Sylvia Plath

(1932-1963)

 

                        

Sylvia Plath, scrittrice che oppose una posizione di duro rifiuto dell’oppressione maschile, e per questo simbolo delle battaglie femministe negli anni ’60, nacque a Boston nel 1932, da padre entomologo e madre casalinga.
La sua carriera scolastica fu ottima e brillante; scrisse con successo e conseguì molti premi, uno dei quali la condusse a New-York, ospite di un’importante rivista del tempo, ma questa città, col suo ritmo di vita frenetico ed ossessionante, in fondo vuota, la sconvolse.
Tornata a casa non riuscì più a dormire, a mangiare, a scrivere. Andò da uno psichiatra che le praticò l’elettroshock, tentò il suicidio, fu salvata, entrò in manicomio.
La psicoterapia e gli elettroshock le consentirono di abbandonare ben presto la clinica, e la sua vita riprese con l’Università, i corsi di poesia, la tesi di laurea su Dostoewskij e l’amore per il poeta inglese Ted Hughues, che sposò dopo qualche tempo.
Per Sylvia, educata ai valori della società americana, il successo era fondamentale, ma la nuova condizione di moglie era un ricatto continuo alla sua attività di scrittrice.
Inizialmente svolse in modo normale le mansioni di casalinga e di moglie, e la sua creatività non venne meno, anzi, intraprese con successo la strada della poesia, poi nacquero i figli e la sua vita cominciò a trascinarsi su un binario monotono, e la maternità, da gesto creativo, diventò fonte di frustrazione e causa di depressione; infine scoprì di essere diventata irrimediabilmente moglie, con la consapevolezza che dall’altra parte c’era l’amante, perché il suo Ted la tradiva.
Sylvia si separò e portò i figli con sé, cominciando a vivere in ristrettezze economiche. E’ proprio in questo periodo che esplose la sua attività letteraria; nel 1960 pubblicò The Colossus, presentazione immediata del suo stile personale ed elaborato e, come tentativo di liberazione andando indietro nel tempo, testimonianza del suo crollo psichico, scrisse il romanzo The Bell Jar, in italiano La campana di vetro, che pubblicò nel 1963 con lo pseudonimo di Victoria Lewis.
Definito anche la storia di una schizofrenica, più che la ricostruzione di una patologia, La campana di vetro è la testimonianza del disperato bisogno di affermazione di una donna lacerata dal conflitto irrisolto tra le aspirazioni personali ed il ruolo imposto dalla società.
Sylvia non era "matta", era solo una donna fragile, sensibile e in crisi, che aveva tentato di seppellire l’ansia di libertà e la vocazione di scrittrice in un matrimonio apparentemente felice; infatti non rifiutò mai il suo ruolo, tentò fino alla fine di conciliarlo con le sue aspirazioni, di giorno faceva la madre, accudendo rigorosamente ai suoi figli, alla notte rubava qualche ora per scrivere, cercando di soffocare il proprio istinto di ribellione che riversava solo nelle poesie e che cercava poi di farsi perdonare comportandosi da figlia, moglie e madre esemplare:..non è vero quello che scrivo, sono buona, sono felice, rispetto le regole, lo prova la mia vita, ho fatto tutto quello che una donna deve fare…Infine, però, le aspirazioni a lungo represse riemersero con prepotenza, e le costarono la fine del legame matrimoniale, la solitudine e la morte.
Torturata dalla sua ansia di vivere e di esprimersi, che contraddiceva il ruolo tradizionale di moglie e madre, lacerata dal conflitto dall’essere per sé e l’essere per gli altri, Sylvia lasciò un’infinità di poesie violente e disperate ed un unico elemento di disordine nella cucina del suo appartamento: il suo corpo senza vita.
Un mese dopo la pubblicazione del romanzo preparò fette di pane imburrato per i figli, li mise al sicuro, sigillò porte e finestre con del nastro adesivo, aprì il gas, infilò la testa nel forno e si tolse la vita.  Una settimana prima aveva scritto l’ultima poesia, Orlo.
 

 

ORLO

La donna è infine perfetta.

Il suo corpo

Morto porta il sorriso del compimento

L’illusione di una greca necessità

Fluisce, nelle pieghe della sua toga,

I suoi piedi

Nudi sembrano dire:

Abbiamo camminato tanto, è finita.

Ogni bimbo morto, riavvolto, bianco serpente

Uno ad ogni piccola

Brocca di latte, ora vuota

Li ha piegati

Di nuovo nel corpo di lei come petali

Di una rosa si chiudono quando il giardino

S’intorpidisce e odori sanguinano

Dalle dolci, profonde gole del fiore notturno.

La luna non ha nulla di cui essere triste,

fissando dal suo cappuccio di osso

è abituata a questo tipo di cose.

Le sue macchie nere crepitano e tirano.

Francesca Santucci