Ricordi di guerra

di Rodomonte Lenti

 

   

 

                  

Uomo del mio tempo 

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
 uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,  
con le ali maligne, le meridiane di morte,
 - t' ho visto - dentro il carro di fuoco, alle forche,
 alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,
 con la scienza esatta persuasa allo sterminio,
 senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
 come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
 gli animali che ti videro per la prima volta.
 E questo sangue odora come nel giorno
 quando il fratello disse all'altro fratello:
 "Andiamo ai campi". E quell'eco fredda, tenace,
 è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
 Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
 salite dalla terra, dimenticate i padri:
 Le loro tombe affondano nella cenere,
 e gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

(Salvatore Quasimodo)

Presentazione del libro

 

Un giorno la mia maestra di quinta elementare,  parlandoci della seconda guerra mondiale, chiese se nella famiglia di qualcuno di noi ci fosse un parente che l'avesse vissuta in prima persona, forse un nonno, un vecchio zio, e se questa persona fosse disposta a raccontare la sua esperienza alla nostra classe.
 Mio nonno vive a Roma ed io in provincia di Bergamo così, anche se avesse avuto cose da raccontare, perché aveva vissuti quegli anni, non avrebbe potuto farlo. Allora un altro nonno venne nella nostra classe a raccontarci la sua storia.
Quei racconti così veri e commoventi mi colpirono tanto che chiesi a mio nonno di  raccontarmi la sua esperienza e, dopo mie ripetute  insistenze, mi promise che, dopo aver consultato le sue vecchie carte ed i suoi appunti, avrebbe scritto per me i suoi ricordi di guerra.
Ogni giorno, riga dopo riga, con uno sforzo della memoria e grande pazienza, ne è venuto fuori un piccolo manoscritto .
Grazie nonno! 

 Francesca Aliberti  

Rodomonte Lenti è nato a Fiuminata, in provincia di Macerata il 28.11.1922. Ha prestato servizio nella Guardia di finanza; oggi è pensionato e  vive a Roma.
Nei suoi "Ricordi di guerra" ha voluto lasciare testimonianza scritta dell'infelice esperienza vissuta come prigioniero in un campo di lavoro tedesco. 

E' possibile contattarlo al seguente indirizzo di posta elettronica: lrodomonte@libero.it

Cap. I)


Mi arruolai nel Corpo della Guardia di Finanza il 10.05.1941 e fui destinato al reparto d'istruzione Scuola alpina di Predazzo  in provincia di Trento. Al termine dei sei mesi del Corso Allievi Finanzieri  fui nominato Finanziere ed ammesso al corso pratico-teorico per sciatori che si teneva al Passo Rolle; il 30 Novembre del '41 terminò il corso e mi qualificai con "buono".
Dal 1° dicembre venni assegnato alla Brigata di confine di Crissolo, in provincia di Cuneo, sulle pendici del Monviso. A pochi passi dalla caserma un torrente si precipitava a valle rumoroso e schiumoso: il fiume Po.
In quel tempo l'Italia, alleata con la Germania nazista, era in guerra contro la Gran Bretagna, la Russia e la Francia; quest' ultima era già stata quasi interamente occupata dalle forze armate tedesche, ad eccezione di un piccolo territorio vicino al confine italiano occupato da truppe dell'Esercito Italiano.
A Crissolo, un piccolo paese ad oltre 1300 metri di altitudine, regnava una calma assoluta, forse anche perché era un inverno molto freddo (20° sotto lo zero). La Brigata era composta da un appuntato ed un finanziere ammogliati e da un finanziere scelto, da un brigadiere e dal sottoscritto, che invece eravamo celibi ed alloggiavamo in caserma. Ricordo che in terra c'era la neve e faceva così freddo che la mattina trovavamo le scarpe attaccate al pavimento con il ghiaccio.
Nel mese di marzo del 1942 arrivò l'ordine del mio trasferimento al Comando Superiore della Guardia di Finanza d'Albania con sede a Tirana, in viale Mussolini.
Preparativi di partenza...e dopo diversi giorni d'attesa per l'imbarco, al comando tappa, nei pressi di Brindisi, la sera del 31 marzo, fui imbarcato con altri militari sulla motonave Vulcania. La mattina seguente, mi pare fosse il giorno di Pasqua, di buon'ora salpammo per Durazzo.
Arrivammo nel pomeriggio; non avevo mai viaggiato in mare, pensavo fosse una cosa divertente, invece soffrii molto il mal di mare. Non riuscivo a trovare il punto di bilancia della nave dove il beccheggio o il rullio era quasi nullo.
Dopo il pernottamento in un Comando Militare di Tappa, la mattina del 2 aprile, in autobus, con altri militari, raggiunsi il raggruppamento della Guardia di Finanza di Tirana, sede di militari in servizio in città e di militari che, per motivi logistici, erano di passaggio tra i vari reparti dislocati in quella zona dei Balcani.
Questo centro di raggruppamento era composto di stabili in muratura per Comandi, Uffici, magazzini, cucine e qualche dormitorio, ma la maggior parte degli stabili adibiti a dormitorio erano baracche in legno dove l'igiene scarseggiava (era quasi sempre una lotta contro le cimici).
Qui dovetti subito interessarmi della mia disinfestazione, a causa dei parassiti che avevo preso durante la tappa di Brindisi, dove mi avevano dato della paglia nuova e una coperta sterilizzata ma ugualmente ero stato contagiato.
Fui assegnato al servizio di guardia all'ingresso del Comando Superiore d'Albania, distante poche decine di metri dal raggruppamento caserma. Sullo stesso viale Mussolini vi era anche una bella Chiesa Cattolica recentemente costruita e dove tutte le domeniche, alle ore dieci, veniva celebrata una Messa per la Guardia di Finanza (in occasione della quale ricordo che il finanziere Simone Attilio, tenore, cantava superbamente l'Ave Maria). Chiunque poteva assistere a quella Messa e perciò la Chiesa era sempre piena anche di militari di altri corpi.
Il Colonnello Palandri Enrico, comandante in capo della Guardia di Finanza d'Albania, era magnanimo con gli Albanesi: aveva creato una specie di Polizia Militare i cui dirigenti erano Albanesi, essi conferivano con il Colonnello in modo confidenziale, a volte armati, ed entrambi si salutavano come si usava in Albania. Erano stati arruolati soldati finanzieri e, per loro musulmani, nel rispetto della loro religione, vi era una cucina a parte.
Nel servizio che esplicavo nel turno di notte sentivo spesso, in lontananza, degli spari. La situazione non era completamente calma, mi dicevano che nei piccoli paesi ed in campagna quasi tutte le famiglie avevano in casa un'arma da sparo (anche il moschetto). Tutte riservatissime, le loro case, in genere si componevano del solo piano terreno, erano recintate da un muro alto più di due metri e con un portone di legno massiccio.

