Franco Santamaria
Poesie da
"Echi ad incastro"
edizioni Joker
Le vent se léve…Il faut tenter de vivre!
FORSE TROPPO
TARDI
Quando la mia
voce
(se pure)
giungerà a te
oltrepassando i
confini del grigiore,
sarà forse
troppo tardi
per arrestare
la maratona del
tempo già all'arrivo,
per esplodere
come calce viva
nelle viscere
del potere e della misericordia finta.
I giorni
avranno legato
ai pali altre solitudini,
generato altre
raffiche
nell'ultimo
assalto ai sacri
melograni.
DOLCE SORRISO DI
ROSA
Hai il dolce
sorriso della rosa
che si apre ad
aurora nuova.
Non v'è più il
vento
che stronca il
cerchio dei sogni,
le nostre radici
assecchisce.
Svanirà del
tutto
la nostra
malinconia
quando sarò
anch'io farfalla leggera.
SOGNO
Dura in me
l'ultima
tua fisicità
vivente
con un volto
di pietra
sbianchita e
segnata
dalle lacrime
dei fiumi di Pandosia.
Lì ferma e
sola
su un lettino
come un
vagone alla fine
della sua
corsa
su binario
morto,
senza più
passeggeri.
Con ancora il
caldo,
poi sempre
più spento
rantolo tra
le ruote.
Voglio ancora
sperare
nel tuo
ritorno
su un'ala di
sogno
tra le gole
della mia terra, all'eco
del vento
rupestre
di autunno o
di primavera,
quando
mareggia
madido di
sole il primo
frumento.
recensione alla silloge poetica
ECHI
AD INCASTRO
Ut pictura poesis: la poesia è come un quadro. Il
famoso motto derivante dall’oraziana “Ars poetica” è
comunemente usato perché leggi simili hanno le due arti,
eppure per il poeta latino diverso era il significato,
volendo indicare che anche tra le poesie, come tra i quadri,
alcune s’intuiscono subito, altre hanno bisogno di essere
osservate con occhio critico, altre devono essere guardate da
vicino, altre hanno bisogno di essere riguardate, altre ancora
necessitano di penombra. Ma non fu solo Orazio ad accostare poesia e pittura, prima
di lui già Aristotele e Simonide le avevano poste in
relazione, segno evidente che gli antichi ne avevano compreso
da subito lo stretto legame, intuendo anche la necessità che
molti artisti hanno di esprimersi in entrambi i campi,
rivelandosi talvolta troppo positiva la parola per esprimere
l’inesprimibile, necessitando talvolta la pittura di
dissolvenza dal materico. E fortunato può dirsi l’essere umano che riesce ad
esprimersi nei più diversi campi artistici, fortunato colui
che riesce contemporaneamente a dispiegarsi nella poesia e
nell’arte. Fortunato è, pertanto, Franco Santamaria, poeta con
all’attivo già numerosi riconoscimenti che, ad un certo
momento della sua vita, ha sentito pressante l’urgenza
interiore di esprimersi anche attraverso la pittura, ricevendo
consensi favorevoli pure in quest’altra sua attività. Artista versatile, dunque, continua a mantenere ben vive
le sue due anime, quella di poeta e quella di pittore,
con/fondendole fra loro, senza che l’una prevarichi l’altra,
sicché sempre leggendo i suoi componimenti forte è
l’impressione che la sua poesia sia pittorica, e contemplando
un suo quadro pura poesia appaiono i colori, le forme, le luci
e le ombre, ma in qualunque campo si esprima le sue produzioni
sono comunque pretesti per dar voce alla Poesia. Ciò si riconferma anche nell’ultima sua silloge poetica,
“Echi ad incastro”, pubblicata con l’editrice Joker, germinata
attraverso un percorso di vita ed interiore ricco di fermenti
e sollecitazioni, in cui nostalgia, solitudine, pena e
stanchezza del vivere, memoria e ricordo, sono le direttrici
fondamentali attraverso le quali si snoda il suo canto,
alimentato da una fervida fantasia e sostenuto da un
linguaggio piano ma denso di valenze simboliche e fortemente
pittorico: non a caso si ricordava che Santamaria è anche
pittore. Le vent se léve…Il faut tenter de vivre!
