LetiziaLanza

 

 



da "Il diavolo nella rete"

La tenerezza è virtù femminile? 

di Letizia Lanza

     

… il poeta è un crocefisso al legno della sua sincerità.

David M. Turoldo, da Pietà invoco

Nota introduttiva di G. Lucini

Scrive Camillo De Piaz nel suo breve saggio L'evento Turoldo, che qui presentiamo: «Purtroppo non vedo all'orizzonte, almeno sul momento [le parole di De Piaz sono del 1993] , la persona dotata, non dico delle conoscenze, ma delle qualità o strumenti adatti ad affrontare nei modi giusti un simile argomento.  Il discorso rimane aperto».  L'"argomento", di cui parla De Piaz riferendosi alla poesia di Turoldo, è "quello che una volta si chiamava l'eterno femminino.  Davide e le donne, Davide e la donna", e prosegue rilevando quanto abbia contato la presenza femminile nella formazione del frate e del poeta.  Perciò accogliamo con piacevole sorpresa questo bel contributo di Letizia Lanza, di grande sensibilità e profondità insieme - e, come al solito, di grande talento.  Può darsi che appunto una donna possa essere "la persona" più adatta a questo compito... 

 

   Al riguardo di tanta domanda il frate poeta di Coderno del Friuli non sembra nutrire dubbi: «La tenerezza è donna». E la ragione è che «la donna si è trovata sola con Dio, per ultima, in tutto l'ordine della creazione, mentre Adamo dormiva». Allora «certamente Dio avrà nascosto, in quell'impenetrabile scrigno che è il cuore della donna, il meglio di sé, perché innamorato (e come avrebbero potuto essere diverse le cose? anche Dio non può, non può starsene solo). E il meglio di Dio è la tenerezza e la forza: tenerezza e vigore e bellezza. La bellezza e lo splendore dello spirito. La tenerezza è la veste nuziale dell'amore: "l'oro di Ofir della regina". Perciò, tenerezza quale condivisione dello stesso divino amore»[1].

            Tali e tanti allora, secondo padre David, i tesori depositati nel cuore della donna fin dalla creazione:  «Tenerezza da far brillare anche gli occhi delle fiere, vigore da superare ogni debolezza nell'amare e nel donarsi, forza da sconfiggere la crudeltà di ogni dolore: bellezza da far fiorire i deserti e splendere di una luce soave perfino la notte più cupa. E questa è religione, il meglio della religione»[2].

            Di fatto, a dire di Turoldo, mentre il «maschio» si rivela un essere tanto «egotico, imperioso e vigliacco» quanto «presuntuoso e usurpatore», al contrario la donna brilla quale «coscienza sempre accesa» a schiarire le tenebre della notte. O, nel caso essa stessa venga assimilata alla notte, non è però mai la notte quale «sepolcro del giorno; non la fittissima notte che inghiotte chiesa e paese; non la notte del crimine e del delitto. Invece la notte radiosa, la beata e soave notte: la notte della creazione e del sabato santo»[3]. Poiché è nella notte che Dio continua a creare; è dall'oscurità del solco che nasce il virgulto; ed è all'alba, prima dello spuntar del sole, che Egli risorge. E saranno le pie donne ad annunziare la lieta novella, le donne che han vegliato per tutta la notte.

            La donna quindi, secondo Turoldo, può essere assimilata alla notte solo a condizione di vederla come «ventre materno da cui ogni mattino proviene, grembo della terra in cui ogni giorno morto cade per risorgere»[4]. Ovvero – quel che più conta, forse, –  a condizione di interpretare la notte come «tempo del vedersi dentro, tempo della discesa nel "regno delle madri"»[5].

            Certo – e sicuramente in una prospettiva androcentrica – la notturna tenebra si può anche intendere come «divoratrice, tomba del giorno stanco, e il mattino come colui che (Il Flauto Magico) ha vinto e sottomesso la notte. Così la si è, più tradizionalmente, vista. Ma quel che qui importa è un'altra cosa: la notte sa del giorno quel che il giorno non può sapere di sé perché è troppo giovane, neonato, o troppo stanco e obnubilato. E dunque il giorno, per conoscersi, deve ascoltare la notte»[6]. Ovvero la madre. Ovvero la donna. Colei appunto che, nella visione turoldiana, incarna la tenerezza – ossia un «piccolo-grande, insostituibile tesoro», da non concepirsi, ovviamente, alla stregua di tenerezza «sentimentale», bensì nella sua piena nobiltà di «affetto alto e severo»[7] – quale, ad esempio, circola nel Giornale dell'anima di papa Giovanni o nella Storia di un'anima di S. Teresa di Lisieux[8].