 

Cap. II)

 


L'8 settembre 1943 il generale Badoglio, col benestare del Re Umberto di Savoia, firmò l'armistizio con gli angloamericani che già avevano occupato gran parte dell'Italia meridionale, così l'Italia si trovò divisa in due: Sud e Nord. L'Italia settentrionale fu occupata dai nazifascisti che riorganizzarono lo Stato istituendo la Repubblica di Salò. Il Comando Tedesco Balcanico ordinò al Comando superiore della Guardia di Finanza a Tirana di rientrare, per via terra, nell'Italia del nord per continuare il proprio servizio d'istituto.
Fu così che il 19 settembre, raggruppati in un unico reparto, con le nostre armi personali, con la nostra sussistenza, con cucine da campo e reparto sanitario, fummo  avviati a piedi ed a tappe verso la stazione ferroviaria più vicina, cioè a Bitola (in Macedonia) a circa 250 chilometri di distanza.
Nella tarda serata della prima tappa venimmo attaccati con mitragliatrici dai partigiani che, dalle vicine colline, con megafoni, ci esortavano a consegnare le armi e ad unirci a loro perché comunque i Tedeschi non ci avrebbero consentito di tornare in Italia.
Sparavano alto, si sentivano le pallottole sfrondare gli alberi degli olivi sotto i quali eravamo accampati. La nostra carovana di veicoli da trasporto era ferma sul ciglio della strada ed i partigiani, mentre razziavano i carri dei viveri, furono dispersi da due autoblindo tedesche sopraggiunte da Tirana. Non vi furono né morti né feriti d'arma da fuoco.
La mattina riprendemmo la nostra marcia. Più avanti, a Struga, vennero in accampamento alcuni militari bulgari in divisa tedesca, erano armati; con ordini tedeschi e motivi banali ci disarmarono e non ci diedero nulla da mangiare.
Arrivammo a Bitola stanchi ed affamati. Un finanziere richiamato, che a Corridonia (provincia di Macerata) faceva il macellaio, ci propose di macellare un cavallo, il migliore; assicurava che sarebbe stato buonissimo. Difatti dopo qualche ora mangiammo carne lessa, la migliore di tutta la mia vita, e del brodo con qualche pezzo di galletta.
Il 3 ottobre '43, a Bitola, ci fecero salire su di un treno merci e partimmo verso il Nord. Dopo varie fermate e cambi di treno: Skopje (il 4 ottobre) Kraljevo (il 6) Belgrado (il 7) Baja (il 9) Vienna (l’11) Linz (il 12) Ratisbona (il 12) Riesa (il 13) Poznan (il 14) Kutno (il 14) Varsavia (il 15) Leopoli (il 16), arrivammo la sera del 16 ottobre '43 (sabato) a Biala Podlaska (Polonia) vicino ai confini con la Russia. Era un campo di concentramento e smistamento per definitive assegnazioni.
Il 20 ottobre del '43 fui inserito in un folto gruppo di giovani militari, quasi tutti italiani, e ci fecero ripartire in treno per raggiungere il campo di assegnazione.

