Il ratto del liceo
(racconto inserito nell’antologia collettiva “Scrivendo racconto”, Historica
2014)
Persiane scolorite, dal balcone della presidenza un tricolore
sbiadito svettante sul pennone, nel cortile acacie rinsecchite
e pioppi dai colori smorti, corridoi lunghi, tetri e
silenziosi, pavimenti di marmo ben netti, lucidi, a specchio,
con losanghe bianche, con losanghe nere, qualche busto dei
grandi del passato, Cicerone, Dante, Alfieri, Manzoni, in un
edificio vecchio, quasi fatiscente, muri che il tempo aveva
reso grigi come le pianure del nord nei giorni di nebbie
novembrine, intonaci scrostati, sezioni solo femminili, alunne
serie di buona famiglia, insegnanti severi un poco appannati
dall’età, bidelli scrupolosi dai capelli bianchi con le spalle
curve dentro ai grembiuli neri.
In quel liceo classico tutto era fermo, immobile ed eguale,
tutto solo in bianco e nero come la stampa di una bella veduta
d’altri tempi.
Anche il preside, da anni, forse da secoli, era sempre lo
stesso e sempre simile a se stesso: la testa pelata, secondo
una certa immagine virile del passato, baffetti corti,
pizzetto ben curato onor del mento, occhiali spessi, camicia
immacolata odorosa di stantio e di sapone di Marsiglia,
farfallino a pois ormai desueto, vestito grigio scuro
d’autunno e d’inverno, grigio chiaro in primavera e d’estate,
le scarpe di copale ben lucide.
Anche i professori non cambiavano mai e si assentavano
raramente; non senza una picca d’orgoglio alcune allieve
raccontavano in giro di avere gli stessi insegnanti che erano
stati insegnanti dei loro genitori.
Tutto, dunque, sempre uguale, lì non arrivava nemmeno l’eco
delle proteste dei giovani per strada, dei cambiamenti allora
in atto nella società, forse per questo una mano anonima, un
giorno, aveva impresso una scritta sulla parete esterna
dell’edificio; diceva:
-“Questo liceo è triste e buio”!-
Ma qualcuno si era affrettato a rispondere:
-“No, non lo è. Lo rischiara la luce del sapere”!-
Ed era vero. I grigi professori si rivelavano insegnanti
eccellenti, entusiasti ed entusiasmanti, le materie erano
estremamente interessanti, le spiegazioni esaltanti ed
esaltante lo studio: le grotte di Lascaux, l’Egitto
misterioso, la lineare A e la lineare B, la civiltà della
Grecia antica, culla del pensiero occidentale, Socrate che sa
di non sapere e muore per la Verità, Diogene di Sinope che con
una lanterna erra alla ricerca dell’uomo, Alessandro il grande
che anche in guerra si fa accompagnare dai filosofi.E poi i
Romani, oh, sì, qualcuno li dirà invasori ed aggressori, ma
quale sincera esultanza dinanzi a Roma caput mundi e
fino ai confini del mondo con Traiano!
Furono, quelli, davvero anni di studio leopardianamente matto
e disperatissimo, ma non ci fu bisogno, come per l’Alfieri, di
farsi legare ad una sedia per affrontarli, perché si era
guidati dalla sete della conoscenza, dal desiderio di
sconfiggere l’ignoranza aprendo la porta verso l’infinito
sapere, secondo la lezione di un altro grande: Galileo. E poco
importava se la scuola era malandata e i professori anziani!
Col suo bel nome ottocentesco quell’anno giunse nella nostra
classe Ombretta; chioma fiammeggiante, frangetta sbarazzina,
chiari occhi celesti un po’ furbini in un viso pieno di
lenticchie, sorriso aperto e schietto. Ripetente, non molto
portata per lo studio, non di grande intelligenza, ma non
sciocca, forse solo un poco tarda nel capire.
-“Che bel nome, insolito per i nostri tempi. Come mai?”-
chiese curiosa la professoressa di Latino accomodandosi gli
occhiali sopra il naso adunco.
- “Ol mé pàder... “-2
- “Parla in italiano...
“-
-“Mio padre è tifoso di
Antonio Focazzaro, quello che ha scritto "Piccolo mondo
antico" … “Dice che la protagonista…-
-“Sì, sì, bene, bene, ma
non si dice tifoso, si dice estimatore, cultore, appassionato
… e Fogazzaro, non Focazzaro... Comunque è nel programma
dell’ultimo anno … Non so nemmeno se ci arriverete a
trattarlo!”- Tagliò corto l’insegnante passando ad altro.
