Francesca Santucci

Le parole di Gesù nei secoli dei secoli

estratto dal libro

edizioni  Kimerik, settembre 2005

 

 

 

Signore Gesù Cristo, nell’oscurità della morte Tu hai fatto che sorgesse una luce; nell’abisso

           della solitudine più profonda abita ormai per sempre la protezione potente del tuo amore…1

Joseph Ratzinger

 

Tunc milites praesidis suscipientes Iesum in praetorio congregaverunt ad eum universam cohortem.
Et exuentes eum, clamydem coccineam circumdederunt ei  et plectentes coronam de spinis posuerunt super caput eius et arundinem in dextera eius et, genu flexo ante eum, illudebant ei dicentes: “ Ave, rex Iudaeorum! ”. 
Et exspuentes in eum acceperunt arundinem et percutiebant caput eius. Et postquam illuserunt ei, exuerunt eum clamyde et induerunt eum vestimentis eius et duxerunt eum, ut crucifigerent. 

 “Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la coorte. Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto e, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, con una canna nella destra; poi, mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano: "Salve, re dei Giudei!". E, sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo. Dopo averlo così schernito, lo spogliarono del mantello, gli fecero indossare i suoi vestiti e lo portarono via per crocifiggerlo."2


Ideata dai Fenici come sistema per uccidere in modo doloroso e spettacolare, tortura atroce che provocava una morte lenta e straziante dopo una lunga sofferenza, la crocifissione era pena tipica dell’impero romano, tanto diffusa nell’impero del  I secolo d. C. da far raccontare ad uno storico del tempo, Giuseppe Flavio,3 che mancava lo spazio per le croci e pure il legno per fabbricarle.
Destinata dallo Stato a particolari categorie di condannati, schiavi, malfattori, assassini, stranieri, anche ai cristiani, con esclusione di coloro che godevano della cittadinanza romana (perciò San Paolo, diversamente da Gesù, fu ucciso col taglio della testa, invece all’apostolo Pietro la crocifissione fu praticata a testa in giù, su sua richiesta, poiché non si riteneva degno di morire della stessa morte del suo Maestro) era  usata largamente (nella rivolta di Spartaco fra Roma e Capua  si arrivò a crocifiggere più di seimila schiavi) per i criminali, per i peggiori delinquenti e per quelli che erano privi di diritti civili, perché infliggeva una sofferenza tremenda e perché provocava una derisione da parte del pubblico.
Per gli schiavi e per i ladri si usava una croce bassa, per i personaggi ribelli ritenuti più importanti  una croce più alta, per esporli bene alla vista di tutti, così come accadde a Gesù, collocato fra i due “ladroni”  (in realtà “malfattori”, così i Romani chiamavano i ribelli politici).
Per qualche tempo si usò anche applicare alla croce una piccola sella, sedile, sulla quale il condannato poteva accasciarsi quando fosse allo stremo delle forze, ma questa costituiva solo un altro strumento di tortura dal momento che era acuminata verso l’alto.
La trave che formava i bracci della croce era detta patibulum, la parte verticale era detta stipes crucis, era alta circa un metro e ottanta e veniva lasciata sempre sul posto dove si eseguiva la condanna  perché usata più volte. I bracci avevano uno spessore di circa otto centimetri per tredici, erano lunghi un metro e ottanta, pesavano quattordici chili, ed era il carnefice a tagliarli rozzamente. Al centro della trave c’era un largo incavo in cui veniva incastrato il pezzo verticale; secondo il modo in cui veniva infisso il patibulum, la croce aveva la forma che conosciamo oppure era a “T”.
