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Figlio di un ciabattino, morto quando
egli era appena undicenne, e di una madre alcolizzata, che poi finì in
ospizio, Hans Christian Andersen nacque a Odense nel 1805 e morì a
Copenaghen nel 1875.
Grazie alla generosità di alcuni benefattori riuscì ad emanciparsi dalla
modesta famiglia andando a studiare a Copenaghen danza e canto, e riuscendo
anche a frequentare l'Università.
Il suo esordio letterario avvenne con un dramma, "Agnese e l'uomo del mare",
ma la fama gli giunse con le umane e meravigliose fiabe, in tutto 156, i cui
motivi derivò dalla tradizione popolare scandinava ma rielaborò,
suggestionato dalla temperie romantica, ispirato dalla sua fantasia fresca
e spontanea, anche dalle esperienze autobiografiche, in cui brillò vivida la
sua natura di poeta.
E' proprio nelle fiabe che confluì l'intera personalità dello scrittore
che, nella sua autobiografia, non a caso intitolata "La fiaba della mia
vita", confidò d'essere sempre rimasto un fanciullo.
Sospese fra realtà e fantasia, spesso pervase da pessimismo, ma sempre
ricche di umanità, di amore, di comprensione per i diseredati, per gli
umili, per chi soffre, alimentate dalla radice della fede cristiana, in
fondo aperte alla speranza, per la grande sensibilità, per la fine capacità
d'introspezione psicologica, per il linguaggio semplice e chiaro, ancora
oggi continuano ad affascinare e a commuovere grandi e piccini.
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Un giovane abete,
che si lamentava continuamente del suo destino e non amava vivere nella
foresta in cui era nato, nella notte di Natale venne tagliato per
adornare la casa di alcuni bambini. Felice per la fortuna occorsagli, l'abete
s'insuperbì, ma trascorso il felice giorno di festa fu buttato in un angolo
del solaio e dimenticato fino a che venne
bruciato.
L'abete incontentabile
di Hans Christian Andersen
In mezzo al bosco si trovava
un grazioso alberello di abete aveva per sé parecchio spazio, prendeva il
sole, aveva aria a sufficienza, e tutt'intorno crescevano molti suoi
compagni più grandi, sia abeti che pini, ma quel piccolo abete aveva una
gran fretta di crescere. Non pensava affatto al caldo sole né all'aria
fresca, né si preoccupava dei figli dei contadini che passavano di lì
chiacchierando quando andavano a raccogliere fragole o lamponi. Spesso
arrivavano con il cestino pieno zeppo di fragole oppure le tenevano
intrecciate con fili di paglia, si sedevano vicino all'alberello e
esclamavano: «Oh, com'è carino così piccolo!» ma all'albero dispiaceva molto
sentirlo. L'anno dopo il tronco gli si era allungato, e l'anno successivo
era diventato ancora più lungo; guardandone la costituzione si può sempre
capire quanti anni ha un abete. «Oh! se solo fossi grosso come gli altri
alberi!» sospirava l'alberello «potrei allargare per bene i miei rami e con
la cima ammirare il vasto mondo! gli uccelli costruirebbero i loro nidi tra
i miei rami e quando c'è vento potrei dondolarmi solennemente, come fanno
tutti gli altri.» E non si godeva affatto né il sole, né gli uccelli o le
nuvole rosse che mattina e sera gli passavano sopra. Quand'era inverno e la
neve brillava bianchissima tutt'intorno, arrivava spesso una lepre e con un
salto si posava proprio sopra l'alberello. “Che noia!” Ma dopo due inverni
l'albero era così grande che la lepre dovette limitarsi a girargli intorno.
