da
Il
gioco della parola
(pp.
35-39)
Se
è vero che l'attualizzazione
di un'opera d'arte antica
passa attraverso la sua
storicizzazione, anche per le
opere teatrali greche si
devono saper cogliere le
infinite sfumature
psicologiche e sociologiche
derivanti dal loro contesto
storico: disattendere questo
background può, al contrario,
indurre ad un apprezzamento
solipsistico o ad una
comprensione del tutto
superficiale del dramma
attico, fiorito tra i secoli
VI e IV a. C. Che
cosa chiedevano, più o meno
consciamente, i numerosissimi
spettatori che, in occasione
di solenni festività
pubbliche quali le Grandi
Dionisie di primavera,
affluivano ad Atene da tutta
la Grecia e per più giornate
consecutive, dal mattino alla
sera, assistevano alle
rappresentazioni? Com'è
noto, alle Dionisie
gareggiavano tre
tragediografi, ciascuno con
tre tragedie e un dramma
satiresco, e cinque
commediografi – per altro
ridotti a tre durante alcune
fasi della guerra del
Peloponneso – ciascuno con
una commedia: in ogni
festival, dunque, andavano in
scena complessivamente nove
tragedie, tre drammi
satireschi e cinque commedie. >Oltre
alle Grandi Dionisie, il
calendario teatrale ateniese
prevedeva un'altra scadenza,
esclusivamente riservata ai
cittadini, ed era la festa
dionisiaca delle Lenee a fine
febbraio, comprendente gare di
comici (cinque concorrenti) ed
anche, a partire dal 432 a.
C., gare di tragediografi
(tre, ma con due soli drammi
ciascuno). In ogni caso, si
trattava di spettacoli molto
compositi, dove musica, canto,
ballo, battute recitate,
azioni mimate e, ancora, uno
sfarfallio versicolore di
maschere, costumi, scene
dipinte – tutto si combinava
e si intrecciava in un
fantasmagorico gioco di
altissima professionalità. Durante
le recite, è evidente, ogni
attività pubblica e privata
veniva sospesa, e forse già
dal V secolo si corrispondeva
ai cittadini più poveri uno
speciale gettone di presenza,
il theorikon.
Lo spettatore, cioè, non solo
non doveva pagare, ma era
pagato lui per andare a
teatro! Questo dimostra quale
eccezionale importanza venisse
attribuita alle
rappresentazioni teatrali da
chi si trovava al governo
della città. Com'è
noto, infatti, sia nel caso
delle violente emozioni
suscitate dalla tragedia, sia
nel caso dell'ilarità
prodotta dalla commedia, il
teatro svolgeva la preziosa
funzione di riaccendere il
sentimento della grecità tra
gli spettatori e, soprattutto,
di offrir loro, a livello
comunitario e socialmente
accettabile, l'opportunità di
esternare i sentimenti
repressi tramite la
liberazione controllata
dell'io. Le esigenze emotive
del pubblico erano cioè
riconosciute e soddisfatte
sulla scena; al contempo, però,
riassorbite com'erano in una
struttura oggettiva più
ampia, venivano svuotate di
ogni pericolosa forza d'urto e
rese inefficaci. È
questa, alfine, la pathematon
katharsis aristotelica, che si articola nelle sue due componenti, l'una
psicologica – soddisfazione
dell'emotività innata e
repressa con conseguente
rasserenamento psichico,
l'altra artistica – piacere
della mimesi, del pari innato
nell'uomo. Era necessario, cioè,
che lo spettatore vivesse una
profonda immedesimazione
psicologico–emozionale nella
performance, così da essere
indotto a determinati schemi
mentali ed a conseguenti
scelte di comportamento, e ciò
grazie ad un condizionamento
sottile e obliquo, assai
simile a quello che viene
attuato oggi su più vasta
scala dal 'bombardamento'
della pubblicità e dei
mass–media in genere. Un
così profondo status di
empatia era inconcepibile al
di fuori dell'idea di mimesi,
che abbracciava non soltanto
l'intimo legame tra fare
poetico e realtà, ma anche lo
stretto rapporto tra poeta e
uditorio, ragion per cui la
tragedia diveniva uno
spettacolo da vedere,
ascoltare, memorizzare, in
linea con la tradizione
poetica greca di trasmissione
essenzialmente orale; le
battute e i brani lirici erano
ricordati e ripetuti,
ricantati, proprio come
accadeva nel secolo scorso con
le romanze più celebri del
melodramma o come avviene oggi
con le canzoni più in voga o
con i più divertenti joke. In
questo modo ad Atene la
trasmissione della cultura era
