Francesca Santucci

 

La ballata di Lenore

Francesca Santucci, ...Che quanto piace al mondo è breve sogno,  KIMERIK, novembre 2011 , estratto)

http://www.francescasantucci.it/chequantopiacealmondoèbrevesogno.htm

(clic sull'immagine di copertina per ingrandire)

 

 

 

 

 

... A gran palpiti tremava il cuore d'Eleonora, e combatteva tra la morte e la vita.

(G. A.  Bürger, Lenore, Berchet)

 

 

Il  rappresentante più autentico dello “Sturm und Drang”, il movimento letterario, preparatorio del Romanticismo,  che si sviluppò in Germania fra il 1765 e il 1785, in opposizione al razionalismo illuministico, fu Gottfried Augustus Bürger, il primo poeta tedesco moderno a scrivere per il popolo in senso programmatico, affermando, con Herder, la necessità di una  poesia espressiva dell'anima nazionale popolare tedesca, giacché:  tutta la poesia deve essere popolare.1

E’ a lui che si devono le prime ballate artistiche della letteratura tedesca; “Lenore”, la sua più conosciuta, che destò enorme clamore, ma rese per sempre famoso il poeta, fuse l’immaginario fiabesco europeo ed il gusto nordico del notturno, alimentato  soprattutto dagli elementi mutuati dalla notturna e lunare cultura celtica (i Celti calcolavano il tempo per notti ma per giorni, oscurità e nebbie, selve e foreste furono le dimensioni suscitate dai druidi) che ispirò la cultura medievale e romantica e che ancora oggi riverbera di luce propria.

In Bürger  vi fu grande coerenza fra vita e credo artistico professato, nelle sue opere auspicò sempre la libertà per tutti gli oppressi,  e nella vita, rifiutando di elemosinare i favori dei principi, fu vessato dalla miseria.

In trasgressione della morale del tempo, visse un ménage a tre con le  sorelle Dorette e Molly Leonhardt, e ciò gli procurò l’allontanamento dall'incarico pubblico che ricopriva.

Nato a Molmerswende, nell’Unterharz, in Sassonia, il 31 dicembre 1747, giorno che le  scienze occulte consacrano a spettri e vampiri e d’altra parte l’ Unterharz è vicino ai villaggi di Elend e Schirke dove si celebrano in presenza di Satana le notti di Valpurga2, e morto l’ 8 giugno 1794 a Gottinga, città della fiaba dove operarono i fratelli Grimm3, perse precocemente il padre, un pastore protestante. Esortato dal nonno, inizialmente compì studi teologici, ma poi li abbandonò per dedicarsi alla giurisprudenza.

Ben presto rivelò  anche un grande talento poetico, e nel 1771 un suo Lied, “Herr Bacchus ist ein braver Mann” ("Il signor Bacco è un brav’uomo"), fu pubblicato sul Musenalmanach.

Bürger amava Shakespeare e la poesia del folklore inglese, e da questa traeva ispirazione per la composizione delle famose ballate, tra cui “Lenore”, scritta nel 1773 e pubblicata l’anno successivo, che gli valse subito grande popolarità, insieme a Der wilde Jäger, "Il cacciatore selvaggio", del 1778, tradotte in italiano dal Berchet.

Bürger rielaborò anche “Le avventure del barone di Münchhausen”, originariamente scritte in inglese dal tedesco Raspe, e compose bellissime elegie  dedicate alla seconda moglie, Molly, sposata dopo la morte di  Dorette.

In “Lenore” sviluppò un tema prediletto dall’immaginario letterario nordico, spesso ripreso sia nella letteratura che nell’arte, la morte che si vendica sulla vita, la morte che  rend à chacun sa justice o ce qu’il  mérite, come ben esposto da  Hélinand de Froidmont ((1160-1227 o 1237), cronista e poeta, che, ritiratosi in un monastero circestense, dopo una giovinezza frivola, dedicò alla Morte personificata una cinquantina di strofe nei suoi “Vers de la Mort” (1194-1197).

