Notte chiara

di Marinella Fiume

 

 

Dolce e chiara è la notte e senza vento

G. Leopardi, La sera del dì di festa

 

 

Com’è strano! – pensava Mariannina con inusitata ironia nella solitudine notturna della stanzetta spoglia. Proprio ora che il moccolo di candela aveva finito di consumarsi per cui distingueva a malapena il vago chiarore della federa su cui poggiava i neri capelli scarmigliati e del lenzuolo dove un bucato distratto aveva lasciato gli aloni delle macchie dell’ultima emorragia, ora che i suoi occhi arrossati dalla febbre e dalle insonnie faticavano a mettere a fuoco gli oggetti anche alla luce del giorno, infine ci vedeva chiaro...
Era anche questo merito del suo innato "chiarovedere" di cui tutti favoleggiavano e che le aveva conferito la fama di spiritista e sonnambula, pazza da catene?
Aveva avuto tanto tempo per pensare lontano dall’odiata Ragusa, dallo zotico e avaro suocero, dalle pettegole e ignoranti cognate, da un marito insignificante e succube del padre, indaffarato sempre fuori casa, dagli amatissimi e vivacissimi figli dietro i quali correva tutto il santo giorno.
Anche a Noto, la sua città, dove si era rifugiata per farsi curare dal suo medico omeopata, aveva avuto tanto tempo per pensare quando il suo signor padre, la sua signora madre e i suoi due affettuosi fratelli l’avevano cacciata fuori di casa alle tre di notte perché faceva parlare tutta la città avendo lasciato l’onorata e opulenta casa del marito.
Non fosse stato per la pietà del suo medico che le aveva messo a disposizione una stanzetta in un appartamentino che dava in affitto, si sarebbe ridotta a dormire in una panchina della Floretta. Neanche Tanuzzo, il figlio maggiore di quattordici anni, le aveva voluto lasciare il marito per compagnia. Avevano deciso di farla morire sola come un cane! E, di più, la figlia dell’illustrissimo avvocato Coffa, patriota del ’48 e del ‘60, la moglie del ricco proprietario terriero Giorgio Morana, la poetessa gloria del Campanile che aveva difeso quando gli era stato soffiato il titolo di città capovalle in favore di Siracusa, la Saffo netina nota ormai anche nel continente, era diventata una morta di fame nel senso letterale del termine…
Non fosse stato per i prestiti del medico, in astio con la sua famiglia di origine per la vecchia ruggine del tentativo insurrezionale del ’60 con gli altri democratici retini, tra cui omeopati e magnetisti della pasta del grande Giuseppe Migneco, ma sincero amico e ammiratore della sua poesia, avrebbe desiderato anche un tozzo di pane…
Persino l’amministratore delle loro terre di Modica, don Pasquale, l’ aveva presa in giro, promettendole molte volte che sarebbe venuto a trovarla portandole olio, vino, farina, carbone, e invece non s’era fatto vivo… Non doveva più temere la padrona neanche lui!… Ma il carbone… come le sarebbe servito per scaldare la stanza in questa fredda notte di gennaio!
Come se non bastassero queste insopportabili umiliazioni, dai benpensanti vicini
all’ambiente della sua famiglia d’origine venivano insinuazioni secondo cui, certo, una ragione ci doveva essere per questa generosità del medico, quello scapolone di Lucio…
Seduttore il vecchio medico che poteva venirle padre!…
Per la prima volta stasera, mentre aspettava il ritorno dell’emorragia che i globuli riuscivano a ritardare e rallentare, ripercorreva lucidamente tutti i miseri giorni dei suoi 36 anni senza lacrime di pietà verso se stessa. Senza una lacrima verso la bambina introversa, sensitiva e obbediente che era stata; verso l’ispirata adolescente che, gli occhi rivolti ineffabilmente a un punto ignoto del cielo, improvvisava versi a comando nei salotti e nelle accademie; verso l’ inebetita diciottenne maritata a uno sconosciuto la domenica di Pasqua del 1860, alle cinque del mattino perché il fidanzato promesso, drammaturgo e compositore spiantato, sul punto di tornare dal continente senza aver trovato fortuna malgrado una lettera di presentazione del Tommaseo in tasca, non potesse scompigliare i piani; verso l’infelice Signora Morana che aveva trascorso i suoi anni di matrimonio a fare la serva in casa di un suocero che le impediva di ricevere corrispondenza e di scrivere perché "lo scrivere rende le donne disoneste" ragion per cui non lo aveva fatto apprendere alle sue figlie; verso la gracile moglie angustiata dalle continue gravidanze trascorse tra mille tormenti e con la coscienza che Dio l’avesse destinata ad altro che a quelle noie di lunghi mesi che le logoravano il corpo e l’anima; verso l’innamorata dell’uomo di sempre, ormai donna sposata e madre di figli, disposta a un certo punto all’adulterio, che chiede invano un appuntamento al suo angelo orgoglioso, incapace di perdonarle l’arrendevolezza di quel fatidico otto aprile.