“Il soldato addetto alle flagellazioni si avvicinò e si curvò a guardare il volto della vittima, poi si spostò a un paio di metri alle spalle di Gesù; il flagello fu portato tutto all’indietro, poi sibilò in avanti. Le strisce di cuoio trassero dalla cassa toracica un suono cupo; i frammenti di osso e di catena s’avvinghiarono attorno al fianco destro del corpo e provocarono piccole emorragie sul petto. Un lamento sfuggì dalle labbra di Gesù. Fra i soldati corse un bisbiglio d’approvazione. Il flagello tornò all’assalto, più in basso, e lacerò con uno schiocco la pelle e la carne. Le labbra di Gesù sembravano mormorare una preghiera. La sferza ora si muoveva con ritmo lento e grave. Gli uomini che assistevano scherzavano e ridevano. Il tribuno fermò il carnefice e si accostò ad esaminare Gesù. Non lo toccò: si curvò vicino per vedere sino a che punto avrebbe ancora resistito senza morire. La respirazione di Gesù s’era fatta debolissima: il tribuno ordinò al carnefice di smettere. (da Il giorno in cui Cristo morì, Jim Bishop).”4
 Il condannato veniva prima flagellato (“morte a metà” era chiamata la fustigazione romana, perché doveva fermarsi ad un passo dalla morte) da un soldato addestrato, con il flagellum  (una verga di legno corta, rotonda, con attaccate varie strisce di cuoio e all’estremità di ogni striscia era cucito un  anellino di ferro o un frammento d’osso), poi era costretto a portarsi dietro un palo, legato sulle spalle,  e a raggiungerne un altro conficcato nel terreno. Lì veniva inchiodato (inizialmente si usava legare i polsi del condannato con corde ma poi, siccome la morte giungeva con eccessiva    lentezza, si optò per i chiodi) non per le mani ma per i polsi  (dallo studio della Sindone è stato possibile desumere che, in rispetto delle leggi dell’emodinamica, i chiodi non furono infilati nei palmi delle mani di Gesù, ma nei polsi, in modo che, per respirare, dovesse fare forza sul torace, perciò la morte  sopraggiunse più lentamente e la tortura fu maggiore), poi veniva inchiodato anche per i piedi,  infine issato.
A questo punto iniziava una terribile agonia perché, gravando tutto il peso del corpo sulla cassa toracica, i polmoni si svuotavano d’aria ed il crocifisso iniziava a spasimare, a soffocare, allora si spingeva con i piedi per tentare di sollevarsi, ma di nuovo il peso lo tirava giù, e così via in una lunga e orrida sofferenza, fino alla morte che sopravveniva per asfissia, accelerata, talvolta, dal  crurifragium, la rottura dei femori, estremo supplizio che, con sbrigativa crudeltà, affrettava la morte dei condannati che tardavano a morire perché li faceva collassare.
E’ proprio questo che accadde a Gesù  (e a tutti i poveretti martirizzati sulla croce) ed il Vangelo insiste, con particolari di dolorosa crudezza, sugli oltraggi che fu costretto a subire in quelle ore, alla mercé dei soldati, fra i dileggi della folla impazzita di cieca furia, prima malmenato, poi flagellato, poi, spogliato delle sue vesti, rivestito d’un manto rosso, con il capo coperto da una corona di spine, simboli offensivi delle sue qualità di “re dei Giudei”, infine inchiodato alla croce per i polsi.
In genere l’agonia dei crocifissi durava a lungo, un giorno intero, anche giorni e giorni, quella di Gesù fu breve ma intensissima perché, stremato dalla flagellazione precedente, ed anche perché, postevi appena le labbra, aveva rifiutato, per affrontare il martirio in piena coscienza, di bere il vino misto ad incenso5 che gli avrebbe offuscato i sensi e reso meno doloroso il travaglio delle ultime ore, perciò per lui non fu necessario ricorrere al gesto “pietoso” del crurifragio.
Nato in un luogo remoto della Palestina, a Betlemme, in Giudea, durante l’impero di Cesare  Augusto, Gesù visse a Nazareth, in Galilea, con i suoi genitori, Maria e Giuseppe, fino all’età di trent’anni, poi iniziò a predicare confermando i suoi insegnamenti con prodigiosi miracoli.