La ballata è ambientata alla fine della guerra dei Sette anni (1756 - 1763).

I soldati ritornano dalla guerra, ma Lenore non vede arrivare  il suo fidanzato, Wilhelm:

 

Balzò dal sonno, all’alba, Leonora,

desta da sogni di affanno e di pianto:

“Morto, o infedele sei, Guglielmo? Ancora

quanto dovrò desiderarti? Quanto?”

 

La fanciulla piange e si dispera, arrivando a bestemmiare, rinnegando la misericordia di Dio e invocando la morte su di sé:

 

 “Oh madre, madre! E’ la fine!

Vada il mondo in rovina!

In Dio non c’è pietà.

Per me, mai più felicità!”

 

La madre disapprova lo sfogo della figlia, e così l’ammonisce:

 

”Aiuto, Dio! Perdona il peccato!

Prega, su! Dì un padrenostro, bambina!

Quel che Dio fa è sempre ben fatto.

Dio, non volere la nostra rovina!”

 

Ma di notte compare l’amato, rivestito d’una rugginosa armatura, che invita la fidanzata a seguirlo sul suo cavallo nero, promettendole che all’alba si sposeranno.

 

Scalcia il morello, gli sproni tintinnano.

A lungo qui io non posso restare.

Fai presto: su la gonna, e salta in groppa

al mio cavallo, siedi dietro a me.

Ho ancora cento miglia di galoppo

fino al mio letto nuziale con te”.

 

Lenore, inizialmente riluttante a partire ad un’ora così tarda, di fronte alla promessa di matrimonio  si lascia convincere dall’amato, e balza a cavallo.

 

“Guarda qui e là! La luna splende chiara,

e noi e i morti cavalchiamo a gara,

veloci. Entro oggi, io scommetto,

ti porterò, mia sposa, al nostro letto!”

 

Allacciate le belle mani bianche intorno alla vita del suo cavaliere,  insieme galoppano, via come il vento; dopo una sfrenata cavalcata, giungono in un luogo dove i corvi svolazzano, nello stagno gracidano i rospi e sfila un funerale: è un cimitero.

Allora  Lenore  vede una ciurmaglia infame che ulula (sono i morti usciti dalle tombe), ed  il suo cavaliere, che altri non è che uno spettro, tramutarsi  in uno scheletro.

 

Oh, guarda! Al cavaliere, in un istante,

uh, uh, uh,! Un prodigio orrendo accade!

Il suo farsetto, sbriciolato e infranto,

come fradicia miccia a pezzi cade.

Teschio, senza codino o ciuffo o cresta,

nudo teschio diviene la sua testa,

e scheletro il suo corpo maledetto,

scheletro con clessidra e con falcetto.

 

Il tenebroso cavallo s’impenna e scaraventa Wilhelm  nel vuoto dell’altro mondo: Lenore muore d’infarto:

 

Il cuore di Leonora, tutto un tremito,

lotta tra morte e vita, ed è allo stremo.

 

Questo componimento, in cui si mescolano il fiabesco e l’orrido, l’amore e l’odio, la disperazione e la speranza,  la vita e la morte, il bene e il male, dove, infine,  a trionfare non è la luce divina ma il demone delle tenebre, dove il paesaggio è popolato di corvi, di rospi, di fantasmi che danzano alla luce della luna, dove gli unici suoni sono quelli cupi e sinistri del sibilare del vento, degli sproni tintinnanti, degli sbuffi del cavallo al galoppo sfrenato, del canto lugubre degli spettri, del cigolio dei battenti del cancello del cimitero, degli ululati dei dannati del mondo di sotto, ricca di allusioni e simboli (la Notte rappresenta il sogno, l’Eros, ma anche il fantastico e l’occulto; il corvo, nell’immaginario collettivo è tradizionalmente  presagio funesto,  foriero di messaggi di morte soprattutto durante la Controriforma, giacché il suo triste lamento, cras, cras, in latino “domani”, si riteneva annunciasse morte imminente; la cavalcata rappresenta il viaggio verso gli Inferi; il cavallo, simbolo dalla duplice natura, dall’aspetto solare o  sotterraneo, legato all’energia vitale o al mortifero- se livido, secondo il folklore anglosassone e tedesco è il destriero della Morte- e qui a morte conduce; il gallo, il legame con l’Oltretomba; la clessidra, la caducità dell’esistenza; teschio e scheletro significano, evidentemente, la Morte; la falce è uno degli attributi della Morte) riscosse grande fortuna, non solo in Germania, ma anche all’estero.  

