da "Il diavolo nella rete"
La
tenerezza è virtù femminile?
di Letizia Lanza
…
il poeta è un crocefisso al legno della sua sincerità.
David M. Turoldo, da Pietà invoco
Nota
introduttiva di G. Lucini
Scrive Camillo De Piaz nel suo breve saggio
L'evento Turoldo, che qui presentiamo: «Purtroppo non vedo
all'orizzonte, almeno sul momento [le parole di De Piaz sono del
1993] , la persona dotata, non dico delle conoscenze, ma delle
qualità o strumenti adatti ad affrontare nei modi giusti un simile
argomento. Il discorso rimane aperto». L'"argomento", di cui parla
De Piaz riferendosi alla poesia di Turoldo, è "quello che una volta
si chiamava l'eterno femminino. Davide e le donne, Davide e la
donna", e prosegue rilevando quanto abbia contato la presenza
femminile nella formazione del frate e del poeta. Perciò accogliamo
con piacevole sorpresa questo bel contributo di Letizia Lanza, di
grande sensibilità e profondità insieme - e, come al solito, di
grande talento. Può darsi che appunto una donna possa essere "la
persona" più adatta a questo compito...
Al
riguardo di tanta domanda il frate poeta di Coderno del Friuli
non sembra
nutrire dubbi: «La tenerezza è donna». E la ragione è che «la donna
si è trovata sola con Dio, per ultima, in tutto l'ordine della
creazione, mentre Adamo dormiva». Allora «certamente Dio avrà
nascosto, in quell'impenetrabile scrigno che è il cuore della donna,
il meglio di sé, perché innamorato (e come avrebbero potuto essere
diverse le cose? anche Dio non può, non può starsene solo). E il
meglio di Dio è la tenerezza e la forza: tenerezza e vigore e
bellezza. La bellezza e lo splendore dello spirito. La tenerezza è
la veste nuziale dell'amore: "l'oro di Ofir della regina". Perciò,
tenerezza quale condivisione dello stesso divino amore».
Tali e tanti allora, secondo padre David, i tesori
depositati nel cuore della donna fin dalla creazione: «Tenerezza da
far brillare anche gli occhi delle fiere, vigore da superare ogni
debolezza nell'amare e nel donarsi, forza da sconfiggere la crudeltà
di ogni dolore: bellezza da far fiorire i deserti e splendere di una
luce soave perfino la notte più cupa. E questa è religione, il
meglio della religione».
Di fatto, a dire di Turoldo, mentre il «maschio» si
rivela un essere tanto «egotico, imperioso e vigliacco» quanto
«presuntuoso e usurpatore», al contrario la donna brilla quale
«coscienza sempre accesa» a schiarire le tenebre della notte. O, nel
caso essa stessa venga assimilata alla notte, non è però mai la
notte quale «sepolcro del giorno; non la fittissima notte che
inghiotte chiesa e paese; non la notte del crimine e del delitto.
Invece la notte radiosa, la beata e soave notte: la notte della
creazione e del sabato santo».
Poiché è nella notte che Dio continua a creare; è dall'oscurità del
solco che nasce il virgulto; ed è all'alba, prima dello spuntar del
sole, che Egli risorge. E saranno le pie donne ad annunziare la
lieta novella, le donne che han vegliato per tutta la notte.
La donna quindi, secondo Turoldo, può essere assimilata
alla notte solo a condizione di vederla come «ventre materno da cui
ogni mattino proviene, grembo della terra in cui ogni giorno morto
cade per risorgere».
Ovvero – quel che più conta, forse, – a condizione di interpretare
la notte come «tempo del vedersi dentro, tempo della discesa nel
"regno delle madri"».
Certo – e sicuramente in una prospettiva androcentrica –
la notturna tenebra
si può anche
intendere come «divoratrice, tomba del giorno stanco, e il mattino
come colui che (Il Flauto Magico) ha vinto e sottomesso la
notte. Così la si è, più tradizionalmente, vista. Ma quel che qui
importa è un'altra cosa: la notte sa del giorno quel che il giorno
non può sapere di sé perché è troppo giovane, neonato, o troppo
stanco e obnubilato. E dunque il giorno, per conoscersi, deve
ascoltare la notte».