Gesù era seguito con entusiasmo dalla popolazione, ma i depositari della legge e gl’interpreti delle Sacre Scritture non ravvisarono in lui il Messia, che pure attendevano ma che immaginavano un condottiero che avrebbe ristabilito un nuovo ordine fondando un nuovo regno sulla  terra (Gesù, invece, diceva che il Suo regno non era di questo mondo), perciò lo accusarono di sacrilegio e lo presentarono come un agitatore pericoloso per il potere romano.
Catturato nell’orto del Getsemani fu condotto dinanzi al Sinedrio, il massimo organo di governo dei Giudei, presieduto dal Sommo Sacerdote e composto dagli anziani del popolo, dai principi dei sacerdoti e dagli Scribi (i dottori della legge).
Fu il sommo sacerdote Caifa che lo processò come reo di empietà e lo condannò a morte però, siccome l’autorità romana aveva tolto al Sinedrio la facoltà di eseguire condanne a morte, riservandosi di decidere caso per caso sulle sentenze in base ai principi del diritto romano, Gesù fu
condotto da Ponzio Pilato, che  in quel tempo era il procuratore romano della Giudea, il quale, riconoscendolo innocente, inizialmente fu riluttante a decretare una sentenza capitale in base ad accuse che apparivano inconsistenti.
Gesù si proclamava il Messia, e questo non era un reato, e diceva che  il suo regno non era di questo mondo, dunque non intaccava il potere dello Stato, il dominio di Roma, però si proclamava re, ed ecco il punto che impensieriva, perché, in pratica, si sostituiva all’autorità imperiale, ed i Romani temevano proprio che gli ebrei potessero sollevarsi ed eleggere un re: infatti recitava “re dei Giudei” la sentenza, apposta in alto sulla croce 6, secondo la quale era stato condannato.
Infine, dopo lunga esitazione, dopo aver cercato di delegare alla folla la risoluzione del dilemma,  chiedendo se volesse libero Gesù o Barabba, nel timore di suscitare disordini, e di essere giudicato dall’imperatore eccessivamente indulgente verso un sedizioso, ed anche perché, istigata dai capi, la folla ne reclamava la morte, di fronte alla sua stessa confessione di colpevolezza (alla domanda se fosse il re dei Giudei in pratica Gesù aveva ammesso di esserlo), combinandosi motivazioni religiose e politiche (l’accusa di empietà degli Ebrei e la negazione dell’autorità imperiale) Pilato approvò la condanna,  declinando ogni responsabilità lavandosi pubblicamente le mani7.
Dopo 18 ore dal suo arresto, prima flagellato e schernito, Gesù fu condotto sul monte Calvario (Gòlgota) 8, presso Gerusalemme, e qui sottoposto al supplizio della croce, sulla quale, dopo tre ore di agonia, morì, non la testimonianza del suo martirio, in passione e morte, trasmessa  attraverso  i Vangeli dagli Apostoli e l’operato dei suoi seguaci, non il suo messaggio, di amore, pace e fratellanza, sempre attuale e universale, per i credenti e per i non credenti, per i cattolici e per tutti quelli che abbracciano altri credi, non la sua parola di fede destinata a tramandarsi nei secoli.
Di estrema portata rivoluzionaria  fu il suo messaggio, che investì la sfera spirituale, culturale e persino quella linguistica; in tempi in cui il rapporto degli uomini con la divinità era esteriore (bisognava riconoscerne la potenza, sottostarne alla forza, spesso capricciosa e ingiusta, per non incorrere nella loro vendetta, osservare dei riti) Gesù impose un rapporto di amore fra l’umanità e  Dio ed un’accettazione attiva della Sua volontà, perché anche la nuova fede assegnava a Dio una smisurata potenza, però, essendo il Padre di tutti gli uomini, necessariamente essi ne  contraccambiavano l’immenso amore; parlando di amore, di misericordia, di carità e fratellanza  capovolse, dunque, il rapporto fra Dio e gli uomini, ma, esigendo l’amore verso Dio, anche l’amore fra gli uomini.
