Una storia
d’altri tempi
Racconto di guerra di Raffaele De
Leo
INTRODUZIONE
Quella notte di plenilunio il lago di Alleghe, piccolo diamante nel cuore delle
Dolomiti, emanava argentei riflessi, che si confondevano allo sguardo
dell’ammiratore con quelli più vivi dal Civetta, ancor biancheggiante di neve;
era di maggio, mese in cui è appena iniziato il disgelo in quelle regioni.
Sulla strada che costeggia il lago e scende in curve viziose verso Cencenighe, un militare fazionava, il viso semi nascosto da un casco di lana,
impacciato nel grosso cappotto di pelliccia, abbigliamento che gli dava un
aspetto strano: una sagoma nera moventesi sullo sfondo bianco del paesaggio, che
a volte, rispecchiandosi nel lago si assottigliava, dilungandosi come per uno
svolgersi ascensionale di spire, sull’onda leggermente increspata dalla brezza
gelata.
Pareva aspettasse qualcuno,
perché non era di servizio, difatti, poco dopo, una donna gli si avvicinò e
dopo averlo salutato e strettagli concitatamente la mano, si scoprì il capo
liberandosi dallo scialle, esponendo ai raggi lunari una testolina estremamente
bionda, un angelico viso di fanciulla, uno di quei tipi fra l’Agordino e il
Tirolese, giovani piene di vita, robuste, dal colorito sempre roseo, calde ed
espansive.
Indubbiamente doveva essere l’amante del militare, perché altro interesse,
che non l’amore non poteva a quell’ora e in quel luogo fare incontrare i due
giovani.
Lasciamoli indisturbati al loro idillio e ritorniamo ad alcuni giorni
indietro e poco distante dal luogo, onde poter mettere il lettore a conoscenza
di cose e di fatti che gli saranno utili se vuol compiacersi di seguire fino
alla fine il mio piccolo lavoro.
Parte prima
Capitolo primo
Nel 1916, epoca in cui una nostra gloriosa armata occupava il tratto di
posizioni fortificate compreso fra la Carnia ed il Trentino Meridionale, una
divisione facente parte della medesima presiedeva al comando tattico in Alleghe.
Fra i tanti militari addetti, trovavasi il sergente G., giovane umbro
dall’aspetto distinto, un tipo di medio borghese, gentile nei modi e abbastanza
sentimentale.
Frequentava questi una famiglia agiata del paese presso cui recavasi nelle
ore disponibili, non solo per farsi accudire, alla qual cosa volentieri
prestavasi la padrona di casa, ma più per le attenzioni che rivolgeva alla
figlia della suddetta, Maria, che da parte sua non disdegnava quella specie di
corte che celatamente, e sotto altra forma, le veniva fatta dal giovane.
Come sempre succede in questi casi, la coppia non tardò ad intendersela del
tutto, sebbene nascostamente, perché la madre di Maria aveva intenzione di
maritarla ad un giovane del paese, per cui non avrebbe mai permesso che la
figlia avesse stretto legami cordiali con un forestiero, e per giunta militare.
Questo fatto spiaceva molto al sergente G. perché in virtù del giovanile
impulso e dei sentimenti nobili che albergavano nell’animo suo, egli amava di
tutta spontaneità la ragazza, e se non fosse stato per altre questioni che la
cosa avrebbe fatto sorgere presso la famiglia di lui, si sarebbe presentato in
modo ufficiale a chiederla in sposa.
Le visite cominciarono ad essere più frequenti e più lunghe e accampando
pretesti il sergente G. cercava il modo di stare il più possibile accanto alla Maria, mentre gli sguardi che si scambiavano furtivi esprimevano sempre con
maggiore efficacia l’intima passione ed i sentimenti che poi in dolci parole
d’amore si scambiavano per lettera.
Pochi giorni prima del convegno notturno sul lago Maria ricevette una lettera
concepita nel modo seguente:
Maggio
Adorata mia,
“ è già passato del tempo dal giorno in cui ci comunicammo con lo sguardo
l’eterno linguaggio; già il nostro amore si è ingigantito, già io sento che
questo stato di cose non potrà protrarsi a lungo. Questo fuoco che tu alimenti
nel mio cuore più oltre contenuto sarà causa di conseguenze considerabili.