  

Cap. III)

 La sera del 23 ottobre arrivammo a Gorlitz, al campo M. Stammlager VIII/A.
Qui, al lager VIII/A, ci fecero la disinfestazione e profilassi: iniezione al petto, spolverizzazione epidermica dopo la doccia, ed i vestiti furono sterilizzati in autoclave. Ci fecero anche una foto di identificazione con numero matricolare; il mio era il n° 91775.
Il giorno 30 un migliaio di uomini, divisi in gruppi, partirono per raggiungere la sede di lavoro; io fui assegnato all'ottavo gruppo, composto da circa centoventi giovani militari. La sera dello stesso giorno arrivammo a Bunzlau (cittadina in provincia di Breslavia posta sulla sinistra del fiume Oder) in una fonderia di ghisa denominata Klinghen che in precedenza era stata fermata ma che poi era stata riattivata. Trovammo una baracca dormitorio di legno, nuova, con letti a castello nuovi, mi sembra che le stanze fossero sei, dotate di una grande stufa a carbone (di carbone ce n'era in abbondanza).
Domenica 31 ci fu l'assegnazione del lavoro in base alle attitudini di lavoro di ognuno e secondo le esigenze di fabbrica, nel pomeriggio riposo. Io fui aggregato al gruppo di muratori (una decina) perché dissi che fin da giovanissimo avevo lavorato nell' edilizia con mio padre.
Lunedì 1° novembre (per i cattolici era la festa di tutti i Santi) ebbi il primo approccio di lavoro. Mentre tutti gli altri Italiani facenti parte dell'8° gruppo vennero inseriti all'interno della Fonderia, o addetti allo scarico dei vagoni ferroviari carichi di materiali vari destinati agli altiforni, noi muratori (una decina) dovemmo fare la base in muratura, su di un terreno in pendenza, per piazzare una nuova baracca.
Il lavoro da muratore era considerato un lavoro leggero per cui la razione del pane e del burro era inferiore a quella dei lavoratori (schwerarbeit) a lavoro pesante.
Da subito ci fu una selezione tra i muratori perché, sulla parte più bassa del terreno in pendenza, per portare in piano la base di appoggio della baracca, bisognava costruire dei pilastri e degli archi di mattoni, compito che richiedeva capacità tecniche specifiche. In seguito il numero dei muratori fu ulteriormente ridotto, tanto che di muratori fissi per il complesso di fabbrica rimanemmo soltanto io ed un Francese. Spesso dovevamo lavorare nei giorni festivi, cioè quando lo stabilimento o il reparto erano fermi per riparazioni o sostituzioni di macchine o pezzi di esse.
Nel campo vi erano diverse baracche, di struttura tutte uguali, per internati militari francesi e belgi, per prigionieri russi (recintate) e per civili di varia nazionalità d'ambo i sessi, in prevalenza ucraini e polacchi. Vi era un corpo di Guardia di militari tedeschi addetto alle relazioni con i militari ed i prigionieri riguardanti: la sanità (malati, infortunati) la disciplina (intemperanze, liti, sabotaggi) i trasferimenti. Tutto, salvo il lavoro che invece era ordinato e seguito dalla dirigenza tecnica della fabbrica Klingen.
Dalla baracca in cui mi trovavo, a qualche chilometro di distanza, si notava un altro insediamento industriale, si vedevano in filovia, sopra i fabbricati, dei vagoncini in fila per il trasporto di materiale. Il collega muratore francese mi diceva che era una fabbrica di  cuivre (rame) e che vi lavoravano gli Ebrei.
Il mese di febbraio fu il mese più brutto per me, anche se con qualche scintilla di fortuna; proviamo a parlarne.
Chiesi al mio "mastro" di mandarmi a lavorare con il suo collega dello scalo ferroviario, al fine di ottenere la razione di pane più grande concessa per il lavoro più pesante, per questo fine la cosa andò bene, ma mi feci male ad una mano, niente di grave, però mi venne un'infezione, chiesi la visita medica e mi venne prescritto riposo in baracca e cure. 
Ripresi il lavoro come muratore di supporto agli elettricisti nello spaccio ristoro per i tedeschi. Avevo preso confidenza con le signorine inservienti del ristoro e chiesi loro che, se alla fine dei pasti fossero avanzati dei cibi, li avrei accettati volentieri per me ed i commilitoni di baracca: furono meravigliose! Aderirono alla mia richiesta dicendomi di farmi vedere ad una certa ora nei pressi dello spaccio. Io mi comportavo come mi era stato detto: nel pomeriggio mi facevo vedere ed una signorina mi faceva cenno di avvicinarmi, mi consegnava un secchiello pulito con del cibo (zuppa, pasta, patate od altro). Qualche volta mi faceva cenno negativo.
Il cibo che ci davano nei pasti convenzionali era certamente insufficiente. Eravamo tanto deperiti che un Comitato Dirigenziale ci fece somministrare a colazione una scodella di orzo bollito con la sua acqua, ma non si ottennero risultati soddisfacenti. Ai militari francesi internati arrivava un pacchetto alimentare ogni mese e spesso scambiavano con gli italiani qualcosa di commestibile con oggetti magari anche futili.
Insomma, la preoccupazione nostra più sentita era quella di procurarci il cibo per non deperire troppo e non ammalarci, perché, una volta ricoverato all'ospedale, se il malanno non poteva essere risolto presto per tornare al lavoro, il malato era destinato al "Lazzaretto" e forse sulla via dei campi "inferi".
Io inviavo spesso i moduli ai miei genitori perché potessero spedirmi tramite Croce Rossa dei pacchetti (ne era consentito uno al mese), ma per quanto facessero non ci riuscivano, e quando ci riuscivano andavano rotti o dispersi. Uno solo ne ricevetti. I miei genitori si rivolsero anche a dei parenti che abitavano in città a Lussemburgo per farmi avere dei pacchetti alimentari, così, anche da tali parenti ebbi un pacchetto di pane e biscotti. Non era consentito inviare pacchi pesanti e voluminosi, né cose che avrebbero potuto deteriorarsi.

