Letizia Lanza
La musa seducente di francesca Santucci
DA
DIABOLICA
È scritto con il cuore,
l'ultimo libro della giovane scrittrice di Dalmine
(Donna non sol ma torna musa all'arte,
Edizioni Il Foglio, Piombino 2003,
I edizione)
– e lo rileva bene Piergiorgio Cavallini nelle
Considerazioni di apertura: «Ad una mia precisa
domanda sul perché avesse tralasciato alcune
autrici importanti nel panorama letterario delle
rispettive epoche, come Sulpicia del Corpus
Tibullianum o come Juana de Asbaje y Ramirez
de Santillana, nota come Sor Juana Inés de la Cruz,
la monja mexicana, o le scrittrici arabe, da
al-Khansa a Naoual Saadaoui, per citare solo due
estremi temporali, o la più famosa poetessa cinese
Li Ch'ing-chao, o la celebre autrice giapponese
Rumika Takahashi, creatrice dei manga, Francesca
mi rispose che, al di là dell'esigenza di fornire
– come ha fatto egregiamente – una panoramica
piuttosto esaustiva della produzione letteraria
femminile, aveva scelto le autrici che più le
erano congeniali … tanto che, riprendendo una mia
semplificazione verbale, parlando dell'argomento
Francesca si riferisce familiarmente al corpus
antologizzato come a "le mie poetesse", dove quel
"mie" la dice lunga sulla comunità di sentire …»
(p. 6).
Un cattivante
libricino, insomma – che già il poeta-filosofo
Gianmario Lucini definisce «prezioso soprattutto
per i riferimenti ad alcune scrittrici
dell'antichità, delle quali pochissimo è rimasto e
anche quel poco sconosciuto. Un lavoro dunque,
anche questo, di notevole impegno anche soltanto
per la raccolta del materiale da commentare e
presentare».
Di fatto,
come chiarisce il sottotitolo (Letteratura
femminile: selezione di autrici dalle origini al
'900), pur nella dovizie di citazioni
solo un numero ristretto di muliebri voci
ricevono ascolto, qui, da parte di Santucci, e lo
motiva l'autrice nella Nota: «Questo libro vuole
essere una piccola guida informativa che possa
condurre alla scoperta dell'affascinante universo
letterario femminile ancora oggi prepotentemente
sopraffatto da quello maschile; sono presenti una
selezione di autrici, scrittrici e poetesse, tra
le più rappresentative ed interessanti dei secoli
in cui hanno operato, dalle origini al '900, che,
pur non rinnegando l'essere donna, hanno
rivendicato la libertà e la capacità di affermarsi
attraverso il "maschile" gesto letterario» (p. 9).
Una scelta di
estremo interesse per altro – e in più, di assai
piacevole lettura. Tutte presenze autorevoli, con
le quali Santucci (con)vive in privilegiata
sintonia (vorrei dire, sympatheia) e delle
quali ciascuna – assicura sempre Francesca – «mi
ha insegnato qualcosa, a tutte le loro vicende
personali mi sono appassionata e tutte le ho
amate, perché dietro ogni verso, ogni rigo, ogni
sola parola, ho trovato celati un dolore, una
lacrima, una sofferenza, un'insofferenza, una
protesta, un'inquietudine, una disperazione, un
grido di solitudine, un canto d'amore» (p. 9).
Ecco, dunque,
la vera chiave di lettura della raccolta
santucciana: è voluta e scritta con il cuore, così
da superare d'un balzo ogni riserva che, al di là
dei meriti – indubbi – un certo, pur legittimo
rigore (rigidità?) storico-filologico potrebbe
avanzare.
Si sprigiona infatti dalla scrittura di Santucci
una sorta di musica tenue quanto penetrante. Tinte
fragili e suadenti incromano la trama delle
parole. Un giuoco sottile, avvolgente rinnova
fasti antichi, lusinghe di un passato lontano
eppur contiguo e cogente, di continuo sotteso,
ripensato, rivis(su)to. Sprazzi talora abbaglianti
di luce che in egual misura (passione?) investono
– così da rivelarne le intime peculiarità (e le
essenziali coordinate biografiche) – tutte le
donne presentate: ovvero «scrittrici e poetesse,
cortigiane e nobildonne, ascete e dame, timide e
fragili, trionfanti e pioniere, liriche,
elegiache, struggenti, appassionate, impegnate,
languide e decadenti, autrici autorevoli, ma anche
minori strappate all'oblio, che, in varietà di
stili, temi e contenuti, hanno saputo imporre o
sussurrare la loro voce la cui eco ci arriva dal
passato con immutato fascino» (p. 8).
