Signore Gesù Cristo,
nell’oscurità della morte Tu hai fatto che sorgesse una
luce; nell’abisso
della solitudine
più profonda abita ormai per sempre la protezione
potente del tuo amore…1
Joseph Ratzinger
Tunc
milites praesidis suscipientes Iesum in praetorio
congregaverunt ad eum universam cohortem.
Et exuentes eum, clamydem coccineam circumdederunt ei
et plectentes coronam de spinis posuerunt super caput
eius et arundinem in dextera eius et, genu flexo ante
eum, illudebant ei dicentes: “ Ave, rex Iudaeorum! ”.
Et exspuentes in eum acceperunt
arundinem et percutiebant caput eius. Et postquam
illuserunt ei, exuerunt eum clamyde et induerunt eum
vestimentis eius et duxerunt eum, ut crucifigerent.
“Allora
i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e
gli radunarono attorno tutta la coorte. Spogliatolo, gli
misero addosso un manto scarlatto e, intrecciata una
corona di spine, gliela posero sul capo, con una canna
nella destra; poi, mentre gli si inginocchiavano
davanti, lo schernivano: "Salve, re dei Giudei!". E,
sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo
percuotevano sul capo. Dopo averlo così schernito, lo
spogliarono del mantello, gli fecero indossare i suoi
vestiti e lo portarono via per crocifiggerlo."2
Ideata dai Fenici come sistema
per uccidere in modo doloroso e spettacolare, tortura
atroce che provocava una morte lenta e straziante dopo
una lunga sofferenza, la crocifissione era pena tipica
dell’impero romano, tanto diffusa nell’impero del I
secolo d. C. da far raccontare ad uno storico del tempo,
Giuseppe Flavio,3 che mancava lo spazio per
le croci e pure il legno per fabbricarle. Destinata dallo Stato a
particolari categorie di condannati, schiavi,
malfattori, assassini, stranieri, anche ai cristiani,
con esclusione di coloro che godevano della cittadinanza
romana (perciò San Paolo, diversamente da Gesù, fu
ucciso col taglio della testa, invece all’apostolo
Pietro la crocifissione fu praticata a testa in giù, su
sua richiesta, poiché non si riteneva degno di morire
della stessa morte del suo Maestro)
era usata largamente (nella rivolta di Spartaco fra
Roma e Capua si arrivò a crocifiggere più di seimila
schiavi) per i criminali, per i peggiori delinquenti e
per quelli che erano privi di diritti civili, perché
infliggeva una sofferenza tremenda e perché provocava
una derisione da parte del pubblico. Per gli schiavi e per i ladri
si usava una croce bassa, per i personaggi ribelli
ritenuti più importanti una croce più alta, per esporli
bene alla vista di tutti, così come accadde a Gesù,
collocato fra i due “ladroni” (in realtà “malfattori”,
così i Romani chiamavano i ribelli politici). Per qualche tempo si usò anche
applicare alla croce una piccola sella, sedile,
sulla quale il condannato poteva accasciarsi quando
fosse allo stremo delle forze, ma questa costituiva solo
un altro strumento di tortura dal momento che era
acuminata verso l’alto. La trave che formava i bracci
della croce era detta patibulum, la parte
verticale era detta stipes crucis, era alta circa
un metro e ottanta e veniva lasciata sempre sul posto
dove si eseguiva la condanna perché usata più volte. I
bracci avevano uno spessore di circa otto centimetri per
tredici, erano lunghi un metro e ottanta, pesavano
quattordici chili, ed era il carnefice a tagliarli
rozzamente. Al centro della trave c’era un largo incavo
in cui veniva incastrato il pezzo verticale; secondo il
modo in cui veniva infisso il patibulum, la croce
aveva la forma che conosciamo oppure era a “T”. “Il soldato addetto alle
flagellazioni si avvicinò e si curvò a guardare il volto
della vittima, poi si spostò a un paio di metri alle
spalle di Gesù; il flagello fu portato tutto
all’indietro, poi sibilò in avanti. Le strisce di cuoio
trassero dalla cassa toracica un suono cupo; i frammenti
di osso e di catena s’avvinghiarono attorno al fianco
destro del corpo e provocarono piccole emorragie sul
petto. Un lamento sfuggì dalle labbra di Gesù. Fra i
