Francesca Santucci

 

Medea


(la maga, la barbara, la donna)

 

(Francesca Santucci, Virgo viragoAkkuaria 2008, estratto)

 


Fra tutte le creature dotate di anima e intelligenza, noi donne siamo le più sventurate! (1)
Quando si parla del teatro greco si suole suddividere le tragedie in tragedie di scene staccate, che desumono il titolo dal coro, come le Troiane e le Fenicie, e le tragedie da protagonista, dove sono, appunto, i protagonisti a dare il nome all’intero dramma: è questo il caso di uno dei capolavori del teatro di Euripide, in cui la protagonista è dominatrice assoluta della scena, in un percorso personale che, snodandosi fra sentimenti forti e violenti, razionalità e irrazionalità, irrimediabilmente perviene
all’orrore finale: “Medea”.
Medea, maga, barbara, donna, che, per amore, ha aiutato e seguito in Grecia Giasone, viene a sapere che lui vuole abbandonarla per sposare Glauce, la figlia di Creonte, re di Corinto.
Creonte, temendo che possa vendicarsi con le sue arti magiche, decreta il suo esilio ma, vinto dalle preghiere della donna, le concede ancora un giorno, un giorno solo che basterà a Medea per attuare la vendetta.
Giasone cerca di giustificare il suo ripudio, sostenendo di aver pensato al futuro dei figli e del
γένος (la discendenza); Medea, inflessibile, lo accusa di essere un mistificatore e trama una terribile vendetta, che attua solo dopo che Egeo, re di Atene, le ha offerto asilo per il futuro.
Finge di riappacificarsi con Giasone e con la famiglia regnante, come dono di nozze regala a Glauce un peplo e una corona (imbevuti, però, dei suoi filtri magici), e poi uccide i suoi figli.
Nel momento di compiere l’infanticidio, sopraffatta dall’amore materno, lungamente indugia, ma poi, vinta dalla brama di vendetta, spinta dalla “necessità” di farlo, agisce.
Glauce e Creonte muoiono, dilaniati dai doni mortali di Medea.
Giasone vorrebbe vendicarsi, ma Medea è ormai in salvo sul carro del Sole, ed ha con sé i cadaveri dei figli; a lui non resta che inveire contro la donna- assassina (barbara, mai un’ateniese si sarebbe comportata così!- …questo non lo avrebbe osato nessuna donna greca…2) che gli ha sottratto anche l’ultima consolazione: la loro sepoltura.
Euripide fu il primo poeta a portare sulla scena un’umanità non di eroi ma di personaggi più deboli che forti, infelici, combattuti, incerti, inquieti, rappresentando la vita nella complessità di nobile e turpe, di virtù e vizio.
A causa di un carattere schivo e chiuso, e delle varie vicissitudini private, da una certa tradizione fu accusato di misoginia e tramandato come ostile alle donne, in realtà fu profondo indagatore della natura femminile e con Medea consegnò ai posteri una delle massime creazioni di tutti i tempi, una figura di donna palpitante fino al parossismo, un capolavoro d’analisi psicologica e d’indagine acuta e sottile del cuore femminile sondato in profondità, fin nelle pieghe più oscure, un’attenta riflessione sulla passione amorosa e sulla grandezza d’animo di colei che non esita a sacrificare la vita dei suoi stessi figli in nome dell’amore, e di fronte alla quale i personaggi maschili appaiono ancora più egoisti e meschini.
In “Medea”, dramma della gelosia e dell’amore tradito, ma non solo, che sempre ha affascinato nelle diverse epoche storiche, e che vari pittori hanno illustrato (a partire dalla prima rappresentazione di Timomaco di Bisanzio, che immortalò in un quadro la donna di fronte ai figli che sta per uccidere, motivo ripreso, poi, anche nelle pitture pompeiane), la mente geniale del massimo tragediografo ateniese raggiunse vette eccelse d’introspezione ed estrema potenza drammatica, per l’accento toccante posto sul tema della passione morbosa, causa d’un ira talmente profonda da ottenebrare sia la mente sia l’animo umano, snaturando addirittura la maternità e conducendo la protagonista verso il sacrilego abisso dell’assassinio dei figli.
Opera di ampio respiro, in tutto 1419 versi, che, secondo Aristotele e gli aristotelici, deriverebbe da un’opera omonima di Neofrone3, ipotesi, questa, che nulla, tuttavia, toglierebbe alla grandiosità dell’opera euripidea, “Medea”, legata al ciclo degli Argonauti4, è il dramma della donna condotta alla disperazione e all’omicidio dalla viltà e dalla malvagità dell’uomo per il quale tutto ha sacrificato.
Figlia di Eèta, re della Còlchide, e nipote di Helios, abile maga, innamoratasi di Giasone, figlio di Esone, re di Iolco in Tessaglia, giunto in nave ad Argo per conquistare il Vello d’oro5, lo aiuta a superare le ardue prove e ne diviene la sposa.