“Oh! crescere, crescere, diventare grosso e vecchio, è l'unica cosa bella di
questo mondo” pensava l'albero. In autunno giunsero i taglialegna per
abbattere alcuni degli alberi più grandi; questo accadeva ogni anno e il
giovane abete, che ormai era ben cresciuto, rabbrividiva al pensiero di quei
grandi e meravigliosi alberi che cadevano a terra con un fragore
incredibile. I loro rami venivano strappati, così restavano lì nudi, esili e
magri che quasi non si riconoscevano più, poi venivano messi sui carri e i
cavalli li portavano fuori dal bosco. Dove erano diretti? Che cosa ne
sarebbe stato di loro? In primavera, quando giunsero la rondine e la
cicogna, l'albero chiese: «Sapete forse dove sono stati portati? Non li
avete incontrati?». La rondine non sapeva nulla, ma la cicogna sembrò
riflettere un po', poi fece cenno col capo e disse: «Sì, credo di sì! Ho
incontrato molte nuove navi, mentre tornavo dall'Egitto; avevano alberi
maestri magnifici: immagino fossero loro, dato che odoravano di abete. Posso
assicurarvi che erano magnifici, davvero magnifici!». «Oh, se anch'io fossi
abbastanza grande da andare per il mare! Ma com'è poi in realtà questo mare,
e a cosa assomiglia?» «È troppo lungo da spiegare!» rispose la cicogna
andandosene. «Rallegrati per la giovinezza!» dissero i raggi di sole.
«Rallegrati per la tua crescita, per la giovane vita che è in te!» Il vento baciò l'albero e la
rugiada riversò su di lui le sue lacrime, ma l'albero non riuscì a capire.
Quando si avvicinarono le feste natalizie, vennero abbattuti giovani
alberelli, che non erano ancora grandi e vecchi come quell'abete, che non
riusciva a avere pace e voleva sempre partire. Questi alberelli, che erano
stati scelti tra i più belli, conservarono i loro rami e vennero messi sui
carri che i cavalli trascinarono fuori dal bosco. «Dove vanno?» chiese
l'abete «non sono più grandi di me, anzi ce n'era uno che era molto più
piccolo. Perché conservano i rami? Dove sono diretti?» «Noi lo sappiamo! Noi
lo sappiamo!» cinguettarono i passerotti «abbiamo curiosato attraverso i
vetri delle finestre, in città. Sappiamo dove vengono portati! Ricevono una
ricchezza e uno sfarzo inimmaginabili! Abbiamo visto attraverso le finestre
che vengono piantati in mezzo a una stanza riscaldata e decorati con le cose
più belle, mele dorate, tortine di miele, giocattoli e molte centinaia di
candeline!» «E poi?» domandò l'abete agitando i rami «e poi? Che cosa
succede dopo?» «Non abbiamo visto altro. Ma era meraviglioso!» «Magari sarò
anch'io destinato a seguire quel destino splendente!» si rallegrò l'abete.
«E è molto meglio che andare per mare. Che nostalgia! Se solo fosse Natale!
Ormai sono alto e sviluppato come gli alberi che erano stati portati via
l'anno scorso. Potessi essere già sul carro! E nella stanza riscaldata con
quello sfarzo e quella ricchezza! e poi? Poi succederanno cose ancora più
belle, più meravigliose; altrimenti perché mi decorerebbero? Deve succedere
qualcosa di più importante, di più straordinario, ma che cosa? Come soffro!
Che nostalgia! Non so
neppure io che cosa mi succede!» «Rallegrati con me!» dissero l'aria e la
luce del sole «goditi la tua gioventù qui all'aperto!» Ma lui non gioiva
affatto. Cresceva continuamente e restava verde sia d'estate che d'inverno,
di un verde scuro, e la gente che lo vedeva esclamava: «Che bell'albero!».
Verso Natale fu il primo albero a essere abbattuto. La scure penetrò in
profondità nel midollo; l'albero cadde a terra con un sospiro, sentì un
dolore, un languore che non gli fece pensare a nessuna felicità era triste
perché doveva abbandonare la sua casa, la zolla da cui era spuntato. Sapeva
bene che non avrebbe più rivisto i vecchi e cari compagni, i piccoli
cespugli e i fiorellini che stavano intorno a lui, e forse neppure gli
uccelli. La partenza non fu certo una cosa piacevole. L'albero si riprese
solo mentre veniva scaricato con gli altri alberi, quando udì esclamare:
«Questo è magnifico! Lo dobbiamo usare senz'altro!». Giunsero due camerieri
in ghingheri che portarono l'abete in una grande sala molto bella. Tutt'intorno,
sulle pareti, pendevano ritratti e vicino a una grande stufa di maiolica si
trovavano vasi cinesi con leoni sul coperchio. C'erano sedie a dondolo
divani ricoperti di seta, grossi tavoli sommersi da libri illustrati e da
giocattoli che valevano cento volte cento talleri, come dicevano i bambini.