In Inghilterra fu conosciuto con la traduzione di J. T. Stanley, pubblicata dall’editore William Miller a Londra, nel 1786;  in Francia  per merito di Madame de Staël (ma anche di altri autori, come Stendhal, Hugo, Gérard de Nerval),che l’elogiò nel suo libro  “De l'Allemagne”,  nel 1818; in Italia soprattutto grazie alla promozione di Giovanni Berchet, l'autore del più importante manifesto del Romanticismo europeo.

Giovanni Berchet, nato a Milano nel 1783, esordì sulla scena letteraria cittadina nel 1816 quando, nel suo scritto teorico e programmatico sulla letteratura, “Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo”, presentò le sue traduzioni, in prosa, di due ballate, da lui definite “romanzi  di Bürger:  “Sul cacciatore feroce” e Sulla Eleonora”.

 

Entrambi questi Romanzi sono fondati sul maraviglioso e sul terribile, due potentissime occasioni di movimento per l'animo umano… A differenza della prima, la favola di questo secondo romanzo, a quel ch'io sappia, è tutta invenzione del poeta. Parrebbe dunque che, non sostenuta da una tradizione, l'Eleonora non dovesse trovare né fede né applausi neppure in Germania. E nondimeno è noto come ella sia colà la lodatissima delle poesie del Bürger. A che ascriveremo noi questo?

 

Berchet, pur riconoscendone il valore, avanzò, però, il dubbio che la ballata “Lenore”, insieme a “Il cacciator feroce” (Interrogazione seconda. "Il Cacciatore feroce e l'Eleonora piaceranno in Italia?") intrisa di elementi cupi di gusto troppo nordico (il senso della notte, della morte, del mistero, l’abbandono al fantastico, in generale l’ispirazione notturna e sepolcrale furono motivi tipici della sensibilità preromantica), troppo pagana, assente lo spirito del Cristianesimo, il Dio misericordioso,  potesse non incontrare il favore del pubblico italiano:

Ma avremo, noi, lettori teologi molti? O io m'inganno, o tra di noi sarà maggiore il numero di quelli che, facili a scusare negli altri le passioni perché le vorrebbono scusate a sé medesimi, si lasceranno andare alla pietà, come al sentimento più repentino per essi. Cedendo all'impeto delle prime impressioni cagionate dalle miserie d'Eleonora, e non interrogando gran fatto il sentimento religioso, che in essi, a differenza de' tedeschi, riescirà il meno forte, eglino, parmi, diranno così: "Una povera vergine innamorata, disperante della vita del suo sposo futuro, inasprita dal peso della disgrazia e dalla importunità dei consigli di una vecchia assiderata, perché nell'impeto del dolore (e che dolore!) si lasciò fuggire di bocca la rinnegazione della provvidenza, meritava ella di essere sepolta viva? meritava che il ministro dell'ira di Dio fosse quello stesso amante per cui ella aveva spasimato tanto? meritava che questi alla gelata indifferenza dovesse anche aggiungere la crudeltà della ironia, e continuarla fino all'ultimo della vita?... No, non può essere. Il Dio nostro è il Dio della misericordia. Tratto a doverci visitare nell'ira sua, egli guarda pur sempre all'intenzione del peccatore, e distingue il delirio d'una passione innocente dalla gelida, ostinata empietà. Eleonora ha peccato. Ma qual proporzione qui tra 'l peccato e la pena? No no, la storia d'Eleonora non è credibile. E' una invenzione nera nera che mette ribrezzo; è una favola da nutrici che non è raccomandata da verisimiglianza veruna, e che non merita neppure una sola delle nostre lagrime".

