La lezione di anatomia
"Ragazzi, vi ricordo
che domani avrete la prima lezione di dissezione anatomica, ci
vediamo". La voce di Passaponti, con netta inflessione toscana,
diede l’annuncio, al termine della consueta, magistrale dissertazione
sul corpo umano, che ci aveva tenuto incollati ai vetusti banchi dell’anfiteatro
di legno, affascinati dalla bravura dell’ultimo esponente della
celeberrima scuola anatomica fiorentina. Uscimmo, senza fretta, dall’Istituto
Morgagni, soffermandoci nel vasto atrio, vicino alle due alte colonne
dell’ingresso, a discutere sull’evento che ci aspettava l’indomani:
il primo vero incontro con la morte e le devastanti conseguenze del suo
agire. Si raccontava che molti brillanti studenti avessero cambiato
facoltà dopo la prova, troppo forte l’impatto con la realtà, meglio
starne lontani, illudersi che non esista, ma, se vuoi fare il medico,
per curare i vivi, devi conoscere i corpi che ti chiederanno aiuto, non
c’è scelta. Diversi colleghi m’apparvero sgomenti, preoccupati, io
ero eccitato, invece, avevo scelto la facoltà di Medicina per una sorta
d’improvvisa vocazione, che mi colse al risveglio da una notte
agitata, quando avevo già deciso che mi sarei iscritto a Lettere
Classiche, il mio grande amore, la passione che mi aveva spinto a
frequentare il Liceo. Da qualche tempo attendevo di mettere alla prova
le mie risorse interiori, di insinuarmi tra i misteri del corpo umano,
per comprenderne i segreti, capire perché l’anima l’avesse scelto
come sede del suo transito terreno. Certo, in me si agitavano profondi
dubbi esistenziali, rimembranze confuse di filosofia, poche certezze, ma
ero cosciente almeno che la mia volontà, l’intento, era quello di
sapere, tentare quantomeno, forse per conoscere meglio me stesso. Domani
giunse presto. Di buon mattino il professore ci divise in gruppi,
affidandoci ai suoi assistenti. Entrammo, emozionati, in una delle vaste
sale di dissezione, qualcuno faceva lo spavaldo, forse per darsi
coraggio. Mi colpì immediatamente il senso di gelo che aleggiava nel
locale, ampio, disadorno, dal tetto altissimo. Un odore di formalina,
intenso, penetrante, sembrava impregnare ogni cosa, suscitando un lieve
stordimento, come una vaga vertigine. Su una delle pareti bianche, una
vecchia incisione, "ex morte vita", intendeva rivelarci il
significato di ciò che avremmo visto. L’assistente, alto, magro, con
un’espressione quasi assente sul volto affilato, ci salutò,
presentandosi in modo sbrigativo, si chiamava Martinez e, abbozzando
appena un sorriso di circostanza, scorse la lista coi nostri nomi, fece
un rapido appello, quindi aggiunse secco: "Uomo, razza bianca, anni
76, deceduto circa tre giorni fa", e fece un cenno ad un
inserviente dalla faccia scialba, corpulento, tozzo, intrappolato in un
camice blu, troppo stretto e corto. Lo strano individuo, che
ribattezzammo Igor, come il fido collaboratore del mitico dottor
Frankestein, sparì dietro una porta non lontana, per riapparire poco
dopo, spingendo una specie di barella, su cui era adagiata una figura,
ricoperta da un lenzuolo. Senza sforzo apparente, poi, lo depose sul
tavolo di marmo che troneggiava al centro della stanza.
"Avvicinatevi", disse l’assistente, "seguitemi con
attenzione e, se qualcuno si sente male, s’allontani senza dare
fastidio, grazie". Ci guardammo l’un l’altro, muti, mentre si
affacciò, qua e là, qualche goccia di sudore. Con un gesto lento, che
reputai solenne, il docente sollevò il sudario e apparve il cadavere,
completamente nudo, il volto nascosto da un pietoso lembo di tessuto
verde. Uno studente s’allontanò immediatamente, stravolto, una
ragazza lo seguì subito dopo. Ci avvicinammo al freddo giaciglio e al
suo misero ospite e, per qualche istante, restammo tutti immobili, come
nell’attesa di un segnale misterioso; mi sovvenne quel famoso quadro
di Rembrandt, "La lezione d’anatomia del dottor Tulp", che
tanto mi aveva interessato al Liceo, durante le gradevoli lezioni di
Storia dell’Arte, e, a parte il diverso modo di vestire, non sembrava
per nulla che fossero passati quasi quattrocento anni, da allora. Mi
parve di essere quasi fuori del tempo, in una dimensione astratta,
indefinibile. Il nostro istruttore prese un bisturi, dalla lama piccola,
tagliente, ed incise l’addome con gesto sicuro, aprendolo con una
lungo taglio, che andava dalla punta dello sterno al pube, spiegando
meccanicamente, senza fare commenti; chissà quante volte aveva ripetuto
quei gesti, chissà cosa pensava realmente in quei momenti! Dalla
ferita, non sortì alcuna emorragia, ma soltanto un lieve gemizio
rosato, il cuore ormai riposava e nessuna forza avrebbe più sospinto il
sangue, nel suo meraviglioso percorso, fin nei più lontani recessi
delle estremità, a portarvi un tepore perduto. Deposto il bisturi su un
piccolo vassoio d’acciaio, e fissate le pareti addominali a due specie
di ganci che le tenevano aperte, il dottor Martinez mise le sue mani
guantate di lattice nella fessura, simile a due grosse labbra, allargate
in un grido infinito e, estraendone gli organi interni, riprese a
spiegarne dettagliatamente la sede e i confini.Un lezzo nauseabondo si
alzava a tratti, colpendoci come un pugno allo stomaco. Un giovane
biondo, che mi stava accanto sparì senza un gemito, accasciandosi sul
pavimento. Lo portammo fuori, dove si riprese subito, e altri due gli
restarono accanto, con l’evidente scusa di controllarne le condizioni.
