Fra tutte le creature dotate di anima e
intelligenza, noi donne siamo le più sventurate!
(1)
Quando si parla del teatro greco si suole
suddividere le tragedie in tragedie di scene
staccate, che desumono il titolo dal coro, come
le Troiane e le Fenicie, e le tragedie da
protagonista, dove sono, appunto, i protagonisti
a dare il nome all’intero dramma: è questo il
caso di uno dei capolavori del teatro di
Euripide, in cui la protagonista è dominatrice
assoluta della scena, in un percorso personale
che, snodandosi fra sentimenti forti e violenti,
razionalità e irrazionalità, irrimediabilmente
perviene
all’orrore finale: “Medea”.
Medea, maga, barbara, donna, che, per amore, ha
aiutato e seguito in Grecia Giasone, viene a
sapere che lui vuole abbandonarla per sposare
Glauce, la figlia di Creonte, re di Corinto.
Creonte, temendo che possa vendicarsi con le sue
arti magiche, decreta il suo esilio ma, vinto
dalle preghiere della donna, le concede ancora
un giorno, un giorno solo che basterà a Medea
per attuare la vendetta.
Giasone cerca di giustificare il suo ripudio,
sostenendo di aver pensato al futuro dei figli e
del
γένος
(la discendenza); Medea, inflessibile,
lo accusa di essere un mistificatore e trama una
terribile vendetta, che attua solo dopo che
Egeo, re di Atene, le ha offerto asilo per il
futuro.
Finge di riappacificarsi con Giasone e con la
famiglia regnante, come dono di nozze regala a
Glauce un peplo e una corona (imbevuti, però,
dei suoi filtri magici), e poi uccide i suoi
figli.
Nel momento di compiere l’infanticidio,
sopraffatta dall’amore materno, lungamente
indugia, ma poi, vinta dalla brama di vendetta,
spinta dalla “necessità” di farlo, agisce.
Glauce e Creonte muoiono, dilaniati dai doni
mortali di Medea.
Giasone vorrebbe vendicarsi, ma Medea è ormai in
salvo sul carro del Sole, ed ha con sé i
cadaveri dei figli; a lui non resta che inveire
contro la donna- assassina (barbara, mai
un’ateniese si sarebbe comportata così!- …questo
non lo avrebbe osato nessuna donna greca…2) che
gli ha sottratto anche l’ultima consolazione: la
loro sepoltura.
Euripide fu il primo poeta a portare sulla scena
un’umanità non di eroi ma di personaggi più
deboli che forti, infelici, combattuti, incerti,
inquieti, rappresentando la vita nella
complessità di nobile e turpe, di virtù e vizio.
A causa di un carattere schivo e chiuso, e delle
varie vicissitudini private, da una certa
tradizione fu accusato di misoginia e tramandato
come ostile alle donne, in realtà fu profondo
indagatore della natura femminile e con Medea
consegnò ai posteri una delle massime creazioni
di tutti i tempi, una figura di donna palpitante
fino al parossismo, un capolavoro d’analisi
psicologica e d’indagine acuta e sottile del
cuore femminile sondato in profondità, fin nelle
pieghe più oscure, un’attenta riflessione sulla
passione amorosa e sulla grandezza d’animo di
colei che non esita a sacrificare la vita dei
suoi stessi figli in nome dell’amore, e di
fronte alla quale i personaggi maschili appaiono
ancora più egoisti e meschini.
In “Medea”, dramma della gelosia e dell’amore
tradito, ma non solo, che sempre ha affascinato
nelle diverse epoche storiche, e che vari
pittori hanno illustrato (a partire dalla prima
rappresentazione di Timomaco di Bisanzio, che
immortalò in un quadro la donna di fronte ai
figli che sta per uccidere, motivo ripreso, poi,
anche nelle pitture pompeiane), la mente geniale
del massimo tragediografo ateniese raggiunse
vette eccelse d’introspezione ed estrema potenza
drammatica, per l’accento toccante posto sul
tema della passione morbosa, causa d’un ira
talmente profonda da ottenebrare sia la mente
sia l’animo umano, snaturando addirittura la
maternità e conducendo la protagonista verso il
sacrilego abisso dell’assassinio dei figli.
Opera di ampio respiro, in tutto 1419 versi,
che, secondo Aristotele e gli aristotelici,
deriverebbe da un’opera omonima di Neofrone3,
ipotesi, questa, che nulla, tuttavia,
toglierebbe alla grandiosità dell’opera
euripidea, “Medea”, legata al ciclo degli
Argonauti4, è il dramma della donna condotta
alla disperazione e all’omicidio dalla viltà e
dalla malvagità dell’uomo per il quale tutto ha
sacrificato.