Ventinove
maliose voci, quindi. Dall'anonimo – e tuttavia
connotato al femminile – Pervigilium Veneris
che tramanda l'Anthologia Latina
all'immortale Saffo («amante del bello, raffinata
ed elegante nei modi e nell'aspetto» – che «amò
molto» e il cui «amore riversato nei versi fu un
canto limpido e toccante», p. 14) alla Contessa
Lara; dalle elleniche Erinna, Anite, Nosside
(attive tra IV e III secolo a. C.) alle
novecentesche Paola Masino, Lalla Romano, Sylvia
Plath; da Christine de Pizan (tardomedievale
professionista di copiatura e – quel che più conta
– scrittura) a Emily Elizabeth Dickinson a Flor
Bela D'Alma da Conceiçao Lobo Espanca
(anticipatrice, grazie all'acume irriguardoso e
prepotente, del movimento femminista in
Portogallo) ad altre illustri presenze.
Per non parlare, naturalmente, della diletta Jane
Austen, dell'adorata Elizabeth Barrett Browning,
delle altrettanto amate Charlotte, Emily, Anne
Brontë (Emily, in particolare)
– «miracolosa triade poetica» dal fascino
«impareggiabile ed irripetibile» (p. 84).
Così, proprio per le maggiori autrici inglesi –
Jane, Elizabeth, Emily – Santucci sa trovare
espressioni forse le più intense e convincenti.
Austen
infatti, nelle sue parole, è «mito della
letteratura inglese, scrittrice dall'elegante
stile narrativo, che, con intelligenza, grazia,
arguzia, e spregiudicata ironia tipicamente
britannica, seppe mettere in ridicolo i costumi
della società del tempo. Osannata e denigrata,
accusata dai detrattori di aver imbrigliato nel
perbenismo il romanzo inglese, considerata da
amici e parenti come una zitella inaridita a
caccia di marito, la più carina, la più
sciocca, la più affettata farfalla in cerca di
marito che io abbia mai conosciuta, giudicata,
invece, da Virginia Woolf, la più perfetta
artista tra le donne per l'immortalità dei
suoi libri, e definita da G. H. Lewes Sorella
minore di Shakespeare, per l'enorme ricchezza
di personaggi che la sua fantasia seppe elaborare,
Jane, attingendo dall'esperienza personale,
ambientò i suoi libri nel piccolo mondo della
nobiltà di campagna e della borghesia di
provincia, ritraendo, sempre dal punto di vista
femminile, personaggi che ben conosceva e dei
quali coglieva sia il profilo psicologico che il
comportamento sociale» (p. 73).
Quanto a
Barrett (1806-1861) – alla morte di William
Wordsworth (1850) prescelta quale voce ufficiale
d'Inghilterra – Santucci richiama anzi tutto
l'ammirata dichiarazione del futuro sposo: «I
love your verses with all my heart, dear miss
Barrett … Era il 10 gennaio del 1845 quando il
poeta Robert Browning scrisse la prima ardente
lettera, nella quale dichiarava tutta la sua
ammirazione, ad Elizabeth Barrett, la poetessa
inglese definita in patria la Shakespeare al
femminile. Cominciò così la loro romantica storia
d'amore, che sembra uscire direttamente dalle
pagine di un romanzo ottocentesco, con la
corrispondenza durata un anno, l'opposizione del
padre ostile e severo, il matrimonio celebrato
segretamente, la fuga in Italia, la nascita del
figlio» (p. 77). Un evento decisivo, il
matrimonio, per Elizabeth. La quale, in
precedenza, pur non abbandonando mai la scrittura
viveva «sotto la tirannia paterna, in una strana
dimora fiabesca, fra pareti silenziose, in una
stanza buia dalle imposte ben serrate, tra
medicine e libri impolverati,
sostenuta nelle sue lunghe convalescenze
unicamente dall'appassionato bisogno di leggere e
studiare, approfondendo soprattutto lo studio dei
grandi tragici greci,
in particolare Euripide (Il nostro Euripide,
l'umano, dalle vive e calde lacrime, che se tratta
di cose comuni, le inalza fino alle sfere!),
che poi confluì nello splendido saggio I poeti
greci cristiani, curiosamente incoraggiato e
consentito dall'austero padre, e con la sola
compagnia dell'inseparabile cagnolino Flush» (p.