L'abete venne messo in piedi in un secchio di sabbia, ma nessuno vide che
era un secchio, perché era stato ricoperto di stoffa verde e era stato messo
su un grosso tappeto a vari colori. Come tremava l'albero! Che cosa sarebbe
accaduto? I camerieri e le signorine lo decorarono. Su un ramo pendevano
piccole reti ricavate dalla carta colorata; ognuna era stata riempita di
caramelle. Pendevano anche mele e noci dorate, che sembravano quasi
cresciute dai rami. Poi vennero fissate ai rami più di cento candeline
bianche rosse e blu. Bambole che sembravano vere, e che l'abete non aveva
mai visto prima d'allora, dondolavano tra il verde. In cima venne posta una
grande stella fatta con la stagnola dorata; era proprio meravigliosa.
«Questa sera!» esclamarono tutti «questa sera deve splendere!» “Fosse già
sera!” pensò l'albero “se almeno le candele fossero accese presto! Che cosa
accadrà? Chissà se verranno gli alberi del bosco a vedermi? E chissà se i
passerotti voleranno fino alla finestra? Forse metterò radici qui e resterò
decorato estate e inverno!” Sì! ne sapeva davvero poco! ma gli era venuto
mal di corteccia per la nostalgia, e il mal di corteccia è fastidioso per un
albero come lo è il mal testa per noi. Finalmente vennero accese le candele.
Che splendore, che magnificenza! L'albero tremava con tutti i suoi rami
finché una candelina appiccò fuoco al verde. Che dolore! «Dio ci protegga!»
gridarono le signorine e subito spensero la fiamma. Ora l'albero non osava
neppure più tremare. Che tortura! Aveva una gran paura di perdere qualche
parte del suo addobbo, e era molto turbato per tutto quello sfarzo. Si
aprirono i due battenti della porta e una quantità di bambini si precipitò
nella stanza, sembrava quasi che volessero rovesciare l'albero. Gli adulti
li seguirono con prudenza; i piccoli si azzittirono, ma solo per un attimo,
poi gridarono nuovamente di gioia facendo tremare tutta la casa. Ballarono
intorno all'albero e tolsero, uno dopo l'altro, tutti i regali. “Che cosa
fanno?” pensò l'albero. “Che succede?” Intanto le candele bruciarono fino ai
rami, e man mano che si consumarono vennero spente. Poi i bambini ebbero il
permesso di disfare l'albero. Gli si precipitarono contro con tale veemenza
che l'albero sentì scricchiolare tutti i rami. Se non fosse stato fissato al
soffitto con la stella dorata si sarebbe certamente rovesciato. I bambini
gli saltellavano intorno coi loro magnifici giocattoli. Nessuno guardò più
l'albero, eccetto la vecchia bambinaia che curiosò tra le foglie per vedere
se era stato dimenticato un fico secco o una mela. «Una storia! Una storia!»
gridarono i bambini trascinando un signore piccoletto ma robusto verso
l'albero. Lui vi si sedette proprio sotto e disse: «Adesso siamo nel bosco,
e anche l'albero farebbe bene a ascoltare! Comunque racconterò solo una
storia. Volete quella di Ivede-Avede o quella di Klumpe-Dumpe che cadde giù
dalle scale, salì sul trono e sposò la principessa?». «Ivede-Avede!»
gridarono alcuni; «Klumpe-Dumpe» gridarono altri. Fu un grido solo e solo
l'albero se ne stette zitto a pensare: “Non posso partecipare anch'io? Non
posso far più nulla?”. In realtà aveva già partecipato e fatto la parte che
gli spettava. L'uomo raccontò la storia di Klumpe-Dumpe che cadde giù dalle
scale, salì sul trono e sposò la principessa; i bambini batterono le mani e
gridarono: «Racconta, racconta!». Volevano sentire anche quella di
Ivede-Avede, ma fu raccontata solo la storia di Klumpe-Dumpe. L'abete se ne
stava zitto e pensieroso; gli uccelli del bosco non avevano mai raccontato
storie del genere. Klumpe-Dumpe che cade dalle scale e sposa la principessa!