Notevole  fu anche  la fortuna  iconografica del componimento; considerato un  testo sacro dello “Sturm und Drang”, in sospensione tra fiaba e storia macabra, contrapponendo il mondo dei vivi e quello dei morti, il soggetto fu molto amato dagli artisti romantici e simbolisti,  attratti dai caratteri fantastici e inquietanti del soggetto, che, soprattutto nell'800, predilessero rappresentare la spettrale cavalcata.

William Blake, poeta, incisore, pittore dal talento visionario, visitato spesso, secondo sue dichiarazioni, da spiriti ed angeli (Sono sotto la direzione di messaggeri celesti), con vari disegni illustrò l’edizione inglese di  “Lenore”  di J. T. Stanley.

William Blake, illustrazione di “Lenore”.

 

Blake amava attorcere le capigliature e le barbe dei suoi personaggi in ciocche spesse, ricadenti a cascata o fluenti nell’aria, sì da farle risultare animate; anche nel disegno che rappresenta  la sfrenata cavalcata di Lenore e Wilhelm raffigurò secondo questa modalità le chiome della fanciulla e del cavaliere, imprimendo, così,  eccezionale slancio alla folle corsa.

“Lenore” ispirò pure il pittore  Ary Scheffer che, tra il 1820 e il 1825,  compose un olio su tela, “Les morts vont vite”,  rifacendosi, per il titolo del dipinto, alle parole minacciose e sinistre udite dalla fanciulla durante la sfrenata cavalcata: “I morti cavalcano a gara”.

Ary Scheffer,  "Les morts vont vite".

 

Nel dipinto di Scheffer solo il corpo di Lenore è illuminato da una luce calda che ne esalta la bellezza e la paura, il paesaggio ed il suo cavaliere, invece,  sono  immersi nell’'oscurità.

Il quadro, per l’ opposizione tra lo slancio del cavallo e la postura raccolta della fanciulla, si rivela di grande dinamismo ed eleganza.

Nel 1839 Horace Vernet dipinse un altro celebre quadro sul tema,  “La ballade”, di spirito analogo a quello di Scheffer; entrambi gli artisti scelsero, infatti, di cogliere il momento più drammatico e macabro del componimento, e cioè il momento in cui Lenore e lo spettro di Wilhelm  attraversano il cimitero, ma  Vernet amò indugiare sul finale, mostrando la fanciulla già spaurita e, ma solo allo spettatore, la reale identità del cavaliere: quella di spettro.

Horace Vernet, “La ballade”.

 

Altro dipinto notevole è “La ballade” di Gustave Moreau,  del 1885, eseguito con la tecnica dell'acquerello che, rendendo evanescenti i contorni degli elementi del quadro, conferisce un’atmosfera da sogno; qui il paesaggio  è  gotico, con gli alberi spogli e contorti, a sinistra dello spettatore c’è la rocca sull'altura che si staglia contro un cielo carico di vapori foschi e sinistri nuvoloni che seminascondono la luna.

Gustave Moreau, “La ballade”.

 

Al centro del quadro troneggia la fanciulla in abito verde, la bionda chioma fluente al vento, e Wilhelm col cimiero mosso in groppa al tenebroso  cavallo dalla criniera scarmigliata.