Questo fu il debutto di Ombretta sul palcoscenico del liceo
classico dove, in cinque anni, si alternarono i più svariati,
coloriti e variopinti personaggi, sia nel corpo insegnante sia
nella multiforme massa delle scolare. Molte allieve si persero
lungo il cammino (ma è noto che la via che conduce al sapere è
lastricata di ostacoli), di alcune si conserva un bel ricordo,
di altre si è dimenticato anche il cognome, indelebile resta
quello di Ombretta, per la ventata d’involontaria allegria che
portò nel compassato e prevedibile liceo di quegli anni.
Chi ama il latino lo ama per sempre, al contrario, chi non lo
ama non lo amerà mai. E chi ama il latino lo capisce subito,
chi non lo ama non lo capirà mai. Ombretta non lo amò e non lo
capì, mai e da subito. Gli antichi poeti greci dicevano: Ta
patemata matemata!, le sofferenze sono insegnamenti.
Parafrasando oserei dire che l’insegnamento è una sofferenza,
o che almeno tale può diventare per l’insegnante che abbia la
sfortuna di imbattersi in un alunno sordo all’apprendimento, o
per lo meno non votato allo studio dei classici.
Ritornando ad Ombretta, dopo aver, più o meno con regolarità,
tra i dileggi e gli scherni delle compagne di classe ed i
rimproveri dell’insegnante, un po’ incasinato i casi,
declinato a vanvera, flesso i verbi alla bell’e meglio,
confuso i parisillabi con gli imparisillabi, i passivi con i
deponenti, homo-hominis e omnis-omne, scambiato
semplici plurali per pluralia tantum, chiamato
ripetutamente Luigino lo scrittore Igino, raggiunse il culmine
del caos più completo inciampando malamente nella versione dal
latino "Il ratto di Proserpina" già preceduta da un’altra non
agevole traduzione sullo stesso tema, "Il ratto delle Sabine".
Insensibile al destino di Proserpina, rapita dallo zio Plutone
mentre raccoglieva i fiori della primavera (rapta, in
latino, da cui raptum, ratto, appunto, ma non ratto –
topo, bensì ratto – rapimento), sorda al dolore di Cerere che
cercò la figlia per nove giorni e nove notti per mare e per
terra (Diu Ceres omnia loca clamoribus et querelis implevit),
si ostinava a chiedere:
-“ Ma il ratto dov’è?”-
E le compagne la zittivano con occhiatacce eloquenti.
Infine l’inopportuna domanda giunse anche alle orecchie
dell’insegnante che si era fin lì profusa in un’enfatica
spiegazione del rapimento, sottolineando gli aspetti
drammatici del contenuto della versione ma anche fornendo
spiegazioni tecniche ed interpretative della struttura del
linguaggio, soffermandosi proprio sul significato del verbo
rapio ed insistendo su come l’ingenua fanciulla rapta
erat da quel brutalone di Plutone, re degli Inferi.
Scuotendo i bei capelli rossi insistente ancora Ombretta
chiedeva:
-“Sì, ma il ratto dov’è?”-
L’insegnante trattenne un lungo respiro, con gli occhi
sbarrati, le gote infiammate di rabbia repressa, fu lì lì per
esplodere in un aspro rimprovero che sarebbe rimbombato per
tutta l’aula, per tutta la scuola, più acuto delle urla di
dolore di Proserpina, poi, inaspettatamente, sotto l’occhio
atterrito della scolaresca, scoppiò in una potente risata che
contagiò l’intera classe, eccetto Ombretta che conservava
ancora l’interrogativo nello sguardo, e così si espresse:
-“Domàndeghel a to pàder”. 3
Dopo quella ventata d’ilarità collettiva, che mai più, in
futuro, si sarebbe ripetuta, l’insegnante riprese l’abituale
contegno e ordinò:
-“Continuate a tradurre”!-
In un ultimo disperato tentativo la ragazza testarda, e non
sdegnosa come quella del Mississipi, rivolse nuovamente alle
compagne l’ossessiva domanda, ma quelle, per tutta risposta,
le tirarono fuori la lingua.
Allora Ombretta non chiese
più e da quel giorno, sul giallo dell’antichità, scese un
assoluto silenzio, non avendo il coraggio, né l’insegnante né
le alunne, di ritornare sull’argomento.
Non ho dubbi che anche oggi, ovunque si trovi, dovunque la
vita l’abbia poi condotta, se talvolta il pensiero le ritorna
agli anni della scuola, ancora si arrovelli il cervello
chiedendosi ostinata:
-“Ma il ratto dov’è”?-
(Racconto vincitore nel 1999 al concorso “Osio scrive –
“Tornare a scuola emozionati da un ricordo" , Osio sotto, BG)