Non è buono il cavaliero se non si prova
sul campo della battaglia.1
Santa Caterina da Siena
Non solo religiosa e mistica fu l’esperienza
di vita di Santa Caterina da Siena, canonizzata
da Pio II nel 1461, proclamata, assieme a San
Francesco d’Assisi, Patrona d ‘Italia nel 1939
e Protettrice delle infermiere nel 1943 da Papa
Pio XII, Dottore della Chiesa Universale nel
1970 da Paolo VI e Compatrona d'Europa da
Giovanni Paolo II nel 1999, ma, coniugando la
spiritualità con una grande attività pratica,
anche politica e letteraria, alimentata da un
intenso travaglio interiore e sostenuta da una
profonda intuizione: quella dell’amore,
testimoniato con ardente passione, verso il
divino e verso il mondo.
Caterina nacque a Siena il 25 marzo 1347,
ventesima figlia di Jacopo Benincasa, tintore di
lana, e di Monna Lapa, figlia del poeta senese
Puccio il Piacente.
Fin dalla più tenera età cominciò a
mortificarsi fisicamente, ed in seguito ad una
visione del Cristo, ricevuta a sei anni, decise di rimanere
vergine.
Intorno ai dodici anni i genitori le
prospettarono il matrimonio, ma lei, che di
nascosto si dedicava a pratiche ascetiche e
proprio non intendeva prendere marito,
per non cedere
si rase i capelli, coprì il capo con un velo e
si chiuse in casa, senza piegarsi nemmeno alle
opprimenti fatiche domestiche alle quali la
sottoponevano per distoglierla dai suoi
propositi ascetici.
Osteggiata dai genitori, per diversi anni
condusse una vita di sacrifici, dedita solo alla
preghiera, restando chiusa nella sua stanza, poi
a diciotto anni, pur rimanendo nella propria
abitazione, prese il velo delle Mantellate, le
suore così chiamate dal mantello nero indossato
sul vestito bianco dell'Ordine Terziario
Domenicano.
Nel 1370 decise di aprirsi all’esterno,
cominciando a dedicarsi all'assistenza degli
ammalati in ospedale, insieme ad un gruppo di
discepoli che la seguivano nei numerosi
spostamenti compiuti per predicare, dividendo il
suo tempo tra la casa, la chiesa di San
Domenico, l'ospedale e il lebbrosario, dove
assisteva i malati e i moribondi.
Si narra che un giorno, pentita del disgusto
provato al cospetto delle piaghe di un malato,
bevesse l'acqua che aveva utilizzato per lavarne la
ferita, e che poi abbia esclamato:
-Non aveva gustato mai cibo o bevanda
tanto dolce e squisita! -
I sonni di Caterina erano spesso accompagnati
da visioni, come quella della notte di
carnevale del 1367, in cui le apparve,
accompagnato dalla Vergine e da una folla di
santi, il Cristo, che le donò un anello e la
sposò misticamente; quando la visione sparì,
l'anello restò, solo a lei visibile.
In un'altra visione Cristo le prese il cuore
e lo portò via, poi ritornò con un altro ancor
più vermiglio, che affermò essere il suo e che
le inserì nel costato; a ricordo del miracolo in
quel punto le restò una cicatrice.
Ma Caterina non fu solo una mistica, si
dedicò ad opere di carità, curò i malati,
soccorse i poveri, assistette i carcerati, fu
missionaria di pace, e la sua piccola stanza,
una sorta di “cella" di terziaria, divenne un
cenacolo di persone colte quando cominciò ad
affollarsi di religiosi, di artisti e di dotti,
ma fu anche luogo di ritrovo di gente semplice e
di appartenenti a ordini religiosi diversi
(Domenicani, Francescani, Agostiniani,
Vallobrosani, Guglielmiti) i cosiddetti "Caterinati"
che, attratti dal suo carisma, vedevano in lei
un punto di riferimento.
Ciò suscitò preoccupazione nei superiori
dell'ordine, che, insospettiti, la chiamarono a
Firenze per sottoporla ad un esame per valutare
la veridicità dei suoi accadimenti; lei si
difese splendidamente e, dissipati dubbi e
perplessità, si vide assegnare un maestro,
frate Raimondo da Capua, divenuto in seguito
suo erede spirituale.
Ben presto in tutta Europa si diffuse la voce
della sua fama e delle sacre stigmate che aveva
ricevuto il 1° aprile 1375 in una chiesetta del
Lungarno, detta ora di Santa Caterina, mentre
era assorta in preghiera, e cominciò ad essere
onorata come santa.