           La tenerezza, dunque. Che non è tanto l'amore, quanto un «particolare, delicato, silenzioso, nascosto aspetto dell'amore» – ovverosia un «misterioso segreto» che diviene fonte di ogni reciprocità e di ogni fiducioso abbandono[9]. Intreccio – e gioia – di lunghi conversari o, al contrario, accordi e intese fatte di complicità e di silenzio: gli uni e le altre, a volte, così «folgoranti quanto è folgorante il passaggio di un treno in corsa dal buio fitto di una lunga galleria all'apparire improvviso della luce. Allora tu vedi, e capisci finalmente, e gioisci»; ed è sempre forte la sorpresa che la verità sia «così semplice, così vicina»[10].

            Ecco, questa a mio avviso è la caratteristica essenziale della verità – il suo essere «così semplice, così vicina». Poiché appunto, anche al di là di ogni connotazione religiosa, la verità esiste e si può (ri)trovare/percepire nel fondo delle cose[11]: purché ovviamente sia grande e autentica in noi la capacità/disponibilità a penetrare – denudati/e di polverosi cascami e vuoti orpelli – in quel nucleo, in quel denso nocciolo che è l'essenza stessa del vivere[12].

            La tenerezza, dunque. Una misteriosa pazienza, una devozione infinita – che spetra l'aridità, (ri)collegando i frammenti dispersi di tante solitudini murate in se stesse e (ri)conducendole nel cerchio della vita. Un valore ancor più prezioso in questi «tempi stolti di fanatismi e terrori e armamenti e genocidi[13]; tempi senza poesia[14]. Tempi e chiese[15] e sistemi senza tenerezza: cioè, vili. E senza gioia»[16]. In una parola, tempi in cui è «ferita a morte l'anima del mondo»[17].

            Un valore enorme, allora, la tenerezza. Purché naturalmente essa venga sentita – e vissuta –  nella sua vera, immarcescibile essenza: cioè a dire, anzi tutto come «reciprocità, paritarietà, assenza di sottomissione[18]; cancellazione della figura del dominio, del padrone e del suddito, scoperta e creazione di rapporti che rinunciano al catartico teatro delle figure dell'inimicus (il nemico privato) e dell'hostis (il nemico pubblico, statale); che rinunciano alla opposizione tra centro e periferia: dove il centro è ogni "io" e la periferia sono "gli altri"»[19]. Tenerezza, quindi, da non intendersi come debolezza – riconoscendo appunto tutto il vigore, se non la violenza addirittura[20], che essa può – deve – racchiudere in sé:  il midollo vigoroso essendo necessario non soltanto perché la tenerezza sia un eros, ma pure, vicendevolmente, perché il logos sia tutto pervaso di eros[21].  

            Un valore imparagonabile, insomma, la tenerezza. Ciò non ostante messo continuamente a repentaglio – se non negato tout-court – non solo dall'uomo, con la sua rabbia di sopraffazione autoritaria[22], bensì, non di rado, dalla stessa donna. Un valore buttato insensatamente alle ortiche sia per lo «scialo dei sentimenti»; l'impietoso «spreco di affetti»; i «devozionismi» tanto «disgustosi quanto privi di pudore. Riti e cerimonie e canzoni che sono come streaptease delle anime»[23], sia,  soprattutto, per la diffusa, incontrollata smania di autoaffermazione che spesso divora pure l'altra metà del cielo. Un'autoaffermazione «infantile, egocentrica e narcisistica» nelle parole di Luisa Muraro; una frenesia irragionevole che è indizio di miseria, non di femminile ricchezza, ed è perciò destinata a innescare rivalità e avidumi di ogni specie[24], sterili quanto turpi contese, trista menzogna, rendendo al tutto impossibile sia dare sia ricevere affidamento. E dunque tenerezza. E dunque amore. Poiché – dice giustamente papa Giovanni – l'amore «sta nel mezzo»[25]: quindi non c'è primato, non c'è preminenza, non c'è traguardo, che possa a buon diritto occupare questo posto centrale. Solo un amore che «sta nel mezzo» può vice versa effondersi a tutte le creature del mondo e farsi tenerezza. Così come, per proprietà transitiva, solo una forza che «passa attraverso le altre» (L. Muraro) può risultare viva e vincente per l'universo femminile – mentre, al contrario, «il potere che una donna acquista da sola è un potere debole. Di più: è come se nelle sue mani questo potere diventasse debole» (A. Bocchetti).