Fino ad allora i rapporti umani erano stati basati sulla legge del più forte che obbligava il più debole a soccombere, servendolo come schiavo, si comprende dunque facilmente come, affermando che non c’era distinzione fra liberi e schiavi, essendo gli uomini fratelli fra loro perché  tutti figli di Dio  (perciò come tali si dovevano amare e sostenere, anche i nemici) venissero totalmente rivoluzionati pure i rapporti fra uomo e uomo. Inoltre, mentre la società antica  affermava che il ricco, il potente, era il beato, Gesù, nel discorso della montagna, aveva proclamato beati i poveri, gli afflitti, i pacifici, gli oppressi, i puri di cuore, dunque i veri miseri, degni di commiserazione, divenivano coloro che basavano sulla ricchezza e sulla casta la loro vita e la loro dignità.
Ed anche per quanto riguarda le donne, pur non dando indicazioni precise, non esprimendosi direttamente, in modo verbale, ma con atti, Gesù fu un innovatore, dimostrando una  libertà di pensiero  sorprendente per i suoi tempi (invece San Paolo indicò chiaramente, con severità,  alle donne cristiane, pur elevate in dignità e non considerate più serve o strumento di piacere ma compagne dell’uomo, quale fosse il comportamento da seguire, codificandone, in continuazione del pensiero ebraico, non l’uguglianza all’uomo ma la sottomissione).9
A quel tempo le donne ebraiche non vivevano in schiavitù però sicuramente la loro condizione non era delle più felici, sia per quanto riguarda la religione (erano costrette a pregare separate dagli uomini nel Tempio e nella sinagoga perché considerate impure nei periodi mestruali e del parto),  sia  per quanto riguardava la Legge (non potevano chiedere il divorzio).
Gesù considerò le donne uguali agli uomini, perciò non le discriminò, a tutte si avvicinò, alla peccatrice, all’adultera, da tutte si lasciò seguire, le chiamò ad un posto nuovo nella comunità, consentì anche il battesimo, che a quei tempi avveniva per immersione,  superando così i problemi di pudore, perché non le riteneva impure (si pensi all’episodio narrato nel Vangelo da Marco, La figlia di Giairo e l’emorroissa, in cui Gesù è toccato per il mantello da una donna affetta da emorragia da dodici anni) 10. Le donne ricambiarono la sua stima e il suo amore, amandolo a loro volta, servendolo, assistendo alla sua Resurrezione, abbracciando in totale adesione il suo credo e patendo le stesse persecuzioni riservate agli uomini che avevano aderito al Cristianesimo, pagando anche con la vita: testimonianza del  martirio femminile documenti di straordinario valore sono gli Acta Martyrum Scilitanorum, gli atti del processo dei dodici cristiani di Scili, cittadina della Numidia, processati e condannati a morte per decapitazione nel 180 a Cartagine, che riportano che ben cinque dei dodici arrestati erano donne (Nartzalo, Donata, Vestia, Seconda, Generosa) e la Passio Perpetuae et Felicitatis, (Passione delle sante Perpetua e Felicita), processate ed esposte alle fiere in Africa nel 203.11
Ma l’uguaglianza fraterna di tutti gli individui, uomini e donne, e il disprezzo  per gli onori e le ricchezze affermate dai cristiani si scontravano con la mentalità dei Romani, che negavano l’uguaglianza (basti pensare alla condizione degli schiavi) e che godevano dei piaceri effimeri della vita; inoltre gli Ebrei attendevano un Messia, l’inviato da Dio preannunciato dai Profeti, un eroico guerriero che avrebbe redento gli uomini dal peccato,  punito i malvagi, cacciato via i gli oppressori (i Romani) e  ricostruito l’antico regno d’Israele, instaurando, così il regno del Signore sulla terra, ma Gesù si presentò, sì, come il Redentore degli uomini, però affermò che il suo regno non era di questo mondo, deludendo, così l’aspettativa degli Ebrei. Inoltre predicò l’obbedienza ai comandamenti che stavano alla base della Legge religiosa ebraica ma disapprovò fortemente l’interpretazione che ne davano i capi religiosi d’Israele, perciò fu accusato dai Farisei, rigidi custodi della legge e della religione ebraica, di istigare il popolo alla rivolta; combinandosi, così, ragioni religiose e politiche,  fu arrestato, torturato e condotto a morte quale falso profeta.

