Alle madri, perché essere in due comincia da loro.
(Erri De Luca, “Il contrario di uno”)
recensione al romanzo di
Eleonora Bellini
Fuori dal nido
Lieve e delicato è “Fuori dal nido” (Non
solo parole.com Edizioni, novembre 2003),
l’ultimo
lavoro di Eleonora Bellini (scrittrice che ha all’attivo già
svariate pubblicazioni, sia in poesia che in prosa) che, pur
nell'essenzialità del genere letterario prescelto, il romanzo
breve, tocca nodi cruciali dell'esistenza, come le paure che
ogni individuo deve attraversare per la sua formazione,
per evolvere nell’individuale percorso di crescita.
Antichissima è la parola “nido”, indoeuropea,
discendente da “nizdos”, composta del prefisso “ni, ”
“giù”, e della radice “ sed”, “sedere” al grado ridotto
“zd”, quindi “giaciglio”, attestata in forma identica nelle
aree indiana, germanica, celtica, armena, baltica e
slava (G. Devoto, Dizionario etimologico,
Edizione CDE.); antichissima e immutabile nel tempo come
pure
la necessità di “giacere giù”, del nido, appunto, che
tutte le creature hanno in natura, per essere nutrite,
accudite, protette, ed anche il conseguente bisogno di
spiccare poi il volo fuori dal nido allorché si siano
acquisite sufficienti forze che consentano, in
emancipazione e libertà, di muovere incontro agli
spazi sconfinati, in rivelazione ed esplorazione del mondo
esterno.
Il nido al quale allude l’Autrice nel titolo è,
ovviamente, quello familiare, nel suo caso universo dominato
soprattutto da figure femminili (la mamma, la nonna,
l’insegnante) nel quale Elena, la protagonista del
romanzo, giace in attesa di crescere, muovendosi incerta,
esitante come un goffo uccellino ancora implume, in affannosa
riflessione di sé e di chi le ruota intorno, pervasa, ma non
dominata, da sane paure che le infondono la spinta evolutiva,
protetta da quella madre che, a sua volta, protegge, primo
tramite con il mondo esterno, giacché sono le madri il primo
“oggetto” attraverso il quale gli individui apprendono di non
essere unici e che esiste un distinto "altro da sé": è per
questo che essere in due comincia da loro.
Fin dalle prime pagine si evidenzia l’importanza di questo
mondo al femminile, costellato di donne solo all’apparenza
fragili, in realtà coraggiose e, ciascuna a suo modo, forti),
soprattutto la madre, con cui Elena vive, creatura fluttuante
come una farfalla, un po’ svagata (scombinata,
inaffidabile, secondo la definizione del grande assente
nella vita della ragazza, suo padre; stramba, come la
definisce la nonna; intelligentissima, per Elena;
speciale per i gemelli Rollo, suoi amici) che le insegna a
disegnare omini, casette e fiori, che compera
giochi da tavola, flauti dolci facili da imparare a suonare,
cassette di brevi storielle in inglese, che in leggerezza
e leggiadria irrompe nel romanzo fin dalle prime pagine,
con i suoi pantaloni larghi e fluttuanti, con i suoi molti
capelli ed il suo poco trucco, con la cartella dei disegni
sottobraccio, dirigendosi veloce verso la scuola,
in evidente opposizione con la pacatezza della figlia
(Elena, invece, camminava piano…Scendeva le scale e affrontava
la strada cautamente… Elena medita e medita…Elena non pianse e
non protestò).
C’è, poi, la nonna, che in certi tratti sembra ricordare
l’austera nonna ottocentesca fogazzariana del “Piccolo mondo
antico”, austera e severa (Non sarà per caso una mancanza
di rispetto?, era una frase storica della nonna), ma che sa
anche essere tenera (La nonna si sentì vagamente
placare in cuor suo. Pensò: poverette, si sentono sole),
che borbotta e rimprovera (Tutti i papà fanno un po’
paura- sentenziò allora la nonna- Anzi, devono fare un po’
paura. Se no i bambini non crescono come si deve), si
spaventa ma pure rassicura (…non preoccuparti. Vedrai che
il tuo papà prima o poi ritorna), e che infine sarà
accanto alla nipote quando la madre mancherà.
E ancora l’insegnante di Storia, la professoressa De Angelis,
che in classe entra strillando, che non
transige, per la quale il sentimento che nutre Elena è
quello dell’antipatia, che non si scioglierà nemmeno quando
la donna le consegnerà la cartella dei disegni della mamma
all’indomani della sua morte (…l’aveva ascoltata in
silenzio, senza una lacrima. La De Angelis si era un po’
innervosita e se n’era andata in fretta, delusa: era stata
privata della sua occasione di bontà da quella ragazzina
introversa e forse insensibile…).