Io ho bisogno di uno sfogo che non sia quello di scriverti e di penetrare il
tuo sguardo, io ho bisogno di parlarti, per lo meno di stringerti al mio petto,
di imprimere un bacio sulle tue labbra di fuoco.
Io immagino che l’anima tua, non meno ardente della mia, debba sentire
questo bisogno, debba sentirsi attratta, spinta verso colui che per lei spasima
in una febbre che consuma, che rende folle.
Vieni, Maria mia, cerca il modo di appagare questo mio desiderio, io ti
aspetterò ogni sera alla mezzanotte sul lago, delirante, invocando la tua
visione liberatrice, vieni, è il tuo G. che ti chiama, dammi la prova del tuo
bene, vieni!”
L’impressione che questa lettera provocò a Maria fu di quelle che si provano
poche volte, e specialmente quando non si è familiari con le tergiversazioni
amorose.
Le sembrava di fuoco quel biglietto profumato che conservava in un taschino
del corsetto, un fuoco che provocava un dolore che le era dolce ad un tempo.
Sentiva di soffrire di una sofferenza nuova, sentiva un incubo che le faceva
emettere lunghi sospiri mentre alla mente i più strani e confusi pensieri
facevano ressa.
L’aveva letta più volte e doveva leggerla ancora come se appena scorso i
caratteri nitidi e decisi di lui avesse tutto dimenticato. Ed era un ripetersi
di sospiri, di palpiti, quello scritto s’ingigantiva al suo sguardo , assumeva
proporzioni straordinarie, erano parole che ora vedeva fissate in un punto nel
vuoto, poi ripetute da una voce ignota all’orecchio.
Nei momenti di calma domandava a se’ stessa se sarebbe andata, le sembrava a
volte una cosa naturale, in altri momenti un’azione abominevole a cui non si
sarebbe mai piegata; poi la figura di lui le appariva, l’esortava, ed ella
avrebbe voluto piangere, ridere, remeva, insomma trovavasi in uno stato
straordinario di eccitazione nervosa.
Quella notte non dormì affatto. Le coltri del lettuccio verginale le
sembravano di piombo, si scopriva in preda ad un’oppressione; la notte le
sembrava essersi allungata del doppio, mentre ogni rumore ingigantiva al suo
orecchio diventando un rombo. Si alzò, aprì la finestra sperando che il freddo
l’avesse alquanto rimessa dall’eccezionale stato d’animo, ma invano. Innanzi a
lei la distesa del lago appariva in tutta la sua ampiezza, come uno specchio, e
lui , sempre lui, sul lago, nello specchio.
Quella lettera l’aveva suggestionata, ed ella ora si sentiva
involontariamente attratta verso l’uscio di strada, spinta a correre, volare al
lago, presentarsi a lui per appagare quel desiderio, per soffocare in un
abbraccio le comuni sofferenze.
Capitolo Secondo
L’orologio del vecchio campanile aveva suonato undici rintocchi, e quei colpi in
un ritmo monotono erano ripercossi dall’eco con un ritorno prolungato che
metteva all’animo una profonda melanconia.
A quell’ora inoltrata, tranne qualche raro militare di passaggio, non si
incontrava per strada anima viva. La luna in pieno dava al paesello alpino un
aspetto differente dal normale, contraffacendo i profili delle case sparse
d’intorno; il mormorio del lago poco distante aggiungeva una nota tutta
particolare a quelle ombre scure confuse nel bianco candido della neve.
Maria, la testa coperta da uno scialle posto a guisa di cappuccio, non per
il freddo a cui era abituata, ma per non essere riconosciuta, aprì con cautela
la porta di strada, trattenendo quasi il respiro per non destare l’attenzione
dei congiunti dormienti; uscì di casa a grandi passi in atteggiamento
circospetto, verso il lago ove sapeva di trovare il sergente G.