A sexta autem hora tenebrae factae sunt super universam terram usque ad horam nonam.
Et circa horam nonam clamavit Iesus voce magna dicens: “ Eli, Eli, lema sabacthani? ”, hoc est: “ Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? ”. Quidam autem ex illic stantibus audientes dicebant: “ Eliam vocat iste ”.
Et continuo currens unus ex eis acceptam spongiam implevit aceto et imposuit arundini et dabat ei bibere.
Ceteri vero dicebant: “ Sine, videamus an veniat Elias liberans eum”. Iesus autem iterum clamans voce magna emisit spiritum.


“Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra.  Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: Elì, Elì, lemà sabactàni?, che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: "Costui chiama Elia".
E subito uno di loro corse a prendere una spugna e, imbevutala di aceto, la fissò su una canna e così gli dava da bere. Gli altri dicevano: "Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!". E Gesù, emesso un alto grido, spirò. 12

Non invano Gesù era morto sulla croce; parlando di pace, di misericordia, di carità, di perdono delle offese, di amore verso il prossimo, di uguaglianza di tutti gli uomini, opponendo alla legge dell’odio la legge dell’amore, aveva pronunciato parole nuove destinate a tramandarsi nei secoli, illuminando il faticoso cammino dell’umanità.
“Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”: così aveva detto agli Apostoli quando era risorto, ed essi obbedirono, si sparsero per il mondo a diffondere il Vangelo, ossia la Buona Novella, predicando prima in Palestina e nelle terre più prossime (Siria, Asia minore, Egitto), poi a Roma, cuore del mondo, dove a portare il messaggio evangelico arrivarono Pietro e Paolo, che vi fondarono la più numerosa comunità cristiana primitiva e pure vi morirono, martirizzati come il loro Maestro.
Per molti anni dopo la morte di Gesù la diffusione della Buona novella era stata affidata alla predicazione degli Apostoli poiché era consuetudine ebraica tramandare oralmente le dottrine religiose, scientifiche e giuridiche ma, verso la metà del I secolo, Matteo il pubblicano, suo Apostolo, volle scriverne la vita per dimostrare al mondo cristiano la natura divina del Maestro, testimoniata con la sua venuta al mondo, con la Passione e la Resurrezione, e l’avverarsi delle antiche profezie bibliche.
“Vangelo” è parola che deriva dal greco euanghélion, “lieto annuncio”, “buona novella”, e originariamente non indicava il libro ma l’annuncio del messaggio di salvezza portato dal Cristo e predicato dagli Apostoli; successivamente  vennero chiamati “Vangeli”, “libri di buona novella”, i libri che parlavano delle vicende di Gesù che, con le Lettere di san Paolo, gli Atti degli Apostoli e l’Apolicasse formano il Nuovo Testamento e, insieme all’Antico Testamento (gli Ebrei credono solo a quest’ultimo dal momento che non riconoscono la divinità del Cristo ed ancora attendono il Messia, l’unto dal Signore, Messia dall’ebraico masǐab, unto, in aramaico mesǐha, in greco christòs, in allusione all’unzione sacra dei re) costituiscono  la Bibbia (dal greco ta biblía, “i libri”, scritti in ebraico, aramaico e greco), il compendio dei  libri sacri della Cristianità, in tutto 73, scritti nello spazio di sedici secoli, da autori diversi, quasi tutti ebrei.
Circolarono molti “Vangeli” dopo la morte di Gesù, molte raccolte che testimoniavano la sua vita, ma la Chiesa ne riconobbe solo quattro, tutti composti nella seconda metà del I secolo, cioè poco dopo la morte (i tre Vangeli di Matteo, di Marco e di Luca,  detti “sinottici”, dal greco sýnopsis, “visione d’insieme” perché, su un unico sfondo storico,  riferiscono tutti più o meno le stesse vicende e presentano affinità e concordanze, e quello di Giovanni che non solo racconta le vicende del Cristo, ma ne interpreta in termini mistici la figura e l’opera) e rifiutò tutti gli altri come apocrifi.
Il latino dei Vangeli non è quello classico usato dai grandi scrittori romani, ma un latino più affine a quello parlato, meno ricercato, più vivace, più vero, però i Vangeli non furono scritti in latino, ma in aramaico e in greco, e a curarne la traduzione fu San Girolamo, uno dei padri della Chiesa, scrittore fecondo, tipico rappresentante dell’occidente cristiano, che seppe fondere mirabilmente la cultura pagana e quella cristiana.
Nato in Dalmazia verso il 345 d. C. (e morto a Betlemme nel 420) da una famiglia di agiate condizioni, ricevette un’accurata educazione grammaticale e, allievo di Elio Donato a Roma, ne ereditò l’ammirazione per i classici della letteratura pagana.