soldati corse un bisbiglio d’approvazione. Il flagello
tornò all’assalto, più in basso, e lacerò con uno
schiocco la pelle e la carne. Le labbra di Gesù
sembravano mormorare una preghiera. La sferza ora si
muoveva con ritmo lento e grave. Gli uomini che
assistevano scherzavano e ridevano. Il tribuno fermò il
carnefice e si accostò ad esaminare Gesù. Non lo toccò:
si curvò vicino per vedere sino a che punto avrebbe
ancora resistito senza morire. La respirazione di Gesù
s’era fatta debolissima: il tribuno ordinò al carnefice
di smettere. (da Il giorno in cui Cristo morì, Jim
Bishop).”4 Il condannato veniva prima
flagellato (“morte a metà” era chiamata la fustigazione
romana, perché doveva fermarsi ad un passo dalla morte)
da un soldato addestrato, con il flagellum (una
verga di legno corta, rotonda, con
attaccate varie strisce di cuoio e all’estremità di ogni
striscia era cucito un anellino di ferro o un
frammento d’osso), poi era costretto a portarsi dietro
un palo, legato sulle spalle, e a raggiungerne un altro
conficcato nel terreno. Lì veniva inchiodato
(inizialmente si usava legare i polsi del condannato con
corde ma poi, siccome la morte giungeva con eccessiva
lentezza, si optò per i chiodi) non per
le mani ma per i polsi (dallo studio della Sindone è
stato possibile desumere che, in rispetto delle leggi
dell’emodinamica, i chiodi non furono infilati nei palmi
delle mani di Gesù, ma nei polsi, in modo che, per
respirare, dovesse fare forza sul torace, perciò la
morte sopraggiunse più lentamente e la tortura fu
maggiore), poi veniva inchiodato anche per i piedi,
infine issato. A questo punto iniziava una
terribile agonia perché, gravando tutto il peso del
corpo sulla cassa toracica, i polmoni si svuotavano
d’aria ed il crocifisso iniziava a spasimare, a
soffocare, allora si spingeva con i piedi per tentare di
sollevarsi, ma di nuovo il peso lo tirava giù, e così
via in una lunga e orrida sofferenza, fino alla morte
che sopravveniva per asfissia, accelerata, talvolta,
dal crurifragium, la rottura dei femori, estremo
supplizio che, con sbrigativa crudeltà, affrettava la
morte dei condannati che tardavano a morire perché li
faceva collassare. E’ proprio questo che accadde a
Gesù (e a tutti i poveretti martirizzati sulla croce)
ed il Vangelo insiste, con particolari di dolorosa
crudezza, sugli oltraggi che fu costretto a subire in
quelle ore, alla mercé dei soldati, fra i dileggi della
folla impazzita di cieca furia, prima malmenato, poi
flagellato, poi, spogliato delle sue vesti, rivestito
d’un manto rosso, con il capo coperto da una corona di
spine, simboli offensivi delle sue qualità di “re dei
Giudei”, infine inchiodato alla croce per i polsi. In genere l’agonia dei
crocifissi durava a lungo, un giorno intero, anche
giorni e giorni, quella di Gesù fu breve ma intensissima
perché, stremato dalla flagellazione precedente, ed
anche perché, postevi appena le labbra, aveva rifiutato,
per affrontare il martirio in piena coscienza, di bere
il vino misto ad incenso5 che gli avrebbe
offuscato i sensi e reso meno doloroso il travaglio
delle ultime ore, perciò per lui non fu
necessario ricorrere al gesto “pietoso” del crurifragio. Nato in un luogo remoto della
Palestina, a Betlemme, in Giudea, durante l’impero di
Cesare Augusto, Gesù visse a Nazareth, in Galilea, con
i suoi genitori, Maria e Giuseppe, fino all’età di
trent’anni, poi iniziò a predicare confermando i suoi
insegnamenti con prodigiosi miracoli. Gesù era seguito con entusiasmo
dalla popolazione, ma i depositari della legge e
gl’interpreti delle Sacre Scritture non ravvisarono in
lui il Messia, che pure attendevano ma che immaginavano
un condottiero che avrebbe
ristabilito un nuovo ordine fondando un nuovo regno
sulla terra (Gesù, invece, diceva che il Suo regno non
era di questo mondo), perciò lo accusarono di sacrilegio
e lo presentarono come un agitatore pericoloso per il
potere romano. Catturato nell’orto del
Getsemani fu condotto dinanzi al Sinedrio, il massimo