            Di gravosa entità, allora, lo scotto da pagare anche per la donna, qualora si ritrovi preda di un arrivismo incontrollato e, oltre tutto, assai pericoloso – non opponendo esso argine alcuno, bensì, al contrario, assecondando tutto il dolore, il travaglio che è nel mondo, l'immanità delle miserie e degli errori ovunque dilaganti. Si tratta infatti di un protagonismo incompatibile con, e negatorio di, quello che invece è – deve essere – il legittimo protagonismo femminile: agio, ambizione, voglia di vincere; un' «autorità come immagine», un'«autorità come parola» (A. Putino); una «libertà di fare e di parlare mentre la vita e la storia ti attraversano» (L. Campagnano) e ti arricchiscono – magari anche a scapito di quelli che taluni/e reputano successi; una capacità di farsi mondo, un'interezza paga e appagante, un nocciolo caldo di verità da (ri)acquistarsi nell'acquistare il proprio giusto limite, ossia nel riuscire a farsi piccola – purché, beninteso, si tratti della piccolezza di una Teresa di Lisieux, di un papa Giovanni. Il quale, in un contesto ovviamente tutto religioso, diceva di sé: «Mi sento in ubbidienza in tutto, e constato che il tenermi così conferisce alla mia piccolezza tanta forza di audace semplicità che, essendo tutta evangelica, domanda e ottiene rispetto generale»[26].

            Per dirla in altri termini, a contrastare l'insaziabile idolo superbo, fabbricato a immagine e somiglianza della propria tendenza al dominio; per vincere tanto esiziale passione occorre – e cito ancora papa Giovanni – lo «sforzo vigilante di ridurre tutto, principii, indirizzi, posizioni, affari, al massimo di semplicità e di calma». Serve cioè la più viva attenzione a potare la propria «vigna» di quanto è «solo fogliame inutile e sviluppo di viticci», per andare diritto/a a ciò che è «verità, giustizia, carità, soprattutto carità»[27]. Il tutto da realizzarsi tramite una, per  dir così, «sovrabbondanza di misura e di discernimento»; «sovrabbondanza nella tenerezza»; «sovrabbondanza nell'affidarsi»; «sovrabbondanza nell'attesa di uguale tenerezza e credulità»[28].  

            Di tale maniera e a tali condizioni, allora, può compiersi la tenerezza: nel consentire all'altro/a di entrare nella propria vita, con le sue esigenze e problemi – ossia con la sua «dura presenza» – e ciò non in base ad una concessione dall'alto ma per esigenza di una giustizia autentica, per intima persuasione che parte integrante della costituzione dell'io è «l'attivo rispetto, accogliente», verso l'altra/o. In una parola, per volontà di vivere una «dimensione comunionale dell'esistenza»[29]NON SOLO UMANA[30] – e di sentire profondamente, a livello fondante, la solidarietà e la paritarietà.

            Un obiettivo, questo, che può – deve – trovare autentica realizzazione soprattutto ad opera del genere femminile – così da poter (ri)attribuire, tra l'altro, pieno spessore di verità alla generosa equazione turoldiana TENEREZZA = DONNA.