Dopo il battesimo, attratto dalla vita ascetica, condusse vita da eremita nel deserto di Calcide, ritornato poi a Roma svolse per qualche anno l’incarico di segretario di papa Damaso, dal quale ebbe l’incarico di tradurre in latino la Bibbia, compito al quale attese con un lavoro durato tre anni, così preciso dal punto di vista filologico da produrre una nuova traduzione che sostituì tutte le altre nel mondo cristiano, la Vulgata editio o, semplicemente, Vulgata (cioè “popolare”), l’unica approvata dalla Chiesa.
Con perizia ed accuratezza filologica tradusse, dunque, i Vangeli dalle lingue originarie in cui erano state scritte dai quattro evangelisti; San Matteo compose il primo Vangelo in aramaico, la lingua del suo popolo, parlata allora in Palestina e dallo stesso Gesù (di cui i Vangeli conservano qualche parola, come Messia, Pasqua, Gòlgota), San Marco, discepolo di San Pietro, scrisse in greco intorno al ’70, San Luca, discepolo di San Paolo, pure scrisse in greco intorno all’80, ed anche San Giovanni scrisse in lingua greca intorno al 100.
Nonostante fosse  un “ciceroniano”, entusiasta ammiratore dello stile magniloquente del più grande fra gli scrittori latini, San Girolamo nella sua traduzione accantonò il grande modello per non tradire la semplicità dei Vangeli e perché intendeva rivolgersi alla maggioranza del pubblico, cioè  al popolo meno istruito (che non avrebbe compreso la lingua classica che già andava evolvendosi verso le nuove forme che sarebbero poi divenute le lingue neolatine, ed anche perché, per la novità del messaggio cristiano, doveva necessariamente usare nuovi vocaboli o affidare nuovi significati a vecchi vocaboli), è per questo che la lingua latina dei Vangeli è semplice e chiara ma riesce a toccare la sensibilità ed il cuore di tutti con soffio di autentica e commossa poesia.
Il latino dei Vangeli si diversificò, dunque, da quello classico, in conseguenza della rivoluzione spirituale del Cristianesimo che incise profondamente anche sul piano linguistico introducendo neologismi come salvare (dies) domìnica (il “giorno del Signore”), papa; parole derivanti dall’ebraico, come Messia (masǐab), e, soprattutto, dal greco: angelus, propheta, apostulus, apostata, episcopus, baptizare, evangelizzare, amen, ecclesia, parabola.
Nuovo significato assunsero anche molti vocaboli latini, come Gratia, Verbum, Spiritus, Regnum; communio, che nel latino classico indicava  “unione”, “comunanza”, cominciò a significare rendere partecipe, condividere, comunicarsi; captivus non significò più “prigioniero” ma, dalla locuzione captivus diaboli, usata dai cristiani per indicare una persona malvagia, assunse il significato di “cattivo”; infernum  per i Romani era la sede sotterranea dei morti, per i cristiani divenne il luogo della dannazione eterna; pagani erano gli abitanti dei pagi, i villaggi di campagna, divennero i “non cristiani”, i “pagani”;  peccatum i Romani chiamavano un errore non grave, con il Cristianesimo cominciò ad indicare la violazione della legge morale e divina, l’offesa fatta a Dio; la virtus, qualità propria dell’uomo vero (da vir, uomo) restrinse il suo significato ai soli valori morali.
Il mutamento di significato di un vocabolo ebbe spesso origine anche da un preciso riferimento ad un passo del Vangelo, come nel caso del verbo tràdere, “consegnare”, che assunse il significato di “tradire” dal fatto che Giuda tràdidit, cioè  “consegnò”  Gesù ai suoi nemici.
Il nuovo latino, il latino-cristiano, si modificò, semplificandosi, anche nella sintassi; ad esempio sulla subordinazione prevalse  la coordinazione (tipica, in tal senso, è la proposizione infinitiva costruita non più con l’accusativo e l’infinito ma con quia o quod e l’indicativo o il congiuntivo), e il complemento di tempo determinato fu espresso non più con l’ablativo semplice ma con in e l’ablativo (in illo tempore, in illis diebus, al posto di illo tempore, illis diebus).
Il messaggio cristiano, fervidamente predicato, e chiaramente veicolato dai Vangeli, cominciò a diffondersi  rapidamente in tutto il vasto impero romano, favorito dall’unificazione dei popoli del bacino del Mediterraneo, dalla comunanza della lingua (il latino) e del diritto romano, ed anche dalla pace e dalla sicurezza che l’impero offriva, e si trovò a corrispondere pienamente al bisogno di  spiritualità di tutti coloro che erano insoddisfatti del carattere superstizioso e ritualistico delle religione degli dei e dell’astrattezza delle dottrine filosofiche; inoltre parlava al cuore di tutti, agli umili, ai poveri, ai sofferenti, agli schiavi, apportava parole di consolazione e di speranza a coloro colte, negli  ambienti della corte imperiale e persino tra le file dell’esercito.