organo di governo dei Giudei, presieduto dal Sommo
Sacerdote e composto dagli anziani del popolo, dai
principi dei sacerdoti e dagli Scribi (i dottori della
legge). Fu il sommo sacerdote Caifa che
lo processò come reo di empietà e lo condannò a morte
però, siccome l’autorità romana aveva tolto al Sinedrio
la facoltà di eseguire condanne a morte, riservandosi di
decidere caso per caso sulle sentenze in base ai
principi del diritto romano, Gesù fu condotto da Ponzio Pilato, che
in quel tempo era il procuratore romano della Giudea, il
quale, riconoscendolo innocente, inizialmente fu
riluttante a decretare una sentenza capitale in base ad
accuse che apparivano inconsistenti. Gesù si proclamava il Messia, e
questo non era un reato, e diceva che il suo regno non
era di questo mondo, dunque non intaccava il potere
dello Stato, il dominio di Roma, però si proclamava re,
ed ecco il punto che impensieriva, perché, in pratica,
si sostituiva all’autorità imperiale, ed i Romani
temevano proprio che gli ebrei potessero sollevarsi ed
eleggere un re: infatti recitava “re dei Giudei” la
sentenza, apposta in alto sulla croce 6,
secondo la quale era stato condannato. Infine, dopo lunga esitazione,
dopo aver cercato di delegare alla folla la risoluzione
del dilemma, chiedendo se volesse libero Gesù o
Barabba, nel timore di suscitare disordini, e di essere
giudicato dall’imperatore eccessivamente indulgente
verso un sedizioso, ed anche perché, istigata dai capi,
la folla ne reclamava la morte, di fronte alla sua
stessa confessione di colpevolezza (alla domanda se
fosse il re dei Giudei in pratica Gesù aveva ammesso di
esserlo), combinandosi motivazioni religiose e politiche
(l’accusa di empietà degli Ebrei e la negazione
dell’autorità imperiale) Pilato approvò la condanna,
declinando ogni responsabilità lavandosi pubblicamente
le mani7. Dopo 18 ore dal suo arresto,
prima flagellato e schernito, Gesù fu condotto sul monte
Calvario (Gòlgota) 8, presso Gerusalemme, e
qui sottoposto al supplizio della croce, sulla quale,
dopo tre ore di agonia, morì, non la
testimonianza del suo martirio, in passione e morte,
trasmessa attraverso i Vangeli dagli Apostoli e
l’operato dei suoi seguaci, non il suo messaggio, di
amore, pace e fratellanza, sempre attuale e universale,
per i credenti e per i non credenti, per i cattolici e
per tutti quelli che abbracciano altri credi, non la
sua parola di fede destinata a tramandarsi nei secoli. Di estrema portata
rivoluzionaria fu il suo messaggio, che investì la
sfera spirituale, culturale e persino quella
linguistica; in tempi in cui il rapporto degli uomini
con la divinità era esteriore (bisognava riconoscerne la
potenza, sottostarne alla forza, spesso capricciosa e
ingiusta, per non incorrere nella loro vendetta,
osservare dei riti) Gesù impose un rapporto di amore fra
l’umanità e Dio ed un’accettazione attiva della Sua
volontà, perché anche la nuova fede assegnava a Dio una
smisurata potenza, però, essendo il Padre di tutti gli
uomini, necessariamente essi ne contraccambiavano
l’immenso amore; parlando di amore, di misericordia, di
carità e fratellanza capovolse, dunque, il rapporto fra
Dio e gli uomini, ma, esigendo l’amore verso Dio, anche
l’amore fra gli uomini. Fino ad allora i rapporti umani
erano stati basati sulla legge del più forte che
obbligava il più debole a soccombere, servendolo come
schiavo, si comprende dunque facilmente come, affermando
che non c’era distinzione fra liberi e schiavi, essendo
gli uomini fratelli fra loro perché tutti figli di Dio
(perciò come tali si dovevano amare e sostenere, anche i
nemici) venissero totalmente rivoluzionati pure i
rapporti fra uomo e uomo. Inoltre, mentre la società
antica affermava che il ricco, il potente, era il
beato, Gesù, nel discorso della montagna, aveva
proclamato beati i poveri, gli afflitti, i pacifici, gli
oppressi, i puri di cuore, dunque i veri miseri, degni
di commiserazione, divenivano coloro che basavano sulla
ricchezza e sulla casta la loro vita e la loro dignità.