78).
Ecco allora perché la lettera di Browning fu «come
un raggio di luce in quella casa tetra, in quella
stanza buia, in quel cuore avvezzo all'ombra e
alla solitudine: la passione s'innescò e brillò
fino ad esplodere, e così la poetessa ammalata,
famosa eppure chiusa nel cerchio del suo
isolamento, uscì alla luce e assaporò la felicità
inattesa ed improvvisa» (p. 79).
Coerente,
quindi, con le esperienze di vita pure la cifra
poetica barrettiana, con precisione allumata da
Santucci: «Con un linguaggio colto eppure
semplice, che ben coniuga eleganza e raffinatezza,
in preziosa alchimia di classicità e suggestioni
romantiche, i versi di Elizabeth, estremamente
musicali anche a scapito delle regole metriche,
esprimono al meglio ancora oggi l'immaginario
femminile, riuscendo a trasmettere con intatta
efficacia l'amore che sbocciò nel suo cuore
oppresso dalla lunga solitudine e i desideri che
pulsano nei cuori delle donne» (pp. 81-82).
Per quanto
concerne, poi, Emily Brontë (1818-1848) –
«l'autrice più interessante ed inquietante della
narrativa inglese dell'Ottocento» (p. 88) – nelle
parole della sorella Charlotte (riferite da
Santucci)
«non ebbe per natura un'indole socievole, le
circostanze favorirono e alimentarono
un'inclinazione alla solitudine: tranne che per
andare in chiesa o per fare una passeggiata sulle
colline, ella raramente varcava la soglia di casa
… quanto la sua mente raccoglieva della realtà che
le toccava, si riduceva troppo esclusivamente a
quei tragici e terribili caratteri di cui la
memoria … è costretta a recare l'impronta. La sua
fantasia, che era più tenebrosa che solare, più
vigorosa che giocosa, trovò in quei caratteri il
materiale da cui trasse creature come Heathcliff,
come Earnshaw, come Catherine …» (p. 87).
Di fatto, e
lo ribadisce Francesca, non si può comprendere a
fondo il notissimo romanzo di Emily (Wuthering
Heights)
«se non si conosce la vita della scrittrice, la
sua incapacità di affrontare il mondo, il profondo
affetto che la legava alla casa, alla famiglia, al
cane Keeper, alla vita solitaria, l'appassionato
attaccamento alla brughiera laddove, fra i campi
di eriche, soffiava quel crudele vento dell'est
che non poco influiva sui polmoni e sul sistema
nervoso delle sorelle Brontë e, soprattutto,
l'amore per la scrittura. Fin da piccola Emily,
alta, dagli occhi grigi azzurri ed i capelli
rossi, femminilmente fragile eppure a tratti
mascolina, era stata timida e ritrosa, ma negli
ultimi anni della sua vita si produsse un
mutamento, per cui si differenziò dalla se stessa
di prima ed il suo comportamento divenne simile a
quello dei personaggi descritti nel romanzo, forse
per l'acquisita consapevolezza di sé, del suo
talento, delle sue idee. Cominciò così a staccarsi
sempre più dal modo precedente di essere, ad
affermarsi, a far valere anche in famiglia la sua
personalità, esprimendo in ciò l'atteggiamento
tipico dei poeti romantici, che tendevano a
tradurre le teorie dei loro scritti in
comportamento personale. Sempre secondo le parole
di Charlotte, addirittura nell'ultimo anno di vita
Emily era divenuta sprezzante, sdegnosa,
inflessibile, quasi sovrumana, incurante della sua
salute, incupita dalla malattia fatale, la tisi,
che la stava conducendo verso la tomba, ma non
piegata dal pensiero della morte imminente, che
quasi cercò, esponendosi al freddo al funerale del
fratello, rifiutando poi ostinatamente di curarsi,
ed infine abbandonandosi al male con voluttà» (pp.
87-88).
