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L’orologio del campanile scoccava la mezzanotte,
quell’ora che sempre atterrisce i bambini ed incute timore negli animi
dei più fragili, forse perché indica l’incognita del
trapasso, dal giorno vecchio che finisce al nuovo che principia. Scoccava la mezzanotte e lo sorprendeva ancora
desto, agitato, insonne, carico di tremori ed ansie incontrollate e
immotivate, la sigaretta tremante fra le dita nervose, i capelli
scomposti, seduto sul bordo del letto in precario equilibrio, i piedi nudi
in cerca del rassicurante contatto col pavimento. Si alzò dal letto, passeggiò e ripasseggiò
nella stanza, bevve d’un
fiato un bicchiere d’acqua, accarezzò distrattamente il corpo docile ed
arrendevole del suo gatto, poi tornò al morbido tepore delle coperte, nel
buio della camera violato da un fioco riverbero lunare che era riuscito ad
insinuarsi tra le fessure della persiana, nel silenzio interrotto di tanto
in tanto dal lugubre canto della civetta appostata fra i tigli del parco,
dagli abbai dei cani guardiani in lontananza, dai brontolii del cielo in
tempesta. Finalmente s’addormentò e sprofondò in un
sonno agitato da incubi; infine si ridestò, all’alba dell’indomani. Era martedì
tredici. Un presagio, una premonizione, un triste presentimento che quel
giorno si sarebbe verificato l'evento funesto. Era così, era così
tutte le notti: aspettava che nella grande casa scendesse il silenzio,
s’accertava che gli unici suoni fossero i ritmi dei profondi respiri
altrui e i tic-tac degli orologi, e poi, a passi furtivi, si spingeva con
circospezione nel suo studio e, con cautela, ne apriva la porta,
richiudendola con altrettanta cautela dietro le spalle. A tentoni, nel buio della stanza, si precipitava a spalancare la portafinestra: voleva che solo
l’astro notturno illuminasse il suo segreto, che solamente il chiarore
della luna, da tempo immemore protettrice degli amanti sventurati
costretti agli incontri clandestini, fosse testimone del suo infelice
amore. E la luna benevola si mostrava in tutto
il suo splendore, facendosi spazio, alta nel cielo, tra le nuvole
lattiginose e le fronde degli alberi in sospensione. Poi correva a sedersi
sul divano, esattamente di fronte al grande quadro a parete collocato a bella posta in
posizione tale da ricevere direttamente la luce notturna: lei era là che l’attendeva, come
ogni notte, da tempo incalcolabile, lei, la dama del suo cuore, la donna
del ritratto. Una bella figura di
donna ottocentesca, dal viso ovale, i grandi occhi chiari, il nasino un
poco impertinente, le
piccole labbra a cuore naturalmente ben disegnate e lievemente atteggiate
a sorriso, i capelli
intrecciati a boccoli e raccolti in bande laterali, in veste tipica del
tempo, di voile turchino con volants e
maniche lunghe a sbuffo, guanti ed ombrellino di merletto a ripararla appena
dagli sguardi troppo invadenti, del pittore che l’aveva ritratta e degli
ammiratori. La guardava, tutte le
notti guardava quel bel volto di donna, rapito, estasiato, con rimpianto e profonda nostalgia,
perché quella donna lui l’aveva conosciuta davvero, anni e anni
addietro, ma nessuno lo sapeva: era questo il suo segreto! Ed ogni notte la
invocava, e lei accorreva al suo richiamo: come per incanto usciva dal
quadro tra il fruscio delle sue
gonne, odorosa di profumo di rose e gelsomini, e correva a sedersi accanto
a lui, reclinava il capo
sulla sua spalla, si lasciava stringere dalle sue braccia e, come in
cantilena, triste ripeteva la loro storia: Siamo stati separati centotrenta
anni fa. La vita ci ha separati, anzi no, è stata la morte. Io sono morta
per sempre, tu, invece, sei rinato dopo un lungo salto nel tempo, ma sei
stato tu a lasciarmi
per
primo, secoli fa…
Eri
un militare, di famiglia nobile e stimata, distaccato
in servizio nella mia città, e fu qui che
ci conoscemmo quando il
Destino volle: fu amore a prima vista!