Camminava dietro impulso dei suoi pensieri, a momenti avrebbe voluto
ritornare non sapendo perdonare a sé stessa il passo che stava per compiere ma
poi, in un ritorno di semi-incoscienza, sempre spinta da una volontà quasi non
sua andava avanti come sbalordita, ripensando ora alla incensurabilità dell’atto
ancora una volta apparentemente naturale.
Giunta dove la strada segnava la prima curva scorse l’ombra di lui che a
lenti passi percorreva e ripercorreva un medesimo tratto, in attesa. Ebbe un
sussulto; si fermò, esitò ancora una volta, poi, in uno slancio estremo in cui
era prevalsa l’ignota forza che l’aveva spinta lo raggiunse stringendogli poi la
mano , punto in cui lasciammo gli amanti in fine all’introduzione.
Capitolo
terzo
Maria non era più la spensierata ragazza di una volta, non le si leggeva più
in volto l’abituale sorriso, anche le sue forme non erano quelle opulenti di un
tempo, la sua persona, il suo animo avevano subìto una notevole trasformazione.
Si aggirava per la casa come in preda ad un pensiero dominante, spesso
fissando il vuoto come per discernere una cosa fra tante confusa: distolta,
pareva ritornare da un mondo irreale in cui l’animo suo aveva vagato.
Durante le visite del sergente G. i suoi occhi non esprimevano più una
passione contenuta, ma erano sguardi profondi che invocavano aiuto, sguardi che
commuovevano lui, non più gaio, chiuso in un mutismo inusitato.
Lo stato d’animo evidentemente anormale degli amanti lasciava prevedere che
qualche cosa di grave, di irreparabile doveva essere accaduto.
La madre di lei, donna ingenua, come suol dirsi alla buona, non aveva altro
notato che l’inconsueto malumore della figliuola, e la credeva malata, idea che
le veniva avvalorata dall’inappetenza e dal deperimento di quest’ultima.
Passarono così dei mesi durante i quali un intimo martirio consumava quella
giovane esistenza. Durante le notti insonni quella donna prossima ad esser madre
versava amare lacrime, invocando invano la Vergine, che la fissava dal quadro
con lo sguardo severo, reso tale dalla eccitata fantasia; studiava ogni notte un
mezzo più adatto a trovare una via d’uscita onde ottenere il perdono dalla madre
che a parer suo non sarebbe sopravvissuta al giorno in cui la verità le fosse
stata palesata.
Il sergente G., giovane non insensibile, di fronte a tanto strazio di cui
ora si investiva della colpa totale, avrebbe voluto aiutare in un modo qualsiasi
la povera Maria, ma per quanto pensasse non trovava la soluzione del difficile
problema.
Ora maggiormente si impensieriva, perché la derelitta nelle lunghe e
commoventi lettere in cui trasformava in linguaggio parlato l’intime sue
sofferenze, accennava a propositi suicidi, dicendo che la morte avrebbe salvato
lei dal disonore, lui dalle conseguenze di uno scandalo.
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Vengono momenti in cui l’animo umano si abbandona a sé stesso, quando più
non si spera, quando dopo aver troppo penato si lascia in libertà il timone
dell’esistenza nel mare della vita.
Maria subìva questa crisi, durante la quale grazie alla cooperazione del
sergente G. che aveva lottato all’estremo, scacciò dalla mente l’idea di
sopprimersi, cominciando a nutrire un filo di speranza per l’avvenire. Si era
presa una decisione e il piano che era stato stabilito rincuorava un po’ la
giovane.
Aveva questa una lontana parente in una romita contrada di confine, un
paesetto con un piccolo gruppo di case che d’inverno restavano quasi sepolte
dalla neve, costruito in cima ad un cocuzzolo boscoso all’estremo limite del
comune di Rocca, avanguardia d’Italia.
Un po’ per amor di pace, un po’ per intascare il denaro che il sergente G.
mensilmente le avrebbe somministrato accettò di incaricarsi lei per le cautele e
le esigenze del prossimo parto, riuscendo ad ottenere il permesso di tenersi Maria per un po’ di mesi in montagna col pretesto che l’aria del suo paesetto
avrebbe giovato al fisico malato della ragazza.