 

cap. IV)


Negli ultimi giorni di febbraio mi venne una brutta foruncolosi diffusa e mi ero gonfiato in tutto il corpo, compreso il viso: ero sfigurato!
Il militare tedesco addetto mi accompagnò, assieme agli altri chiedenti visita medica, dal sanitario preposto, il quale mi fece fare delle analisi (urine, sangue, etc.), mi prescrisse riposo in baracca, medicine e medicazioni. Questo disturbo si protrasse nei primi giorni del mese di marzo, anche con febbre. L'ultima volta che andai dal medico, questi mi fece spremere gli ultimi due grandi foruncoli che avevo sul collo ed una grande quantità di pus e sangue scuro mi scivolò sulla schiena ed invase il pavimento. Mi fecero la medicazione e mi dissero:
-Puoi lavorare, però la mattina prima di andare al lavoro passa per la medicazione. –
Passarono diversi giorni prima che i due buchi lasciati dai foruncoli si chiudessero.
Intanto la possibilità di ritirare i cibi avanzati allo spaccio di ristoro dei Tedeschi era diventata difficile da realizzare per impraticabilità, cioè per esigenze di lavoro. Spesso mi era impossibile tralasciare il lavoro nell'ora stabilita e seppure ci riuscivo a volte non trovavo nulla, questa cosa perciò si esaurì spontaneamente, com’ era prevedibile. Un giorno, però, vidi il solito cavallo polacco al quale era stato legato intorno alla testa un sacchetto che spesso alzava di scatto per far entrare in bocca la biada, così, ricordando la storia dell'orzo a colazione, mi venne l'idea che anche la biada potesse contenere qualcosa di buono da mangiare. Avvicinai l'uomo del cavallo, che trainava il carro con botte di lamiera e la pompa a mano (vuotava i pozzi neri) e gli chiesi se per un pacchetto di sigarette poteva darmi un po' della biada del cavallo. Acconsentì e la mattina seguente, prima di andare al lavoro, avremmo fatto il baratto. 
Il baratto, nella sua pochezza, andò bene. Utilizzavo al meglio i cereali contenuti, orzo, etc, ricevevo, quale razione mensile, un pacchetto di sigarette e, non avendo il vizio del fumo, lo scambiavo con un sacchettino di biada (forse un paio di chili), ne prendevo due pugni, lavandola andavano via le pagliuzze di pula, e dentro una gavetta la facevo bollire con un paio di patate, un poche di kohlruben, una puntina di burro (della razione), ed ecco fatta la zuppa.
Ora mi permetto di raccontare un altro fatto strano ma vero.
Un giorno, mentre passavo lì vicino, mi accorsi che sotto il reticolato della recinzione del comprensorio c'era un passaggio, un po' scavato nella terra sabbiosa, dove era evidente la possibilità di passare a carponi. Al di là vi era una bella strada pubblica alberata, con piante da frutta, e, dall'altra parte della strada, c'era un campo di rigogliose rape. Parlai del fatto in camerata e vi furono commenti vari. Si convenne che vi erano delle persone che andavano a raccogliere la verdura da cuocere e mangiare. Nessuno osava tentare, allora il "Toscanino", Susini, mi provocò e decidemmo di provare insieme ad andare a raccoglier un po' di cime di rapa.
La domenica mattina tentammo. Eravamo in mezzo al campo con qualche chilo di verdura raccolta, e Susini, che stava più vicino alla strada, mi disse:
 - Io ho finito, mi avvio. -
Risposi che anch'io avevo finito ma che mi era caduto il coltellino ed intendevo recuperarlo.
Il Susini aveva spinto il suo fagotto di verdura al di là del recinto e, mentre stava per passare anche lui, un cittadino tedesco che transitava in bicicletta lo vide, lo fermò e lo accompagnò al Corpo di Guardia militare all'ingresso della fabbrica. Io me ne accorsi e in tutta fretta rientrai in baracca facendo presente il fatto. Dopo pochi minuti entrarono due militari tedeschi, ed il capo baracca, militare anche lui, originario della provincia di Bolzano, parlava il tedesco. Ci fecero uscire tutti e, inquadrati, fummo contati e sottoposti all'appello; pensavano che ci fosse stata un'evasione da parte di una o più persone.
Il Susini stava ancora al Corpo di Guardia. I militari tedeschi erano molto adirati e, forse per indurci a dire la verità, il Capo, cominciò ad indicare: "tu vieni fuori... tu vieni fuori...." e fece uscire dal rango dieci internati a caso, interrogandoli e minacciando esemplari sanzioni.
Della questione ne venne a conoscenza la Direzione della fabbrica e alla fine non fu difficile dimostrare, con il fagotto della verdura all'interno del recinto, che non vi era stata evasione di sorta ma solo un tentativo di attenuare i morsi della fame. Il Susini venne redarguito e ammonito severamente, punito con due secchi di acqua gelata addosso. Durante la decimazione il primo ad uscire dalle file era stato Lucarelli, mio compagno di stanza, che indignato per la sua malasorte, ripeteva:
 -Quando si tratta di far la conta per l'assegnazione delle ossa bollite... a Lucarelli mai un osso, ma se si tratta della decimazione... Lucarelli è il primo ad essere chiamato!-