Certo: è così che va il mondo! concluse l'albero, credendo che tutto fosse
vero, dato che era stato raccontato da un uomo così per bene. “Certo! Chi
può mai saperlo? Forse cadrò anch'io dalle scale e sposerò una
principessa!”. E si rallegrò al pensiero che il giorno dopo sarebbe stato
decorato di nuovo con candele, giocattoli, e frutta dorata. “Domani non
tremerò!” pensò. “Voglio proprio godermi tutto quello splendore. Domani
sentirò ancora la storia di Klumpe-Dumpe e forse anche quella di Ivede-Avede.”
L'albero restò fermo a pensare per tutta la notte. Il mattino dopo entrarono
il cameriere e la domestica. «Adesso ricomincia la festa!” pensò l'albero;
invece lo trascinarono fuori dalla stanza, su per le scale fino in soffitta
e lo misero in un angolo buio dove non arrivava neanche un filo di luce.
“Che significa!?” pensò l'albero. “Che cosa faccio qui? Che cosa posso
ascoltare da qua?” Si appoggiò al muro e continuò a pensare. Di tempo ne
aveva, passarono giorni e notti e nessuno venne lassù, quando finalmente
comparve qualcuno, fu solo per posare delle casse in un angolo. L'albero era
ormai nascosto, si poteva pensare che fosse stato dimenticato. “Adesso è
inverno là fuori!» pensò l'albero. “La terra è dura e coperta di neve. Gli
uomini non potrebbero ripiantarmi, per questo devo rimanere al riparo fino a
primavera. Che ottima idea! Come sono bravi gli uomini! Se solo qui non
fosse così buio ed io non fossi così solo! Non c'è neppure una piccola
lepre! Invece era proprio bello nel bosco quando c'era la neve e la lepre mi
passava vicino. Sì, anche quando mi saltava sopra ma allora non mi piaceva.
Qui invece c'è una solitudine terribile!” «Pi! Pi!» esclamò un topolino
proprio in quel momento e saltò fuori. Subito dopo ne uscì un altro.
Fiutarono l'abete e si infilarono tra i rami. «Fa un freddo tremendo!»
dissero i topolini. «Se non fosse per questo freddo, si starebbe bene qui!
Non è vero, vecchio abete?» «Non sono affatto vecchio!» replicò l'abete. «Ce
ne sono molti che sono più vecchi di me!» «Da dove vieni?» gli chiesero i
topolini «e che cosa sai?» Erano infatti terribilmente curiosi. «Raccontaci
del posto più bello della terra! Ci sei stato? Sei stato nella dispensa dove
c'è il formaggio sugli scaffali e i prosciutti pendono dai soffitto, dove si
balla sulle candele di sego, dove si arriva magri e si esce grassi?» «Non lo
conosco!» rispose l'albero «ma conosco il bosco, dove splende il sole e dove
gli uccelli cinguettano!» e così raccontò della sua gioventù, e i topolini
non avevano mai sentito nulla di simile, così lo ascoltarono attentamente e
poi dissero: «Oh! Tu hai visto molto! come sei stato felice!». «Io?» esclamò
l'abete, pensando a quello che raccontava. «Sì, in fondo sono stati bei
tempi!» poi raccontò della sera di Natale, di quando era stato addobbato con
dolci e candeline. «Oh!» esclamarono i topolini «come sei stato felice,
vecchio abete!» «Non sono per niente vecchio!» rispose l'albero. «Sono
venuto via dal bosco quest'inverno! Sono nell'età migliore, ho solo
terminato la crescita!» «Come racconti bene!» gli dissero i topolini, e la
notte dopo ritornarono con altri quattro topolini che volevano sentire il
racconto dell'albero; e quanto più raccontava, tanto più chiaramente si
ricordava tutto e pensava: “Erano proprio bei tempi! Ma ritorneranno,
ritorneranno! Klumpe-Dumpe cadde dalle scale e ebbe la principessa; forse
anch'io ne sposerò una” e intanto pensava ad una piccola e graziosa betulla
che cresceva nel bosco e che per l'abete era come una bella principessa.