Medea a Iolco fa tornare giovane Esone, mentre con l’inganno fa perire Pèlia, fratello di Esone. Quando Giasone la tradisce e sposa la figlia del re di Corinto uccide la rivale con i doni imbevuti di veleni e sgozza i propri figli; rifugiatasi ad Atene, sposa il re Egeo e tenta di avvelenare il figlio Teseo.
In questa tragedia il dramma rappresentato è quello dell’amore coniugale tradito, della gelosia e della disperazione, che induce al peggiore dei delitti: l'uccisione dei propri figli.
Medea è animata da sentimenti violenti, è eroina dell’odio, eppure fino alla fine è combattuta sulla decisione irrimediabile e fatale, incerta tra l’amore materno e il desiderio della vendetta:
- Devono assolutamente morire: e se è così, li ucciderò io, che li ho generati. Preparati, mio cuore. Ma perché esito? Quello che devo fare è orribile, ma inevitabile.-6
Infine, consapevole del destino di distruzione ed infelicità che le si prepara, li uccide:
-E so il male che sto per fare, ma la passione in me è più forte della ragione: e la passione è la causa delle peggiori sciagure, nel mondo.- 7
Per Giasone Medea ha abbandonato tutta, la famiglia, la patria, per aiutarlo nella conquista del Vello d’oro in Còlchide ha persino ucciso Absirto, il suo stesso fratello, gli ha offerto l'amore di sposa, gli ha dedicato ogni sua energia, ma l’uomo, chiuso nel suo egoismo, la tradisce, e la ripudia apertamente per sposare Glauce ed ereditare il trono, allora tutto l’amore si trasforma in odio cocente e strumento di morte, trascinando e distruggendo chiunque incontri sul suo cammino.
E’ dal ripudio che scaturiscono la sofferenza (violenta ma non passiva, giacché appare subito chiaro che la donna progetta la vendetta) e l’odio (continuamente alimentato dal ricordo di tutto ciò che ha perduto per sacrificarlo all’uomo amato), che innescano il dramma.
Sempre si pensa a Medea come all’eroina dell’odio, a colei che, ottenebrata dal furore della passione, oltre agli orribili delitti di cui s’è già macchiata, arriva a commettere quello più esecrabile, l’infanticidio, delitto nefando perché “snaturato” dal momento che la natura della donna è quella di generare la vita, non di sopprimerla, ancora più orribile perché è l’uccisione dei suoi stessi figli.
In realtà non sono semplicemente l’ira, la gelosia ed il cieco furore ad armare la mano di Medea, piuttosto il bisogno di vendicare l’equilibrio turbato, la rottura del vincolo sancito, del patto d’amore, dunque un desiderio di giustizia, valore portato all’eccesso:
δίkη e άδιkία (giustizia e ingiustizia) i due termini contrapposti.
L’odio è qui una forza propulsiva al male, ma non è odio accecato dalla passione, che impedisce di riflettere, al contrario, tutto il processo che guida la donna alla soluzione estrema, lento, laborioso, così ben descritto da Euripide attraverso i colloqui di Medea con se stessa, le confessioni, le confidenze, le esitazioni, i dubbi, è un ragionamento “meditato” (si ricordi che l’etimologia del nome Medea deriva dal verbo
μήδomai, pensare, meditare, considerare, escogitare, preparare, tramare).
Forse proprio perché così lucido e ragionato è il delitto, così ben premeditato, anche se inizialmente dovrebbe essere solo Giasone a morire, ed in seguito s’impone l’atroce pensiero che sarà vendetta migliore privare dei figli l’uomo che l’ha disprezzata e tradita preferendo il letto di un’altra donna (Giasone: “E per una questione di letto hai ritenuto giusto. ucciderli.- Medea: “Ti pare un dolore da poco per una donna?”)8, che, sopraffacendo l’amore materno con il desiderio di giustizia, risulta essere più orribile, perché impensabile ai tempi di Euripide (ma anche ai nostri giorni sconvolge) per una donna macchiarsi di un delitto tanto esecrabile.
Dunque, Medea a lungo esita fra la brama di vendetta e l’amore di madre, perché ama i suoi figli (…priva di voi condurrò una vita triste e angosciata vita), è consapevole dell’orrore che sta per compiere (No, non farlo, cuore mio: lasciali in vita, sciagurata, risparmiali i tuoi figli…)9, ma il patto tradito reclama vendetta, è una giustizia superiore alla quale deve sottomettersi (è cosa fatta oramai, non c’è più scampo)10: la sua disperazione trova come unico sbocco possibile soltanto l’abisso finale.
Contro Giasone Medea non usa certo incantamenti, arti magiche, non si serve di erbe o pozioni velenose, non è più la maga barbarica che ricorre ai suoi poteri, è la donna tradita che vuole giustizia e l’attua atrocemente, ferendo mortalmente anche se stessa intaccando il suo più sacro valore: la maternità.
