Paolina Secco Suardo Grismondi

in arte

Lesbia Cidonia

(1746-1801)

 

                         

 

Amata e celebrata in vita dai nomi più illustri della cultura del tempo, poi screditata, liquidata come letterata frivola e vanesia, accusata di plagio e praticamente scivolata nell’oblio, probabilmente anche per la difficoltà di reperire materiale sulla sua attività, la contessa bergamasca Paolina Secco Suardo Grismondi, nota anche come Lesbia Cidonia, fu in realtà donna colta, brillante, gentile e di bell’aspetto, dagli ampi orizzonti culturali ed aperta alle istanze illuministiche che, dalla Francia, arrivavano ai salotti letterari dell’epoca, per molti aspetti, espressione e simbolo della vita culturale della sua città.
Figlia di Caterina dei marchesi Terzi, scrittrice di elegante versificazione, Paolina nacque nel 1746 a Bergamo, città verso la quale provò sempre una certa insofferenza, trovandola monotona e ristretta, tanto che in gioventù la definì  mon oisif pays  (il mio monotono paese).
Educata in casa, fu avviata agli studi dal padre Bartolomeo che la incoraggiò anche a comporre versi, imparò il latino, l’inglese e il francese.
A 18 anni, con matrimonio combinato, sposò il conte Grismondi dal quale ebbe un figlio, morto di salute cagionevole a soli due anni e mezzo, e si trasferì a Verona, dove strinse amicizia con vari letterati, tra cui il Pindemonte.
Nel 1779 fu iscritta alla famosa accademia romana dell'Arcadia col nome di Lesbia Cidonia, proposto da Ippolito Pindemonte, e fece anche parte dell'Accademia degli Affidati.
Animatrice del bel mondo settecentesco, aperta ai fermenti illuministici e allo spirito scientifico dell’epoca, compositrice di versi garbati ed eleganti squisitamente femminili, fece del suo salotto letterario bergamasco un importante centro culturale e mondano e riuscì a conquistare la considerazione e la stima dei personaggi più autorevoli della cultura del tempo.
Di salute malferma, negli ultimi anni della sua vita le sue condizioni peggiorarono; abbandonata l’attività letteraria, visse in solitudine, traendo conforto dalla religione e dalle lettere degli amici.
Morì a Bergamo nella notte fra il 26 e il 27 marzo 1801.
Le liriche di Paolina Secco Suardo furono molto apprezzate nei cenacoli dell’epoca, sia in Italia che in Europa, eppure ci fu qualche denigratore che avanzò l’ipotesi del plagio.
Il primo ad insinuare il sospetto che i suoi i versi non fossero autentici ma copiati da Giuseppe Beltramelli, precettore ed amico della contessa, fu Antonio Fiammazzo, la cui tesi del plagio fu sostenuta anche dallo storico Belotti   che affermò che, dietro ai versi di Paolina, troppo spesso si sente la presenza di un pensiero virile. Ma basta ricordare la grande considerazione in cui era tenuta la gentildonna dagli uomini di cultura, dai diplomatici e dai regnanti del tempo che, certamente, non l’avrebbero accolta nei cenacoli e nell’Accademie se le insinuazioni avessero avuto  qualche fondamento e, soprattutto, leggere le sue liriche, per fugare ogni sospetto riguardo alle ingiuste accuse di plagio.
D’impostazione classicheggiante, insieme al repertorio stucchevole tipico settecentesco degli aedi arcadici, come gli dei dell’Olimpo, le ninfe, le Muse, le pastorelle, gli zefiri, le selve e le fronde, profuso nei versi di circostanza, nelle sue pagine si rinvengono accenti autentici e struggenti, che coinvolgono ed affascinano, soprattutto laddove Paolina attinge alla sua esperienza personale, come quando parla delle pene d’amore, della solitudine, dell’implacabilità del destino e delle vicende avverse.; per questo non si può che concordare sull’autenticità della sua poesia.

 

L’AFFANNO AMOROSO

 

Per alleggiar un’ostinata e ria

doglia che da gran tempo in me si annida,

talor tento mandar pietose grida

a chi, lassa, il mio cor tiene in balìa!

Ma seguace al desir la voce mia

è fatta appena, e già si lagna, e grida.

Che dura tema, e alle mie brame infida

dal dimandar pietà ratta mi svia.

E mi dice un pensier: folle non vedi

quale ognora ti acquisti e scorno e danno

se umile ad un crudel ti getti ai piedi?

Così tacendo il mal celato affanno

cresco nel petto, ove locò le sue sedi

quel fiero amor che mi dà tanto affanno.

 

 

PER AMICO LONTANO

 

Chiudo le luci al sonno, e indarno spero

trovar quiete all’agitata mente

che mentre io dormo avvien ch’anzi più fiero

stuolo d’affanni contro me si avvente.

Parmi lunge veder sotto straniero

cielo, e su fragil prora errar dolente

il mio diletto amico, e l’aere nero

che il minaccia ravviso, e il mar fremente.

Odo i gemiti suoi, già di sua vita

vicin veggo il perielio, e grido o dei

deh gli porgete, o Dio pietosi aita!

Mi sveglio allor tremante, e la funesta

imago non mi lascia, e gli occhi miei

d’amaro pianto innondo e pur son desta.

 

Francesca Santucci