Recita così l’epigrafe introduttiva alla raccolta,
un verso del componimento di Paul Valéry “Il cimitero marino”,
in cui si alternano, in ricchezza di metafore, luci ed ombre,
grida e silenzi, immobilità e vitalismo, in una libera
sequenza d’immagini esplicativa delle sue ferme convinzioni
secondo le quali: Non c’è vero senso in un testo. Non autorità
dell’autore…Una volta pubblicato, un testo è come un
apparecchio di cui ciascuno può servirsi. Se consideriamo che nei versi di Santamaria similmente si
alternano luci ed ombre, abbandoni e slanci, accordando
emozioni e riflessioni guidati dalla percezione
dall’inarrestabile fluire del tempo (Quando la mia voce/-se
pure- /giungerà a te/ oltrepassando i confini del grigiore,
/sarà forse troppo tardi /per arrestare/ la maratona del tempo
già all’arrivo...) che reca disincanto e solitudine
(Le mie speranze/sono sogni dimenticati/come il fuoco
spento/delle caverne e dei camini deserti), della memoria e della pena del vivere (Andiamo lungo un fiume/ in
piena) e che ciascuno può ben rispecchiarvisi, ben si
comprende come appaia non casuale la scelta del verso
valeriano che esorta a vivere consapevoli dell’impegno che
tale gravoso compito richieda. Chi ama scrivere, soprattutto un poeta che veicola
emozioni, è consapevole di quanto preziose e rare siano le
parole (perciò l’Autore assegna loro il compito più nobile,
quello di essere mezzo e non fine), espressione delle più
autentiche ed intime emozioni (timori, dubbi, incertezze,
esitazioni) che divengono, però, anche specchio delle altrui
emozioni (Amo e canto/l’uomo di ogni giorno/che/ su un
carro sacrificale/le prime/gemme d’aurora/spinge verso gli
avamposti solari/per vincere la paura), e ciò è ben
asserito proprio dall’autore, che offre la chiave di lettura
dei suoi versi in uno degli spunti di riflessione che
corredano la raccolta: Un pittore, un poeta, non può staccarsi dalla realtà per
isolarsi in un mondo che ha solo del fantastico e
dell’invenzione…Parlo del fantastico e dell’invenzione che
distraggono dalla riflessione sulla vera condizione umana e
della natura, che è aspirazione, tensione, sofferenza, dolore,
spesso disperazione e annullamento… Già il titolo della silloge è illuminante sulla tematica
meditativa che sottintende le sue composizioni: “Echi ad
incastro”. Cos’è l’eco? La riflessione del suono. Cos’è l’incastro? Il
collegamento fra le cose, fra gli eventi. Cos’è la parola del
poeta? L’eco risonante delle sue emozioni, l’incastro fra le
personali emozioni e quelle degli altri di cui si elegge
partecipe portavoce. Ed allora, coerente con le sue concezioni, secondo le
quali l’artista non può astrarsi in un mondo illusorio o
fantastico ma, anche se faticoso è il cammino quotidiano, ha
il “dovere” di affrontarlo e di farsi interprete e consolatore
dei moti dell’animo umano (noi/che solo inventiamo
parole/che consolino /ad ogni foglia che/cade), Santamaria,
pur veicolandone le personali angosce, ansie, tristezze,
nostalgie, turbamenti, áncora i suoi versi alla realtà e
dilata le riflessioni personali fino ad investire meditazioni
cosmiche sulla condizione umana incerta, breve, fragile,
provvisoria, precaria, come la speranza (le mie speranze/
sono sogni dimenticati/come il fuoco spento/delle caverne e
dei camini deserti), come i sogni ( se ne andarono
presto i sogni/ viaggianti in sacchi di barba bianca /e su
scope uscite dalla cenere), come l’amore, rosa che si
apre ad aurora nuova, troppo presto sfiorita (abbiamo vissuto un destino/breve/ di cometa/ il buio ha diviso
le nostre orme), come la vita (il sangue del tempo che
non si ferma). L’eco, al di là dell’ovvio significato di riflessione d’un
suono, ha qui valenza fortemente simbolica, quello di grido
doloroso dell’animo del poeta che, stanco del vivere
(reggo/ su stanche braccia, in alto/ ansia di bimba/ tra acque
di torrente limacciose), impossibilitato alla conoscenza
della verità e all’elaborazione di nuove progettualità
esistenziali, perché netta ha la consapevolezza del tempo che
sfuma (sarà forse troppo tardi/per arrestare/la maratona
del tempo già all'arrivo), ripete la sua sofferenza
interiore, il suo immenso dolore, appunto l’eco che s’incastra
nella precedente eco dilatandola all’infinito. Nel componimento conclusivo della raccolta di Franco
Santamaria diviene, allora, ossessiva come un ritornello
l’alternata ripetizione di due versi drammatici: c’è la
notte dal buio totale…c’è la notte dal nero totale.
Ma il poeta non sarà consegnato all’oblio (si cade/
sull’ultimo respiro del mattino) perché, come insegnò
Orazio, le creazioni poetiche sono opere più durature del
bronzo e vivono in eterno (Exegi monumentum aere perennius… Non omnis moriar… Orazio, Odi Asclepiadee, III, 30).
Saranno allora proprio i suoi versi, insieme alla pittura,
che in lui sempre procedono insieme, a strapparlo al buio
totale della notte e a consegnarlo, nell’interezza delle
emozioni, all’infinita luce dell’immortalità.
Francesca Santucci
(agosto2004)
|