Così dopo gli ultimi accordi Maria vi si recava per mettere alla luce il frutto
del suo disgraziato amore.
Capitolo quarto
In una tormentosa giornata di febbraio , dopo atroci doglie, acuite maggiormente
dalla conformazione fisica alquanto anormale, Maria mise al mondo un bel
marmocchio, ben formato, che aveva ereditato dal padre le sembianze, dalla madre
il biondo dei capelli.
Un neonato in famiglia porta quasi sempre una nota allegra che si trasmette
all’animo di tutti e specialmente alla madre che, provando un’attrazione ed un
sentimento speciali per il piccolo, dimentica ben presto i dolori e si appropria
subito del frutto della sua carne.
Per la povera Maria non era così. Contemplando quel visino ancora livido e
untuoso un nuovo dolore veniva ad aggiungersi al già grande che la tormentava :
ella sapeva che non avrebbe potuto tenere presso di sé il figlio, doveva
contenere anche il sentimento che nasce nella donna con la maternità. Egli
sarebbe stato affidato ad una nutrice e poi mandato alla “Casa della Divina
Provvidenza”; unica soddisfazione per la derelitta madre il vederlo qualche
volta da incognita.
Da Alleghe erano pervenuti fin dall’autunno reclami per il suo ritorno in
famiglia, ma col pretesto dell’inverno precoce, e dei pericoli ai quali si
sarebbe inevitabilmente esposto il suo fisico malato, pericoli resi maggiori
dalle numerose valanghe che giornalmente rovinavano sulle strade e sui sentieri,
totalmente impraticabili per l’alta neve, aveva ottenuto il consenso di rimanere
fino a primavera.
Questo tempo posto in mezzo doveva servire utilmente a ristabilire la
giovane, la quale trovavasi in non buone condizioni per le sopravvenute febbri
puerperali.
Il sergente G. informato dell’esito felice del parto, chiesta una breve
licenza, si recò subito presso Maria. L’incontro in circostanze così
straordinarie fu dei più tristi. La povera donna appena vide l’amante proruppe
in un pianto dirotto, al quale si abbinò quello di lui che, per quanto avesse
fatto voto a sé stesso d’essere forte, non seppe più contenersi al cospetto di
quella creatura che aveva fatta sua rovinandola per sempre.
Quel quadro pietoso l’aveva commosso all’estremo, mai prima di quel momento
aveva sentito così profondo il rimorso. La sua Maria, così bella ieri, così
seducente, non era ora che una figura smunta dai capelli scomposti, il seno
ansimante , gli occhi rossi e gonfi per le lacrime versate.
I vagiti del piccino erano come tanti colpi di spillo al suo cuore; pensava
che per quell’anima innocente era cominciata la disgrazia col nascere, che non
avrebbe mai dovuto conoscere coloro che l’avevano messo alla luce, che avrebbe
portato per tutta la vita l’onta indiscussa dei figli d’ignoti.
Oh! Come si pentiva ora d’aver ingannato quell’angelo di donna che s’era
data a lui incoscientemente, spinta dall’impulso giovanile dei suoi vent’anni.
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PARTE SECONDA
Capitolo quinto
Chi si fosse portato la notte del 28 ottobre sul Col di Foglia, o sulla strada
che scende da Rocca avrebbe ammirato uno spettacolo straordinario.
Giù, a perdita di vista uno spettacolo straordinario arrossava il cielo,
vasti incendi dappertutto, lingue di fuoco che danzavano una ridda fantastica in balìa del vento. Erano interi paesi che bruciavano, quei paesi supplementari,
diciamo così, che la guerra aveva fatto sorgere, costituiti da baracche e
baracconi, sulle vie di arroccamento verso il fronte.
Scoppi echeggiavano in lontananza come in un lontano temporale, preceduti da
altri baleni: erano strade, ponti e gallerie che saltavano, la triste data era
scoccata: Caporetto.