«Chi è Klumpe-Dumpe?» chiesero i topolini, e l'abete raccontò tutta la
storia; ricordava ogni parola e i topolini erano pronti a saltare in cima
all'albero per il divertimento. La notte successiva vennero molti più topi e
la domenica giunsero persino due ratti; ma dissero che la storia non era
divertente e questo rattristò i topolini che pure, da allora, la trovarono
meno divertente. «Lei conosce solo questa storia?» chiesero i ratti. «Solo
questa!» rispose l'albero «la sentii durante la serata più felice della mia
vita, ma in quel momento non capii quanto era felice.» «È una storia
veramente brutta! Non ne conosce qualcuna sulla carne e sulle candele di
sego? O sulla dispensa?» «No!» rispose l'albero. «Ah, allora grazie!»
dissero i ratti e si ritirarono. Anche i topolini alla fine scomparvero e
allora l'albero sospirò: «Era molto bello quando si sedevano intorno a me,
quei vispi topolini, e ascoltavano i miei racconti. Adesso è finito anche
questo! Ma devo ricordarmi di divertirmi, quando uscirò di qui!». Che
successe invece? Ah, sì! Una mattina presto giunse della gente a rovistare
in soffitta. La casse vennero spostate e l'albero fu tirato fuori, lo
gettarono senza alcuna cura sul pavimento e subito un cameriere lo trascinò
verso le scale dove arrivava la luce del sole. “Ora ricomincia la vita!”
pensò l'albero, che sentì l'aria fresca e il primo raggio di sole. E così si
ritrovò nel cortile. Tutto accadde così in fretta che l'albero non si
accorse neppure del suo aspetto; c'era tanto da vedere tutt'intorno. Il
cortile confinava con un giardino che era tutto fiorito, le rose pendevano
fresche e profumate dalla bassa ringhiera, i tigli erano fioriti e le
rondini volavano lì intorno e dicevano: «Kvirre-virre-vit, è arrivato mio
marito!» ma non si riferivano all'abete. «Adesso voglio vivere!» gridò lui
pieno di gioia e allargò i rami, oh! erano tutti gialli e appassiti; e lui
si trovava in un angolo tra ortiche e erbacce; ma la stella di carta dorata
era ancora al suo posto e brillava al sole. Nel cortile stavano giocando
alcuni di quegli allegri bambini che a Natale avevano ballato intorno
all'albero e ne erano stati tanto felici. Uno dei più piccoli corse a
strappare la stella d'oro dall'albero. «Guarda cosa c'è ancora su questo
vecchio e brutto albero di Natale!» disse, e cominciò a pestare i rami che
scricchiolarono sotto i suoi stivaletti. L'albero guardò quegli splendidi
fiori e quella freschezza del giardino, poi guardò se stesso e desiderò di
essere rimasto in quell'angolo buio della soffitta. Pensò alla sua gioventù
passata nel bosco, alla divertente notte di Natale, e ai topolini che erano
così felici di aver sentito la storia di Klumpe-Dumpe. «Finito! finito!»
esclamò il povero albero. «Se almeno mi fossi rallegrato quando potevo!
finito! finito!» Il cameriere sopraggiunse e tagliò l'albero in piccoli
pezzi e ne fece un fascio. Come bruciò bene sotto il grande paiolo;
sospirava profondamente e ogni sospiro sembrava una piccola esplosione;
attratti da quegli scoppi, i bambini che stavano giocando accorsero e si
misero davanti al fuoco e, guardandolo, gridarono: «Pif-pof!», ma a ogni
crepitio, che era per lui un sospiro profondo, l'albero ripensava a un
giorno d'estate nel bosco, a una notte d'inverno quando le stelle brillavano
nel cielo, alla notte di Natale e a Klumpe-Dumpe, l'unica storia che aveva
sentito e che sapeva raccontare. E intanto si era consumato tutto. I bambini
ripresero a giocare nel cortile e il più piccolo si era messo al petto la
stella dorata che l'albero aveva portato nella serata più felice della sua
vita; ora questa era finita, e anche l'albero era finito, e così anche la
storia: finita, finita, come tutte le storie.
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