Così com’è immerso in un’aura sfumata, il dipinto suggerisce atmosfere più di fiaba che di terrore, tipiche, tuttavia,  dei racconti horror e fantasy di moda soprattutto nell’Ottocento, ove nulla sembrava frenare la bizzarria dell’inventio degli scrittori, predominando la libertà dell’immaginazione e della fantasia.

Ed è  proprio questa sospensione  fra  realtà e mondo soprannaturale, terribile e meraviglioso, sogno e mistero, non riconducibile alla lucidità della ragione, che concorse alla fortuna della ballata, e che continua a suscitare  suggestioni anche sul lettore moderno.

Francesca Santucci

 

 

 

Note

1) Effusioni di cuore sulla poesia popolare, 1776.

2) così sottolinea Quirino Principe nell’introduzione della sua traduzione di Lenore, in Lenore, edizioni dell’Altana, 2004.

3) op. cit.

 

 

Riferimenti bibliografici

Poeti minori dell’Ottocento, vol. II, Ricciardi, Milano-Napoli, 1963.

Lenore, trad. Quirino Principe, edizioni dell’Altana, Roma, 2004.

Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo. Scritti scelti di critica e di polemica, Mursia, Milano, 1991.

Poesia straniera, tedesca, La Biblioteca di Repubblica,  Firenze,  2004.

Episodi e personaggi della letteratura, II parte Electa, Milano, settembre 2004.

I grandi pittori-l’Ottocento, I parte- Istituto Geografico De Agostini, 1986.

I grandi pittori-l’Ottocento, I parte- Istituto Geografico De Agostini, 1986.

La natura e i suoi simboli, II parte, Electa, Milano, settembre 2004.

Simboli e allegorie, II parte, Electa, Milano, settembre 2004.

 

 

 

Eleonora

 

 

Giovanni Berchet

 

Sul far del mattino Eleonora sbalzò su agitata da sogni affannosi: “Sei tu infedele, o Guglielmo, o sei tu morto? E fino a quando indugerai?”Egli era uscito coll’esercito del re Federigo alla battaglia di Praga; e non aveva scritto mai se ne fosse scampato.

 

Stanchi delle lunghe ire, il Re e l’Imperatrice ammollirono le feroci anime, e finalmente fecero pace. Ed ogni schiera, preceduta da inni, da cantici, dal fragore de’ timpani, da suoni e da sinfonie, adornata di verdi rami, si riduceva alle proprie case.

 

[...]

 

Ella di qua di là cercò tutto l’esercito, dimandò tutti i nomi. Ma fra tanti reduci non uno v’era che le desse ragguaglio. Oltrepassate che furono da ultimo tutte quante le schiere, ella si stracciò la nera chioma, e furibonda si buttò sul terreno.

 

Accorse precipitosa la madre. “O Dio, misericordia! Che hai, che t’avvenne, figlia mia cara?” E se la serrò fra le braccia.

– “O madre, madre! è perduto, è morto. Or vada in rovina il mondo, e tutto vada in rovina! Non ha misericordia Iddio. Ahi me misera! misera!”.

 

– “O Dio, ne assisti! Misericordia, o Signore! Di’, figlia mia, di’ un Paternostro. Quello che è fatto da Dio è ben fatto. Egli sì, Iddio, è pietoso di noi”.

– “O madre, madre! Tutte illusioni! Nulla di bene ha fatto per me il Signore! nulla. Che giovarono, che giovarono le mie orazioni? Oramai non n’è più bisogno”.

 

– “O Dio, ne assisti! Chi in Dio riconosce il nostro padre, sa ch’egli soccorre a’ figliuoli. Il santissimo Sacramento metterà calma al tuo affanno”.

– “O madre, madre. Questo incendio che m’arde, non v’ha Sacramento che me lo calmi. Non v’ha Sacramento che restituisca a’ morti la vita”.

 

[...]