Quasi del tutto assenti, e codardi, pronti ad evitare le
responsabilità e a scappare di fronte agli ostacoli, i
personaggi maschili: il padre di Elena, sparito dopo un
brandello di anni (-non c’era nemmeno prima- diceva la
mamma a chi talvolta la compiangeva- Non c’è mai stato
realmente), di cui Elena poco ricorda ed i
ricordi che di lui serba sono frammisti a sensazione di
inquietudine e di paura, un uomo dagli occhi grigi duri
e freddi e taglienti come lame… così giovane e sempre così
scontento, così annoiato, steso a sonnecchiare sul divano,
che non amava giocare, passeggiare, guardare la
televisione, ascoltare le canzoni, e nemmeno disegnare oppure
suonare il flauto e la chitarra come la mamma, anche
aggressivo e violento (…PAM! Improvviso si
abbatté su di lei un fortissimo manrovescio; Sergio,
l’amico della mamma, che pure sparisce ( …-Elena, stammi
bene. A presto- …Quando mi ha detto a presto, sapevo già che
non ci saremmo più rivisti); Marco-Zorro, il motociclista
che nasconde il suo volto sotto l’anonimo casco, un ragazzo
indiano che vive in Italia ma pure scappa, in India, per tre
volte all’anno, sospeso fra le sue due identità.
È la malattia della madre il nodo doloroso della vita di
Elena, che la ragazza affronta incredula (se la sua
malattia fosse tanto grave, la mamma me lo direbbe),
disorientata, sgomenta (la mamma esitò, poi buttò fuori in
fretta, in un soffio- che non guarirò-…Elena sentì un brivido
incontrollabile, una scossa gelida per tutto il corpo), mai disperata, perché è una ragazza forte ed è consapevole che
la paura è come un masso: ti schiaccia, ti blocca, ti
chiude, ti cancella, ma che per crescere bisogna
affrontarla, non evitarla.
La vita ha già in serbo per lei una grossa prova ed il destino
inevitabile si compie, per un provvidenziale incrocio di
date, secondo il desiderio della madre di Elena( La
mamma non avrebbe mai voluto che Elena la vedesse da morta,
esangue, artificialmente composta) un giorno che la
figlia è in gita scolastica: è allora che la donna muore.
Curiosamente è la madre, seppure in circostanze particolari,
ad abbandonare per prima il nido, ma anche Elena, superato il
trauma iniziale, dovrà spiccare il suo volo da sola, in
esplorazione di quel mondo esterno che già più non le è
tanto ignoto, che ha imparato a conoscere, che pure le si
offre presago di promesse (non è forse una promessa la frase
Ci vediamo a settembre nella cartolina di Marco che le
arriva dall’India?), vitale, come il giallo dei limoni
squillante nel finale del libro, simbolo non casualmente
scelto dalla Bellini, poiché è il giallo il colore della
rinascita, il primo a sbocciare in natura, in primavera,
simbolo della vita che si rigenera dalla morte dell’inverno.
E non è stato un lungo inverno quello che ha appena
attraversato nei momenti bui dello sconforto e della paura con
l’assenza del padre, l’inseguimento del motociclista, il
defilamento di Sergio, la malattia e poi la morte della madre?
Ma pure Elena scova in sé una tempra d’acciaio, che le
consente di affrontare con coraggio il definitivo distacco, di
uscire dall’alveo protettivo e lanciarsi ad affrontare la
vita, certo, non da subito, dal momento che è stato deciso
che la nonna, almeno per qualche anno, si sarebbe
trasferita a vivere con lei.
Numerosi passaggi in questo romanzo ci ricordano che l’Autrice
è anche fine poetessa; il suo io lirico si riverbera in felici
immagini, talune pittoriche, che appaiono continuazione
naturale della sua produzione in versi: sul bianchissimo
soffitto della casa si disegnavano luci celesti. Era il
riflesso della luce azzurrato da un’enorme luna…Il muretto
bianco dell’orto, abbacinante sotto il sole, ora trasmetteva
il conforto di un sicuro confine ed emanava una luce
fosforescente da nebulosa…Attraversando il giardino Elena
avvertì, intensissimo e buono, il profumo dei limoni. Vide i
frutti gialli risplendere sotto il sole del mattino.
Il senso del libro sembra essere tutto contenuto nella dedica
impressa sul retro del disegno materno consegnato dalla
professoressa all’allieva: Elena, voglio che la tua
vita sia solare. Non avere paura della luce e del calore,
della tenerezza e dell’amore. Così potrò esserti sempre
vicina. Mamma.
Ed il romanzo, che simbolicamente si pone fra due colori, il
fucsia delle scritte iniziali (quando incombente è la paura
del ragazzo che la segue in moto, incarnazione di tutte le
paure attraverso le quali dovrà passare per poter crescere) ed
il giallo dei limoni, si chiude proprio con la visione
sfolgorante dell’albero (…Quanto sarebbe bello poter essere
come l’albero dei limoni, che porta insieme sui suoi rami le
foglie, i fiori, i frutti), presagio della vita che, dopo
il trauma della morte (della madre) s’imporrà, ed i suoi rami,
le foglie, i fiori, i frutti significano appunto le promesse
che attendono Elena, giacché ogni crescita è una perdita, ma
anche una rinascita, proiezione verso nuovi traguardi,
con acquisite consapevolezze e rinnovate energie.
…Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo dei cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità.
(E. Montale, I limoni)
Francesca Santucci
(dicembre 2003)
|