Nonostante
la tua intemperanza, il tuo carattere impulsivo e ardente, che si sarebbe
dispiegato completamente
più avanti, ci frequentammo ossequiosi dell’etichetta e delle norme del
tempo, con
un
lungo corteggiamento su permesso del mio genitore, mai soli, tra balli in
società e incontri a
teatro,
infine ci unimmo in matrimonio. Furono
anni intensi, all’insegna della felicità coniugale, della
spensieratezza, e dei salotti mondani
che
non mancavano mai di annoverarci tra i loro più graditi ospiti.
Poi
la tua insofferenza per la vita di caserma, le convinzioni pacifiste che
avevi, notevoli per la
nostra
epoca, la vocazione letteraria che iniziava a palesarsi, ti spinsero ad
abbandonare la
carriera
militare e ad intraprendere l’attività di scrittore e
giornalista.
Purtroppo
cominciarono a manifestarsi anche i primi sintomi della malattia che, nel volgere di
pochi
anni, ti avrebbero portato alla tomba.
Tornammo nel tuo paese natale in cerca
di giovamento per la tua salute: non vi fu nulla da fare! Vano ogni tentativo, inutile ogni
cura, moristi, ed io disperai, fino al giorno in cui più non ressi e
mi trafissi il cuore con un
tagliacarte. Il Cielo, poi, mi punì per quel gesto e
più non rinacqui in forma mortale; ancora oggi vago, incorporea, ma non t’ho mai
dimenticato, per questo ogni notte torno e ritornerò sempre, finché mi vorrai.
Tu, invece, innocente ed incolpevole,
rinascesti, sbocciasti a nuova vita e quasi non ti ricordasti
più di me, fino al giorno in cui
ritrovasti questo mio quadro
abbandonato nel solaio d’una
vecchia casa: subito mi riconoscesti,
mi prendesti con te e mi portasti qui; fra le pareti del tuo studio
mi restituisti il tepore d’una casa.
Da allora ogni notte t’aspetto,
perché soltanto il tuo amore può farmi ancora rivivere, seppur solo
di notte; io sono ombra e sogno, ma
nella continua realtà del tuo sentimento riprendo forma, e vivo
ancora… Quanto durerà quest’amore? E’
esso solo reminiscenza d’un altro amore più antico, fantasia o
incredibile verità? Non è dato saperlo!... Si ridestò all’alba
dell’indomani, risvegliato da un odore acre, da grida risonanti per
tutta la casa, una sola frase
pronunciò: lo studio brucia! Come impazzito corse
verso la sua camera: bruciava, bruciava, bruciava tutto, era già tutto bruciato!
Cercò un varco
tra le fiamme, lo trovò e, finalmente,
riuscì ad entrare:
distrutto, il suo bene più
prezioso, il quadro della bella dama era distrutto. Non un gesto di
disperazione, non un grido inconsulto, non una parola uscì dal suo corpo
come impietrito, pensò
solo che l’aveva persa, di
nuovo, per sempre, e non voleva,
non voleva. Un oggetto catturò la sua
attenzione, un oggetto che nemmeno ricordava di possedere…E gli parve
di sentire come
una voce, un sussurro, un bisbiglio, forse un mormorio tra
il fogliame degli alberi
dove, fino a poco prima,
ancora aveva brillato la luna: veniva
da lontano, da molto lontano e sussurrava:
Non lasciarmi andare, non lasciarmi,
non lasciare che ci separino di nuovo... Non esitò nemmeno
un istante: senza un lamento affondò lo
stiletto nel
suo cuore.
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