del Gottuso neorealista, ma è straordinaria anche per la precisione con la quale viene delineata la vicenda esistenziale dell’uomo contemporaneo, radicato nella sua hybris, ingenuamente e smisuratamente fiducioso nelle possibilità della scienza e della tecnica, del pensiero, nonostante gli orrori della guerra siano la diretta conseguenza di questa hybris. Qui la denuncia di Turoldo anticipa dei temi che porteranno, lentamente dagli anni ’60 in poi e con un processo non ancora del tutto concluso, i “paradigmi” culturali delle discipline umane e delle scienze umanistiche, su posizioni ben diverse rispetto ai paradigmi positivisti: posizioni segnate da sofferenza e da criticismo – che giungeranno in molti casi a degli eccessi di criticismo, o di critica al criticismo stesso, che si risolveranno nelle dottrine scettiche, relativiste, deboliste, destrutturaliste, ecc.: tutte di grande interesse, ancora in movimento e ancora foriere di nuovi fermenti culturali. Ma, a differenza di queste posizioni, essenzialmente filosofiche, la poesia esistenzialista (e insieme molto concreta) di Turoldo sembra additare una via antropologica, che passa attraverso la duplice relazione con l’uomo e con la trascendenza. Il criticismo di Turoldo si ferma dunque alla denuncia e fa appello direttamente alla coscienza sollecitando una risposta e un cambiamento, né si lascia mai prendere la mano dal metodo o da una dialettica che non fa i conti con la libertà (logica e meccanica, dunque). Qui il poeta emerge e il pensatore resta in secondo piano: al poeta non interessa il ragionamento, ma una via im-mediata, intuitiva, verso ciò che ritiene una verità, prendendo in prestito soltanto le convenzioni, il linguaggio di un certo contesto culturale, nel quale poter esprimere questa sua verità. Il criticare, il contestare, il discutere, trovano in Turoldo sempre un’indicazione evolutiva verso una soluzione, certo non argomentata razionalmente, che egli addita sempre nella religione (e dunque una soluzione “forte”, anche se aliena da pretese dogmatiche [8]). Per questo le sue poesie, pur trattando tematiche cruciali e fortemente ansiogene, non lasciano mai quel senso di precarietà e di inquietudine presenti anche in alcuni importanti autori, come ad esempio Pavese o, più tardi, Testori, la Rosselli, ecc. La tensione in Turoldo si scioglie, anche se resta tutta l’amarezza della constatazione, il senso della propria inanità di fronte alle tragedie collettive, come è ben espresso nella poesia che dà il titolo alla raccolta:
IO NON HO MANI
Io non ho mani che mi accarezzino il volto, (duro è l’ufficio di queste parole che non conoscono amori) non so le dolcezze dei vostri abbandoni: ho dovuto essere custode della vostra solitudine: sono salvatore di ore perdute.
Se gioia vi è, deve essere gioia di tutti (“Sposata hai / una pena / di non sentire mai / dolcezza alcuna / che non sia di tutti”): cosa impossibile, che lo mette davanti alla scelta: o una pena che si fa carico di una pena collettiva, o il ritorno al personale-individuale (“ed ora vorresti / andartene in pace / in quest’orlo di città / in queste ghirlande / di bimbi a dimenticare”), intravisto come “possibilità” sulla quale si basa la libertà di una scelta. Se dunque il suo ruolo ministeriale è quello di assumersi questa collettiva “pena” e di darle voce, la sua poesia non sarà che strumento, voce di questa pena; ecco dunque che il poeta individua il suo ruolo, sia di uomo che di artista. Pena e ruolo che trovano espressione in alcune poesie semplici e insieme “diverse” anche nello stile, che non è ormai più ermetico ma personale:
POVERA CHE DORME ENTRO GIORNALI
C’è una povera in via Ciovasso che non può camminare, e dorme entro giornali nessuno di quelli che stanno di sopra ha tempo di scendere e salutare.
Per lei è di troppo un po’ di scatole per guanciale e stare nel cuore di Milano.