Ed anche per quanto riguarda le
donne, pur non dando indicazioni precise, non
esprimendosi direttamente, in modo verbale, ma con atti,
Gesù fu un innovatore, dimostrando una libertà di
pensiero sorprendente per i suoi tempi (invece San
Paolo indicò chiaramente, con severità, alle donne
cristiane, pur elevate in dignità e non considerate più
serve o strumento di piacere ma compagne dell’uomo,
quale fosse il comportamento da seguire, codificandone,
in continuazione del pensiero ebraico, non l’uguglianza
all’uomo ma la sottomissione).9 A quel tempo le donne ebraiche
non vivevano in schiavitù però sicuramente la loro
condizione non era delle più felici, sia per quanto
riguarda la religione (erano costrette a pregare
separate dagli uomini nel Tempio e nella sinagoga perché
considerate impure nei periodi mestruali e del parto),
sia per quanto riguardava la Legge (non potevano
chiedere il divorzio). Gesù considerò le donne uguali
agli uomini, perciò non le discriminò, a tutte si
avvicinò, alla peccatrice, all’adultera, da tutte si
lasciò seguire, le chiamò ad un posto nuovo nella
comunità, consentì anche il battesimo, che a quei tempi
avveniva per immersione, superando così i problemi di
pudore, perché non le riteneva impure (si pensi
all’episodio narrato nel Vangelo da Marco, La figlia
di Giairo e l’emorroissa, in cui Gesù è toccato per
il mantello da una donna affetta da emorragia da dodici
anni) 10. Le donne ricambiarono la sua stima
e il suo amore, amandolo a loro volta, servendolo,
assistendo alla sua Resurrezione, abbracciando in totale
adesione il suo credo e patendo le stesse persecuzioni
riservate agli uomini che avevano aderito al
Cristianesimo, pagando anche con la vita: testimonianza
del martirio femminile documenti di straordinario
valore sono gli Acta Martyrum Scilitanorum, gli
atti del processo dei dodici cristiani di Scili,
cittadina della Numidia, processati e condannati a morte
per decapitazione nel 180 a Cartagine, che riportano che
ben cinque dei dodici arrestati erano donne (Nartzalo,
Donata, Vestia, Seconda, Generosa) e la Passio
Perpetuae et Felicitatis, (Passione delle sante
Perpetua e Felicita), processate ed esposte alle
fiere in Africa nel 203.11 Ma l’uguaglianza fraterna di
tutti gli individui, uomini e donne, e il disprezzo per
gli onori e le ricchezze affermate dai cristiani si
scontravano con la mentalità dei Romani, che negavano
l’uguaglianza (basti pensare alla condizione degli
schiavi) e che godevano dei piaceri effimeri della vita;
inoltre gli Ebrei attendevano un Messia, l’inviato da
Dio preannunciato dai Profeti, un eroico guerriero che
avrebbe redento gli uomini dal peccato, punito i
malvagi, cacciato via i gli oppressori (i Romani) e
ricostruito l’antico regno d’Israele, instaurando, così
il regno del Signore sulla terra, ma Gesù si presentò,
sì, come il Redentore degli uomini, però affermò che il
suo regno non era di questo mondo, deludendo, così
l’aspettativa degli Ebrei. Inoltre predicò l’obbedienza
ai comandamenti che stavano alla base della Legge
religiosa ebraica ma disapprovò fortemente
l’interpretazione che ne davano i capi religiosi
d’Israele, perciò fu accusato dai Farisei, rigidi
custodi della legge e della religione ebraica, di
istigare il popolo alla rivolta; combinandosi, così,
ragioni religiose e politiche, fu arrestato, torturato
e condotto a morte quale falso profeta.
A sexta autem hora tenebrae
factae sunt super universam terram usque ad horam nonam.
Et circa horam nonam
clamavit Iesus voce magna dicens: “ Eli, Eli, lema
sabacthani? ”, hoc est: “ Deus meus, Deus meus, ut quid
dereliquisti me? ”. Quidam autem ex
illic stantibus audientes dicebant: “ Eliam vocat iste
”. Et continuo
currens unus ex eis acceptam spongiam implevit aceto et
imposuit arundini et dabat ei bibere. Ceteri vero
dicebant: “ Sine, videamus an veniat Elias liberans
eum”. Iesus autem iterum clamans voce magna emisit
spiritum.