affidata essenzialmente all'auralità
e la poesia diveniva lo
strumento precipuo
dell'integrazione del
cittadino nel contesto
sociale, svolgendo così
un'accentuata funzione
paideutica, come è latamente
testimoniato dalla commedia
attica, specialmente
aristofanea. Questa
funzione educativa non va però
banalmente intesa come
insegnamento di sentenze e
aforismi ispirati all'etica
comune, bensì è da
intendersi come esperienza
formativa irripetibile,
vissuta sia intellettualmente
sia emotivamente dal pubblico
mentre assiste alla
trasposizione scenica delle
vicende mitiche. Ora,
educare significa fare
politica: in che senso ed in
quale misura è possibile
parlare di 'politicità' del
dramma attico? «Che
anche la tragedia greca, non
meno della commedia,
rappresenti un vero e proprio
"specchio" del suo
tempo, rifletta la complessa
realtà storica, sociale e
politica entro la quale è
sorta e si è sviluppata, oggi
non può più esser messo in
dubbio: anche se non sono
ancora scomparsi gli attardati
epigoni di certa critica
idealistica ed estetizzante
che questa realtà ha sempre
quanto pateticamente negato,
in nome di assiomi gratuiti e
presuntuosi – la grande,
"vera" arte, tragica
in particolare, sarebbe immune
dalle contingenti scorie dell'hic
et nunc, vivrebbe in una
sublime sfera metastorica, tra
immagini di perenne bellezza,
messaggi universali, verità
eterne» (E.
Degani).
È
innegabile, al contrario,
l'assurdità di pensare ad una
scissione tra arte e vita,
soprattutto in un momento
storico come il V secolo,
quando cioè il cittadino
ateniese si sente massimamente
coinvolto e impegnato nella
gestione della polis: perciò,
appunto, il drammaturgo, che
è anzitutto un polites,
reinterpreta artisticamente il
mito e, con un intrecciato
gioco di rimandi analogici,
esprime la sua personale
visione del mondo ed il suo
implicito giudizio sulla realtà
del tempo. «Ormai il mito –
scrive Detienne – cade sotto
il controllo politico. Gli
antichi valori trasmessi dalla
mitologia vengon confrontati
con quelli che la città è
impegnata a costruire e di cui
il coro si fa portavoce. Di
conseguenza la tragedia
utilizza una storia mitica
attraverso la quale mette in
discussione le imprese e le
parole dell'eroe e degli
attori passando costantemente
dal sistema di valori della
città alle forme del suo
passato mitico».
Così
il poeta diviene il massimo
educatore del popolo e lo
spettacolo tragico,
organizzato dallo stato e
strumentalizzato dalle forze
politiche che ne curano
l'allestimento, viene a
configurarsi, da un lato, come
rappresentazione dei
valori–base della comunità
cittadina, da un altro lato,
come veicolo che li diffonde e
li accredita, condizionando
l'opinione pubblica per
elaborarne il consenso. Il
dramma assolve dunque a una
duplice funzione, che è
quella di rafforzare nella
classe egemone la coscienza
del suo ruolo preminente,
giustificandola in termini
ideali, e di provvedere altresì
all'acculturazione delle
classi subordinate, impedendo
la formazione di ideologie
alternative, e dunque
pericolose per l'equilibrio di
volta in volta esistente. Senza
dubbio, quanto doveva essere
di assoluta chiarezza per gli
spettatori del tempo, non è
sempre altrettanto perspicuo
oggi: se infatti la commedia,
con la sua iambike
idea, con il suo onomasti
comodein, permette di
cogliere subito la maggior
parte delle allusioni, non così
immediato risulta il messaggio
della tragedia.
E tuttavia, «quella
che va comunque respinta in
via preliminare è la tesi
dell' "apoliticità"
dell'arte drammatica, ad Atene
fra l'altro saldamente legata
al gioco delle forze
politiche, che appaiono sempre
in grado di influenzarla:
sappiamo che gli arconti, cui
lo stato affidava il compito
di decidere sull'ammissione
dei concorrenti, e dunque
sull'allestimento delle
rispettive opere teatrali,
compivano spesso scelte
tutt'altro che
"imparziali"; ed
anche nella designazione dei
coreghi e nella nomina delle
giurie, risulta avessero ampie
possibilità di manovra, né
si facevano scrupolo,
all'occorrenza, di mettere
disinvoltamente da parte la
stessa regolare procedura
elettiva» (E.
Degani).
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