 Note 


[1]D. M. Turoldo in A. Levi - M. C. Bartolomei - D. M. T., Dialogo sulla tenerezza, Milano, 1995 (1985), p. 21. In ambito religioso, del resto, tenerezza e fede «si attraggono, a partire dall'evangelo, in modo tale che partendo dall'una, anzi scavando e immergendosi sempre più nell'una», si arriva inevitabilmente all'altra. La fede infatti ha inizio con «un appello e un ascolto che vi risponde». Se quindi la fede è fiduciosa «apertura al contenuto dell'appello, che cosa è mai più tenero della fede? Non dice, anzi, qui, "fede", tout-court, "tenerezza"? E se tenerezza è l'aprirsi fiducioso allo scambio, paritario ed esigenzialmente perfetto, se è la disponibilità ad accogliere l'altro e a farsi accogliere dall'altro, non è forse vero che, qui, "tenerezza" dice "fede"?», M. C. Bartolomei in A. Levi - M. C. B. - D. M. Turoldo, op. cit., pp. 93; 95. Dunque la fede, attraversando l'amore, lo rende «tenero, antiautoritario, antiaccentratore, ne fa un amore tenero-a-lasciarsi-attraversare; alla fine: un amore attraversato dalla croce, crocefisso. Ne fa una tenerezza. La tenerezza naturale, a sua volta, che ogni frammento d'amore trascina anche frammentariamente con sé, attrae a sé una fede tenera, ossia disponibile, grata e celebrante e non classificante e definitoria, sovrabbondante nella misura (e smisurata nella sovrabbondanza) e non calcolante e retributiva», p. 99.

[2]D. M. Turoldo in A. Levi - M. C. Bartolomei - D. M. T., op. cit., p. 22.

[3]Di genere femminile nella Bibbia, il Sabato è la shabbah «santa e regale, e rende regale la veste; è la shabbah, luogo della presenza, della shekinah, e la veste che rendono unica la fanciulla che la indossa: la figlia di Sion, l'amata del Cantico», D. M. Turoldo in A. Levi - M. C. Bartolomei - D. M. T., op. cit., p. 23.

[4]Con movenze analoghe, nell'orizzonte poetico turoldiano il «contenuto dell'istanza di fede (oggetto elettivo di questo poiein) è da un lato sempre uguale a se stesso, ma contemporaneamente la immobilità ipostatica si autogenera per processo incessante, muore ogni giorno e rinasce ogni giorno, è la "quotidiana morte" in senso paolino; nella immobilità stessa scorre la tensione verticale, si realizza il divenire strutturale infaticabile del rapporto col divino», G. Luzzi in D. M. Turoldo, fine dell'uomo?. Prefazione di G. L., Milano, 1976, p. 15.

[5]D. M. Turoldo in A. Levi - M. C. Bartolomei - D. M. T., op. cit., pp. 22; 23.

[6]M. C. Bartolomei in A. Levi - M. C. B. - D. M. Turoldo, op. cit., p. 91.

[7]D. M. Turoldo in A. Levi - M. C. Bartolomei - D. M. T., op. cit., p. 13.

[8]Carmelitana scalza, vissuta brevissimamente (tra il 1873 e il 1897), celebrata per il totale, gioioso abbandono alla Grazia, è a buon diritto annoverata tra i Dottori della Chiesa – vale a dire un certo numero di «scrittori illustri non solo per santità personale ma soprattutto per la scienza teologica che hanno espresso. La Chiesa ha ritrovato nei loro scritti la propria ortodossia di fede e li ha riconosciuti ufficialmente. Si tratta di una trentina di autori, tra i quali tre donne (S. Teresa d'Avila, S. Caterina da Siena, S. Teresa di Lisieux) proclamate tali solo di recente, che occupano tutto l'arco bimillenario della Chiesa per cui quelli più antichi sono anche Padri della Chiesa», A. Favero, Trattato breve di Teologia Fondamentale, Venezia-Mestre, 2001, p. 68. Ebbene, proprio Teresa annota che, al termine della vita – e dunque al compimento del suo cammino di santità – sempre più grande sente crescersi nel cuore la tenerezza, cfr. Thérèse de l'enfant Jésus, Manuscrits autobiographiques, Lisieux, 1957, p. 251.