Sulla strada che aveva visto gli eroi di Col di Lana era un susseguirsi
ininterrotto di carreggi, autocarri, artiglierie, di soldati che scendevano
uniti verso il nuovo destino; uomini e donne d’ogni età carichi delle più
preziose masserizie seguivano l’interminabile colonna di coloro che si
apprestavano a un triste esodo.
Le esigenze create dalle condizioni logistiche del tempo stringente non
permisero alle autorità più larghe concessioni verso la popolazione civile, per
cui non tutti poterono sottrarsi all’orrore dell’invasione, molti dovettero
vedere la discesa del barbaro e sottostarne al volere.
Chi non ha vissuto quei giorni non può formarsi un’idea della loro
tristezza, non può immaginare le emozioni che specialmente un animo sensibile
provava alla vista di quel disastro. Ogni passo che si faceva era un lembo di
sacro suolo patrio che si abbandonava al nemico, ogni cosa suscitava un ricordo:
di un morto, di una vittoria.
Voltandosi indietro a rimirare per l’ultima volta le bianche cime che furono
teatro di tante epiche gesta, su cui si vissero momenti indimenticabili, le cime
bagnate dal sangue di quei morti di cui ora si abbandonavano le tombe alla
profanazione, si sentiva una voglia di pianto , un groppo stringeva la gola,
come quando si varca la soglia della casa che vi ha visti nascere, in cui
provaste gioie e dolori, dove aleggiano le ombre dei vostri cari ormai nell’al
di là.
Il sergente G. oltre alle su accennate impressioni doveva aggiungere quella
per lui più grande: doveva lasciare senza aiuto la povera Maria, senza poterla
neppure salutare, ripeterle un conforto, una promessa.
Capitolo sesto
Un editto dell’ Imperial Regio Governo, governatore delle terre occupate,
ordinava l’internamento di tutti gli italiani abili al lavoro dai diciotto ai
sessant’anni senza distinzione di sesso.
A Udine, a Belluno, a Longarone affluivano dai paesetti sparsi pei monti
contingenti di disgraziati che l’Austria esiliava, mascherando il suo atto
incivile con lusinghiere promesse di guadagno, nascondendo con la frase:“sacrifizio
nell’interesse delle popolazioni italiane” il bisogno per il quale strappava ai
loro tetti quegl’infelici.
Ed erano lunghe schiere di donne che avevano pianto e piangevano ancora,
erano uomini dallo sguardo tetro, esprimente un’ira malrepressa, giovanotti e
ragazze di tutte le età, di tutti i tipi, scortati da gendarmi armati; un
armento di umani che si avviava al duro lavoro, alla sferza, forse alla morte.
Maria non era sfuggita al censimento sebbene le condizioni del suo fisico si
raccomandassero poco.
Altro strazio veniva ad aggiungersi al suo cuore esulcerato: la si portava
lontano dalla sua creatura che quale unica gioia a volte in precedenza rivedeva,
affidato alle cure di una donna di Agordo, non più mandato al brefotrofio per
suo volere.
Quest’altro colpo inatteso finì per demoralizzare totalmente l’infelice
donna, e il male morale agente sul fisico operava una consunzione lenta del suo
organismo, facendole perdere di giorno in giorno vigore, come una fiammella che
s’impoverisca di splendore col consumarsi del combustibile.
Fu inviata prima in un campo di concentramento dove avveniva lo smistamento
per mestieri ed attitudini speciali, indi fu fatta partire per Vienna da dove
avrebbe ancora proseguito per la definitiva sistemazione.
Quando il treno oltrepassò il limite estremo della terra italiana Maria
piangeva, - i suoi occhi erano ormai fonte inesauribile di lacrime , - piangeva,
ricordando, sulla rovina della sua esistenza.
Il grosso contingente di deportati italiani fu distribuito per la vastità
della pianura ungherese perché in Ungheria, specialmente in quegli ultimi tempi,
difettava la mano d’opera, per cui l’Imperial Regio governo veniva a risolvere
in parte la crisi nel miglior modo possibile, anche dal lato finanziario, per la
meschinità dei salari e le condizioni particolari dei salariati.