 

 

Cap. V)


Nell'estate del 1944 (non ricordo la data precisa) vennero in baracca due militari tedeschi e ci annunciarono che il Duce ed il Fuhrer avevano deciso che i militari italiani venissero internati come civili e come tali considerati a tutti gli effetti, cioè, dopo gli impegni di lavoro erano liberi di uscire e di essere pagati con la valuta corrente in Germania (i reichsmark). I due militari ci dissero anche che chi di noi avesse voluto arruolarsi nei reparti militari avrebbe potuto farlo conservando il grado che aveva; nessuno aderì. La libertà di uscire per noi era importante per andare nei campi a "spigolare" spighe di grano e patatine e poter frequentare locali pubblici.
Una volta, in una birreria, ero con il mio amico Quarchioni, incontrammo un sottufficiale tedesco attempato, ci salutò in italiano e ci mettemmo a conversare, ci raccontò di essere stato oltre che in Italia anche in Spagna, in Francia, etc. Si rammaricava per tutte le distruzioni e per le grandi sofferenze dei popoli in guerra, diceva che si sarebbe potuto evitare tutto questo con la democrazia, il referendum, le votazioni europee, chiedendoci se eravamo d'accordo. Noi rimanemmo un po' perplessi, perché sentir dire queste cose con una tale semplicità e chiarezza da un "nazista" era strano, soprattutto per noi, nati nel fascismo, che conoscevamo solo molto vagamente il significato di tali sistemi democratici. Comunque non solo eravamo d'accordo, ma ci sentivamo mortificati ed un po' arrabbiati. Bevemmo la birra insieme e ci salutammo cordialmente.
In quei giorni c'era stato l'attentato al Fuhrer ed una grande sbandata politica. Sui volti dei Tedeschi si notava un senso di smarrimento ma poi si diffuse una propaganda secondo la quale, anche se sui fronti di guerra le loro truppe perdevano terreno, la guerra avrebbe potuto risolversi a loro favore da un giorno all'altro. Intendevano far capire, forse, che erano a buon punto nella realizzazione della bomba H.
In realtà neanche i razzi V/1 e V/2 teleguidati su Londra , con il loro carico esplosivo, diedero i risultati sperati. I Londinesi, dopo un primo momento di sbigottimento, furono tranquillizzati dagli ottimi risultati ottenuti dalla contraerea e dai caccia  spitfire, che abbattevano i missili prima che arrivassero su Londra utilizzando dei Radar che erano in grado di intercettarli ancora prima che entrassero in territorio inglese. Ovviamente i Tedeschi smisero di fabbricare V/2 ed il relativo personale affluì ai laboratori di ricerca nucleare.
Intanto la mia salute stava migliorando perché, oltre ad aver ottenuta la razione viveri maggiore, cioè quella del lavoro pesante, mi ero arrivato un pacchetto alimentare dai miei genitori che vivevano a Fiuminata, in provincia di Macerata, un altro mi arrivò dal Lussemburgo. Inoltre avevo conosciuto dei militari francesi internati con i quali scambiavo degli oggetti con cose alimentari. C'erano alcuni Francesi che stavano in Germania già da alcuni anni ed avevano più opportunità dovute a più conoscenze. Una volta scambiai  un paio di mutandoni di lana per un chilo di pane per cinque settimane.
Una mattina il Capomastro mi disse: "Lui', dobbiamo costruire una piscina" (mi ha chiamato Lui'  fin dal principio ma non ho mai capito il perché). Gli risposi che era una cosa buona perché faceva parecchio caldo... si fece una risatina. Dopo seppi che si trattava di un deposito d'acqua, una riserva per eventuali necessità: "la guerra?".
Infatti! Erano i primi giorni del mese di luglio del '44, il Meister fece costruire una piccola ferrovia da carrelli per lo sgombero del materiale dello scavo, fece portare una macchina tappeto-rullante elettrica per il caricamento del terriccio dello scavo su di un vagoncino carrello da portare alla discarica. Due prigionieri russi erano addetti a rimuovere la terra con il piccone e altri due al carrello. Due giovani donne ucraine con la pala gettavano la terra nella tramoggia del tappeto rullante che ruotando la scaricava nel vagoncino. Vi era anche un militare internato francese "cappellano militare", robusto, che accostava la terra con la pala vicino alla tramoggia (ed anche dentro). Un giorno una donna tirò fuori dal seno un piccolo crocifisso e, baciandolo, lo mostrò al prete (in Russia c'era il comunismo ateo).
Io curavo la parte tecnica seguendo le indicazioni del Meister  e del progetto (i Russi mi chiamavano geometra). Tale lavoro fu relativamente lungo; comunque verso la fine dell'estate la "piscina" era piena d'acqua.