[9]D. M. Turoldo in A. Levi - M. C. Bartolomei - D. M. T., op. cit., pp. 18; 11. Illuminanti le parole che papa Giovanni rivolse alla folla, accalcata in piazza S. Pietro, la sera del fatidico 11 ottobre 1962 (data d'inizio del Concilio Vaticano II): «La mia persona non conta niente: è un fratello che parla a voi, un fratello diventato padre per volontà di nostro Signore. Ma tutt'insieme, paternità e fraternità, è grazia di Dio. Tutto tutto», A. Levi in A. L. - M. C. Bartolomei - D. M. Turoldo, op. cit., p. 29. E poi: «Quando andrete a casa fate una carezza ai vostri bambini e dite loro: questa è la carezza del papa». Per una volta – l'unica forse nella storia della Chiesa – la tenerezza viene così saldamente ancorata alla fede. Ma: come poter credere che la carezza dei genitori sia al contempo la carezza del papa? Per credere così «non basta la fede, teologica o ideologica: ci vuole la "credulità", quella che una volta si definiva "pius credulitatis affectus", cioè un'affettuosa inclinazione a credere», p. 28. Grande quindi, anche se in qualche modo dissimulato, il rigore delle parole del Pontefice sul piano teologale – dove «l'unica e semplice relazione è quella di reciprocità. Io vi guardo, voi mi guardate. Io non vi tocco, voi non mi toccate. Io sono la vostra voce, voi siete la mia voce. Io mi affido a voi e vi chiedo che vi affidiate a me», p. 34.

[10]D. M. Turoldo in A. Levi - M. C. Bartolomei - D. M. T., op. cit., p. 17.

[11]Questo il titolo della seconda, fondamentale silloge di Mauro Ferrariove appunto l'autore impernia il suo discorso poetico sull'incontro/scontro, ossia sul contrastato dialogo tra la superficie, vittima del tempo, e la profondità, solenne ed eterna: «"Inanimato il tutto: vorrei udire / storie di morte e di rinascita": solo chi è "giorno su giorno ostaggio della morte" ed è finalmente consegnato al divenire può cioè attingere cime abissali da cui risalire rinnovato, risvegliandosi come un continente perduto coperto di melma e alghe "verso i rintocchi di rosario / che increspano la superficie". Solo chi versa con precisione un personale e quotidiano contributo di sangue per il conseguimento della medietas, e ha perciò consapevolezza di una natura complessa, fatta insieme di "carne e sogni", "a mezza strada fra la terra e il cielo", potrà essere finalmente accolto dalle Muse alla fine di un viaggio che l'ha riconsegnato al destino dopo l'esperienza del deserto, ma "senza sublimi verità", senza Tavole della Legge: Solo la carpa / sonnecchiante al fondo conosce / la superficie delle cose / così increspata ed insidiosa, / l'eccitazione e il dubbio / prima che il buio raggeli», L. Morandotti in M. Ferrari, Al fondo delle cose, Novi Ligure, 1996, p. 8, cfr. Secca d'autunno, p. 24.

[12]Si pensi per esempio all'esigenza, più volte ardentemente espressa da Virginia Woolf, che la donna – ciascuna donna  – si tenda a (ri)cercare/trovare «nuove» parole e «nuovi» metodi così da «pensare alle cose in se stesse» e da «distillare» quanto c'è di «personale» e di «incidentale» nelle impressioni – fino a ottenere il «puro fluido, l'olio essenziale della verità», Una stanza tutta per sé. Introduzione di A. Guiducci. Traduzione e prefazione di M. Del Serra, Roma, 1993, pp. 75; 37. Per quanto concerne la tenerezza, poi, solo l'assecondarla nell'«integralità della sua logica» può condurre quanto più vicino possibile a quella verità che «l'evento manifesta e istituisce», M. C. Bartolomei in A. Levi - M. C. B. - D. M. Turoldo, op. cit., p. 96.

[13]Lapidaria, al riguardo, l'epigrafe turoldiana a fine dell'uomo?: «E oggi? / Dopo il Vietnam, il Cile e ancora il Cile / e Tall El Zaatar e la Rhodesia / e il Sud-Africa e la Thailandia … / Ma c'è un dopo-Vietnam? / Di più vero c'è solo il silenzio di Dio», p. 7. Si vedano pure alcuni versi di Madre dell'uomo: «Qualcuno v'è sempre / che vuole uccidere / (nulla è mutato!) / qualcuno sul trono / che parla di pace e uccide. // Noi siamo i pochi / sopravvissuti per prodigio ai lager, / noi generazione del genocidio / i testimoni dei cinquanta / milioni di uccisi. // Come ora sono i dodici / mila segnati, i milioni / di fanciulli dell'Asia, / concime ai grandi bacini / che alimenteranno fra anni / energia ai nostri motori / in viaggio verso la luna», p. 33.