Nel 1376 i fiorentini le chiesero di
intercedere presso Papa Gregorio IX per far
togliere loro la scomunica, che si erano
guadagnati per aver formato una lega contro lo
strapotere dei francesi; allora Caterina si recò
ad Avignone con le sue discepole, tre confessori
ed un altare portatile, e riuscì a convincere il
papa, che si lasciò anche persuadere ad
abbandonare
la “cattività avignonese”, 2 in cui
la Curia papale era troppo influenzata dalla
politica della Francia, ottenendo, così, il
rientro della sede papale in Roma dopo quasi settant'anni di esilio.
Nel 1378 Papa Urbano VI la chiamò a Roma per
essere aiutato a ristabilire l'unità della
Chiesa, contro i francesi che a Fondi avevano
eletto l'antipapa Clemente VII.; Caterina lo
sostenne, scrivendo diverse lettere a lui e ai
capi di stato e cardinali di tutto il mondo.
Insieme ai suoi discepoli e discepole, andò,
poi, a Roma ed ancora lo difese strenuamente,
ma, il 29 aprile del 1380, a soli trentatre anni, morì, non prima,
però, di essere riuscita ad imporre come suo
successore frate Raimondo di Capua, il suo padre
spirituale.
Fu sepolta nel cimitero di Santa Maria sopra
Minerva ma, nell'ottobre del 1381, il Papa
Urbano VI accordò il permesso di staccare dal
busto la Sacra Testa, che venne affidata a due
frati e portata in segreto a Siena. L’11 maggio 1385, poi, con
un'imponente processione, con giovani, ragazzi
e ragazze, vestiti di bianco, recanti festoni
di rose e gigli, un gruppo di Mantellate di San
Domenico, presente anche Monna Lapa, la madre di Caterina,
la reliquia fu trasportata nella chiesa
di San Domenico, dove tuttora giace. Le
rimanenti parti del corpo, divenute reliquie,
furono poste nel sarcofago sotto l'altare
maggiore, ma moltissime sono oggi le altre
reliquie corporali sparse nelle varie chiese
italiane (ad esempio a Roma, nel monastero del
Rosario a Monte Mario, si venera la mano
sinistra, nella chiesa dei Ss. Domenico e Sisto
una scapola, etc.).
Caterina era semianalfabeta e non di grande
cultura, perché non era andata a scuola e non
aveva avuto maestri, ma imparò, seppur
faticosamente a leggere, e più tardi anche a
scrivere (anche se poi dettò la maggior parte
dei suoi messaggi); pur non avendo, dunque,
propositi letterari, i documenti che ci ha
lasciato, il “Dialogo della divina provvidenza”,
e le “Lettere”, pagine d’insolita altezza
spirituale, sono fra le più belle, e le meno
note, del ‘300, anche se scarsamente elaborate
e, talvolta, con esagerazione d’immagini,
dovute, probabilmente, all’eccessivo ardore del
sentimento.
Il “Dialogo della divina provvidenza”, una
delle più notevoli opere mistiche di tutti i
tempi, è in forma di colloquio tra Dio e l'anima
umana, e costituisce la vera summa delle sue
esperienze di fede e della sua dottrina.
Le “Lettere”, in tutto 381,
indirizzate a persone di ogni condizione, uomini
e donne, a tutti i potenti del suo tempo (papi,
sovrani, cardinali, nobili, come Gregorio XI, il
re di Francia, la regina d’Ungheria, la regina
di Napoli), ma anche a frati, suore, gente
comune, di mala vita, persino ad una
meretrice in Perugia a petizione d’un suo
fratello,3 s’inseriscono nel
filone letterario religioso trecentista,
prevalentemente volto non alla creazione
d’immagini poetiche ma ad un fine esclusivamente
pratico, ed infatti Santa Caterina se ne servì
per i suoi scopi nobili: lenire i dolori del
prossimo, predicare la riforma della Chiesa,
restituire a Roma la sede pontificia.
Animata da intenso fervore religioso, spinta
dall’autentico desiderio di rinnovamento
dell’umanità, attraverso la pratica delle grandi
opere predicate dal Cristo e di cui lei stessa
dava nobile esempio, la carità e l'amore, la
Santa scriveva (dettava ai discepoli) messaggi
vigorosi, forti, e proprio l’impeto del
linguaggio adoperato per spronare al
rinnovamento della convivenza umana, auspicando
l'avvento della pace fra gli uomini, è
l’elemento che più emoziona e maggiormente
affascina ancora oggi.
Tra le varie lettere a papi, principi,
prelati, popolani, senza dubbio la più
suggestiva è quella che scrisse in occasione
della morte di Nicolò di Tuldo, un giovane
gentiluomo fiorentino accusato, nel 1375, di
aver ordito una congiura ai danni di Siena.