                                                                        

                                                                         Cap. VI)


Intanto la guerra aveva preso una svolta precisa e irreversibile: lo sbarco degli angloamericani in Normandia, dove si erano attestati saldamente con uomini e mezzi di ogni tipo.
Il Generale De Gaulle con la sua armata, dalla Francia, riconquistava il terreno perduto. Così,  i Tedeschi furono costretti a spostare dal fronte russo a questo nuovo fronte ingenti reparti armati, favorendo i Russi alla riconquista di molte posizioni, permettendogli di avanzare a scacchiera ma implacabilmente.
In quel tempo le autorità militari e civili del settore di Bunzlau mobilitavano tante persone giovani idonee al lavoro, tre le quali anche noi della fonderia Klingen, per formarne un treno e mandarle a fine settimana (sabato e domenica) oltre il fiume Oder in provincia di Breslavia, a scavare fossi e ostacoli anticarro per frenare l'avanzata russa.
Una sera, mentre io e Quarchioni Armando eravamo in "libera uscita",  passammo nel luogo dove gli Italiani solevano incontrarsi per conoscere altri connazionali, incontrammo un nuovo comprovinciale (della provincia di Macerata) del land di Camerino.
Facemmo conoscenza: si chiamava Misici Zeno, lavorava presso un forno ed aveva in tasca, in un cartoccio, qualche etto di farina che ci offrì e che accettammo con gioia. Così lo invitammo per la domenica successiva nella nostra baracca, per mangiare insieme gli gnocchi di patate fatti con la sua farina.Questi incontri si ripeterono altre volte e decidemmo che a fine conflitto saremmo tornati in Italia insieme.
Intanto il tempo passava, l'armata russa si avvicinava, trascorremmo le feste natalizie abbastanza tranquillamente, convinti che le feste successive le avremmo passate in famiglia.
L'inverno fu molto freddo, ricordo che una notte la temperatura andò sotto i trentacinque gradi e sentimmo dire che vi erano stai dei morti per assideramento sulla strada, persone molto anziane e bambini, che scappavano dal fronte di guerra russo. Vidi due prigionieri di guerra russi del nostro comprensorio rompere il ghiaccio e tuffarsi nell'acqua sotto il ghiaccio, perché, dicevano, l'acqua era più calda.
Nel mese di febbraio del 1945 l'Armata Russa incalzava ed era vicina, fummo inquadrati da militari tedeschi ed a piedi evacuammo la zona in direzione di Dresda, ma la notte del secondo giorno di marcia (c'erano venti centimetri di neve) decine di aerei americani, le famose "Fortezze Volanti" bombardavano la città causando migliaia di morti e feriti. Gli aerei venivano ad ondate. Dresda fu semidistrutta dalle bombe e dagli incendi.
A causa dei bombardamenti ci fecero cambiare direzione di marcia e ci condussero a Lipsia. Qui venimmo alloggiati in un Liceo bombardato da aerei in precedenza, ma che, per la maggior parte, era rimasto intatto. Le aule furono usate come dormitori. Vi erano alloggiati anche "civili" di varie nazionalità e oltre agli uomini vi erano donne e qualche bambino.
Durante il mese di marzo quasi tutte le notti ci furono allarmi aerei e successivi bombardamenti, diretti in prevalenza al nodo ferroviario di Lipsia, ma le bombe cadevano anche in città, e alla mattina venivano alcuni militari armati tedeschi a prelevare tutti gli uomini idonei al lavoro per accompagnarci al cimitero, dove ci facevano scavare le fosse per i morti uccisi dai bombardamenti. La sera ci riaccompagnavano agli alloggi, a piedi, a circa un'ora di marcia.

 

Cap. VII)