[14]Là dove, dice al contrario padre David, la «stessa poesia, ogni poesia – che è il momento metafisico della creatività: il farsi del mondo dentro l'anima, dentro il logos –, nasce da questa misteriosa tenerezza, da questo stato di grazia che ti fa vibrare il cuore e ti traslucida l'occhio della mente (ma anche gli occhi del corpo), per cui finalmente comprendi le essenze delle cose e ti metti a cantare e canti alla bellezza e all'amore: poesia come abbraccio intimo con le creature (perciò sono momenti da non sperperare), poesia come uno stringere le cose sul cuore, e tu a sentirti nel cuore delle cose, in una reciproca comunione: tu davanti all'universo a tutta luce calda. Io parlo nei miei canti di un "caldo lume": Signore, non ti chiedo di avere / quello che altri hanno, / essi non sanno / il caldo / lume di questa povertà», D. M. Turoldo in A. Levi - M. C. Bartolomei - D. M. Turoldo, op. cit., p. 13. Si vedano pure  alcuni versi di Vigilia di Pasqua: «O Dio, / sangue mio dolce e caro, / perdona questa ragione / reticolato alla nostra solitudine / che impediva la fonte del canto», da Gli occhi miei lo vedranno in D. M. Turoldo, Poesie. Premessa di L. Santucci, Vicenza, 1971, p. 204. Se da un lato, quindi, nel fare poetico di Turoldo è chiaro l'aspetto «apparentemente convocativo, presuntivamente caritativo, determinato da una copertura di humilitas, di caritas, appunto», dall'altro lato si staglia un «versante di sottintesa polemica nei confronti dello statuto letterario visto come fatto sociale». E la ragione è che per lui la poesia, quando è «vera poesia» è un atto di «fede, un atto di vera religione, e perciò è un fatto liberatore. La vera, la grande poesia, finisce sempre in preghiera: appunto, la vita stessa è un atto di fede» (Il dramma è religioso)», G. Luzzi, op. cit., p. 14.

[15]Netta la denunzia turoldiana: «Questo mi fa veramente paura: di quanto sia capace di odio e di furore distruttivo (di furor mortis) un uomo di religione; di quanto sadismo egli sia fonte come nessun altro. Ma forse la ragione è proprio questa: che è un uomo di religione, non un uomo di fede, non uomo di vangelo», da Ma che segno è? in fine dell'uomo?, cit., p. 104.

[16]D. M. Turoldo in A. Levi - M. C. Bartolomei - M. D. T., op. cit., p. 14.

[17]Dal turoldiano In cosa credere. E continua: «In che cosa si crede ancora? nella libertà? nell'amore? Qualcuno parla della fine della morale; ma ciò potrebbe essere anche un bene. Infatti, di quale morale si trattava? Era forse "morale" il nostro occidente, di fronte alla realtà del nostro mondo? Questa civiltà del petrolio! … Ed ora civiltà delle bombe al laser. Lo so, lo so che c'era dell'altro oltre al petrolio; non sono qualunquista e non confondo le carte; e per me non è vero che l'oriente è uguale all'occidente, che tutto è un sistema unico. Piuttosto è vero lo sforzo di ridurre tutto a un sistema; e ho paura che il male più grave sia questa tendenza a farci tutti occidentali», fine dell'uomo?, cit., p. 77.

[18]Così, in ambito religioso, il conoscere Dio come Padre non è tanto un «ricordarsi consapevole di lui, un ragionare su di lui, un parlare di lui; ma, più a fondo, una acquisita tranquillità, una pace ricevuta, una sicurezza e una grazia dalla quale l'esistenza trae simultaneamente serietà e beatitudine. Il figlio meglio riuscito non è il più sottomesso, ma il più libero. Non è quello che a ogni momento chiama il padre e ha bisogno della sua assistenza, ma quello che si sente fiducioso fino alla spavalderia come il Cristo dodicenne nel tempio; e libero fino alla docilità, come il Cristo che appare ai due discepoli sulla strada per Emmaus», A. Levi in A. L. - M. C. Bartolomei - D. M. Turoldo, op. cit., p. 41.

[19]M. C. Bartolomei in A. Levi - M. C. B. - D. M. Turoldo, op. cit., p. 97.

