Gianmario Lucini
6 preludi
La città si muove scomposta e primordiale nell’aria avvelenata del mattino nel furore della logica stradale - luci, incroci, strisce, segnali, botri profondi scavati nella pena -;
la senti nei polmoni e ne intendi la voce di rabbia smisurata che ringhia dai motori, sale come nube ad aggredire il cielo.
E sulla trama irregolare delle vie, il piombo di quell’annaspare, produrre, stridere, perché possa il poeta intingervi la penna, cantare un rimpianto, un amore morto fra antiche verdure sepolte dal catrame.
Non sorrisi ma rottami in questa enorme nube che si leva nel mattino e va a cadere lontano dove cuore non vede.
Carta, colla, gesso e cementite; passami il pennello, devo sfumare qua e là colori troppo accesi voci che s’increspano, umori tesi all’ammicco dolente dell’autunno.
Qui non si fa che barare con parole evase.
Non ha più senso ridire trasognando Calliope emaciata da pene amorose intrattenere il popolino danzando sulla fune, patetica scimmia da baraccone.
C’è qualcosa che sfugge, che dilania ferocemente i corpi, una guerra, un silenzio che improvviso cala nella gazzarra aliena della notte.
E’ troppo ampio l’abisso fra il tuo e il mio fianco; un alito di nebbia lo percorre e voci che non sanno il miracolo dell’èffeta.
Il disprezzo mi trabocca e m’avveleno la stizza mi morde come un’onda elettrica.
Mi sono dimesso dal mondo, dalle sue regole.
Sono come un vento senza voce alla ricerca di silenzio.
Il tuo volto si intona ad ogni santo giorno, non hai più occhi essenza del disperso cuore lacerto di morsi.
Non lascerò che tu dica per me neppure l’alito che affidano i morti all’urlo dell’ultimo raggio dell’ultimo tramonto.
Le parole che scrivo sembrano ammiccare beffarsi di me, mutare pelle uscendo dalla penna strisciare di lato dal foglio troppo angusto troppo proteso sull’abisso che tutto inghiotte.
E si dibattono nell’esile infinito di segno accosto a segno che tradisce quell’ansia di conformità che ci rende fratelli nella colpa.
Siamo prede immobili, trafitti da un veleno che ci paralizza ma ci commuove l’attimo che fugge e pagheremmo tesori di lacrime per ritrovare la notte.
La follia del giorno ci distoglie squassandoci con una risata, mentre poco lontano accompagnano un feretro fra urla di donne e salve di proiettili.
Il mare è vivo come il nostro tormento, si agita nel sonno, riversa stremato sul vasto arenile i nostri sogni di sabbia stolta e di estati spossate, sui rifiuti morti dell’edonismo di seconda mano dei colonizzati.
Il mare è anche inverno e risputa urlando brandelli nascosti della nostra lebbra; e noi ci tormentiamo un poco prima che scenda su scene assonnate un velo di neve a raggelare tutto, bianco, uguale come il “buongiorno” o il “buon Natale” che ci rammemora l’infanzia delle fiabe sempre a lieto fine.
Ma qualcosa pur trema negli occhi e nella voce.
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