Già, le sue nozze! La chiesa deserta… camminava come trasognata nel suo modesto vestito… le pareva di non essere più sulla terra. Non c’era suo padre al suo braccio… glien’ era mancata la faccia… da un lato sua madre, confusa e preoccupata, dall’altro il viso arcigno di suo suocero. Impassibile si fece mettere l’anello di gemme al dito. Le strade al ritorno deserte… Davanti alla soglia della chiesa una vecchia mendicante: " Che bella sposa! E com’è felice!", mentiva per ricevere una generosa elemosina…
Da lì era cominciata la sua malattia, da quella sera in cui, entrata nella camera da letto che era stata preparata per gli sposini, aveva visto sul comodino due righe vergate di pugno da quello che ormai sarebbe stato per sempre suo marito: una nota spese per dei lavori nella campagna di Modica scritta con caratteri incerti e incerta grammatica… da quella notte in cui aveva soggiaciuto ai suoi doveri di moglie svendendo il suo cuore, la sua testa e il suo utero, da dove si era aperta una breccia il male che la stava consumando.
Trentasei anni e tre mesi vissuti sotto padroni diversi ma ugualmente dispotici con la voglia repressa di urlare basta! che ora la malattia liberava, insieme a un nuovo inebriante desiderio di vendetta.
Non le aveva forse dato la malattia la forza e l’audacia di allontanarsi dalla casa ragusana del marito per andare a farsi curare a Noto, fuori dai miasmi e dal fluido velenoso che certe scenate quotidianamente inoculavano nel suo corpo e nella sua anima, vanificando il benefico effetto dei farmaci omeopatici e delle applicazioni magnetiche?
Aveva desiderato tante volte di farla finita e ora che c’era - Ah se arrivassi a non morire! – pensava, mentre un sorriso cattivo le attraversava gli occhi sbarrati e si disegnava a formare un ghigno sulle labbra. – Prenderò in mano la penna, scriverò tutta la verità, farò crepare di rabbia gli amorosi genitori, l’affettuoso padre che accusava al proprio genero la figlia fedifraga, la madre tigre che voleva riparare al mio sacro onore prendendomi per i capelli e gettandomi fuori di casa sua nel cuore della notte col sangue che mi lavava le gambe, i cuori di zucchero cagnotti di casa loro… finti gesuiti… ipocriti signori moralisti del secolo… Farò ridere e riderò… Renderò pubblico che a furia di collere, inganni, tranelli e maldicenze, si assassina una figlia per questioni di interesse, che si caccia via di casa moribonda con la scusa che la terapia magnetista e omeopatica dei suoi medici, il Migneco e il Bonfanti, è anatemizzata dal Papa ed è, tra l’altro, del tutto inefficace.
La mia immoralità… la loro moralità… la morale della gente da bene… Chissà in che cosa fanno consistere poi questa morale per cui si lacerano gli abiti addosso!?…
Non avrei mai creduto che si potesse giungere a tanta infamia… Li maledico tutti…E anche tu, Dio, che te ne stai imbalsamato su quella croce, ascoltami finalmente una sola volta, maledici chi mi ha ridotto agli estremi!
Vedremo a chi si crederà, a chi sarà data ragione! Saprò rivendicare io la mia morale arcipura, il mio onore di figlia sposa e madre, il valore della mia poesia davanti al mio pubblico che mi ha sempre amata e stimata e non perdonerà mai chi mi ha assassinata.
Già, la mia povera poesia! Merce di scambio anche quella. Millantata come parte prestigiosa della dote maritale da mio padre quando cominciavano le sue prime difficoltà economiche, bistrattata da mio suocero perché si dimostrò presto che non poteva scambiarla per aggiungerla al feticcio della sua roba. La mia povera poesia coltivata come colpa vergognosa nel buio e nel silenzio… La schizofrenia di un poetare per gli altri nelle occasioni richieste e di un occulto e maledetto poetare per me e per i pochi spiriti eletti in grado di capirne l’essenza, il codice segreto… Il dover giustificare con gli altri il senso occulto dei miei versi, svendendolo nelle banalità di un messaggio retorico alla moda… Mentire anche in quella parte più vera e intima di me… Pubblicare fuori dal chiuso ambiente provinciale… sotto falso nome, a volte.
Non più! Non voglio più nascondermi, mistificare, mentire! Allo scoperto infine!
Raccoglie le povere forze per alzarsi e accendere una candela, un brivido di freddo le gela il corpo, prende dal letto la coperta stinta e se la avvolge sulle spalle, siede allo scrittoio e scrive al fratello una lunga lettera con preghiera di leggerla ai genitori, un bigliettino per il marito: "Caro Giorgio, non verrò più a Ragusa, resterò qui dove voglio essere sepolta, se avessi più tempo da vivere ti chiederei il divorzio, non mi basta la separazione dei beni, voglio quella delle persone… purtroppo non me ne rimane più tanto… Pensa almeno ai bambini. Mariannina".
Torna a letto rasserenata ad aspettare con ansia nuova la luce del nuovo giorno, uno degli ultimi tre che la malattia le concederà 1).

1) Mariannina Coffa, nata a Noto (Siracusa) il 30 settembre 1841, si spegne all’alba del 6 gennaio del 1878, a 36 anni, 3 mesi e 6 giorni.