Vera la schiuma e vero il mare diresti
e vero il nicchio e ver soffiar di venti;
la dea negli occhi folgorar vedresti,
e il cel riderli a torno e gli elementi…
(Stanze, Poliziano)
Francesca
Santucci
La nascita di
Venere
di Sandro Botticelli
Venere è bellissima! Al centro del quadro si erge plastica e scultorea
dalla valva di una conchiglia, la forma del corpo è leggermente
allungata, le lunghe chiome attorte a sottolineare un volto dai
lineamenti delicati, le mani pudiche cercano di coprire le nudità
svelate.
L’hanno sospinta sulla spiaggia dell’isola di Cipro i due venti dai
corpi l’uno all’altro avvinti: Aura e Zefiro, figlio di Eos e di
Astro, il vento dell’ovest che annuncia la primavera e placa le onde
del mare. E’ lui che esalando fiori la sospinge dolcemente a riva; una
fanciulla, con la veste a fiori ed un purpureo manto fiorito, pronta
accorre per coprire la dea, ma è contrastata dal vento che, pare,
voglia impedirle di celarne le nudità.
La dea appare d’una bellezza fulgida e pura, ma la sua nascita è
legata ad una violenza; narra il poeta greco Esiodo che il dio Urano fu
castrato da suo figlio Saturno e, quando i genitali vennero gettati in
mare, si produsse una spuma dalla quale si generò Venere.
Cosa voleva significare il mito? Che la Bellezza, la Purezza, la
Spiritualità, possono nascere anche da un gesto violento? Che una perla
può splendere anche in un porcile? Che dal Male può nascere il Bene?
Afrodite, dea greca dell’Amore, della Bellezza e della Fecondità,
affine alla dea fenicia Ishtar protettrice dell’amore sensuale,
chiamata Venere dai Romani che le dedicarono la stella del mattino,
secondo Omero sarebbe nata da Zeus e da Dione, per Esiodo, invece,
sarebbe emersa dalle acque del mare fecondate dal seme di Urano, presso
l’isola di Cipro, per Platone, vi sarebbero state due Veneri: Venere
Urania, figlia di Urano, il cielo, rappresentante l’amore puro, e
Venere Pandemia, figlia di Dione, dea dell’amore volgare.
Appena emersa dalle acque sarebbe stata trasportata dagli zefiri a
Cipro, o a Pafo o a Citera e, approdata sulla riva, sarebbe stata
accolta dalle Ore, rivestita, adornata e condotta sull’Olimpo.
Sembra proprio tradurre in immagini i versi del Poliziano questa tempera
su tela, che celebra Venere anadiomene, cioè che sorge dalle acque e
approda a Cipro; dipinta per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici
intorno al 1484, restaurata nel 1987, recuperando tutta la sua bellezza,
probabilmente rappresenta l’apice dell’espressività di Botticelli
che fu il primo artista del Rinascimento ad interpretare, con
l’impegno riservato solitamente ai soggetti religiosi, i temi
mitologici (fino ad allora considerati di minore importanza e destinati
alle decorazioni del mobilio), dipingendo dee simili in bellezza e
splendore alle sue celebri Madonne.
Raffigurazione del mito classico, conoscendo le inclinazioni e la
cultura neoplatonica di cui si nutriva la corte dei Medici, mecenati
dell’arte e protettori di Botticelli, è probabile che il quadro
nasconda significati più nascosti; secondo il pensiero umanistico,
infatti, Venere incarnava non un simbolo erotico, bensì un ideale di
bellezza ispiratrice di pensieri nobili ed elevati, conformandosi alle
antiche concezioni di Platone per il quale la bellezza nasceva
dall’unione dello spirito con la materia e s’identificava con la
verità, ed è a questa seconda concezione che si rifece l’artista.
La composizione del quadro, che rappresenta l’approdo, piuttosto che
la nascita, della dea sulla terra è apparentemente equilibrata ma, in
obbedienza al fluire del contorno, la figura si disarticola formando
un’immagine d’inquietante e insuperabile bellezza.
Al centro del quadro, sopra una conchiglia, c’è Venere, nata dalla
spuma del mare, emergente dalle acque, in casta nudità, tra
l’irrompere dei Venti intrecciati fra loro e l’accorrere dell’Ora
col suo manto fiorito.
Sotto una pioggia di rose, la dea giunge a riva, sospinta dai venti
avvinti tra loro, Zefiro, dal cui dolce soffio nascono fiori, e Aura.
Sulla spiaggia dell’isola di Cipro l’attende una fanciulla,
probabilmente una delle Ore, ninfe preposte all’ordine della natura e
all’alternarsi delle stagioni (secondo altre interpretazioni una delle
Grazie oppure Flora, antica divinità della Sabina, patrona della
fioritura e della primavera), pronta a ricoprire il corpo nudo con un
manto purpureo riccamente fiorito, gonfiato dal soffio del vento che
scompiglia i lunghi capelli della dea, annodati in un morbido intreccio,
e che sembra opporsi all’azione della fanciulla, gonfiando il manto
nell’aria.
Per la posa della dea Botticelli si rifece ad un’antica iconografia,
secondo la quale Venere, per la posizione delle mani, che costituiva una
tipologia molto diffusa nella raffigurazione classica, è
detta pudica, diversificandosi, però, dalle statue classiche nelle
proporzioni.
Il nudo di Venere, in radicale novità di rappresentazione per il tempo
giacché, fino ad allora, l’unico donna raffigurata nuda nell’arte
era solo Eva gravata dal peccato, è costruito con una linea fluida che
ne evidenzia il profilo, l’allungamento innaturale della figura è
giustificato dall’armonia del contorno, il corpo è di un colore
avorio che ben s’accorda col verde chiarissimo delle onde del mare che
trascolora nell’azzurro trasparente del cielo; il paesaggio marino è
reso con linee sinuose che riecheggiano il profilo del corpo e la costa,
più che sottolineare lo spazio, sotto la spinta dei venti sembra
ritrarsi per lasciar posto esclusivamente a Venere.
L’occhio dello spettatore per un istante si smarrisce e si perde
nell’intreccio dei corpi dei due Venti abbracciati e in quello delle
chiome della dea, ma, inevitabilmente, è poi attratto dalla sua
splendida figura.
Il dipinto, dai colori tenui, uniformati da una vernice costituita
d’albume d’uovo di colore perlaceo e arricchiti da dorature sui
capelli di Venere, sulle ali dei venti e sui tronchi, è di una grazia
squisita, e la dea è di una bellezza così intensa, in una posa
talmente casta e pudica, da far dimenticare la violenza legata alla
leggenda della sua nascita, e da far pensare davvero che Botticelli la
ideò così allo scopo di ispirare nel suo committente, il Medici, un
ideale di amore virtuoso.
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