Puntuale e
perspicua, allora, la delineazione santucciana di
tante eccelse figure – come del resto suggestiva e
convincente risulta la sua analisi delle altre
voci, in particolare di talune (magari meno
frequentate) poete del secolo XII, quali: Maria di
Francia – che «si distingue per la delicatezza e
la grazia con le quali descrive i sentimenti di
donne infelici per amore, in uno spazio sospeso
tra favola e leggenda, e il suo mondo è quello
incantato della materia di Bretagna; la
realtà trascolora, senza sforzo, in sortilegio
magico, i contorni delle cose sfumano e palpitano
sotto l'urgenza di una carica interiore di
fantasia e di incantesimo» (pp. 32-33); ovvero
Beatrice contessa di Dia – nella cui produzione,
strettamente legata ai modi e ai temi dell'amor
cortese, «vibra tuttavia un forte senso di
autenticità, l'espressione del sentimento si
libera della ricerca esasperata comune ai
trovatori del tempo, e, in espressione limpida e
chiara, priva di oscurità, trasmette con grande
spontaneità il tenace amore, lo smarrimento, il
dolore e lo stupore per l'amore perduto» (p. 38);
o, ancora, Compiuta Donzelli – della quale il
sonetto richiamato da Francesca (A la stagion
che 'l mondo foglia e fiora) «di linea
elegante e di rara intimità, memorabile per
l'incipit folgorante, che delinea una delicata
figura di giovane sensibile e romantica, sembra
scaturire direttamente dal repertorio popolare dei
contrasti e delle malmaritate.
Sviluppa, infatti, il lamento di una ragazza che,
forzatamente promessa sposa dal padre, in
dissonanza tra il bel tempo e il tormento
soggettivo, si sente incapace di condividere le
gioie primaverili» (p. 41).
In aggiunta a
ciò, felicità e pertinenza di accenti Santucci
inviene nel presentare una delle più illustri e
cólte donne del Rinascimento, amata e riconosciuta
dal sommo Michelangelo – Vittoria Colonna
(1492-1547). La quale, rimasta presto vedova di
Francesco Ferrante d'Avalos, marchese di Pescara e
capitano generale delle truppe imperiali di Carlo
V, proprio durante la vedovanza «divenne il
simbolo dello spiritualismo cinquecentesco;
compendiando in sé fede cattolica e filosofia
platonica, partecipe delle inquietudini religiose
e dell'esigenza di riforma e restaurazione morale
della Chiesa dell'epoca, si dedicò ad un'intensa
vita intellettuale, ma anche al culto della
memoria del marito» (p. 51). Ovvero nel
commuoversi sulla tragica vicenda «breve e
infelicissima, legata a storie di sangue e di
barbarie» (p. 54) di Isabella Morra (1520-1546),
«chiusa nella solitudine del denigrato sito,
il castello paterno, collocato a picco sul mare,
sull'infelice lito» (p. 54) e uccisa
giovanissima dai fratelli per una presunta
relazione clandestina: «Della sua produzione,
rivalutata da Benedetto Croce che ne riconobbe il
valore di Poesia immortale, restano
miracolosamente un esile canzoniere, le Rime,
13 componimenti, 10 sonetti e 3 canzoni, che
rappresentano l'impetuosa autobiografia e rivelano
la sua indole malinconica e appassionata, ma sono
anche testimonianza della sua dotta e raffinata
cultura. Dimostrando di aver ben assimilato la
lezione del Petrarca, considerato sommo maestro da
tutti i lirici cinquecenteschi, per Isabella,
definita la Saffo lucana, il petrarchismo
resta solo un vago punto di riferimento, e rivela
sensibilità e suggestioni tassiane e leopardiane,
con la trasfigurazione lirica del paesaggio, che
diventa partecipe dei suoi stati d'animo, e la
tragicità e la potenza delle immagini con cui
esprime il suo tormento» (p. 55). Oppure, ancora,
nel compiangere la contrastata quanto discussa
esistenza di Gaspara Stampa (1523-1554): «La sua
breve vita di donna libera e spregiudicata
trascorse, dunque, intensa, tra amori fugaci e
appassionati, tra i quali dominò la tormentosa
relazione d'amore, poi troncata dall'amante, che
dal 1548 al 1551 la legò al conte Collaltino di
Collalto, di cui pianse la lontananza quando il
conte andò in Francia al servizio del re e poi
l'abbandonò» (p. 59). E tuttavia, «nell'artefatto
petrarchismo del tempo», Stampa si distingue per
una «sincerità nuova che vince ogni retorica e la
spinge a rivelare un mondo interiore femminile,
mai confessato prima con tanto coraggio; lampi di
desiderio e di passione, colloqui ardenti,
soliloqui disperati, abbandono di se stessa alla
febbre della passione, illuminazione per una gioia
inaspettata, implorazione e abbattimento,
struggimento: nelle Rime troviamo espresso
tutto il sentimento che squassò la sua anima fino
a lasciarle il vuoto, che cercò di colmare
rivolgendosi a Dio, ma ogni fibra del suo essere
era ancora protesa verso il dolce signore, padrone
del suo cuore. Di particolare interesse, poi, i
componimenti nei quali rivendica la propria
autonomia di scrittrice, il diritto ad avere una
propria libertà d'espressione e di sofferenza per
amore, sfida insieme alla società e al destino.
