Composta nel 1751, e portata in scena per la prima volta nel 1753
,"La Locandiera" è ancora oggi la commedia goldoniana maggiormente
amata e rappresentata.
Nelle intenzioni dell’autore, che ben incarna lo spirito
educativo del teatro settecentesco, questa commedia doveva insegnare a rendere
odioso il carattere delle incantatrici sirene, cioè a diffidare di quelle
donne che s’avvalgono dell’astuzia e della simulazione per sedurre l’uomo.
L’intera opera, pur offrendo una galleria di personaggi e situazioni, è
dominata dalle schermaglie tra l’amabile Mirandolina, la locandiera, e il rude
cavaliere di Ripafratta, cliente della locanda.
Mirandolina è la tipica
serva-padrona, astuta, intelligente, pratica e razionale, che vuole essere
corteggiata ma che non cede alle lusinghe dell’amore, è, però, anche onesta e
preoccupata che i suoi affari procedano bene, e in questo esprime compiutamente
lo spirito dell’Illuminismo del ‘700, concreto e aderente alla realtà.
Personaggio opposto a quello della locandiera, secondo le allusioni dello stesso
autore il più emblematico della commedia, è il cavaliere di Ripafratta,
misogino e vanaglorioso che, alla concretezza della donna, contrappone il vuoto
delle parole. Mirandolina lo punirà usando le sue stesse armi, appunto le
parole, con le quali lo adulerà e lo colmerà di lusinghe, con l’unico scopo di
fargli ammettere di aver sbagliato a disprezzare le donne, fingendo convinzioni
ed esperienze che in realtà non ha. Infatti il cavaliere odia le donne perché
non le conosce, anche se si finge esperto in materia, teme le astuzie femminili
non perché le abbia sperimentate personalmente (sarà poi la locandiera a
fargliele provare), ma per sentito dire, e la sua esperienza gli deriva solo
dalla frequentazione delle donne con le quali si è accompagnato per
divertimento, per un periodo limitato, senza timore del laccio del matrimonio.
In fondo è un giovane che ha dispregio dell’amore perché ancora non lo conosce,
misogino per difesa e, infatti, la passione che lo travolgerà all’improvviso
sarà enorme e straordinaria. Le sue convinzioni in materia si palesano fin dal
primo apparire sulla scena: Una donna vi altera?Vi
scompone? Una donna?Che cosa mai mi convien sentire!Una donna? Per me stimo più
di lei quattro volte un bravo cane da caccia.
Il cavaliere considera l’amore una debolezza e le donne esclusivamente oggetto
di piacere, con le quali trastullarsi solo per qualche ora, ma da cui stare
alla larga per non perdere il tesoro più grande che è la libertà. L’amore,
secondo le sue convinzioni, è una debolezza, una miseria umana, e quelli che
s’innamorano sono solo pazzi. La sua sfiducia e la bassa considerazione della
donna persistono anche quando si rende conto di essersi innamorato e,
controvoglia, è costretto ad ammetterlo: Ella mi ha vinto con tanta civiltà,che mi
trovo obbligato quasi ad amarla. Ma è donna;non me ne voglio fidare-E ancora: Sì, donne,sempre più
dirò male di voi;sì,voi ci fate del male,ancora quando ci volete fare del bene. L’amore è, dunque, un’incognita forza e le donne sono
il male, infine, però, l’uomo si piegherà e sarà costretto ad asserire: Stimo voi, stimo le donne che sono della vostra sorte, se
pur ve ne sono.Vi stimo, vi amo, e vi domando pietà... Son caduto nel
laccio, e non vi è più rimedio. Al rifiuto di Mirandolina, che deciderà
di sposare il fidato cameriere Fabrizio, il cavaliere di Ripafratta ritornerà,
però, alle
convinzioni iniziali, e cioè che delle donne non bisogna fidarsi, secondo Goldoni
delle donne che lusingano e adulano, e l’ultimo impropero sarà rivolto
proprio a colei che lo ha ingannato: Sì, maladetta,sposati a chi tu
vuoi...Maledico le tue lusinghe, le tue lagrime, le tue finzioni; tu mi hai fatto
conoscere qual infausto potere abbia sopra di noi il tuo sesso, e mi hai fatto a
costo mio imparare che per vincerlo non basta,no,disprezzarlo, ma ci conviene
fuggirlo.
Francesca Santucci
passioni
d'amore
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