Il 18 Aprile 1945 le truppe americane entrarono a Lipsia e rimanemmo completamente liberi per oltre due mesi con gli Americani.
Furono i due mesi più belli della mia vita, libero e senza pensieri!
Ci davano circa 1.800 calorie di generi alimentari conservati (salvo duecento grammi di pane) pro capite. La razione comprendeva biscotti, gallette, formaggi, burro, marmellata, cioccolato, fagioli in scatola, frutta in scatola, ed altro. In Piazza della Stazione si era creato un mercato spontaneo considerevole di scambio di tali generi con cibi freschi ed altro portati dai civili tedeschi. Io feci amicizia con una ragazza del posto, di nome Elen, per merito del cioccolato.
In seguito gli Americani ed i Russi si accordarono per creare una linea di demarcazione fra i due eserciti, più regolare, meno frastagliata. Così, la zona di Lipsia rimase ai Russi e noi internati militari rimanemmo con loro, quasi abbandonati, per circa un mese. I Russi, ci trasferirono in baracche che erano state alloggi di operai della fabbrica di ceramica  Asag, dove c'erano già altri italiani civili e militari, fra questi alcuni ufficiali erano a capo dell'aggregazione in attesa di farci passare il più presto possibile dalla parte americana.
Alle reiterate richieste al Comando Russo da parte dei nostri Ufficiali Superiori veniva risposto che gli Americani non erano pronti per ricevere una moltitudine di gente quale eravamo noi e ad un certo punto i Russi dissero: "sotto la vostra responsabilità e con il nostro consenso potete andare alla stazione, allestire un treno e partire per Hof, città dove gli Americani hanno un centro di direzione e comando".
Tra la nostra gente fu reperito il personale capace per tale scopo e l'8 luglio del '45 un lungo treno, carico di persone, partì alla volta di Hof.
Il convoglio, dopo circa un paio d'ore di marcia, si fermò e non andò più avanti. Era la linea di confine tra i Russi e gli Americani. Questi non ci lasciarono passare, non avevano nessun ordine, non erano stati né avvertiti né autorizzati dai loro superiori. Chiamati al telefono, dissero che non avevano la possibilità di accogliere tale massa di gente (si parlava di oltre duemila persone).
Non era ancora mezzogiorno, le persone scendevano dal treno e si disperdevano, molte razziarono un grande campo di patate che ancora non erano state raccolte perché non ancora mature. Nel primo pomeriggio vedemmo una donna ed un uomo che piangevano disperati, erano i proprietari del campo di patate. Le patate per loro erano un alimento fondamentale, come il pane per noi. Io e Quarchioni non ci perdemmo d'animo, da una pattuglia di militari russi, in perlustrazione sulla linea di confine, capimmo che poco lontano, a sud, a non molti chilometri, c'era un insediamento militare russo con un campo di raccolta per sbandati, e c’ incamminammo. Per fortuna era una bella giornata, la sera dopo arrivammo a Sonneberg (mi sembra nella zona di Erfurt, ad una quarantina di chilometri), in un campo precario russo, per militari di passaggio. Qui ci diedero una gavetta di brodo caldo con relativo pezzo di carne e del pane. Fu una cosa graditissima perché, oltre a soddisfare la fame, era dal tempo in cui eravamo passati per Bitola, dove nel '43 macellammo il cavallo, che non mangiavo carne in quel modo.
Dopo qualche giorno (24 luglio 1945) i Russi ci imbarcarono su di un convoglio ferroviario insieme agli Austriaci e ci fecero partire per il sud: Guttenfurt, zona di demarcazione tra Russi e Americani. I Russi ci passarono in consegna agli Americani con rapidi controlli e le formalità del caso, poi proseguimmo per Hof. Qui gli Americani ci sistemarono in un centro di smistamento, ci fecero fare la disinfestazione totale, e chi ne aveva bisogno passava alla visita sanitaria con eventuali cure essenziali. Ci diedero da mangiare e da dormire. Il giorno 27 luglio del '45 ci fecero riprendere il viaggio per l'Italia in ferrovia.
Dopo varie fermate e soste, Furth (il giorno 28), Monaco (il 29), Innsbruck (il 30), Brennero (il 31), raggiungemmo Pescantina in provincia di Verona, centro di raccolta di tutti i reduci militari.
Qui, a Pescantina, un Comitato Militare Italiano registrava il nostro stato militare, ci forniva le prime assistenza procurando anche qualche capo di vestiario a chi ne aveva bisogno. Mi diedero del denaro che mi venne annotato sul foglio di licenza (due mesi da trascorrere in famiglia) e che allo scadere, rientrando al Corpo di appartenenza, avrei dovuto riconsegnare.

Cap. VIII)


La mattina del giorno 2 agosto 1945, io ed il mio compagno Quarchioni, ripartimmo con un treno militare diretto al sud, costa adriatica. Prima di rientrare in famiglia, però, decidemmo di verificare il nostro stato generale di salute e di riambientamento. Scendemmo quindi a Bologna, andammo al comando tappa presso la caserma di Artiglieria, dove restammo fino al 5 agosto. In questi tre giorni fummo sottoposti ad accertamenti sanitari,  visitammo la città e andammo a piedi al santuario di San Luca. Riprendemmo poi un treno per il sud adriatico, scendemmo a Civitanova Marche, risalimmo su di un altro treno che avrebbe dovuto arrivare a Fabriano ma che invece si fermò a Macerata, perché più avanti i ponti della ferrovia sul fiume Potenza erano stati tutti distrutti dai tedeschi. Non ci scoraggiammo e, con mezzi di fortuna, arrivammo alle nostre case: Quarchioni a Corridonia ed io a Fiuminata.
Mi è gradito raccontare del mezzo di fortuna che da Macerata mi portò a Pioraco e poi a Fiuminata.
Mi ero informato circa i mezzi pubblici di trasporto da Macerata a Fiuminata ed avevo saputo che l'autobus c'era il mercoledì ed il sabato. Era lunedì e non sopportavo l'idea di dover aspettare fino al mercoledì al posto di ristoro e tappa dove poco prima avevo mangiato; tanta era l'ansia di arrivare che decisi di andare a piedi con il mio zaino, con la speranza di trovare qualcuno che mi desse un passaggio (mancavano 50km circa per arrivare a casa, ne avevo percorsi già centinaia a piedi!).
Mentre stavo per lasciare la città mi fermò un giovane chiedendomi se fossi un reduce della Germania e dove andassi. Alla mia risposta, "Fiuminata", fece un salto di gioia e mi disse:
 - Sei fortunato, tra poco passerà qui il signor Rossi di Sefro per ritirare un sacchetto di farina, è venuto a Macerata con il camion a prendere del materiale per fare l'allevamento di trote che sta costruendo con i Lenti di Fiuminata. Ma tu chi sei?-
 Risposi:
 -Lenti. –
 -Ma no, non è possibile, tanta gioia in due minuti. Si, perché tu certamente ignori che i tuoi familiari sanno che sei deceduto sotto un bombardamento aereo in Germania da parte dei Russi.- Così, in quel momento ero io ad essere frastornato.
Questo giovanotto che mi aveva fermato aveva lavorato a Fiuminata, in un mulino del luogo, e conosceva la mia famiglia.
Comunque dopo poco tempo arrivò il signor Rossi con il suo camion. Messo al corrente del caso, anche lui sorpreso e meravigliato, mi disse che era un privilegio portare a casa il figlio a Luciano Lenti; prese il suo sacchetto di farina e partimmo.
A San Severino Marche ci fermammo a caricare, in fabbrica, delle piastrelle di cemento.
A Pioraco scendemmo dall'autocarro, anche perché Sefro non era sulla strada di Fiuminata, ed un signore vedendo passare un reduce si avvicinò per fare domande, in questo modo si diffuse rapidamente la notizia.
Dopo pochi minuti ero circondato da decine di persone che facevano domande; una signora mi baciava le mani e piangeva, le chiesi perché facesse così "io non la conosco, ci deve essere un equivoco.. .
 - No signor Lenti, nessun equivoco, io sono la mamma di Gisleno Vitali il ragazzo che era sul treno merci, viaggiavate verso nord, in Jugoslavia, gli comprasti un filone di pane e qualche mela dagli indigeni che chiedevano tabacco e sigarette in cambio dei loro generi alimentari, generi che scarseggiavano anche per loro.-
Allora mi tornò in mente quel ragazzo affamato che sul treno mi aveva chiesto un pezzo di pane perché non aveva più nulla da scambiare. Erano già diversi giorni che mangiavamo poco e male e da quel tempo abbiamo avuto sempre fame.
Era già l'imbrunire, il taxi da rimessa che il signor Rossi aveva chiamato era lì che aspettava, un saluto sommario a quella gente e via, gli ultimi cinque chilometri, dopo più di tre anni che mancavo dalla famiglia, da Fiuminata.
Avevo saputo della triste ed ossessionante notizia sulla presunta mia morte e dello stato d'animo in cui si trovavano i miei familiari perciò avevo il timore di provocare una devastante sorpresa, cercammo allora di procedere con molta cautela. 
Prima incontrammo alcuni compaesani che chiamarono e parlarono con i miei fratelli, questi poi scherzando e ridendo tutti insieme cercavano di apparire burloni, di sdrammatizzare quel momento, accompagnandomi dai miei carissimi genitori. Riabbracciai i miei cari e insieme a loro piansi per la commozione. Seguì la festa con vino e dolci fino a tarda sera.