 

– “O Dio, ne assisti! Non voler, no, entrare, o Dio, in giudizio contra la povera tua creatura. Ella non sa quel che la sua lingua si dica: non tener conto de’ peccati di lei. – Dimentica, figliuola mia, dimentica la tua afflizione terrena; pensa al Signore, pensa alla beatitudine eterna; e t’assicura che non verrà meno lo sposo all’anima tua”.

 

– “E che è mai, o madre, la beatitudine eterna? Che mai, o madre, è l’inferno? Con lui, con lui è beatitudine eterna; e senza di Guglielmo non v’ha che inferno. Spegniti, luce mia, spegniti in perpetuo: muori, muori sepolta nella notte e nell’orrore! Senza di lui, né sulla terra, né fuori della terra posso aver pace io mai”.

 

Così a lei nella mente e nelle vene infuriava la disperazione. Più e più continuò temeraria ad accusare la Provvidenza di Dio; si percosse il seno; si storse le mani, fino al tramonto del sole, fino all’apparire delle stelle auree per la volta del cielo.

 

Quand’ecco, trap trap trap, un calpestìo al di fuori come di zampa di destriero; e strepitante nell’armadura smontare agli scalini del verone un cavaliero. E tin tin tin, ecco sfrenarsi pian piano la campanella dell’uscio; e da traverso l’uscio venire queste distinte parole:

 

– “Su su! Apri, o mia cara, apri. Dormi tu, amor mio, o sei desta? Che intenzioni sono ancora le tue verso di me? Piangi, o sei lieta?”

 

– “O cielo! Tu, Guglielmo? Tu... di notte... così tardi...? Ho pianto, ho vegliato. Ahi misera! un grande affanno ho sostenuto... E donde vieni tu così a cavallo?”

 

– “Noi non mettiamo sella che a mezzanotte. Lungo viaggio cavalcai a questa volta, fino dalla Boemia. Tardi ho preso il cammino, tardi: e voglio condurti meco”.

– “Ah Guglielmo! Entra prima qua dentro un istante. Su presto! Il vento fischia ne’ roveti. Entra, vieni, cuor mio carissimo, a riscaldarti fra le mie braccia”.

 

– “Lascia pure che il vento fischi tra i roveti: lascialo fischiare, anima mia, lascialo fischiare. Il mio cavallo morello raspa; il mio sprone suona. In questo luogo non m’è concesso alloggiare. Vieni, succingiti, spicca un salto, e gettati in groppa al mio morello. Ben cento miglia mi restano a correre teco quest’oggi per arrivare al letto nuziale”.

 

– “O cielo! E tu vorresti in questo sol giorno trasportarmi per cento miglia fino al letto nuziale? Odi come romba tuttavia la campana: le undici son già battute”.

– “Gira, gira lo sguardo. Vedi, fa un bel chiaro la luna. Noi e i morti cavalchiamo in furia. Oggi, sì quest’oggi, scommetto ch’io ti porto nel letto nuziale”.

 

– “E dov’è, dimmi, dov’è la cameretta? E dove, e che letticiuolo nuziale è il tuo?”

– “Lontano, lontano di qui..., in mezzo al silenzio..., alla frescura...., angusto... Sei assi... e due assicelle...”.

– “V’ha spazio per me?”

– “Per te e per me. Vieni, succingiti, spicca un salto, e gettati in groppa. I convitati alle nozze aspettano; la camera è già schiusa per noi”.

 

La vezzosa donzelletta innamorata si succinse, spiccò un salto, snella si gittò in groppa al cavallo, e con le candide mani tutta si ristrinse all’amato cavaliere. E arri arri arri! salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.

 

A destra e a sinistra, deh! Come fuggivano loro innanzi allo sguardo e pascoli e lande e paesi! Come sotto la pesta rintronavano i ponti! – “E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri! I morti cavalcano in furia. E tu, mia cara, hai paura de’ morti!”

– “Ah no! Ma lasciali in pace i morti!”

 

Da colaggiù qual canto, qual suono mai rimbombò? Che svolazzare fu quello de’ corvi? Odi suono di squille, odi canto di morte! “Seppelliamo il cadavere”.