Essempio infelice del suo sesso si riconosce
la Stampa, ma, insieme, non può impedirsi di
vivere in foco, di vivere ardendo e non
sentire il male, sconsigliando, però, nel
contempo le altre donne dal comportarsi come lei»
(p. 62). O, più oltre, nell'esaltare le glorie di
Emily Dickinson, «poetessa tra le più grandi
dell'Ottocento americano e, con Saffo,
probabilmente la più grande mai esistita» (p. 91)
– la quale, «sola al centro di un mistero, il
Mistero, con i sensi affinati e potenziati, con la
vista, con l'udito, col tatto, ne coglieva i
segnali: la luce particolare di un pomeriggio
d'inverno, la linea di uno stelo, un pettirosso
tra i rami, il bisbiglio dell'ape, l'arcobaleno
multicolore contro il cielo d'un tenero azzurro. E
scriveva, scriveva; seduta dietro al suo scrittoio
componeva versi enigmatici, allusivi, sfuggenti, a
tratti oscuri, versi sulla solitudine, sull'amore,
sulla morte, sulla natura, descrivendo boschi,
ruscelli, uccelli, prati, talvolta anche elementi
mai visti nella realtà, come molti degli animali e
dei fiori che conosceva solo attraverso le
illustrazioni dei suoi libri» (p. 92). Ovvero, da
ultimo, nel partecipare al dramma di Sylvia Plath,
bostoniana, «simbolo delle battaglie femministe
negli anni '60» (p. 124), che – sopra tutto nel
romanzo The Bell Jar (La campana di
vetro, pubblicato nel 1963 con lo pseudonimo
di Victoria Lewis) – esprime il «disperato bisogno
di affermazione di una donna lacerata dal
conflitto irrisolto tra le ispirazioni personali
ed il ruolo imposto dalla società. Sylvia non era
"matta", era solo una donna fragile, sensibile e
in crisi, che aveva tentato di seppellire l'ansia
di libertà e la vocazione di scrittrice in un
matrimonio apparentemente felice; infatti, non
rifiutò mai il suo ruolo, tentò fino alla fine di
conciliarlo con le sue aspirazioni, di giorno
faceva la madre, accudendo rigorosamente ai suoi
figli, alla notte rubava qualche ora per scrivere,
cercando di soffocare il proprio istinto di
ribellione che riversava solo nelle poesie e che
cercava poi di farsi perdonare comportandosi da
figlia, moglie e madre esemplare: … non è vero
quello che scrivo, sono buona, sono felice,
rispetto le regole, lo prova la mia vita, ho fatto
tutto quello che una donna deve fare … Infine,
però, le aspirazioni a lungo represse riemersero
con prepotenza, e le costarono la fine del legame
matrimoniale, la solitudine e la morte. Torturata
dalla sua ansia di vivere e di esprimersi, che
contraddiceva il ruolo tradizionale di moglie e di
madre, lacerata dal conflitto dell'essere per sé e
dell'essere per gli altri, Sylvia lasciò
un'infinità di poesie violente e disperate ed un
unico elemento di disordine nella cucina del suo
appartamento: il suo corpo senza vita» (p. 125).
Cotali,
insomma, e numerosi altri, i fascinosi ritratti
santucciani – che la brevità del presente lavoro
impedisce di richiamare con minor avarizia.
D'identica maniera infatti – con continua,
vibrante partecipazione – si compie la sua
informata disamina: ed è questo tra i principali
motivi che fanno del libro un generoso, caldo,
entusiastico omaggio offerto alla letteratura
femminile. Un omaggio, inutile dirlo, tutto da
leggere e (malgrado una certa sciatteria
editoriale) vivamente apprezzare.
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