Questa gente, stretta da una disciplina quasi militare, partiva da appositi
accantonamenti isolati scortata da soldati fin sul luogo del lavoro, e viceversa
a sera allo smettere del medesimo; anche negli stabilimenti e per i campi erano
tenuti d’occhio da militari.
Maria fu adibita quale tessitrice in una filanda ed è inutile dire ancora una
volta quale fosse il suo stato d’ animo. Ma qui non dovevano finire le
peripezie dellapovera donna già tanto provata dalla sventura, ancora un colpo
terribile, che fu l’ultimo, l’epilogo del suo triste dramma.
Capitolo settimo
Herr Mayer, ufficiale territoriale ungherese, guardava la bella italiana con
occhi di cupidigia. Pensava che non gli sarebbe stato difficile possedere quella
donna, dato il suo grado, per il quale spadroneggiava fra le operaie, mettendo
in evidenza la sozzura della sua vile anima magiara.
Ogni giorno moltiplicava le insistenze presso la giovane, la quale pareva
non curarsi di questa sua pedanteria, dedita a tutt’altri pensieri; spesso
spingevasi troppo oltre i limiti del buon costume, così, sfacciatamente, in
presenza d’una moltitudine di donne.
La noncuranza dell’italiana acuiva maggiormente in lui la brama al punto che
un giorno, aspettatala sulla strada, senz’altri preamboli la pose a conoscenza
delle sue sporche voglie. La poveretta scappò via inorridita dopo avergli
assestato per risposta un solennissimo schiaffo, che per il momento fece
desistere l’ungherese.
Ora ella non si sentiva più sicura, invasa da un timore eccessivo, e quando
il Mayer le si avvicinava tremava come una foglia al vento, balbettando parole
sconnesse che facevano ridere quel depravato.
Questo stato di cose durava già da qualche mese, quando un giorno Maria ebbe
ordine di rimanere in tessitoria oltre il consueto per sbrigare alcune faccende
necessarie al buon andamento della lavorazione. Accettò a malincuore la
mansione, quasi avesse avuto sensazione del tranello in cui doveva esser presa.
Uscite le compagne restò sola in laboratorio in attesa degli ulteriori
incarichi, quando eccoti apparire da una porta laterale l’ungherese, che questa
volta più spinto, favorito dalla solitudine, si avventò su di lei,
abbracciandola e tentando di rovesciarla per possederla.
Non avrebbe supposto il vigliacco la resistenza che quella donna ora
opponeva in difesa del proprio amore, più volte lo rigettò, più volte, cascando
lei in uno sforzo disperato, ma le forze l’abbandonavano ed ella si sentiva
prossima a subìre il bruto: fece ancora un appello disperato alle sue energie,
lo rigettò ancora, poi presa da improvvisa voglia di uccidere, si armò di un
pungolo d’acciaio e nel ritorno di lui gl’inferse un terribile colpo, facendolo
cader fulminato.
Compiuto l’atto disperato, ancora discinta per la lotta impegnata e
brandendo ancora il ferro omicida, scappò via gridando. Aveva smarrito la
ragione.
Capannelli di gente spaventata seguivano con l’occhio quella donna che pochi
soldati rincorrevano per fermare e disarmare, gruppo che si disperse per i campi
mentre una folla considerevole faceva ressa alla filanda per vedere il cadavere
del Mayer: le compagne di sventura della povera impazzita piangendo commentavano
l’accaduto.
Epilogo
Un
cadavere ormai irriconoscibile fu rinvenuto impigliato in un giuncheto, in una
curva dei tanti corsi d’acqua che irrigano l’ Altford; era quello della povera
Maria, che, dopo aver corso a lungo, imbattutasi in un fiumicello che le
sbarrava la strada, nell’incoscienza del male s’era gettata in acqua, sparendo
travolta dalla corrente.
S’era
ormai chiusa la parentesi delle tristi peripezie che per quasi due anni avevano
dilaniato l’animo suo; povero fiore nato fra le Alpi, i cui petali disseccati e
scoloriti sotto forma di corpo inanimato una folla di magiari contemplava
smarrita.