La Reula
(storie di
Sardegna)
Tomaso Pirrigheddu , La Reula
(http://www.voltidarte.it/)
Un
racconto - vincitore della prima
edizione del concorso
Momenti di vita e cultura gallurese
- tra storia e leggenda.
La
storia: nel 1600 il nobile Jaime
Misorro compì una strage a Tempio
Pausania, cuore dalla Gallura.
Qualche anno più tardi il papa gli
ordinò di costruire una chiesa nel
punto preciso in cui era avvenuto il
misfatto.
La leggenda: per la tradizione
gallurese, la Réula era un gruppo di
anime penitenti che vagava sulla
terra, spesso causando danni -
addirittura la morte - a chi aveva
la sventura di incontrarla senza
conoscere le parole di scongiuro.
Talvolta succede. Qualcuno, distratto,
talvolta mi vede. Solo un'ombra, un
istante, come un bianco di fumo...
Sono
stanco. Mortalmente stanco. E non
sopporto più la luce, mi graffia gli
occhi. Gli occhi? Quel che ne resta,
dovrei dire. Il ricordo mi resta,
soltanto il ricordo.
Gli altri se ne sono andati. Tutti. Da
quanto, non saprei dirlo. Sono
rimasto io solo, quasi fossi il
custode di questa chiesa. Ma non è
così. Io sono davvero legato a
queste mura: non per affetto, o
chissà quale vincolo di cuore. No,
sono proprio catene quelle che mi
tengono qui, in questa chiesupola di
quattro mattoni e due statue,
costruita sulle mie ossa, là dove
caddi sotto i colpi di Misorro.
Io non posso andare via. Io devo
aspettare: aspettare il momento in
cui non sarà rimasta più una pietra
sull’altra, una scheggia d’altare,
un moccolo di candela. Solo allora
sarò libero. Fra quanto? Quanti
secoli ancora? O millenni?
Eppure c’è stato un tempo in cui questa
prigionia non mi pesava. Eravamo in
tanti, allora, ad abitare qui; e
altri ne arrivavano, quasi ogni
sera, attraversando i cunicoli
sotterranei da San Pietro, Santa
Croce, il Pilare. Altri venivano dai
paesi vicini, da Aggius, da Luras, e
ci incontravamo qui, nella piazza,
quando ancora era libera dai negozi,
dalle auto, dai rumori.
“La Reula”, ci chiamavano. Passavamo
correndo, ballando, vociando, e ogni
notte era un nuovo percorso, una
nuova avventura, a caccia di quegli
insensati ancora per via, di chi si
era perso in campagna, di chi era
costretto ad uscire nelle ore più
scure.
Non tutti riuscivano a vederci, ma in
tanti avvertivano la nostra
presenza, la intuivano. C’era chi ci
scansava con un segno di croce, chi
farfugliava scongiuri, chi sentiva
mancargli le gambe e poi si ammalava
– di solo terrore.
Alcuni di noi segnavano il tempo: si
mostravano a chi, poco dopo, avrebbe
raggiunto il confine, saltato quella
linea inesistente che separa il
nostro mondo da quello dei vivi.
Ma altri fra noi, e non pochi, davvero
recavano danno. Inseguivano le
mandrie, azzoppavano i cavalli,
riempivano d’incubi il sonno delle
donne.
Sapevamo – eccome, se lo sapevamo! – che
non ci era concesso di fare del
male, e chi trasgrediva sarebbe
stato punito, condannato a vagare
per un numero d’anni infinito; ma la
tentazione era forte: di causare
malori, di sconvolgere menti, di
stringere gli uomini in cerchi di
danza spettrale.
La Reula: e al nostro passaggio serravano
le porte, si chiudevano in casa
borbottando preghiere, appendevano
amuleti al di sopra dei letti, ci
sbarravano gli usci rovesciando
forconi. Sciocchi! Non erano quei
denti da contare, a fermarci.
C’era invece qualcosa di cui davvero
avevamo paura: parole. Antiche,
potenti, a volte incomprensibili,
c’erano parole che squarciavano
l’aria e strappavano i nostri
lenzuoli. Colpivano forse il punto
più inquieto dell’anima nostra,
privandoci di forze, togliendoci il
gusto di molestare, travolgere,
spaventare. Si scioglieva la nostra
boria in un attimo, e per quella
notte la scorribanda era finita.
...
Ma poi, poco a poco, qualcosa
cambiò. Si chiusero gli occhi dei
vivi, si spense la loro visione, e
pochi mantennero il dono di scorgere
il nostro universo. Rimase, la
nostra memoria, soltanto nei libri,
o in immagini oscure sepolte dentro
vecchie credenze.
Inutile andare per strade e per fossi, di
notte, gridando, a portare
scompiglio, seminare timori. Più
nessuno ebbe il tempo di ascoltarci,
di conoscere, di capire.
Così, l’uno dopo l’altro, i miei compagni
se ne andarono: gli spiriti
lasciarono la terra di Gallura. Non
so per quali angoli di mondo, né se
abbiano trovato davvero altri luoghi
in cui sopravvivere.
Son rimasto io solo, aggrappato a questi
muri, qui dov’entra la gente a
pregare al ritorno dal cimitero. “Il
Purgatorio”, lo chiamano. Costruito
dal nobile Misorro dove avvenne la
strage, dove uccise venti uomini
tendendo un’imboscata.
Io non posso andarmene: è ancora lontana
la fine della mia condanna. Perché
non solo gli assassini sono
colpevoli, ma a volte anche gli
uccisi; e quando lui mi colpì,
pesavano gli errori anche sopra le
mie spalle. Fu questa la sentenza:
restare vincolato alla chiesa che
segna il luogo della mia morte.
Ora vivo in silenzio, fuggendo lo
spiraglio di luce che percorre il
pavimento; e mi danno fastidio le
voci, i passi, i bisbigli, questa
donna che viene la sera e raccoglie
le offerte e la cera. Da anni non
varco la soglia. Sto chiuso qua
dentro, in attesa.
...
Talvolta succede. Qualcuno, distratto,
talvolta mi vede. Solo un’ombra, un
istante, come un bianco di fumo, e
un pensiero più freddo degli altri
che scivola in mente. Poi tutto
dissolve. E ogni volta m’illudo:
m’illudo di esistere ancora, di
avere ancora uno spazio, e un nome,
o una forma, nei giorni di questo
paese che non vuol più sapere di me.
Ma sempre mi sbaglio.
Adesso nient’altro mi resta da fare, se
non aspettare. Aspettare il momento
in cui di questa chiesa non sarà più
rimasta una pietra sull’altra, una
scheggia d’altare, un moccolo di
candela. Allora sarò libero.
M.
Antonietta Pirrigheddu
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