Tuttavia lo spirito di pace e di fraternità che animava il Cristianesimo si opponeva troppo ai concetti dell’antico mondo pagano e romano, ed anche se i cristiani non intendevano affatto abolire l’impero romano (del quale riconoscevano la grandezza arrivando al punto di pensare che fosse stato voluto dalla Provvidenza per agevolare la diffusione del Vangelo e che i due destini, quello dello Stato e quello della religione, fossero congiunti) ma solo farvi penetrare gli ideali evangelici,  sembrò che, negando all’imperatore ogni autorità divina, non ubbidissero e non venerassero più gli imperatori, e che la nuova religione, insinuatasi anche fra i soldati, indebolisse la disciplina e la combattività dell’esercito.
Allora i cristiani cominciarono ad essere perseguitati, inizialmente non per la diversa religione, ma perché accusati di essere  gli autori dello spaventevole incendio di Roma del 64 d. C. (era stato Nerone, per allontanare da sé il sospetto di esserne l’artefice, ad attribuirne la responsabilità ai seguaci del nuovo credo che gli apostoli Pietro e Paolo erano andati a diffondere nell’Urbe); in seguito furono accusati dal popolo d’infanticidio, di orge incestuose, di banchettare con carne umana, dalla parte più colta della società di voler distruggere la religione degli avi, fondamento  dello Stato romano, e di rifiutare di prestare atti di culto al Genius 13 dell’imperatore, perciò, per poter praticare il loro credo, furono costretti a nascondersi nelle catacombe (gallerie e stanze nel sottosuolo, che diventarono le prime chiese ed i primi cimiteri della cristianità), e poi a subire anch’essi il martirio.
Per due secoli e mezzo furono tormentati, con particolare crudeltà soprattutto da Nerone, che organizzò “giochi” dove i cristiani venivano sbranati da belve feroci, bruciati vivi o crocifissi, da Domiziano, che pure infierì sui cristiani (anche su Flavia Domitilla, sua parente)  che si rifiutavano di venerare l’imperatore e di offrire incenso proprio a lui che, secondo la formula delle monarchie orientali, aveva preteso di essere onorato come dominus et deus e che, a partire  dal 95,  li fece perseguitare nella convinzione che la nuova religione violasse le leggi dell’impero e sovvertisse le istituzioni; le accuse rivolte ai cristiani erano, infatti, quelle di introdurre a Roma una religione straniera vietata dalla legge, di rifiutarsi di prestare il culto all’imperatore e di riunirsi in segreto con scopi sediziosi
I cristiani furono imprigionati, arsi vivi, dati in pasto alle belve, processati per “empietà” (rifiuto di riconoscere e praticare la religione ufficiale dello stato) e “lesa maestà” (rifiuto di riconoscere la maestà divina dell’imperatore e di offrire sacrifici al suo Genius), torturati, crocifissi, ma le persecuzioni non arrestarono il cammino della fede e il Cristianesimo continuò a diffondersi finché, unitesi alle ragioni spirituali anche quelle  politiche (l’utilità di eliminare una grave causa di divisione tra i sudditi dell’Impero già logorato da tante rivalità), gli imperatori compresero che era necessario accettare il grande evento.
Fu Costantino, la cui madre Elena già aveva abbracciato la nuova fede, a rendersi conto che il Cristianesimo non sarebbe stata piegato nemmeno dalla più spietata persecuzione e, abile uomo politico, a capire che la sua forza spirituale avrebbe potuto tenere unito l’impero, e così nel 313 d. C. emanò l’Editto di Milano col quale consentiva a tutti i sudditi di professare liberamente la loro religione, e fu Teodosio, l’ultimo dei grandi imperatori, cristiano egli stesso, a dichiararlo, nel 380 d. C. con l’Editto di Tessalonica, religione di Stato, ad ordinare la chiusura dei templi pagani e ad abolire il culto degli dei.
Sostenendo ed affermando con coraggio le loro idee, fino al martirio, i seguaci di Gesù avevano dimostrato una forza morale incredibile, sconvolgente per la cultura romana che non aveva mai proposto grandi ideali spirituali, essendo più incline al pratico e al politico; ora che, finalmente, il Cristianesimo era la religione dello Stato romano,  potevano liberamente professarlo e proclamare al mondo intero le tre grandi virtù: la fede, la speranza, la carità.
Allora il Cristianesimo non rifiutò la Romanità,  le si strinse in feconda alleanza (ma non ne era mai stato in contrasto ed aveva già prodotto una lingua ed una letteratura latino- cristiana), donandole la sua nuova spiritualità ed accogliendo quanto di altamente umano v’era nell’antica e gloriosa civiltà romana.