Pur nella modernità dell’introspezione psicologica dell’autore, in questo bisogno primario di attuare la giustizia risiede la profonda grecità del personaggio di Medea e, ricordando che è dea-maga come la zia Circe, è possibile anche per lei parlare come per Achille di ”ira divina”, superiore, per il proprio io offeso, violato e calpestato che, per essere vendicato, esige l’esplosione di se stesso.
Nutrice- E lei, l’infelice Medea, umiliata, invoca i giuramenti, la promessa suggellata con una stretta di mano; chiama gli dei a testimoni di come la ripaghi Giasone. Non mangia, è consunta dal dolore, passa tutto il tempo a piangere, da quando si è accorta dell’oltraggio patito. Non alza gli occhi da terra, non distoglie il viso da terra: ai consigli degli amici è sorda come uno scoglio, come un’onda marina.- 11
Medea si offre subito come personaggio dal carattere estremamente eroico, non tocca cibo, non ascolta consigli e non è intimorita dalle minacce, chiusa nel dolore medita e conclude da dominante l’azione, inflessibilmente concentrata, fermamente risoluta nel suo proposito.
Sola nella disperazione, dapprima invia alla nuova sposa una veste incantata, che divora le carni di lei e del padre che l’abbraccia, poi, pur di straziare il cuore di Giasone, uccide i loro figli.
Quando Giasone arriverà, per cercare di preservare i figli dalla vendetta, non troverà altro che i loro cadaveri insieme ai quali, sul carro di Helios, tirato da dragoni alati, trasvola la sciagurata Medea, che lo avrà, così, anche privato della loro sepoltura :
Giasone:- Lasciami seppellire e piangere questi morti.- 13
Medea: - No, sarò io a seppellirli con le mie mani. Li porterò nel tempio di Era Acraia, perché nessun nemico possa oltraggiarli, profanare la loro tomba.- 14
Per l’uccisione dei figli da parte della stessa madre, crimine mostruoso e addirittura impossibile per i Greci dell’età di Pericle, alla Medea di Euripide, presentata sulla scena nel 431 a. C., i giudici ateniesi non assegnarono il primo premio, eppure già allora forte fu l’impressione lasciata nel pubblico; quando poi, durante il IV secolo, nell’arte si cominciò ad attribuire maggior importanza ai valori umani piuttosto che a quelli eroici, il dramma di Medea fu compreso nella sua vera grandezza.
Ed ancora oggi continua ad affascinare, variamente indagando, l’arte, la letteratura, il teatro, il cinema, la psicologia, le complesse sfaccettature della protagonista, sia in chiave tradizionale che in modernità: la barbarie, incarnata da Medea, contrapposta alla civiltà ateniese, espressa da Giasone; l’inferiorità sociale dell’una contrapposta alla superiorità dell’altro; l’opposizione fra due diversi sistemi di valori; la ribellione della donna contro l’uomo, ma, probabilmente, ciò che, nell’evidenza, colpisce dell’eroina più famosa e discussa dell’antichità sono il contrasto fra cuore e ragione e l’aspetto più istintivo, quello della gelosia, folle sentimento, mostro dagli occhi verdi 15 che, oggi, come allora, non di rado funesta gli animi e arma la mano di quelli che se ne lasciano soggiogare.
Il dramma di Medea suggestionò molto anche la fantasia di uno scrittore ottocentesco napoletano oggi quasi completamente caduto nell’oblio, Francesco Mastriani, che vi s’ispirò per la sua opera “La Medea di Portamedina”, in cui raccontò, con il colorito linguaggio partenopeo, infiammato dalle espressioni gergali, fra povertà e devianza, la tragica storia d’amore e sangue, ambientata nei bassifondi di Napoli, con una protagonista, Coletta Esposito, trovatella dell’Annunziata16, che, tradita dal suo uomo, Cipriano Barca, arriva ad uccidere la loro figlioletta, finendo giustiziata.
- Senti, Cipriano- disse la donna, che avea smesso il ghigno d’ironia.- Io so che voi altri uomini siete tutti scellerati e infami; so che, quando avete disfogata la vostra libidine con una donna, costei vi cade dal cuore, e sia pure la madre delle vostre creature. So che noi altre donne non troviamo difesa, perché voi altri uomini fate le leggi; e, quando una povera sedotta grida contro lo scellerato abbandono del suo seduttore, si risponde: “ E perché si è lasciata sedurre?” So che quando una donna è caduta dal cuore di un uomo, non ci è forza umana che gliela possa far rientrare. So che il chiodo nuovo scaccia il vecchio, e su la fronda che cade dal ramo nasce la gemma novella. Tutto questo io so…-