Ovvero la madre. Ovvero la donna. Colei appunto che, nella visione
turoldiana, incarna la tenerezza –
ossia un
«piccolo-grande, insostituibile tesoro», da non concepirsi,
ovviamente, alla stregua di tenerezza «sentimentale», bensì nella
sua piena nobiltà di «affetto alto e severo»
– quale, ad esempio, circola nel Giornale dell'anima di papa
Giovanni o nella Storia di un'anima di S. Teresa di Lisieux.
La
tenerezza, dunque. Che non è tanto l'amore,
quanto
un «particolare,
delicato, silenzioso, nascosto aspetto dell'amore» –
ovverosia
un «misterioso segreto» che diviene fonte di ogni reciprocità e di
ogni fiducioso abbandono.
Intreccio – e gioia – di lunghi conversari o, al contrario, accordi
e intese fatte di complicità e di silenzio: gli uni e le altre, a
volte, così «folgoranti quanto è folgorante il passaggio di un treno
in corsa dal buio fitto di una lunga galleria all'apparire
improvviso della luce. Allora tu vedi, e capisci finalmente,
e gioisci»; ed è sempre
forte
la sorpresa che la verità sia «così semplice, così vicina».
Ecco, questa a mio avviso è la caratteristica essenziale
della verità – il suo essere «così semplice, così vicina».
Poiché
appunto, anche al di là di ogni connotazione religiosa,
la verità esiste e si può (ri)trovare/percepire nel fondo
delle cose:
purché ovviamente sia grande e autentica in noi la
capacità/disponibilità a penetrare – denudati/e di polverosi cascami
e vuoti orpelli – in quel nucleo, in quel denso nocciolo che è l'essenza
stessa del vivere.
La tenerezza, dunque.
Una misteriosa pazienza, una devozione infinita – che spetra
l'aridità, (ri)collegando i frammenti dispersi di tante solitudini
murate in se stesse e (ri)conducendole nel cerchio della vita.
Un valore ancor più prezioso in questi «tempi stolti di fanatismi e
terrori e armamenti e genocidi;
tempi senza poesia.
Tempi e chiese
e sistemi senza tenerezza: cioè, vili. E senza gioia».
In una parola, tempi in cui è «ferita a morte l'anima del mondo».
Un valore enorme, allora, la tenerezza. Purché
naturalmente essa venga sentita – e vissuta – nella sua vera,
immarcescibile essenza: cioè a dire, anzi tutto come «reciprocità,
paritarietà, assenza di sottomissione;
cancellazione della figura del dominio, del padrone
e del suddito, scoperta e
creazione di rapporti che rinunciano al catartico teatro delle
figure dell'inimicus (il nemico privato) e dell'hostis
(il nemico pubblico, statale); che rinunciano alla opposizione tra
centro e periferia: dove il centro è ogni "io" e la periferia sono
"gli altri"».
Tenerezza, quindi, da non intendersi come debolezza – riconoscendo
appunto
tutto il vigore, se non la violenza addirittura,
che essa può – deve – racchiudere in sé: il midollo vigoroso
essendo necessario non soltanto perché la tenerezza sia un eros,
ma pure, vicendevolmente, perché il logos sia tutto pervaso di
eros.
Un valore imparagonabile, insomma, la tenerezza. Ciò non
ostante messo continuamente a repentaglio – se non negato
tout-court – non solo dall'uomo, con la sua rabbia di
sopraffazione autoritaria,
bensì, non di rado, dalla stessa donna. Un valore buttato
insensatamente alle ortiche sia per lo «scialo dei sentimenti»;
l'impietoso «spreco di affetti»; i «devozionismi» tanto «disgustosi
quanto privi di pudore. Riti e cerimonie e canzoni che sono come
streaptease delle anime»,
sia, soprattutto, per la diffusa, incontrollata smania di
autoaffermazione che spesso divora pure l'altra metà del cielo.
Un'autoaffermazione «infantile, egocentrica e narcisistica» nelle
parole di Luisa
Muraro; una frenesia
irragionevole che è
indizio di miseria, non di femminile ricchezza,
ed è perciò destinata a innescare rivalità e avidumi di ogni specie,
sterili quanto turpi contese, trista menzogna, rendendo al tutto
impossibile sia dare sia ricevere affidamento. E dunque tenerezza. E
dunque amore. Poiché – dice giustamente papa Giovanni – l'amore «sta
nel mezzo»:
quindi non c'è primato, non c'è preminenza, non c'è traguardo, che
possa a buon diritto occupare questo posto centrale. Solo un amore
che «sta nel mezzo» può vice versa effondersi a tutte le creature
del mondo e farsi tenerezza. Così come, per proprietà transitiva,
solo una forza che «passa attraverso le altre» (L. Muraro) può
risultare viva e vincente per l'universo femminile – mentre, al
contrario, «il potere che una donna acquista da sola è un potere
debole. Di più: è come se nelle sue mani questo potere diventasse
debole» (A. Bocchetti).
