Francesca Santucci
LA
LUNGA NOTTE
(AA.vv.,
I edizione Premio Letterario "Donna e donne",
Edigio' 2007)
Ormai si era nella
stagione dei Pesci; da tempo la neve aveva
abbandonato i campi per lasciare spazio alla
fioritura delle primule, dei ciclamini selvatici
e delle erbe novelle, e già s’intravedeva
qualche sparuto stormo d’uccelli che
s’avventurava in ritorno.
Ero calma, stranamente calma, mentre mi lasciavo
sfiorare dalle leggere folate del vento notturno
che s’insinuavano prepotenti attraverso le
imposte socchiuse, distogliendomi dal mio
incanto e riprecipitandomi nell’abisso dei
pensieri (e dei ricordi).
Ripensavo all’oggi trascorso; era stato il mio
compleanno, ma chi mi aveva dato la vita per la
prima volta non aveva festeggiato con me la mia
nascita: mia madre mancava, ormai, da diversi
mesi!
Ogni anno lei usava comprarmi delle rose ed
accompagnarle con un biglietto, sempre con la
stessa frase:
- A te che sei la rosa più bella del mio
giardino! -
Ma io mi schernivo dicendo che era lei la rosa
più bella, e lo era davvero!
Una volta avevo anche composto una poesia in
tema, intitolandola proprio “La rosa più bella”:
avevo visto i suoi occhi colore di smeraldo
diventare lucenti di gioia e d’orgoglio, e m’ero
commossa ed inorgoglita anch’io.
Qualche mese
fa, d’impulso, un giorno in cui ero più triste
che mai per la sua perdita, avevo acquistato una
piantina di rosa, un piccolo arbusto semi
rinsecchito.
Mi ero detta:
- Se con la morte non tutto muore, se da
qualche parte qualcosa sopravvive, se lei da
qualche parte in qualche altra forma sopravvive,
riceverò un segno: questa pianta fiorirà! -
Ed ogni giorno ne avevo spiato la crescita, non
mancando mai di darle l’acqua ed il giusto
nutrimento, esponendola bene al sole e
riparandola dalle intemperie, anche se le rose
non sono fragili e sopravvivono persino ai geli
dell’inverno.
Curare quella piantina era stato il mio primo
pensiero del mattino e l’ultimo della sera; le
avevo persino parlato, proprio come si fa con
gli esseri umani (ma non sono, forse, anche i
vegetali creature viventi?), blandendola
amorevolmente, complimentandomi con lei quando
le avevo scoperto i primi teneri boccioli.
Anche stamattina, al risveglio, dopo una notte
agitata da incubi, a piedi scalzi, con i capelli
in disordine, la vestaglia che mi fluttuava come
un ectoplasma sulla camicia da notte, il primo
pensiero era stato quello di correre dalla mia
piantina di rose, e nel vento tiepido della
primavera, baciata dal primo sole del mattino,
l’avevo trovata lì, fiorita, ricoperta di
splendidi cuori di velluto fiammeggiante, non
uno, non due, ma tre e quattro e cinque e sei e
sette e otto.
Piangendo di felicità come una bambina, vedendo
come da quel piccolo arbusto era sbocciata una
pianta così rigogliosa, avevo accarezzato molto
delicatamente con le dita le sue rose, ad una ad
una, petalo dopo petalo, sorridendo e piangendo,
poi, d’impulso, le mie carezze erano divenute
baci, prima teneri, poi golosi, avida avevo
iniziato a succhiare un bocciolo, ed un altro,
ed un altro, e ancora, e ancora, e poi i baci
golosi erano divenuti morsi voraci e
distruttori.
Infine ero arrivata anche alle spine, mordendo
pure quelle e lasciandomi graffiare le labbra, e
macchie rosse del mio sangue, fiammeggiante come
quelle rose, mi avevano sporcato la lingua e il
volto e il colletto della candida camicia da
notte, e si erano confusi ai singhiozzi e al
riso isterico, in un crescendo parossistico
insieme di gioia e di dolore.
Poi la mia furia si era placata ed il giorno era
trascorso.
Ed eccomi qui, ora, seduta accanto alla
finestra, socchiusa contro il davanzale ove era
stato consumato il misfatto (permanevano le
tracce…petali dispersi accarezzati dal vento).
Avevo una lunga notte da trascorrere, una lunga,
interminabile notte …