Nella raccolta Io non ho mani, la poesia di Turoldo si annuncia dunque già completa nei suoi temi cruciali, nell’espressione personale, artistica, nella passione (intesa dunque anche come patimento) del suo umanesimo e si annuncia anche voce potente e matura, che già ai contemporanei lascia intuire i suoi futuri sviluppi. E’ un’opera di una coerenza interna molto forte, soprattutto nel modo di trattare le tematiche, oltre che nello stile e nel linguaggio - che, in alcune occasioni, sembrano piuttosto adattarsi a quest’ansia di libertà e di comunicazione, più che sorreggere l’eleganza della forma espressiva. Ed è un’opera prima, non dimentichiamolo: opere prime di questo livello artistico se ne vedono poche, anche nei secoli buoni.
Sondrio, 2 / 11 gennaio 2001
Fonti consultate: D.M. Turoldo, O sensi miei... Poesie 1948-1988. Rizzoli, Milano, 1990 (ristampa 1997) G. Mattana, Turoldo, l’uomo, il frate, il poeta. Edizioni Paoline, Torino, 1995 S. Crespi, L’uomo, pagine di vita morale, Introduzione, Edizioni Otto/Novecento, 1981 David Maria Turoldo 6 POESIELe 6 poesie che qui trascriviamo (cinque per l'esattezza, poiché "Io non ho mani" è stata trascritta sopra), sono state pubblicate sul numero 1 de "L'Uomo" (numero dell'8 settembre 1945). Io ho un comando
Vera la tua esigenza che non lascia possibilità ma io ricordo di essere nato dentro la colpa; sento di dovere raccogliere pene; io ho un comando che tu non bai: farmi frumento ai loro denti legati di cenere, diventare carne di tutti.
Miei versi dettatiMiei versi dettati dalle pietre, dal volto arso delle case non mi date riposo. Un Dio troppo squallido tengo in cuore e queste piante non attenuano il sole che continua ad ardere senza pietà.
Senti che è di troppoSenti che è di troppo il sapore di una pesca in questa povertà di case diroccate; senti che non ti è lecito provare questo dolciore d'anima emigrata dalla strada ferita della tua umanità. Sposata hai una pena di non sentire mai dolcezza alcuna che non sia di tutti; ed ora ti tenta questo profumo di pesche e di arancí, ed ora ti seduce questo languore di tigli, ed ora vorresti andartene in pace in quest'orlo di città in queste ghirlande di bimbi, a dimenticare. E invece è tuo soltanto il grido della città disfatta sotto il sole, e tu solo puoi rianimare i corpi abbattuti ai piedi delle piante nell'afosità dell'estate. Ah tu non puoi concederti a queste momentanee paci. Tu sei la possibilità di una viva solitudine; e il tuo sacerdozio è un'oasí ave essi hanno il diritto d'approdare dalle loro fatiche.
Oggi m'avvidiOggi m'avvidi d'essere una frattura ove il fondo fluire del tempo riceve un riflesso di sole. Sento d'avere perduto l'equilibrio e il gesto umano. Gli altri se ne vanno composti mentre il mio cammino è una sorpresa orrenda. Oh, quante volte percorsi questi rioni a fianco agli amici tentando d'abbandonarmi alla strada! Invece sempre più è scoperta questa mia enormità. Essi hanno le loro parole, ma io ragiono col sangue cieco.