“Da mezzogiorno fino alle tre
del pomeriggio si fece buio su tutta la terra. Verso le
tre, Gesù gridò a gran voce: Elì, Elì, lemà sabactàni?,
che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?". Udendo questo, alcuni dei presenti
dicevano: "Costui chiama Elia".
E subito uno di loro corse a prendere una spugna e,
imbevutala di aceto, la fissò su una canna e così gli
dava da bere. Gli altri dicevano: "Lascia, vediamo se
viene Elia a salvarlo!". E Gesù, emesso un alto grido,
spirò. 12
Non invano Gesù era morto sulla
croce; parlando di pace, di misericordia, di carità, di
perdono delle offese, di amore verso il prossimo, di
uguaglianza di tutti gli uomini, opponendo alla legge
dell’odio la legge dell’amore, aveva pronunciato parole
nuove destinate a tramandarsi nei secoli, illuminando il
faticoso cammino dell’umanità. “Andate dunque e
ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando
loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco,
io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del
mondo”: così aveva detto agli Apostoli quando era
risorto, ed essi obbedirono, si sparsero per il mondo a
diffondere il Vangelo, ossia la Buona Novella,
predicando prima in Palestina e nelle terre più prossime
(Siria, Asia minore, Egitto), poi a Roma, cuore del
mondo, dove a portare il messaggio evangelico arrivarono
Pietro e Paolo, che vi fondarono la più numerosa
comunità cristiana primitiva e pure vi morirono,
martirizzati come il loro Maestro. Per molti anni dopo la morte di
Gesù la diffusione della Buona novella era stata
affidata alla predicazione degli Apostoli poiché era
consuetudine ebraica tramandare oralmente le dottrine
religiose, scientifiche e giuridiche ma, verso la metà
del I secolo, Matteo il pubblicano, suo Apostolo, volle
scriverne la vita per dimostrare al mondo cristiano la
natura divina del Maestro, testimoniata con la sua venuta
al mondo, con la Passione e la Resurrezione, e
l’avverarsi delle antiche profezie bibliche. “Vangelo” è parola che deriva
dal greco euanghélion, “lieto annuncio”, “buona
novella”, e originariamente non indicava il libro ma
l’annuncio del messaggio di salvezza portato dal Cristo
e predicato dagli Apostoli; successivamente vennero
chiamati “Vangeli”, “libri di buona novella”, i libri
che parlavano delle vicende di Gesù che, con le
Lettere di san Paolo, gli Atti degli Apostoli
e l’Apolicasse formano il Nuovo Testamento
e, insieme all’Antico Testamento (gli Ebrei
credono solo a quest’ultimo dal momento che non
riconoscono la divinità del Cristo ed ancora attendono
il Messia, l’unto dal Signore, Messia
dall’ebraico masǐab, unto, in aramaico mesǐha,
in greco christòs, in allusione all’unzione sacra
dei re) costituiscono la Bibbia (dal greco ta biblía,
“i libri”, scritti in ebraico, aramaico e greco), il
compendio dei libri sacri della Cristianità, in tutto
73, scritti nello spazio di sedici secoli, da autori
diversi, quasi tutti ebrei. Circolarono molti “Vangeli”
dopo la morte di Gesù, molte raccolte che testimoniavano
la sua vita, ma la Chiesa ne riconobbe solo quattro,
tutti composti nella seconda metà del I secolo, cioè
poco dopo la morte (i tre Vangeli di Matteo, di Marco e
di Luca, detti “sinottici”, dal greco sýnopsis,
“visione d’insieme” perché, su un unico sfondo storico,
riferiscono tutti più o meno le stesse vicende e
presentano affinità e concordanze, e quello di Giovanni
che non solo racconta le vicende del Cristo, ma ne
interpreta in termini mistici la figura e l’opera) e
rifiutò tutti gli altri come apocrifi. Il latino dei Vangeli non è
quello classico usato dai grandi scrittori romani, ma un
latino più affine a quello parlato, meno ricercato, più
vivace, più vero, però i Vangeli non furono scritti in
latino, ma in aramaico e in greco, e a curarne la
traduzione fu San Girolamo, uno dei padri della Chiesa,
scrittore fecondo, tipico rappresentante dell’occidente
cristiano, che seppe fondere mirabilmente la cultura