Figlia di Eèta, re della Còlchide, e nipote di
Helios, abile maga, innamoratasi di Giasone,
figlio di Esone, re di Iolco in Tessaglia,
giunto in nave ad Argo per conquistare il Vello
d’oro5, lo aiuta a superare le ardue prove e ne
diviene la sposa.
Medea a Iolco fa tornare giovane Esone, mentre
con l’inganno fa perire Pèlia, fratello di Esone.
Quando Giasone la tradisce e sposa la figlia del
re di Corinto uccide la rivale con i doni
imbevuti di veleni e sgozza i propri figli;
rifugiatasi ad Atene, sposa il re Egeo e tenta
di avvelenare il figlio Teseo.
In questa tragedia il dramma rappresentato è
quello dell’amore coniugale tradito, della
gelosia e della disperazione, che induce al
peggiore dei delitti: l'uccisione dei propri
figli.
Medea è animata da sentimenti violenti, è eroina
dell’odio, eppure fino alla fine è combattuta
sulla decisione irrimediabile e fatale, incerta
tra l’amore materno e il desiderio della
vendetta:
- Devono assolutamente morire: e se è così, li
ucciderò io, che li ho generati. Preparati, mio
cuore. Ma perché esito? Quello che devo fare è
orribile, ma inevitabile.-6
Infine, consapevole del destino di distruzione
ed infelicità che le si prepara, li uccide:
-E so il male che sto per fare, ma la passione
in me è più forte della ragione: e la passione è
la causa delle peggiori sciagure, nel mondo.- 7
Per Giasone Medea ha abbandonato tutta, la
famiglia, la patria, per aiutarlo nella
conquista del Vello d’oro in Còlchide ha persino
ucciso Absirto, il suo stesso fratello, gli ha
offerto l'amore di sposa, gli ha dedicato ogni
sua energia, ma l’uomo, chiuso nel suo egoismo,
la tradisce, e la ripudia apertamente per
sposare Glauce ed ereditare il trono, allora
tutto l’amore si trasforma in odio cocente e
strumento di morte, trascinando e distruggendo
chiunque incontri sul suo cammino.
E’ dal ripudio che scaturiscono la sofferenza
(violenta ma non passiva, giacché appare subito
chiaro che la donna progetta la vendetta) e
l’odio (continuamente alimentato dal ricordo di
tutto ciò che ha perduto per sacrificarlo
all’uomo amato), che innescano il dramma.
Sempre si pensa a Medea come all’eroina
dell’odio, a colei che, ottenebrata dal furore
della passione, oltre agli orribili delitti di
cui s’è già macchiata, arriva a commettere
quello più esecrabile, l’infanticidio, delitto
nefando perché “snaturato” dal momento che la
natura della donna è quella di generare la vita,
non di sopprimerla, ancora più orribile perché è
l’uccisione dei suoi stessi figli.
In realtà non sono semplicemente l’ira, la
gelosia ed il cieco furore ad armare la mano di
Medea, piuttosto il bisogno di vendicare
l’equilibrio turbato, la rottura del vincolo
sancito, del patto d’amore, dunque un desiderio
di giustizia, valore portato all’eccesso:
δίkη e
άδιkία (giustizia e ingiustizia) i due termini
contrapposti.
L’odio è qui una forza propulsiva al male, ma
non è odio accecato dalla passione, che
impedisce di riflettere, al contrario, tutto il
processo che guida la donna alla soluzione
estrema, lento, laborioso, così ben descritto da
Euripide attraverso i colloqui di Medea con se
stessa, le confessioni, le confidenze, le
esitazioni, i dubbi, è un ragionamento
“meditato” (si ricordi che l’etimologia del nome
Medea deriva dal verbo
μήδomai, pensare,
meditare, considerare, escogitare, preparare,
tramare).
Forse proprio perché così lucido e ragionato è
il delitto, così ben premeditato, anche se
inizialmente dovrebbe essere solo Giasone a
morire, ed in seguito s’impone l’atroce pensiero
che sarà vendetta migliore privare dei figli
l’uomo che l’ha disprezzata e tradita preferendo
il letto di un’altra donna (Giasone: “E per una
questione di letto hai ritenuto giusto.
ucciderli.- Medea: “Ti pare un dolore da poco
per una donna?”)8, che, sopraffacendo l’amore
materno con il desiderio di giustizia, risulta
essere più orribile, perché impensabile ai tempi
di Euripide (ma anche ai nostri giorni
sconvolge) per una donna macchiarsi di un
delitto tanto esecrabile.
