Francesca Santucci
Il
Trovatore
di Giuseppe
Verdi
...Stride la vampa!...
Ispirato al modello letterario El trovator di Antonio Garcìa Gutierrez, e
rappresentato al teatro di Madrid nel 1836, quando approdò nelle mani di Verdi
il musicista fu subito consapevole delle grandi potenzialità drammatiche del
soggetto, e così scrisse a Salvatore Cammarano:
L’argomento che desidererei proporvi è El trovator. A me sembra bellissimo,
immaginoso e con situazioni potenti. Io vorrei due donne: la principale, la
Gitana, carattere singolare, e di cui ne farei il titolo dell’opera, l’altra una
comprimaria.
Verdi e Cammarano adattarono così l’opera, non senza contrasti e dissapori,
soprattutto per quanto riguardava il ruolo di Azucena, combattuta tra l’amor
filiale e l’amor materno.
Cammarano vedeva nel comportamento di Azucena una vena fortemente tragica e
folle, Verdi ne voleva fare un personaggio consapevole della sua vendetta, in
conflitto, ma non pazza, e raccomandava al librettista:
Non fare
Azucena demente. Abbattuta dalla fatica, dal dolore, dal terrore, dalla veglia,
non può fare un discorso seguito. I suoi sensi sono oppressi ma non è pazza.
Bisogna conservare fino alla fine le due grandi passioni di questa donna:
l’amore per Manrique e la feroce sete di vendicare la madre. Morto Manrique, il
sentimento della vendetta diviene gigante, e dice con esaltazione…”Sei
vendicata, o madre!”
Verdi invitava il Cammarano ad attenersi al dettato originale, salvo poi
proporre le varianti personali per contribuire ad accrescere l’intenso effetto
drammatico, purtroppo Cammarano morì prima di concludere il lavoro, poi portato
a termine da Emanuele Bardore, che riscrisse proprio il famoso motivo
ossessivo-delirante: Stride la vampa!
Nonostante il titolo, Il trovatore può essere considerata un’opera tutta
al femminile, nel senso che lo sviluppo drammaturgico è determinato dalle
vicende e dai sentimenti che riguardano le due donne, Leonora e Azucena, tra le
quali ondeggia la romantica figura del trovatore.
L’opera è ambientata al principio del XV secolo e questo è l’antefatto narrato
da un gruppo di servi e armigeri mentre fanno la guardia alla porta del Conte di
Luna: anni addietro presso la culla di Garzia, fratello del Conte, era stata
sorpresa una zingara, prontamente scacciata. Dopo un po’ il bambino era stato
colto da febbri insistenti e si era pensato al malocchio. La zingara era stata
catturata e condannata al rogo. La figlia della presunta strega, per vendicarsi,
aveva rapito Garzia e, qualche tempo dopo, sul luogo dov’era bruciata la madre,
erano state trovate ossa infantili semicarbonizzate. Il padre del Conte, in
punto di morte, si era fatto promettere dal figlio, il Conte di Luna, che
avrebbe continuato le ricerche.
La figlia della strega non è altri che è Azucena, madre di Manrico, il
trovatore, innamorato di Leonora, di cui è pure innamorato il Conte di Luna.
Manrico e il Conte di Luna sono rivali sia in amore che in guerra, ma ciò che
ignorano è di essere fratelli, giacché Azucena, sconvolta alla morte della
madre, in preda al delirio ha gettato per vendetta nel fuoco non Garzìa, ma il
suo vero figlio.
Nell’epilogo della drammatica storia Leonora si avvelena, Manrico viene ucciso,
Azucena mandata a morte e il Conte di Luna resta solo con il suo orrore.
Tutta l’opera, in cui di continuo è rievocato il ricordo del tragico antefatto,
costantemente rivissuto nel presente da punti di vista differenti, è incentrata
sul doppio tema dell’amore e della vendetta e, nel corso dell’azione, ogni
personaggio resta fissato nel proprio ambito espressivo. In coerenza con
l’immobilità psicologica dei personaggi Il trovatore rispetta, almeno
esteriormente, i modelli tradizionali, con la divisione in quattro parti, le
sezioni in recitativo e in connessione, l’orchestra che si limita ad un ruolo di
accompagnamento delle voci.
Nel I atto troviamo il mondo aristocratico di Leonora e del Conte, nel II quello
pittoresco dei gitani, sottolineato dall’atmosfera sonora diversa con la
strumentazione “alla turca” (triangoli e grancasse) dominato dalla figura di
Azucena che si esibisce nel bellissimo Stride la vampa!-La folla indomita,
il cui motivo diverrà espressione musicale costante del pensiero ossessivo della
zingara, cioè le fiamme del rogo.
La II parte si apre con una strumentazione quasi bandistica, con il Coro dei
soldati sostenuto da ottoni e percussioni, e si assiste alla morte di Leonora,
alla cattura di Azucena, e all’esibizione della celebre cabaletta Di quella
pira (in origine mancante del famoso do di petto mai scritto da
Verdi, imposto dalla tradizione e, non senza polemiche, eliminato dal maestro
Muti) in cui Verdi espresse il tipico eroismo romantico.
L’ultimo atto è in gran parte dominato dalla figura di Leonora che dispiega, da
sola e in duetto col Conte, una gamma incredibile di situazioni emotive,
dall’ira alla supplica, dalla disperazione alla Gioia. Col Finale Ultimo si
torna ad Azucena nell’orrido carcere, dov’è colta da allucinazioni al
pensiero del rogo, sottolineato da flauti e clarinetti, e qui torna Stride la
vampa: lo squilibrio mentale che l’assale viene espresso con la rottura
formale di tutta l’opera, con la tremenda conclusione della tragedia e la
battuta di Azucena Sei vendicata, o madre!
La vendetta della gitana, simile alle eroine delle tragedie greche, novella
Medea, è ora compiuta.
Il Trovatore ha praticamente da subito riscosso grande successo sia di pubblico
che di critica, sia in Italia che all’estero, ed indimenticabili
nell’immaginario collettivo restano arie come Tacea la notte placida,
Di quella pira l’orrendo foco, D’amor sull’ali rosee e il Coro
delle incudini.
Capolavoro formale e poetico, Il trovatore compendia tutto il melodramma
ottocentesco e dispiega atmosfere romantiche e lunari e torve vicende:
l’infanticidio, i due fratelli rivali in amore e in guerra che non sanno di
essere legati dal vincolo del sangue, la donna contesa, una figlia che vuole
vendicare una madre e che nel contempo vuole essere madre difendendo a tutti i
costi un figlio che, però, non è suo: ci sono proprio tutti gli elementi per
un’opera toccante e appassionante!
E quel fuoco sempre presente in scena, come fiamma che riscalda i soldati a
guardia, che brucia nell’accampamento degli zingari e che, nel ricordo delirante
di Azucena, arde sotto il rogo, sembra proprio rimandare all’altro fuoco,
intangibile ma egualmente cocente: quello che infiamma gli animi dei
protagonisti tormentati dalle passioni.
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