pagana e quella cristiana. Nato in Dalmazia verso il 345
d. C. (e morto a Betlemme nel 420) da una famiglia di
agiate condizioni, ricevette un’accurata educazione
grammaticale e, allievo di Elio Donato a Roma,
ne ereditò l’ammirazione per i classici della
letteratura pagana. Dopo il battesimo, attratto
dalla vita ascetica, condusse vita da eremita nel
deserto di Calcide, ritornato poi a Roma svolse per
qualche anno l’incarico di segretario di papa Damaso,
dal quale ebbe l’incarico di tradurre in latino la
Bibbia, compito al quale attese con un lavoro durato tre
anni, così preciso dal punto di vista filologico da
produrre una nuova traduzione che sostituì tutte le
altre nel mondo cristiano, la Vulgata editio o,
semplicemente, Vulgata (cioè “popolare”), l’unica
approvata dalla Chiesa. Con perizia ed accuratezza
filologica tradusse, dunque, i
Vangeli dalle
lingue originarie in cui erano state scritte dai quattro
evangelisti; San Matteo compose il primo Vangelo
in aramaico, la lingua del suo popolo, parlata allora in
Palestina e dallo stesso Gesù (di cui i Vangeli
conservano qualche parola, come Messia, Pasqua,
Gòlgota), San Marco, discepolo di San Pietro,
scrisse in greco intorno al ’70, San Luca, discepolo di
San Paolo, pure scrisse in greco intorno all’80, ed
anche San Giovanni scrisse in lingua greca intorno al
100. Nonostante fosse un “ciceroniano”,
entusiasta ammiratore dello stile magniloquente del più
grande fra gli scrittori latini, San Girolamo nella sua
traduzione accantonò il grande modello per non tradire la semplicità dei Vangeli e
perché intendeva rivolgersi alla maggioranza del
pubblico, cioè al popolo meno istruito (che non avrebbe
compreso la lingua classica che già andava evolvendosi
verso le nuove forme che sarebbero poi divenute le
lingue neolatine, ed anche perché, per la novità del
messaggio cristiano, doveva necessariamente usare nuovi
vocaboli o affidare nuovi significati a vecchi
vocaboli), è per questo che la lingua latina dei Vangeli
è semplice e chiara ma riesce a toccare la sensibilità
ed il cuore di tutti con soffio di autentica e commossa
poesia. Il latino dei Vangeli si
diversificò, dunque, da quello classico, in conseguenza
della rivoluzione spirituale del Cristianesimo che
incise profondamente anche sul piano linguistico
introducendo neologismi come salvare (dies) domìnica (il “giorno del Signore”), papa;
parole derivanti dall’ebraico, come Messia (masǐab),
e, soprattutto, dal greco: angelus, propheta,
apostulus, apostata, episcopus, baptizare,
evangelizzare, amen, ecclesia, parabola. Nuovo significato assunsero
anche molti vocaboli latini, come Gratia,
Verbum, Spiritus, Regnum; communio, che nel latino classico indicava “unione”, “comunanza”,
cominciò a significare rendere partecipe,
condividere, comunicarsi; captivus non
significò più “prigioniero” ma, dalla locuzione
captivus diaboli, usata dai cristiani per indicare
una persona malvagia, assunse il significato di
“cattivo”; infernum per i Romani era la sede
sotterranea dei morti, per i cristiani divenne il luogo
della dannazione eterna; pagani erano gli
abitanti dei pagi, i villaggi di campagna,
divennero i “non cristiani”, i “pagani”;
peccatum i Romani chiamavano un errore non grave,
con il Cristianesimo cominciò ad indicare la violazione
della legge morale e divina, l’offesa fatta a Dio; la
virtus, qualità propria dell’uomo vero (da vir,
uomo) restrinse il suo significato ai soli valori
morali. Il mutamento di significato di
un vocabolo ebbe spesso origine anche da un preciso
riferimento ad un passo del Vangelo, come nel caso del
verbo tràdere, “consegnare”, che assunse il
significato di “tradire” dal fatto che Giuda tràdidit,
cioè “consegnò” Gesù ai suoi nemici. Il nuovo latino, il
latino-cristiano, si modificò, semplificandosi, anche
nella sintassi; ad esempio sulla subordinazione
prevalse la coordinazione (tipica, in tal senso, è la
proposizione infinitiva costruita non più con