Dunque, Medea a lungo esita fra la brama di
vendetta e l’amore di madre, perché ama i suoi
figli (…priva di voi condurrò una vita triste e
angosciata vita), è consapevole dell’orrore che
sta per compiere (No, non farlo, cuore mio:
lasciali in vita, sciagurata, risparmiali i tuoi
figli…)9, ma il patto tradito reclama vendetta,
è una giustizia superiore alla quale deve
sottomettersi (è cosa fatta oramai, non c’è più
scampo)10: la sua disperazione trova come unico
sbocco possibile soltanto l’abisso finale.
Contro Giasone Medea non usa certo incantamenti,
arti magiche, non si serve di erbe o pozioni
velenose, non è più la maga barbarica che
ricorre ai suoi poteri, è la donna tradita che
vuole giustizia e l’attua atrocemente, ferendo
mortalmente anche se stessa intaccando il suo
più sacro valore: la maternità.
Pur nella modernità dell’introspezione
psicologica dell’autore, in questo bisogno
primario di attuare la giustizia risiede la
profonda grecità del personaggio di Medea e,
ricordando che è dea-maga come la zia Circe, è
possibile anche per lei parlare come per Achille
di ”ira divina”, superiore, per il proprio io
offeso, violato e calpestato che, per essere
vendicato, esige l’esplosione di se stesso.
Nutrice- E lei, l’infelice Medea, umiliata,
invoca i giuramenti, la promessa suggellata con
una stretta di mano; chiama gli dei a testimoni
di come la ripaghi Giasone. Non mangia, è
consunta dal dolore, passa tutto il tempo a
piangere, da quando si è accorta dell’oltraggio
patito. Non alza gli occhi da terra, non
distoglie il viso da terra: ai consigli degli
amici è sorda come uno scoglio, come un’onda
marina.- 11
Medea si offre subito come personaggio dal
carattere estremamente eroico, non tocca cibo,
non ascolta consigli e non è intimorita dalle
minacce, chiusa nel dolore medita e conclude da
dominante l’azione, inflessibilmente
concentrata, fermamente risoluta nel suo
proposito.
Sola nella disperazione, dapprima invia alla
nuova sposa una veste incantata, che divora le
carni di lei e del padre che l’abbraccia, poi,
pur di straziare il cuore di Giasone, uccide i
loro figli.
Quando Giasone arriverà, per cercare di
preservare i figli dalla vendetta, non troverà
altro che i loro cadaveri insieme ai quali, sul
carro di Helios, tirato da dragoni alati,
trasvola la sciagurata Medea, che lo avrà, così,
anche privato della loro sepoltura :
Giasone:- Lasciami seppellire e piangere questi
morti.- 13
Medea: - No, sarò io a seppellirli con le mie
mani. Li porterò nel tempio di Era Acraia,
perché nessun nemico possa oltraggiarli,
profanare la loro tomba.- 14
Per l’uccisione dei figli da parte della stessa
madre, crimine mostruoso e addirittura
impossibile per i Greci dell’età di Pericle,
alla Medea di Euripide, presentata sulla scena
nel 431 a. C., i giudici ateniesi non
assegnarono il primo premio, eppure già allora
forte fu l’impressione lasciata nel pubblico;
quando poi, durante il IV secolo, nell’arte si
cominciò ad attribuire maggior importanza ai
valori umani piuttosto che a quelli eroici, il
dramma di Medea fu compreso nella sua vera
grandezza.
Ed ancora oggi continua ad affascinare,
variamente indagando, l’arte, la letteratura, il
teatro, il cinema, la psicologia, le complesse
sfaccettature della protagonista, sia in chiave
tradizionale che in modernità: la barbarie,
incarnata da Medea, contrapposta alla civiltà
ateniese, espressa da Giasone; l’inferiorità
sociale dell’una contrapposta alla superiorità
dell’altro; l’opposizione fra due diversi
sistemi di valori; la ribellione della donna
contro l’uomo, ma, probabilmente, ciò che,
nell’evidenza, colpisce dell’eroina più famosa e
discussa dell’antichità sono il contrasto fra
cuore e ragione e l’aspetto più istintivo,
quello della gelosia, folle sentimento, mostro
dagli occhi verdi 15 che, oggi, come allora, non
di rado funesta gli animi e arma la mano di
quelli che se ne lasciano soggiogare.
Il dramma di Medea suggestionò molto anche la
fantasia di uno scrittore ottocentesco
napoletano oggi quasi completamente caduto
nell’oblio, Francesco Mastriani, che vi s’ispirò
per la sua opera “La Medea di Portamedina”, in
cui raccontò, con il colorito linguaggio
partenopeo, infiammato dalle espressioni
gergali, fra povertà e devianza, la tragica
storia d’amore e sangue, ambientata nei
bassifondi di Napoli, con una protagonista,
Coletta Esposito, trovatella dell’Annunziata16,
che, tradita dal suo uomo, Cipriano Barca,
arriva ad uccidere la loro figlioletta, finendo
giustiziata.