Francesca Santucci

1) Joseph Ratzinger, Preghiera , in Settimana Santa, Queriniana, Brescia, V edizione, p. 84.

2)Vangelo Secondo Matteo vv.  27-32 in La Sacra Bibbia.  Edizione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, Roma, 1974.

3) Gérard Bessière, “Gesù, il dio inatteso”, Universale Electa Gallimard, Paris 1994, p. 13.

4) Jim Bishop, Il giorno in cui Cristo morì, Milano, in G. B. Bianchi-L. Lamberti, Voci moderne e antiche, 1, Garzanti , Milano 1968, pp.335-336.

5) “…gli diedero da bere vino mescolato con fiele; ma egli, assaggiatolo, non ne volle bere”,  Vangelo Secondo Matteo, v 34, in La Sacra Bibbia, cit.

6) Era obbligatorio per i Romani riportare in alto sulla croce la sentenza con la quale il crocifisso era stato condannato.

7) Fu dagli Ebrei che Pilato apprese il gesto, istituito da Mosè nel Deuteronomio, di lavarsi le mani, al quale si ricorreva in caso di assassinio misterioso. Spettava agli anziani del villaggio più vicino al luogo in cui era stato compiuto il delitto sacrificare una giovenca e lavarsi le mani sull’animale, pronunciando la formula di rito: ” Le nostre mani non hanno sparso questo sangue, né i nostri occhi hanno visto”.

8) Calvario è la traduzione dell’aramaico Gòlgota e significa “cranio”, dalla forma  del rialzo roccioso tondeggiante simile, appunto, ad un cranio.

9) San Paolo La prima Lettera ai Corinzi, 11,22, vv.7.14 e San Paolo, Prima lettera a Timoteo, 2, 15,9-18, (Comportamento delle donne), in La Sacra Bibbia, edizione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, Roma, 1974.

10) Dal Vangelo secondo Marco, 5, 10, vv. 25-34.

11) Perpetua, di nobile famiglia, quando subì il martirio aveva ventidue anni ed era madre di un bambino che stava allattando; Felicita era la sua schiava ed aveva partorito da due giorni.

12) Vangelo Secondo Matteo, vv.45-50, La Sacra Bibbia, edizione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, Roma, 1974.”

13) Il Genius per i Romani era la divinità che governava la natura umana dal momento della nascita e che lo accompagnava per tutta la vita.

RECENSIONI

Cecilia Gobbi, Messaggi dall'antichità (2006)

Eleonora Bellini, Messaggi dall'antichità (2005)

Giuseppe Risica, presentazione del libro Messaggi dall'antichità (2005)