l’accusativo e l’infinito ma con quia o quod e l’indicativo o il congiuntivo), e il complemento
di tempo determinato fu espresso non più con l’ablativo
semplice ma con in e l’ablativo (in illo
tempore, in illis diebus, al posto di illo
tempore, illis diebus). Il messaggio cristiano,
fervidamente predicato, e chiaramente veicolato dai
Vangeli, cominciò a diffondersi rapidamente in
tutto il vasto impero romano, favorito dall’unificazione
dei popoli del bacino del Mediterraneo, dalla comunanza
della lingua (il latino) e del diritto romano, ed anche
dalla pace e dalla sicurezza che l’impero offriva, e si
trovò a corrispondere pienamente al bisogno di
spiritualità di tutti coloro che erano insoddisfatti del
carattere superstizioso e ritualistico delle religione
degli dei e dell’astrattezza delle dottrine filosofiche;
inoltre parlava al cuore di tutti, agli umili, ai
poveri, ai sofferenti, agli schiavi, apportava parole di
consolazione e di speranza a coloro colte, negli
ambienti della corte imperiale e persino tra le file
dell’esercito. Tuttavia lo
spirito di pace e
di fraternità che animava il Cristianesimo si opponeva
troppo ai concetti dell’antico mondo pagano e romano, ed
anche se i cristiani non intendevano affatto abolire
l’impero romano (del quale riconoscevano
la grandezza arrivando al punto di pensare che fosse
stato voluto dalla Provvidenza per agevolare la
diffusione del Vangelo e che i due destini, quello dello
Stato e quello della religione, fossero congiunti) ma
solo farvi penetrare gli ideali evangelici, sembrò che,
negando all’imperatore ogni autorità divina, non
ubbidissero e non venerassero più gli imperatori, e che
la nuova religione, insinuatasi anche fra i soldati,
indebolisse la disciplina e la combattività
dell’esercito. Allora i cristiani cominciarono
ad essere perseguitati, inizialmente non per la diversa
religione, ma perché accusati di essere gli autori
dello spaventevole incendio di Roma del 64 d. C. (era
stato Nerone, per allontanare da sé il sospetto di
esserne l’artefice, ad attribuirne la responsabilità ai
seguaci del nuovo credo che gli apostoli Pietro e Paolo
erano andati a diffondere nell’Urbe); in seguito furono
accusati dal popolo d’infanticidio, di orge incestuose,
di banchettare con carne umana, dalla parte più colta
della società di voler distruggere la religione degli
avi, fondamento dello Stato romano, e di rifiutare di
prestare atti di culto al Genius 13
dell’imperatore, perciò, per poter praticare il loro
credo, furono costretti a nascondersi nelle catacombe
(gallerie e stanze nel sottosuolo, che diventarono le
prime chiese ed i primi cimiteri della cristianità), e
poi a subire anch’essi il martirio. Per due secoli e mezzo furono
tormentati, con particolare crudeltà soprattutto da
Nerone, che organizzò “giochi” dove i cristiani venivano
sbranati da belve feroci, bruciati vivi o crocifissi, da
Domiziano, che pure infierì sui cristiani (anche su
Flavia Domitilla, sua parente) che si rifiutavano di
venerare l’imperatore e di offrire incenso proprio a lui
che, secondo la formula delle monarchie orientali, aveva preteso di
essere onorato come dominus et deus e che, a
partire dal 95, li fece perseguitare nella convinzione
che la nuova religione violasse le leggi dell’impero e
sovvertisse le istituzioni; le accuse rivolte ai
cristiani erano, infatti, quelle di introdurre a Roma
una religione straniera vietata dalla legge, di
rifiutarsi di prestare il culto all’imperatore e di
riunirsi in segreto con scopi sediziosi I cristiani furono
imprigionati, arsi vivi, dati in pasto alle belve,
processati per “empietà” (rifiuto di riconoscere e
praticare la religione ufficiale dello stato) e “lesa
maestà” (rifiuto di riconoscere la maestà divina
dell’imperatore e di offrire sacrifici al suo Genius),
torturati, crocifissi, ma le persecuzioni non
arrestarono il cammino della fede e il Cristianesimo
continuò a diffondersi finché, unitesi alle ragioni