Eppure mi tenta ancoraEppure mi tenta ancora questa avventura del Figlio Prodigo. Prima era un dovere. Potere un giorno dire coi sensi che le cose gridano a un essere più alto, a una più alta gioia; che esse sole non sono sufficienti. Dovere di sacrificare quelle stesse cose che sono divine, di consumarle in no; stessi il fine di una creazione che è nostra. Oh io l'avrei fatto s'Egli non avesse parlato. E se resto, non mi lamento come il fratello maggiore che non comprende la ricchezza di quel figlio che Sa tutto perduto. Era bene che uno Gli portasse l'omaggio delle donne anche da quelle strade; sacra è la bellezza di tutte le creature e uno doveva raccoglierla. Difficile era credere senza provare, sono i sensi il tempio di una incrollabile fede. E dentro la Sua casa non sempre l'uomo intende. E anch’Egli ha lasciato il seno del Padre, e si è commosso di noi e ci ha amati perdutamente
NOTE [1] ) L’esperienza de “L’uomo” va suddivisa in due parti. La prima inizia dopo l’8 settembre del 1943, data funesta, per molti aspetti, nella storia della seconda guerra mondiale, che segnò l’inizio di avvenimenti cruenti e crudeli. Questa parte della storia della rivista, dura fino alla Liberazione. Purtroppo poco o nulla ci rimane di questa prima esperienza iniziata da Dino Del Bo, David Maria Turoldo, Camillo De Piaz (entrambi ancora studenti. Osserva Stefano Crespi: “le notizie riguardo all’«Uomo» clandestino sono alquanto incerte e nebulose perfino nella memoria dei protagonisti che non ricordano nemmeno il numero esatto delle copie uscite, fatto del resto spiegabile nel contesto pressante del periodo” (in S. Crespi, L’Uomo, pagine di vita morale, Edizioni Otto/Novecento, Brunello (Va), 1981, per gentile prestito dell’amico Paolo Santarone - si tratta infatti di un volume ormai introvabile). In ogni caso, come riferì Ezio Franceschini (in AA.VV., Per amore ribelli. Cattolici e Resistenza, a c. di Gianfranco Bianchi e Bruno De Marchi, Vita e Pensiero, Milano, 1976) la “prima preoccupazione era di affermare la carità contro l’odio, concependo la stessa politica come una forma di servizio verso la comunità e creando le premesse per un centro cattolico nel quale trovassero lo sbocco naturale e il punto d’incontro gli altri movimenti nostri. [...] Organo del movimento fu il giornale clandestino “L’Uomo” ... diffuso poi in parecchie decine di migliaia di copie nei due anni che seguirono”. La seconda parte data, provocatoriamente a allusivamente, dall’8 settembre 1945 e consta di 42 numeri, in parte settimanali e in parte bisettimanali, fino al 1° settembre 1946. La direzione della rivista fu affidata a Mario Apollonio e vi collaborarono numerosi intellettuali milanesi, oltre a quelli già menzionati, come Bontadini, Angelo Romanò, Claudio Belingardi, Giovanni Fei, Luigi Santucci, Agostino Lazzati, e altri. Spiega ancora il Crespi: “La scelta del titolo era ciò che intendeva accomunare il programma, l’impegno, la prospettiva ideale di queste figure. «Salvare l’uomo», fare dell’uomo una punta di partenza e di arrivo, riscoprire i valori dell’uomo, fare appello alla sua «indecidibile sostanza»: questo il senso ricorrente dell’umanesimo della rivista. Il sottotitolo «Pagine di vita morale» precisava ulteriormente l’angolazione”. [2]) Non voglio qui essere frainteso: la Resistenza fu un fatto politico e morale di alto pregio, sia per coloro che furono mossi da convinzioni laiche o coloro che si ispirarono a motivazioni religiose. I casi a cui mi riferisco (ad esempio l’impiccagione del Duce già fucilato, in P.zale Loreto a Milano, o fenomeni di vendetta privata o soprusi di taluni personaggi che presero a pretesto il disordine conseguente alla rovinosa caduta del fascismo - casi reali e ampiamente documentati), sono fenomeni che nulla hanno a che fare con la Resistenza. E’ innegabile tuttavia che la mancanza di un riferimento così forte come “ama il tuo nemico”, estraneo alla cultura laica, non ha facilitato la chiarezza su questo punto. Il concetto guida della cultura laica, nel merito, è la pari dignità delle persone - e di conseguenza il rispetto formale - che è molto diverso dal concetto di “agàpe” o di “pietas” o di “charitas”. Ma, d’altra parte, anche per la stessa