Francesca Santucci

(recensione al libro di  Maddalena De Leo)

All'Hotel Stancliffe e altri racconti giovanili

 

Edizioni Ripostes

 

Brontë: meravigliosa famiglia! A dispetto dei secoli immutato ne resta il fascino, fra luci ed ombre, fra aspetti chiariti ed altri che attendono ancora d’essere disvelati. 
Ogni scritto che li riguardi, ogni nuova rielaborazione cinematografica o televisiva, continua a suscitare entusiasmi e consensi, perché le loro vite, le loro storie reali e immaginate, contengono elementi destinati ad ammaliare i lettori di ogni epoca: un padre zelante reverendo, una madre anzitempo dipartita,  uno scenario aspro e tormentato, il paesaggio della brughiera, nella terra dello Yorkshire, in cui, posta di fronte ad un cimitero, è immersa una casa-canonica.
È qui che giovani dalle anime in tumulto, ostinati, pervicaci, mai immobili, né mentalmente né fisicamente, ché spazi incredibili per quei tempi attraversarono e superarono (quasi in presagio della falce distruttiva che precocemente si sarebbe abbattuta sulle loro pulsanti esistenze), sotto la disciplinata, ma non ossessiva, sferza paterna, la presenza severa, ma non inflessibile, d’una zia metodista, il calore d’una serva, Tabby, che li nutre del folklore locale,  crescono, fra ardore e contemplazione, sublimando le loro pulsioni in versi e storie leggendarie che immaginano giocando un gioco letterario coltivato, poi, fin nell’età adulta, e che chissà a quali vette ancora maggiori li avrebbe innalzati se non fosse intervenuta anzitempo la morte a schiantarli!
La dimora dei Brontë era un presbiterio, continuamente sferzato da un  vento impetuoso, esacerbante il  devastante male di famiglia, la tisi, che tanto spaventava Charlotte (Mentre spirava di continuo lei, Charlotte, si lamentava del suo effetto, così nella lettera del 1847 di Anne Brontë ad Ellen Nussey).
Grande, tetro, costruito in pietra grigia, il presbiterio sorgeva isolato su un’altura, al limitare della brughiera, e confinava con un cimitero solcato da una lugubre fila di croci bianche.
I ripetuti lutti familiari, prima la madre, poi le due sorelle,  l’educazione precisa e puntuale, mai tirannica,  però, della zia e del padre Patrick, che improntò le loro esistenze al rigore e alla disciplina, l’atmosfera selvaggia del paesaggio, cupo soprattutto d’inverno, quando le notti erano gelide e tormentate dall’urlo continuo della bufera, esasperarono l’acutissima sensibilità soprattutto delle tre sorelle, Charlotte, Emily ed Anne (Branwell, l’unico fratello, di carattere taciturno e duro, era portato ad appartarsi) e ne accentuarono la facoltà immaginativa ereditata dalle non lontane origini irlandesi.
Ripiegate in se stesse, riversarono le loro fantasie in fughe fantastiche, in mondi immaginari e in versi  cupi e tormentati, ma instaurarono anche fra loro una tenerezza immensa e, in assenza del padre, senza essere ostacolate dalla zia,  in grande libertà di spirito, scelsero occupazioni e svaghi, lasciando risuonare la casa dei loro giochi e delle loro voci, dedicandosi, avide, alle letture preferite (oltre ai classici, Walter Scott, Byron, Coleridge, Wordsworth).
Dal forzato isolamento furono proprio le  ragazze a trarre  le risorse migliori per guardare in se stesse e sondare i moti del cuore, ricavando dalle letture materia per alimentare le loro fantasie e i loro sogni.
E fu quasi per gioco che, questa volta con Branwell partecipe, cominciarono a scrivere racconti, dando vita alla creazione di due diversi mondi immaginari e cicli narrativi: Angria, ad opera soprattutto di Charlotte e Branwell, e Gondal, di Emily ed Anne.
Ma i cimenti letterari non restarono episodio isolato, i Brontë continuarono a coltivare la scrittura, sia insieme che individualmente, lasciando confluire nei loro scritti i personaggi immaginari dell’infanzia.
Charlotte, la maggiore delle sorelle, determinata, autoritaria, rapidamente progredita nella scrittura, fu la più ostinata nel volersi affermare; generalmente nota per essere l’autrice di Jane Eyre, il suo secondo romanzo, nel quale confluì la terribile esperienza della morte di due delle sue sorelle, insieme alle quali era stata mandata in una scuola pubblica così maltenuta da causare appunto la prematura scomparsa (e proprio in seguito al tragico avvenimento il padre decise di educare i figli in casa favorendo, così,  il loro isolamento dal mondo ed il contatto con la natura selvaggia, la cui presenza si sarebbe rivelata fondamentale in tante delle loro opere) fu autrice anche di altri numerosi scritti.