spirituali anche quelle politiche (l’utilità di
eliminare una grave causa di divisione tra i sudditi
dell’Impero già logorato da tante rivalità), gli
imperatori compresero che era necessario accettare il
grande evento. Fu Costantino, la cui madre
Elena già aveva abbracciato la nuova fede, a rendersi
conto che il Cristianesimo non sarebbe stata piegato
nemmeno dalla più spietata persecuzione e, abile uomo
politico, a capire che la sua forza spirituale avrebbe
potuto tenere unito l’impero, e così nel 313 d. C. emanò
l’Editto di Milano col quale consentiva a tutti i
sudditi di professare liberamente la loro religione, e
fu Teodosio, l’ultimo dei grandi imperatori, cristiano
egli stesso, a dichiararlo, nel 380 d. C. con l’Editto
di Tessalonica, religione di Stato, ad ordinare la
chiusura dei templi pagani e ad abolire il culto degli
dei. Sostenendo ed affermando con
coraggio le loro idee, fino al martirio, i seguaci di
Gesù avevano dimostrato una forza morale incredibile,
sconvolgente per la cultura romana che non aveva mai
proposto grandi ideali spirituali, essendo più incline
al pratico e al politico; ora che, finalmente, il
Cristianesimo era la religione dello Stato romano,
potevano liberamente professarlo e proclamare al mondo
intero le tre grandi virtù: la fede, la speranza, la
carità. Allora il Cristianesimo non
rifiutò la Romanità, le si strinse in feconda alleanza
(ma non ne era mai stato in contrasto ed aveva già
prodotto una lingua ed una letteratura latino-
cristiana), donandole la sua nuova spiritualità ed
accogliendo quanto di altamente umano v’era nell’antica
e gloriosa civiltà romana.
Francesca Santucci
1) Joseph Ratzinger, Preghiera , in Settimana Santa,
Queriniana, Brescia, V edizione, p. 84.
2)Vangelo Secondo Matteo vv. 27-32 in La Sacra
Bibbia. Edizione ufficiale della Conferenza
Episcopale Italiana, Roma, 1974.
3) Gérard Bessière, “Gesù, il dio inatteso”, Universale
Electa Gallimard, Paris 1994, p. 13.
4) Jim Bishop, Il giorno in cui Cristo morì, Milano, in G. B. Bianchi-L. Lamberti, Voci
moderne e antiche, 1, Garzanti , Milano 1968, pp.335-336.
5) “…gli diedero da bere vino mescolato con fiele; ma
egli, assaggiatolo, non ne volle bere”, Vangelo Secondo
Matteo, v 34, in La Sacra Bibbia, cit.
6) Era obbligatorio per i Romani riportare in alto sulla
croce la sentenza con la quale il crocifisso era stato
condannato.
7) Fu dagli Ebrei che Pilato apprese il gesto, istituito
da Mosè nel Deuteronomio, di lavarsi le mani, al
quale si ricorreva in caso di assassinio misterioso.
Spettava agli anziani del villaggio più vicino al luogo
in cui era stato compiuto il delitto sacrificare una
giovenca e lavarsi le mani sull’animale, pronunciando la
formula di rito: ” Le nostre mani non hanno sparso
questo sangue, né i nostri occhi hanno visto”.
8) Calvario è la traduzione dell’aramaico Gòlgota e
significa “cranio”, dalla forma del rialzo roccioso
tondeggiante simile, appunto, ad un cranio.
9) San Paolo La prima Lettera ai Corinzi, 11,22,
vv.7.14 e San Paolo, Prima lettera a Timoteo, 2,
15,9-18, (Comportamento delle donne), in La
Sacra Bibbia, edizione ufficiale della Conferenza
Episcopale Italiana, Roma, 1974.
10) Dal Vangelo secondo Marco, 5, 10, vv. 25-34.
11) Perpetua, di nobile famiglia, quando subì il
martirio aveva ventidue anni ed era madre di un bambino
che stava allattando; Felicita era la sua schiava ed
aveva partorito da due giorni.
12) Vangelo Secondo Matteo, vv.45-50, La Sacra Bibbia,
edizione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana,
Roma, 1974.”
13) Il Genius per i Romani era la divinità che
governava la natura umana dal momento della nascita e
che lo accompagnava per tutta la vita.
RECENSIONI
Cecilia Gobbi, Messaggi dall'antichità (2006)
Eleonora Bellini, Messaggi dall'antichità
(2005)
Giuseppe Risica, presentazione del libro Messaggi
dall'antichità (2005)
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