Ed ecco avvicinarsi una comitiva funebre, e recar la cassa e la bara de’ morti. E l’inno somigliava al gracidar dei rospi negli stagni.

 

– “Passata la mezzanotte, seppellirete il cadavere con suoni e cantici e compianti. Ora io accompagno a casa la giovinetta mia sposa. Entrate meco, entrate al convito nuziale. Vieni, o sagrestano; vieni col coro, e precedimi intuonando il cantico delle nozze. Vieni, o sacerdote; vieni a darci la benedizione prima che ci mettiamo a giacere”.

 

Tace il suono, tace il canto; la bara sparì. E obbedienti alla chiamata quelli correvano veloci, arri arri arri! lì lì sulle peste del morello. E va e va e va; salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.

 

Deh come fuggivano a destra, come a sinistra fuggivano e montagne e piante e siepi! Come fuggivano a sinistra, a destra e ville e città e borghi!

 

– “E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri arri! I morti cavalcano in furia. E tu, mia cara hai paura de’ morti?”

– “Ahi misera! Lasciali in pace i morti”.

 

Ecco, ecco; là sul patibolo, al lume incerto della luna, una ciurma di larve balla intorno al perno della ruota! “Qua qua, o larve. Venite, seguitemi. Ballateci la giga degli sposi, quando saliremo in letto”.

 

E via via via, le larve gli stormivano dietro a’ passi, come turbine che in una selvetta di nocciuoli stride fra mezzo all’arida frasca. E va e va e va; salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.

 

Ogni cosa che la luna illuminava d’intorno, deh come ratto fuggiva, come fuggiva alla lontana! Come fuggivano e cieli e stelle ad disopra di lui!

– “E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna? Arri arri arri! I morti cavalcano in furia. Ed hai tuttavia paura dei morti, o mia cara?”

– “Ahi me misera! Lasciali in pace i morti”.

 

– “Su su, o morello! Parmi che il gallo già canti. Fra poco il sabbione sarà omai tutto trascorso. Su, morello, morello! Al fiuto sento già l’aria del mattino. Di qua, o morello, caracolla di qua. Finito, finito abbiamo di correre. Eccolo che s’apre il letto nuziale. I morti cavalcano in furia. Eccola, eccola la meta”.

 

Impetuoso s’avventò a briglia sciolta contra un cancello di ferro. Ad uno sferzar di scudiscio toppa e chiavistello gli si spezzarono innanzi; e le ferree imposte cigolando si spalancarono. Il destriero drizzò la foga su per le sepolture. E al chiaror della luna tutto tutto biancheggiava di monumenti.

 

Ed ecco, ecco in un subito, portento, ahi, spaventoso! Di dosso al cavaliere ecco, a brandelli a brandelli cascar l’armatura, com’esca logorata dagli anni! In teschio senza ciocche e senza ciuffo, in teschio ignudo ignudo gli si convertì il capo; e la persona in ischeletro armato di ronca e d’oriuolo.

 

Alto s’impennò, e inferocì sbuffando il morello, e schizzò scintille di fuoco. E via, eccolo sparito e sprofondato di sotto alla fanciulla; e strida e strida su per l’aere; e venir dal fondo della fossa un ululato!... A gran palpiti tremava il cuore d’Eleonora, e combatteva tra la morte e la vita.

 

Allora sì, allora sotto il raggio della luna danzarono a tondo a tondo le larve; ed intrecciando il ballo della catena, con feroci urli ripetevano questa nenia: “Abbi pazienza, pazienza; s’anche il cuore ti scoppia. Con Dio no, con Dio non venire a contesa. Eccoti sciolta dal corpo... Iddio usi all’anima misericordia!”

 

(in Poeti minori dell’Ottocento, vol. II, Ricciardi, Milano-Napoli, 1963).