_ Durante la notte fu apparecchiato il patibolo.
…Un silenzio di tomba accolse l’arrivo della condannata, che, vestita di nero, con la parola Empia in lettere rosse sul petto, era stata con una corda al collo strascinata dal carnefice al luogo del supplizio.
Coletta avea rifiutato il confessore ed ogni altra spirituale assistenza.
Con la testa alta, con lo sguardo procace, con passo fermo salì sul patibolo, volgendo intorno a sé occhi terribili.
…..
Tre rulli di tamburo si fecero udire…
Poi la mannaia si alzò, e ricadde.
Il carnefice mostrò alla stupida moltitudine la testa della Medea di Porta Medina.
Giustizia era fatta!17-

Il romanzo di Mastriani nel 1980 ebbe una bella versione televisiva, fedele al romanzo, con una sanguigna Giuliana De Sio, e nel 1991 fu portata a teatro dall’appassionata Lina Sastri, interprete congeniale di un’ attualizzata Medea che, in una trasposizione più libera, uccide la propria figlia per evitarle di vivere una vita disperata quanto la sua.
Al dramma originario s’ispirò, invece, Pasolini che, nel 1969, scrisse e ne diresse la trasposizione cinematografica, in cui esaltò soprattutto lo scontro fra le due diverse identità culturali, affidando il ruolo della protagonista alla splendida Maria Callas.
E, in anni più recenti, nella rivisitazione del poeta, scrittore e drammaturgo Brendan Kennelly, “Medea”, rappresentata al teatro di Dublino nel 1988, la grande eroina dell’antichità è divenuta un’irlandese che si oppone all’inglese Giasone nella Dublino dei giorni nostri, assurgendo a simbolo della storica rivolta dell’oppresso contro l’oppressore.

Francesca Santucci



Note

1) Euripide, Medea.
2) op. cit.
3) Poeta tragico originario di Sicione, vissuto nel IV sec. a.C.
4) Gli Argonauti erano un gruppo di cinquanta giovani eroi greci di stirpe divina, riuniti da Giasone per l'impresa della conquista del Vello d'oro.
5) Favolosa pelle di montone che Frisso trasportò nella Còlchide e nascose in una foresta consacrata a Marte, dove venne vigilata da un drago che divorava chiunque tentasse di rapirla. Per il suo recupero si mobilitò la famosa spedizione degli Argonauti, capitanata da Giasone. Per la tradizione, il Vello d’oro sarebbe nato dal connubio della ninfa Teofanie con Poseidone sotto le spoglie di Ariete.
6) op. cit.
7) op. cit.
8) op. cit.
9) op. cit.
10) op. cit.
11) op. cit.
12) op. cit.
13) op. cit.
14) op. cit.
15) Amleto, beware, my lord, of jealousy; / It is the green-eyed monster which doth mock . / The meat it feeds on; that cuckold lives in bliss ...
Guardatevi, signore, dalla gelosia: / è il mostro dagli occhi verdi, che irride / al cibo di cui si nutre… (W. Shakespeare, Otello, atto III scena III)
16) Antichissimo brefotrofio napoletano fondato per volere della regina Sancia d’Aragona nel 1318 e affidato alla cura delle monache. Accanto all'ingresso del monastero c'era una ruota girevole ove, col favore delle tenebre, venivano abbandonati i neonati.
17) cap. XXIV, La Pasqua, pag. 227, F. Mastriani, La Medea di Porta Medina.

 

Testi consultati

Euripide, Medea, Garzanti, Milano, 1990
Rossi, Letteratura greca, Le Monnier, Firenze, 1995.
L. Lanza, Vipere e demoni, Supernova, Venezia, 1997.
F. Mastriani, La Medea di Porta Medina, Lucarini, Roma, 1988.
G. Sechi Mestica, Dizionario universale di mitologia, Rusconi, Milano, 1990.