religione cattolica, al di là delle enunciazioni dottrinarie, al concetto di “agàpe” non sono poi sempre seguiti adeguati comportamenti, e non solo nel Medioevo o nel corso della Controriforma (e suoi strascichi nel tempo, forse non ancora del tutto superati). In questo senso interpretiamo il monito di Camillo De Piaz, sul N° 1 della rivista: “L’esame condotto sul cervello e sugli altri organi mussoliniani, ha appurato la normale e quasi perfetta costituzione fisica del fucilato di Dongo. Ebbene, noi sapevamo essere il bene e il male un fatto morale, cosa che si decide e si compie innanzitutto dentro il libero spazio spirituale della coscienza. Ognuno di noi, per quanto normale e a posto sia in grado di esprimersi, potrebbe aver fatto quello che hanno fatto Mussolini e i suoi fascisti, e ancora lo può” (frase che, a mio avviso, non lascia molti dubbi in merito ai riferimenti concreti). In Stefano Crespi, cit., p. 8. [3] ) La maggior parte dei testi della raccolta “Io non ho mani”, comparvero già sulla rivista “L’uomo”. Anzi, la poesia che dà il titolo alla raccolta, compare sul primo numero della rivista, ultima di sei poesie (Io ho un comando, Miei versi dettati, Senti che è di troppo, Oggi m’avvidi, Eppure mi tenta ancora, Io non ho mani). [4] ) Se la produzione poetica di Turoldo è corposa, con parecchi titoli editi, la produzione teologica è sterminata e non ancora del tutto analizzata. A Sotto il Monte, paese dove è sito il convento in cui il frate passò gli ultimi anni di vita, è stato allestito un Centro Studi per la catalogazione e l’analisi filologica della vasta produzione turoldiana. [5] ) Taluni studiosi sostengono che il concetto di “a-teismo” è estraneo alla natura umana e che, in ultima analisi, anche coloro che si professano atei hanno un qualche riferimento al Soprannaturale. Non mi addentro in queste considerazioni, anche se, mi sembrerebbe arbitrario e dogmatico, costringere coloro che si dichiarano atei al ruolo di coloro che “credono ma non sanno di credere”. Tanto più che bisognerebbe indagare con rigore anche il fenomeno del “credere di credere”, per parafrasare un recente libro di Gianni Vattimo (ossia, dell’ateismo mascherato dietro “convinzioni” religiose che non sono altro che adeguamento a-critico al “già dato” nella cultura). [6] ) Raccolgo, su questo punto, un’osservazione che mi è stata giustamente mossa da Letizia Lanza. La poesia di Turoldo non può essere infatti classificata “cattocomunista” e non c’entra nulla con questo concetto: non è infatti poesia ideologica. Il termine peraltro, fu usato a proposito e a sproposito, ma sempre con intenzione di squalifica, verso tutte quelle istanze, comprese quelle razionali e fondamentalmente dialogiche, che avessero la prerogativa di additare con forza le contraddizioni di un cattolicesimo tiepido e di comodo (ad esempio la questione terzomondista o l’ingiustizia sociale, la questione del lavoro, ecc.). Chi scrive, scrive per esperienza diretta. Istanze per le quali, per certi aspetti, è rintracciabile un vasto terreno ideale (non ideologico) e di dialogo fra cattolicesimo e marxismo, che oggi sembra avere sempre più consistenza, ad esempio nel dialogo intorno alla Pace, all’economia globale, ecc.. E, anche qui, nel segno della dignità dell’uomo. [7] ) Mi riferisco qui al noto e straordinariamente plastico aforisma nº 125 di F. Nietzsche, in: La gaia scienza, Adelphi, Milano, 1977, pp. 162 - 164 [8] ) “Forte” e “debole” sono aggettivi un poco ambigui, collocati in questo contesto. Peraltro, il pensiero cosiddetto “debole”, che vede in Gianni Vattimo il suo maggior esponente, nei suoi ultimi sviluppi tende non tanto a considerare impossibile una metafisica (“forte”), ma piuttosto a relativizzare questa “forza” e subordinarla all’argomentazione. Dire infatti che una metafisica forte non è possibile, è altrettanto dogmatico che sostenere la verità di una metafisica forte. Un pensiero molto vicino a questo può essere considerata la teoria dell’agire comunicativo in Habermas. Nessuno di costoro, mi pare, sostengono che è possibile un’esistenza individuale e soprattutto collettiva, aliena da principi regolatori validi per tutti.
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