[20]Così, negli esempi testamentari di Ezechiele e di Giona, violenta appare la tenerezza di Dio nel distruggere tutto ciò a cui l'uomo si appoggia «negando che sia espressione della tenerezza di Dio, illudendosi di trovare appoggio fuori o contro di essa», ibidem, p. 108.

[21]Cfr. L. Boff, Francesco d'Assisi. Una alternativa umana e cristiana, Assisi, 1982, p. 28.

[22]Così e. g. a dire di Woolf, tutto il potere gli uomini l'hanno acquistato – l'acquistano – «a costo di ospitare in petto un'aquila, un avvoltoio, che rode eternamente  fegato e polmoni: l'istinto del possesso, il furore dell'acquisizione, che li spinge perpetuamente a desiderare le terre e i beni degli altri; a creare frontiere e bandiere, corazzate e gas velenoso; a offrire le loro vite e quelle dei loro figli», op. cit., p. 46.

[23]D. M. Turoldo in A. Levi - M. C. Bartolomei - D. M. T., op. cit., p. 24. D'altronde – è risaputo – «ciò che vale è canzonissima / ciò che vale è la partita / operaio stupido e finito», da Cronaca nera in fine dell'uomo?, cit., p. 66.

[24]Vd. il turoldiano Ragione ci basterà appena…: «Ora il tempo è l'unico iddio: / nessuno sarà ad esaudirci / nessuno in grado di udire / il grido dell'altro. // Non passato non futuro avremo, / e il presente / è un'atroce agonia / di essere vivi. // È tardi, è tardi, o figli della morte. / Troppo ricchi per essere liberi / troppo sazi per gustare le cose: / ogni fantasia è uccisa / dalla vertigine. // Ora ragione ci basterà appena / per dire di ognuno / il grado di follia», da fine dell'uomo?, cit., p. 47.

[25]Giornale dell'anima (1961), Roma, 1964, p. 322.

[26]Giornale dell'anima (1959), Roma, 1964, p. 304.

[27]E. Balducci, Papa Giovanni, Firenze, 1964, p. 93.

[28]A. Levi in A. L. - M. C. Bartolomei - D. M. Turoldo, op. cit., pp. 38; 39.

[29]M. C. Bartolomei in A. Levi - M. C. B. - D. M. Turoldo, op. cit., p. 102. Si pensi del resto all'esplosione di tenerezza di S. Francesco. Il quale effettivamente «diede via libera alle fonti del cuore e alle sorgenti dell'Eros. È il sole di Assisi, come lo chiamò Dante. Realizzò un universale connubio tra il logos e il pathos, tra il logos e l'eros. Dimostrò con la sua vita che per essere santi bisogna essere umani. E per essere umani è necessario essere sensibili e teneri. Con il povero d'Assisi caddero i veli che oscurano la realtà», L. Boff, op. cit., p. 33.

[30]Vd. e. g. alcuni versi di Da Isaia profeta: «È di sabbia la nostra carne, le mani / rami d'alberi, e gli occhi di perla, / e il sangue onde di germi, / forse noi stessi particole d'esseri / non nati ancora. // O Padre della terra, / non ci sono abissi tra noi e la pietra, / non distanze con gli astri. Qui / è l'infinito distacco, / tra cuore e cuore, tra l'urto / di volontà concordi / dentro il tuo insonne creare. // Tu la lontananza che incombe, / il vuoto ove franiamo», da Udii una voce in D. M. Turoldo, Poesie. Premessa di L. Santucci, Vicenza, 1971, p

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Letizia Lanza, pur essendo ben presente in rete, non è scrittrice nata per la rete, la sua scrittura proviene da molto lontano, dalla sua formazione, dal retroterra culturale e dal personale percorso di crescita.
Dotta studiosa, raffinata cultrice dei  classici greci e latini, ai quali continua a guardare come punto di riferimento anche per la modernità (la sua curiosità intellettuale e le profonde conoscenze del nobile passato sono già confluite in diverse pubblicazioni), non è rigidamente ancorata ad una visione tradizionale del sapere  che continua a privilegiare la pubblicazione cartacea (che, anche se sempre più va diffondendosi l¹e-book, il libro  elettronico,  tuttavia serba e serberà sempre un indubbio valore, e proprio questo libro ne è testimonianza) ma, affascinata dal telematico, e
consapevole della validità e dell¹efficacia del mezzo informatico, ben lo piega ai suoi interessi culturali e ai suoi scopi divulgativi, conservando immutato il modo personale di analizzare e concatenare situazioni, eventi e persone  ed i dotti moduli espressivi, imponendo il suo stile e non
piegandosi mai alle necessità del web che, nell¹ottica dell¹accessibilità e della comprensibilità, purtroppo sovente tende all¹eccessiva sintesi, all¹esemplificazione e al livellamento di linguaggi e contenuti.
(dalla Premessa di Francesca Santucci)