E riguarda proprio Charlotte questa volta la lieta novità nel mondo degli appassionati dei Brontë: la pubblicazione, per le edizioni Ripostes, del libro "All'Hotel Stancliffe e altri racconti giovanili", traduzione in italiano di una selezione di suoi scritti acerbi ad opera della studiosa Maddalena De Leo, che già in svariate occasioni ha offerto approfondimenti notevoli sull’illustre famiglia.
Nella primavera del 2003 tutto il mondo letterario sussultò, ma in particolare gli appassionati bronteani, allorchè si diffuse la notizia, comunicata dai maggiori quotidiani del mondo, di un inedito di Charlotte Brontë, “Stancliffe Hotel”, una novelette giovanile, appartenente al ciclo di Angria (saga vicina alla fantasia sociale, con riferimenti diretti o impliciti al mondo della politica contemporanea, non leggendaria e primitiva come la saga di Gondal), scritta quando aveva 23 anni, e fu proprio Maddalena De Leo, sul notiziario che raccoglie gli interventi di tutti i cultori, studiosi e semplici appassionati bronteani, a dare comunicazione  che trattavasi solo di uno scoop pubblicitario.
La novellette in questione non era, infatti, un inedito, ma un testo poco noto (scritto da una Charlotte giovane e sognatrice), che già da qualche tempo, amorevolmente, con pazienza certosina, su testi difficili da reperire, Maddalena De Leo andava traducendo, insieme ad altri racconti giovanili del ciclo di Angria, affinché anche i lettori italiani potessero, finalmente, conoscere i prodromi dell’attività letteraria dell’autrice inglese.
I racconti giovanili  tradotti sono sette, Albione e Marina, Le nozze, Alta società, Il ritorno di Zamorna, Mina Laury e All’hotel Stancliffe,  estremamente interessanti per i semplici lettori e d’importanza rilevante per gli studiosi bronteani perché offrono l’occasione di indagare su un aspetto minore, trascurato, della produzione di Charlotte, prefigurandosi come una tappa fondamentale per riconsiderarne  l’iter creativo ed interpretarne le molteplici suggestioni, ed è perciò che il lavoro della traduttrice, nonché curatrice,  si rivela di estrema validità.
La scrittura di Charlotte, infatti è spesso associata soltanto agli elementi gotici, innegabilmente presenti in “Jane Eyre”, ma in realtà è permeata anche di fine ironia e garbata osservazione, com’era  tipico degli scrittori dell’età vittoriana e secondo la lezione di un’altra grande scrittrice del tempo, Jane Austen.
E ciò si (ri)conferma anche dalla lettura delle novellettes tradotte da Maddalena De Leo, in cui è possibile rinvenire i germogli di quelli che sarebbero stati i futuri sviluppi narrativi di Charlotte, come  la notevole capacità d’introspezione psicologica e l’abilità di rivelare pensieri, sentimenti e carattere dei protagonisti.
I racconti tradotti, di piacevolissima lettura, offrono, pertanto, anche un altro aspetto della scrittrice inglese: sono brillanti, arguti, caratterizzati da vivacità dei dialoghi (serve, qui, ricordare, che le saghe leggendarie elaborate dai Brontë bambini erano recitate, perché concepite come opere teatrali) e rivelano le caratteristiche salienti della grande narratrice che sarebbe diventata in “Jane Eyre”. Colpiscono, inoltre, anche per la bellissima e precisa descrizione di luoghi che l’autrice non aveva mai visto di persona, ma conosciuto soltanto attraverso le intense letture nel chiuso della casa-presbiterio, per la già notevole, pur se in nuce, abilità ad indagare sulle passioni dell’animo umano (sondato  da Charlotte, come da Emily, nel momento del tumulto altrettanto violento quanto quello del vento del nord che soffiava in quella brughiera così loro familiare), ed anche per il brio ed il tocco di civetteria, elementi tipici dell’età giovanile e della scrittura femminile dell’epoca vittoriana, che contribuiscono ad alleggerire l’aura di cupezza che ha improntato di sé Charlotte ed in generale tutti i componenti della famiglia.
Con questa suo nuovo lavoro, particolarmente felice, Maddalena De Leo, ponendosi al servizio dell’amore per i Brontë, per la lingua e per la letteratura inglese, senza mai tradire lo spirito dell’autrice, eppure imprimendo un vivace tocco personale, con nuova freschezza ci restituisce il fascino di quelle antiche pagine che, nella sua traduzione, ritrovano, così, intatto vigore e contribuiscono ad aggiungere ulteriori sfumature alla comprensione nell’interezza della scrittura di Charlotte, unico vero punto di contatto fra mito e realtà.

 

Francesca Santucci

 (dicembre 2004)

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