- Senti, Cipriano- disse la donna, che avea
smesso il ghigno d’ironia.- Io so che voi altri
uomini siete tutti scellerati e infami; so che,
quando avete disfogata la vostra libidine con
una donna, costei vi cade dal cuore, e sia pure
la madre delle vostre creature. So che noi altre
donne non troviamo difesa, perché voi altri
uomini fate le leggi; e, quando una povera
sedotta grida contro lo scellerato abbandono del
suo seduttore, si risponde: “ E perché si è
lasciata sedurre?” So che quando una donna è
caduta dal cuore di un uomo, non ci è forza
umana che gliela possa far rientrare. So che il
chiodo nuovo scaccia il vecchio, e su la fronda
che cade dal ramo nasce la gemma novella. Tutto
questo io so…-
_ Durante la notte fu
apparecchiato il patibolo.
…Un silenzio di tomba accolse l’arrivo della
condannata, che, vestita di nero, con la parola
Empia in lettere rosse sul petto, era stata con
una corda al collo strascinata dal carnefice al
luogo del supplizio.
Coletta avea rifiutato il confessore ed ogni
altra spirituale assistenza.
Con la testa alta, con lo sguardo procace, con
passo fermo salì sul patibolo, volgendo intorno
a sé occhi terribili.
…..
Tre rulli di tamburo si fecero udire…
Poi la mannaia si alzò, e ricadde.
Il carnefice mostrò alla stupida moltitudine la
testa della Medea di Porta Medina.
Giustizia era fatta!17-
Il romanzo di Mastriani
nel 1980 ebbe una bella versione televisiva,
fedele al romanzo, con una sanguigna Giuliana De
Sio, e nel 1991 fu portata a teatro
dall’appassionata Lina Sastri, interprete
congeniale di un’ attualizzata Medea che, in una
trasposizione più libera, uccide la propria
figlia per evitarle di vivere una vita disperata
quanto la sua.
Al dramma originario s’ispirò, invece, Pasolini
che, nel 1969, scrisse e ne diresse la
trasposizione cinematografica, in cui esaltò
soprattutto lo scontro fra le due diverse
identità culturali, affidando il ruolo della
protagonista alla splendida Maria Callas.
E, in anni più recenti, nella rivisitazione del
poeta, scrittore e drammaturgo Brendan Kennelly,
“Medea”, rappresentata al teatro di Dublino nel
1988, la grande eroina dell’antichità è divenuta
un’irlandese che si oppone all’inglese Giasone
nella Dublino dei giorni nostri, assurgendo a
simbolo della storica rivolta dell’oppresso
contro l’oppressore.
Francesca Santucci
Note
1) Euripide, Medea.
2) op. cit.
3) Poeta tragico originario di Sicione, vissuto
nel IV sec. a.C.
4) Gli Argonauti erano un gruppo di cinquanta
giovani eroi greci di stirpe divina, riuniti da
Giasone per l'impresa della conquista del Vello
d'oro.
5) Favolosa pelle di montone che Frisso
trasportò nella Còlchide e nascose in una
foresta consacrata a Marte, dove venne vigilata
da un drago che divorava chiunque tentasse di
rapirla. Per il suo recupero si mobilitò la
famosa spedizione degli Argonauti, capitanata da
Giasone. Per la tradizione, il Vello d’oro
sarebbe nato dal connubio della ninfa Teofanie
con Poseidone sotto le spoglie di Ariete.
6) op. cit.
7) op. cit.
8) op. cit.
9) op. cit.
10) op. cit.
11) op. cit.
12) op. cit.
13) op. cit.
14) op. cit.
15) Amleto, beware, my lord, of jealousy; / It
is the green-eyed monster which doth mock . /
The meat it feeds on; that cuckold lives in
bliss ...
Guardatevi, signore, dalla gelosia: / è il
mostro dagli occhi verdi, che irride / al cibo
di cui si nutre… (W. Shakespeare, Otello, atto
III scena III)
16) Antichissimo brefotrofio napoletano fondato
per volere della regina Sancia d’Aragona nel
1318 e affidato alla cura delle monache. Accanto
all'ingresso del monastero c'era una ruota
girevole ove, col favore delle tenebre, venivano
abbandonati i neonati.
17) cap. XXIV, La Pasqua, pag. 227, F. Mastriani,
La Medea di Porta Medina.
Testi consultati
Euripide, Medea, Garzanti,
Milano, 1990
Rossi, Letteratura greca, Le Monnier, Firenze,
1995.
L. Lanza, Vipere e demoni, Supernova, Venezia,
1997.
F. Mastriani, La Medea di Porta Medina, Lucarini,
Roma, 1988.
G. Sechi Mestica, Dizionario universale di
mitologia, Rusconi, Milano, 1990.
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