Ma dalla guerra, come insegna la Storia (e lo ricorda bene Gian Domenico Mazzocato, scrittore trevisano) «da nessuna guerra, mai, in nessuna epoca sono nati benessere e pace autentica. Ogni guerra è, per sua stessa natura, già gravida della prossima guerra». Una strada "altra", al contrario, esiste: deve e può essere la politica: per taluni, «parola addirittura impronunciabile. E invece è parola alta: indica l'arte di governare, gestire, reggere, inventare giorno dopo giorno i rapporti tra i cittadini.
E, oggi come oggi, la politica ha un grosso problema di cui occuparsi: quello della distribuzione delle risorse, cioè della giustizia stessa.
Perché ci saranno sempre guerre finché il venti per cento della popolazione mondiale si accaparra, divora, consuma, sperpera l'ottanta per cento delle risorse del pianeta».
Questo allora tutti e tutte dobbiamo fare: rifiutare il giuoco dei potenti ­ che, di necessità (la LORO necessità), vogliono «consumare armi vecchie avendo già in mente i soldi che servono a fabbricare quelle nuove» ­e pensare invece, sull'opposto versante, «alla fame, alla sete, alle
malattie» («Il Gazzettino» di Treviso, 11 febbraio 2003). E al disastro ecologico (migliaia di pozzi incendiati) e alle altre funeste, inevitabili conseguenze di guerra.  Questo, alla buonora! vogliono i moltissimi cittadini e cittadine che sabato scorso sono scesi in piazza ­ milioni e
milioni a Roma e nel resto del mondo (anche nella globalissima America, anzi tutto a New York). L'importante è non solo che restino tanti, tantissimi a volerlo,  ma che ogni giorno diventino sempre di più: una grande, incommensurabile, alfine gioiosa (?) moltitudine.
(da Ma Gesù cacciò i mercanti dal tempio)


Dell'esercizio della critica, disciplina che assorbe gli studi della nostra autrice, la libertà è l'aspetto più importante, forse più importante della competenza disciplinare, che pur le riconosciamo a profusione.
Infatti, un critico competente ma incapace di districarsi dalle pastoie dei rapporti confusivi (con le persone, con le idee e/o le ideologie, con i "debiti di riconoscenza" e quant'altro) è un critico morto: la sua parola"serve", letteralmente, a qualcosa o a qualcuno. La serietà, l'ostinazione documentaria, la competenza, i guizzi di creatività negli accostamenti e nelle ipotesi della nostra autrice, sono invece parola viva, sono amore che si traduce in azione intellettuale, sono accoglimento ma insieme
differenziazione, un andare al di là da un "compito" intellettuale per viverlo come esperienza stessa di vita, come apertura sul mondo.
E in tutto questo, conscia del valore epistemico del suo modo di cercare e fedele ad esso, Letizia Lanza lavora nel costruire categorie interpretative, nella disciplina della critica, che si rifanno a questa altra antropologia ma, lo si capisce leggendo i suoi testi, non seguendo un certo cliché o chiodo fisso di natura ideologica, ma conscia del fatto che
il nuovo, il davvero nuovo e vivo nella cultura, soltanto da lì può venire.
Le categorie che vengono messe alla prova, non sono certo fisse e definitive nella sua mente, anzi, sono sperimentali, continuamente riviste, a volte improvvisate con guizzi di intuizione, a volte più scrupolosamente esposte e molto articolate (e comunque mai in una concezione dogmatica
dell'argomentazione, ma piuttosto in una dimensione retorica, ricca di allusioni e suggestioni, un po' come fanno gli artisti).
(dalla Postfazione di Gianmario Lucini)