Di gravosa entità, allora, lo scotto da pagare
anche per la donna, qualora si ritrovi
preda di un arrivismo incontrollato e, oltre tutto, assai pericoloso
– non opponendo esso argine alcuno, bensì, al contrario,
assecondando tutto il dolore, il travaglio che è nel mondo,
l'immanità delle miserie e degli errori ovunque dilaganti. Si tratta
infatti di un protagonismo incompatibile con, e negatorio di, quello
che invece è – deve essere – il legittimo protagonismo femminile:
agio, ambizione, voglia di vincere; un' «autorità come immagine»,
un'«autorità come parola» (A. Putino); una «libertà di fare e di
parlare mentre la vita e la storia ti attraversano» (L. Campagnano)
e ti arricchiscono
– magari
anche a scapito di
quelli che
taluni/e
reputano
successi; una
capacità di farsi mondo,
un'interezza paga e appagante, un nocciolo caldo di verità da (ri)acquistarsi
nell'acquistare il proprio giusto limite, ossia nel riuscire a farsi
piccola – purché, beninteso, si tratti della piccolezza di una
Teresa di Lisieux, di un papa Giovanni. Il quale, in un contesto
ovviamente tutto religioso, diceva di sé: «Mi sento in ubbidienza in
tutto, e constato che il tenermi così conferisce alla mia piccolezza
tanta forza di audace semplicità che, essendo tutta evangelica,
domanda e ottiene rispetto generale».
Per dirla in altri termini, a contrastare l'insaziabile
idolo
superbo,
fabbricato a immagine e somiglianza della propria tendenza al
dominio; per vincere tanto esiziale passione occorre – e cito ancora
papa Giovanni – lo «sforzo vigilante di ridurre tutto, principii,
indirizzi, posizioni, affari, al massimo di semplicità e di calma».
Serve cioè la più viva attenzione a potare la propria «vigna» di
quanto è «solo fogliame inutile e sviluppo di viticci»,
per andare diritto/a a ciò che è «verità, giustizia, carità,
soprattutto carità».
Il tutto da realizzarsi tramite una, per dir così, «sovrabbondanza
di misura e di discernimento»; «sovrabbondanza nella tenerezza»;
«sovrabbondanza nell'affidarsi»; «sovrabbondanza nell'attesa di
uguale tenerezza e credulità».
Di tale maniera e a tali condizioni, allora, può
compiersi la tenerezza: nel consentire all'altro/a di entrare nella
propria vita, con le sue esigenze e problemi – ossia con la sua
«dura presenza» – e ciò non in base ad una concessione dall'alto ma
per esigenza di una giustizia
autentica,
per intima persuasione che parte integrante della costituzione
dell'io è «l'attivo rispetto, accogliente», verso l'altra/o. In una
parola, per volontà di vivere una «dimensione comunionale
dell'esistenza»
– NON SOLO
UMANA
– e di
sentire profondamente, a livello fondante, la solidarietà e
la
paritarietà.
Un obiettivo, questo, che può – deve – trovare autentica
realizzazione soprattutto ad opera del genere femminile – così da
poter (ri)attribuire, tra l'altro, pieno spessore di verità alla
generosa equazione turoldiana TENEREZZA = DONNA.
Note
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Letizia
Lanza, pur essendo ben presente in rete, non è scrittrice nata per
la rete, la sua scrittura proviene da molto lontano, dalla sua
formazione, dal retroterra culturale e dal personale percorso di
crescita.
