Piergiorgio Cavallini

filologo, dialettologo, traduttore

 

  

Quinto Orazio Flacco, Le satire, Libro Primo, 9

 

 

Narra, come sfinito fu da un chiacchierone

Me n'andavo a passeggio per la Via 
Sacra come mio solito, pensando 
a non so più che cosa, tutto assorto
quand'ecco sopraggiunge all'improvviso 
un tal che sol di nome conoscevo
e, presami la mano — Ma tu guarda
un po' chi trovo! ...  come te la passi?
— Io? me la cavo e spero tu altrettanto.
Ma poiché non voleva andare via
— Che vuoi?  — gli dico — Che mi conoscessi:
anch'io sono poeta. — Molto bene
per questo ancor di più mi sarai caro.
Ed intanto cercavo di scappare
ora affrettando ed or frenando il passo
e all'orecchio qualcosa susurrando 
al mio servetto, col sudor che, lento,
giù mi colava  fino alle ginocchia.
— Felice te, Bolano, che mandare
sapevi tutti quanti a quel paese —
dicevo fra me e me, mentre quell'altro
petulante lodava i vichi e l'urbe.
Ma, dal momento che non rispondevo
— Di svignartela, vedo, stai tentando, 
ma inutilmente — dice —  non ti mollo
e dietro ti verrò dovunque andrai.
— Ma chi te lo fa fare — gli ribatto —
vado a trovare un tal che non conosci
è a letto,  fuori mano, giù a Trastevere
proprio là dove gli orti son di Cesare.
— Non ho nulla da fare e ho gambe buone:
ti seguo, dovrai farti una ragione.
Le orecchie basse, come un asinello
che non vuol più portare la sua soma
sentir mi tocca ancor quello, che attacca:
— Se bene io mi conosco, so per certo 
che non terresti Visco per amico 
e Vario più di me, perché di tutti
io sono il più veloce a scriver versi
e ballo e canto come nessun altro,
languidamente, meglio d'Ermogene.
— Ma non ce l'hai una madre o altro parente —
allor gli dissi giocoforza — i quali 
prendan cura di te? — Niente di niente
li ho seppelliti tutti, io solo resto.
Ormai capisco d'essere spacciato:
— Finiscimi. Così s'avveri il fato
triste ch'un dì pronosticò una vecchia
sabina a me fanciullo la profeti— 
ca urna agitando: — Non l'uccideranno 
cupi veleni, né inimica spada,
né polmonite e neppur tosse e neanche
l'insidiosa pellagra, ma soltanto
un chiacchieron che non gli darà scampo:
adunque egli si guardi, fatto grande,
se lo potrà, da quei che parlan tanto.
Di Vesta al tempio intanto ero arrivato;
già da poco passate eran le dieci
e volle il caso che dovesse andare
a difendersi, il tizio, in tribunale
per non perder la causa: — Puoi, ti prego,
assistermi un istante? — Meglio morto, 
non so star fermo ad aspettare e inoltre
di diritto civile non m'intendo
e poi, t'ho detto già dove sto andando.
— Non so che fare — allor ribatte quello — 
se perder te o perdere la causa.
— Perdi me, vivaddio! — No, no, non posso;
e comincia a precedermi ... chi perde
soggiace, e non mi resta che seguirlo.
— E dimmi, come va con Mecenate?
— Vuol poca gente attorno e ha senno. — Alcuno 
di te non ha saputo la fortuna
meglio acchiappare. Avresti un grande aiuto
aduso a far le veci del secondo
in me se mi volessi presentare
a quel grand'uomo: potess' io perire
se a tutti non saresti superiore. 
— Viver così colà come tu pensi
non s'usa, né v'è casa più di quella
pura ed esente da cotesti mali;
là non mi manca nulla e tutti sono
più ricchi e dotti di quant'io non sia;
ognuno in quella casa ha il posto suo.
— Cose narri stupende, da non creder.
— Pur è così. — Ma tu, questo dicendo,
in me più grande fai venir la voglia
d'essere ammesso tra la cerchia sua. 
— Basta volerlo, se sarai capace
l'espugnerai: lui pure può esser vinto,
la parte più difficile è l'assalto.
— Ci proverò di certo, corrompendo
i servi con regali e, se cacciato
oggi sarò, riproverò domani, 
prenderò tempo, aspetterò nei trivî;
nulla si può ottener senza fatica,
dalla natura, quando si è mortali.
Mentre così farfuglia ecco apparire
Aristio Fusco, caro amico, il quale
il nostro chiacchieron ben conosceva.
Ci fermiamo, mi chiede — Donde vieni
e dove vai? — mi dice; io la sua mano
cercavo d'afferrare e di tenere
il braccio suo che, molle, era disteso,
facendo dei gran cenni e supplicando
cógli occhî, che l'amico mi salvasse; 
ma il briccone fingea di non capire
ridendosela e a me scoppiar di bile
il fegato faceva. — Mi dicevi
di volermi un segreto rivelare.
— Sì, ben me ne ricordo, ma un momento
troveremo migliore per parlare:
oggi, trenta del mese, i circoncisi
ebrei festeggian sabato e, di certo, 
non vorrem proprio noi  farli arrabbiare.
— Ma io non sono affatto religioso.
— Io invece sono un po' superstizioso,
uno dei tanti; vedrai, un altro giorno 
c'incontreremo ed or ... lasciami stare.
Oh che giornata sfortunata, scappa
quel farabutto e lascia me distrutto
sotto al coltello. Ma voleva il caso
che comparisse l'avversario: — Infame —
gridandogli a gran voce — e tu, mi fai
da testimone? Porgogli l'orecchio;
lo trascina in giudizio: gridan tutti,
accorron da ogni parte. Così Apollo
volle che quella volta fóssi salvo.

Piergiorgio Cavallini - settembre 2003 

 

Nota di traduzione

Ho avuto sotto mano il volume dei Classici Latini UTET ininterrottamente per anni, per cui – giocoforza – la traduzione di Colamarino m'è entrata nelle orecchie, lasciando traccia indelebile. La mia traduzione è debitrice di quella in particolare nei seguenti passi:... e all'orecchio qualcosa susurrando / al mio servetto (v. 10); Di svignartela, vedo, stai tentando (v. 14); Non ho nulla da fare e ho gambe buone: ti seguo (v. 19); già da poco passate eran le dieci (v. 35). Una notazione finale: trattandosi d'un divertissement, ho concesso qua e là qualcosa alla resa, sacrificando il testo, in particolare là dove mi sono inventato, tout-court: ... dovrai farti una ragione ... (v. 19). I rimandi sono ai versi latini.

Testi di riferimento:
J. Whetham, The Works of Horace, C. Smart, Philadelphia 1836
Perseus Digital Library - http://www.perseus.tufts.edu
F. Vollmer, Q.Horati Flacci Carmina, Leipzig, Teubner 1912
The Latin Library - http://www.thelatinlibrary.com
J. B. Greenough, The Satires and Epistles of Horace, Ginn & Company, Boston 1888 
Corpus Scriptorum Latinorum - http://www.forumromanum.org
Traduzione di riferimento:
T. Colamarino, in T. Colamarino e D. Bo (a cura di), Tutte le opere di Quinto Orazio Flacco, UTET, Torino, II ed. 1969 (rist. 1983)

 

(Traduzione di Piergiorgio Cavallini)

 

 

 

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