 

 

Cap. IX)


Ora vorrei spiegare come nacque l'equivoco sulla mia presunta morte.
Il giorno dell'evacuazione dalla zona di Bunzlau ci fu un bombardamento aereo da parte dei Russi ed uno spezzone cadde anche sulla baracca, proprio accanto al mio letto, ma io non c'ero. Nel  letto accanto al mio c'era un certo Sagradin della provincia di Rovigo, che rimase gravemente ferito. Il mio compagno Quarchioni mi aveva indotto a lasciare il pasto sul tavolo e a seguirlo in fabbrica per fare la doccia prima di partire. Mentre eravamo in fabbrica ci fu il bombardamento e il mitragliamento da parte di tre aerei russi che colpirono anche la baracca dei prigionieri russi incendiandola. Io e Quarchioni uscimmo dalla fonderia mentre si udivano ancora gli aerei in volo, vi era un fuggi fuggi di persone, devastazioni ed incendi. Corremmo in baracca, trovammo la devastazione provocata dalla bomba ed il sangue di Sagradin che avevano già trasportato, prendemmo le nostre cose più utili con lo zaino ed andammo al raduno dei militari internati, organizzato da militari tedeschi.
Dopo questi fatti, venne a cercarci Misici Zeno, il nostro amico di Camerino, con il quale eravamo d'accordo di scappare tutti e tre insieme. Misici nel vedere tutto quel sangue vicino al mio posto letto, lo squarcio fatto dalla bomba  e la mia scodella rotta con dentro ancora la zuppa, tornò indietro deluso e turbato. Ebbe la fortuna di tornare a casa circa un mese prima di noi. Incontrò per caso a Camerino un carabiniere lì in servizio ma di una frazione del Comune di Fiuminata, ed a lui raccontò quello che aveva visto. Il carabiniere trasmise la notizia a dei parenti che erano andati a trovarlo e loro tornati al paese fecero altrettanto con altre persone finché la notizia, non molto chiara, arrivò ai miei familiari. Essi si rivolsero alle autorità civili e militari, ma non ricevettero nessuna notizia. Cercarono di andare alla fonte della notizia. Mio fratello Angelo rintracciò il Misici vicino Camerino, mentre stava lavorando nel campo di una tenuta. Il Misici vedendo mio fratello da lontano esclamò:
 - Caro Lenti, che piacere rivederti, che bello, sei tornato a casa anche tu !-
  Allora mio fratello capì che Misici non aveva visto  il Lenti di Bunzlau deceduto, né altri lo aveva mai affermato, però la famiglia rimase con questo dubbio ossessionante, dubbio che svanì quella sera del mese di agosto al mio arrivo a Fiuminata.
Verso la fine del mese di Ottobre del 1945 arrivò la mia assegnazione alla legione della Guardia di Finanza di Milano e fui inserito nella Brigata di confine di Lozzo in Val Veddasca.
Ma qui comincia un'altra storia...

 

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