Condannato a morte ingiustamente, senza che
vi fossero prove precise della sua colpevolezza,
nella sua cella l’uomo, adirato, non aveva
voluto ricevere i conforti religiosi da
nessuno, solo Caterina riuscì a vincere le sue
resistenze; andò da lui e gli parlò, infondendo
nel suo animo tanta serenità che Nicolò morì in
pace e, addirittura, il luogo del patibolo, gli
apparve, invece che tenebroso, luogo santo
della giustitia.
La lettera è di eccezionale bellezza per
l’intensità, l’impetuosità ed il vigore del
linguaggio, ma colpisce anche per la tenerezza,
la commozione e la delicatezza, qualità
tipicamente femminili, e per l’accesa
passionalità (uno dei testi più agghiaccianti
della nostra letteratura4), tanto
che spesso in passato, soprattutto ad opera di
un certo decadentismo critico, fra Ottocento e
Novecento, vi si volle ravvisare un
significato, pur se inconsapevolmente,
sensuale, come se il versamento reale del sangue
ricevuto dal capo di Nicolò nelle sue mani
avesse impresso ebbrezza fisica nell’animo di
Santa Caterina.
In realtà l’esaltazione del sangue per
Caterina, non solo religiosa ardente,
abbandonata a visioni, estasi e mistici
abbandoni, ma anche donna energica, risoluta,
autorevole, attiva all’esterno, in tempi in cui
limitati erano gli spazi offerti alla donna (o
la casa o il convento), che trattava alla pari i
potenti dell’epoca, disposta a predicare e pure
a muovere critiche a politici e prelati, a
denunciare i vizi del clero, adoperandosi
instancabilmente, compiendo viaggi gravosi,
concretamente impegnata nel rinnovamento per la
riforma della Chiesa, per la riconciliazione e
per la pace, era solo un’ingenua maniera
stilistica per esprimere la sete di martirio
che, nel nome di Cristo, per tutta la vita,
aveva ricercato in favore del riscatto degli
uomini.
Dalle LETTERE 5
A frate Raimondo da Capua dell'ordine de'
Predicatori
…Andai a visitare colui che sapete e elli
ricevette tanto conforto e consolazione, che si
confessò e disposesi molto bene. E fecemisi
promettere per l'amore di Dio, che, quando
venisse el tempo della
giustitia, io fusse con lui, e così promisi,
e feci. Poi la mattina innanzi la campana andai
a lui, e ricevette grande consolazione; Menàlo a
udire la messa e ricevette la santa comunione,
la quale mai più aveva ricevuta. Era quella
volontà acordata e sottoposta alla volontà di
Dio; solo v'era rimaso uno timore di non essere
forte in su quello punto: ma la smisurata e
affocata bontà di Dio lo ingannò, creandoli
tanto affetto ed amore nel desiderio di me in
Dio, che non sapeva stare senza lui, dicendo:
- Stà meco, e non m’ abbandonare, e così non
starò altro che bene, e morrò contento!- e
teneva el capo suo in sul petto mio. Io sentivo
uno giubilo, uno odore del sangue suo, e non era
senza l'odore del mio, sentendo el timor suo,
dissi: «Confòrtati, fratello mio dolce, chè
tosto giognaremo alle nozze. Tu n'anderai
bagnato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio,
col dolce nome di Gesù, el quale non voglio che
t'esca dalla memoria, e io t'aspetterò al luogo
della giustizia-. Or pensate, padre e figliuolo,
che ‘l cuore suo perde ogni timore, la faccia
sua si tramutò di tristitia in letitia; e godeva
e esultava e diceva: -Unde mi viene tanta gratia,
che la dolcezza dell'anima mia m'aspetterà al
luogo santo della giustitia?- (è gionto a tanto
lume, che chiama il luogo della giustitia
santo!) E diceva: el quale io aspetto di
spandere per lo dolce sposo Gesù. E crescendo el
desiderio nell'anima mia e «Io andarò tutto
gioioso e forte, e parrammi mille anni che io ne
venga, pensando che voi m'aspettarete ine»; e
diceva parole dolci, che è da scoppiare, della
bontà di Dio!
Francesca Santucci
1) Santa Caterina da Siena, Lettere, A
monna Lapa, sua madre, Libro I.
2) Per “cattività
avignonese” s’intende il periodo compreso tra il
1309 e il 1377, durante il quale sette papi
risiedettero ad Avignone, in Francia.
3) Lettere, lettera CCLXXVI , libro IV.
4) pag.234, Giulio Ferroni, “Storia della
letteratura italiana”, Einaudi, Milano, 1991.
5) lett. CCLXXIII, libro IV, vv. 10-15 , in
“Antologia della letteratura italiana”, D’Anna,
Messina- Firenze, 1963.