Dotta studiosa, raffinata cultrice dei classici greci e latini, ai
quali continua a guardare come punto di riferimento anche per la
modernità
(la sua curiosità intellettuale e le profonde conoscenze del nobile
passato sono già confluite in diverse pubblicazioni), non è
rigidamente ancorata ad una visione tradizionale del sapere che
continua a privilegiare la pubblicazione cartacea (che, anche se
sempre più va diffondendosi l¹e-book, il libro elettronico, tuttavia serba e
serberà sempre un indubbio valore, e proprio questo libro ne è
testimonianza) ma, affascinata dal telematico, e
consapevole della validità e dell¹efficacia del mezzo informatico,
ben lo piega ai suoi interessi culturali e ai suoi scopi
divulgativi, conservando
immutato il modo personale di analizzare e concatenare situazioni,
eventi e persone ed i dotti moduli espressivi, imponendo il suo
stile e non
piegandosi mai alle necessità del web che, nell¹ottica dell¹accessibilità
e della comprensibilità, purtroppo sovente tende all¹eccessiva
sintesi,
all¹esemplificazione e al livellamento di linguaggi e contenuti.
(dalla Premessa di Francesca Santucci)
Ma dalla guerra, come insegna la Storia (e lo ricorda bene Gian
Domenico Mazzocato, scrittore trevisano) «da nessuna guerra, mai, in
nessuna epoca sono nati benessere e pace autentica. Ogni guerra è,
per sua stessa natura, già gravida della prossima guerra». Una
strada "altra", al contrario,
esiste: deve e può essere la politica: per taluni, «parola
addirittura impronunciabile. E invece è parola alta: indica l'arte
di governare, gestire, reggere, inventare giorno dopo giorno i
rapporti tra i cittadini.
E, oggi come oggi, la politica ha un grosso problema di cui
occuparsi: quello della distribuzione delle risorse, cioè della
giustizia stessa.
Perché ci saranno sempre guerre finché il venti per cento della
popolazione
mondiale si accaparra, divora, consuma, sperpera l'ottanta per cento
delle
risorse del pianeta».
Questo allora tutti e tutte dobbiamo fare: rifiutare il giuoco dei
potenti che, di necessità (la LORO necessità), vogliono «consumare
armi vecchie avendo già in mente i soldi che servono a fabbricare
quelle nuove» e pensare invece, sull'opposto versante, «alla fame,
alla sete, alle
malattie» («Il Gazzettino» di Treviso, 11 febbraio 2003). E al
disastro ecologico (migliaia di pozzi incendiati) e alle altre
funeste, inevitabili
conseguenze di guerra. Questo, alla buonora! vogliono i moltissimi
cittadini e cittadine che sabato scorso sono scesi in piazza
milioni e
milioni a Roma e nel resto del mondo (anche nella globalissima
America, anzi tutto a New York). L'importante è non solo che restino
tanti, tantissimi a volerlo, ma che ogni giorno diventino sempre di
più: una grande, incommensurabile, alfine gioiosa (?) moltitudine.
(da Ma Gesù cacciò i mercanti dal tempio)
Dell'esercizio della critica, disciplina che assorbe gli studi della
nostra autrice, la libertà è l'aspetto più importante, forse più
importante della competenza disciplinare, che pur le riconosciamo a
profusione.
Infatti, un critico competente ma incapace di districarsi dalle
pastoie dei rapporti confusivi (con le persone, con le idee e/o le
ideologie, con i
"debiti di riconoscenza" e quant'altro) è un critico morto: la sua
parola"serve", letteralmente, a qualcosa o a qualcuno. La serietà,
l'ostinazione
documentaria, la competenza, i guizzi di creatività negli
accostamenti e nelle ipotesi della nostra autrice, sono invece
parola viva, sono amore che
si traduce in azione intellettuale, sono accoglimento ma insieme
differenziazione, un andare al di là da un "compito" intellettuale
per
viverlo come esperienza stessa di vita, come apertura sul mondo.
E in tutto questo, conscia del valore epistemico del suo modo di
cercare e fedele ad esso, Letizia Lanza lavora nel costruire
categorie interpretative, nella disciplina della critica, che si
rifanno a questa
altra antropologia ma, lo si capisce leggendo i suoi testi, non
seguendo un certo cliché o chiodo fisso di natura ideologica, ma
conscia del fatto che
il nuovo, il davvero nuovo e vivo nella cultura, soltanto da lì può
venire.
Le categorie che vengono messe alla prova, non sono certo fisse e
definitive nella sua mente, anzi, sono sperimentali, continuamente
riviste, a volte
improvvisate con guizzi di intuizione, a volte più scrupolosamente
esposte e molto articolate (e comunque mai in una concezione
dogmatica
dell'argomentazione, ma piuttosto in una dimensione retorica, ricca
di allusioni e suggestioni, un po' come fanno gli artisti).
(dalla Postfazione di Gianmario Lucini)
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