La lezione, intanto, proseguiva, doveva proseguire. Sempre più
insistentemente, allora, cominciai a pensare al mistero della vita, al
perché delle cose, al senso dell’umano percorso, all’angosciante
timore della morte. Ricordavo, perfettamente, gli insegnamenti dell’amato
Epicuro, "Abituati a pensare che la morte per noi è nulla,
perché ogni bene e ogni male risiede nella possibilità di sentirlo: ma
la morte è perdita di sensazione", quindi quel morto non era più,
non sentiva niente, ma quella certezza non riuscivo ad accettarla
pienamente. Fisicamente ero lì, non perdevo un frase, né un gesto
del dramma che si consumava davanti ai miei occhi, stavo a lungo in
apnea, senza però arretrare di un passo. Con la mente invece divagavo,
sempre più distante, quasi perduto in una sorta di mare sconfinato,
dalle onde vorticanti piano, un ancestrale liquido amniotico, nel quale
volteggiavo con morbide evoluzioni. Il professore, adesso, si era
trasformato in un sacrilego, una specie di profanatore di tombe, un
essere abbietto che violava la sacralità di quelle carni, rubandone
ogni più piccolo segreto. Ecco il fegato, il pancreas, quindi, nel
mirabile scrigno del torace, i polmoni che avevano bevuto l’aria
profumata della primavera e respirato il fumo di migliaia di sigarette,
poi il cuore, lacerato crudelmente anch’esso, come a sradicargli
perfino i sentimenti, le emozioni, che l’avevano fatto palpitare.
"E’ un ladro, sta rubando tutto a questo povero vecchio, non gli
sta lasciando nulla, qui sono tutti dei ladri!". Così ripetevo,
ossessionatamente, dentro di me, mentre minuzioso annotavo tutti i
particolari della dissezione, ammirandone l’estrema perizia tecnica.
Di colpo, mi girai verso la testa ancora celata; pensai che almeno
quella rimaneva intatta, c’era dunque rispetto per la sede delle
cognizioni, delle idee, dell’identità. Il desiderio di vedere quella
faccia si fece insistente. Non mi sembrava un atto irriverente,
piuttosto un modo di non farlo sentire così solo, abbandonato, mentre
veniva divorato, freddamente, con metodo. Nessuno faceva caso a me, mi
avvicinai, e, delicatamente, sollevai il piccolo quadrato di stoffa:
vidi il collo sottile, dalle linee eleganti, il mento importante, la
bocca leggermente socchiusa, la barba bianca, lunga di qualche giorno,
le palpebre completamente abbassate sugli occhi senza luce. Non aveva un’espressione
serena, come quella che, certe volte, il trapasso depone sui lineamenti
dei defunti, anzi, sembrava paralizzato in una sorta d’angoscia
tangibile, opprimente. Risalii ancora, con lo sguardo e, oltre la
fronte, leggermente corrucciata, scorsi un vuoto che mi apparve immenso.
Il cranio era già stato aperto, il cervello non c’era più, al suo
posto una voragine senza fondo. Giuseppe Risica
Nota critica La morte è un tabù, è il tabù per eccellenza; si evita di parlarne, infastidisce, del defunto si preferisce dire "è scomparso", piuttosto che "è morto". La morte è un tabù e la dissezione del cadavere è un tema forte, parimenti evitato; nonostante gli abusi cui, soprattutto nella nostra società, è sottoposto, il corpo continua ad avere, per i credenti e i non credenti, un'aura di sacralità, un'inviolabilità che incutono rispetto e timore. Chi manipola un cadavere non lo racconta volentieri e non si ascolta volentieri chi manipola un cadavere, ci vuole coraggio a parlarne, troppo violente sono le emozioni che suscita l'argomento ma, in questo racconto, Risica è riuscito a trattare il tema della dissezione con estremo pudore, evitando la fredda impersonalità del medico ma anche l'esasperato coinvolgimento emotivo e il compiacimento letterario dell'orrore narrato, oscillando sempre, comunque, fra il distacco e la partecipazione, fra l'uomo-medico e l'uomo-scrittore/poeta, anche se alla fine è quest'ultimo a prevalere; ai macabri particolari ha alluso, suggerendoli, accennandovi, lasciando intuire al lettore, mai indugiando nella descrizione dettagliata. "Abituati a pensare che la morte per noi è nulla, perché ogni bene e ogni male risiede nella possibilità di sentirlo: ma la morte è perdita di sensazione".(Epicuro) La perdita della sensazione, il morto non è più; da questa certezza muove la dissezione. E allora il gelo, la formalina, le bianche pareti, il tavolo di marmo, sono gli elementi che relegano il racconto in una dimensione di distacco, ma poi c'è "il grido infinito" del corpo aperto all'intrusione delle mani del medico, il respiro trattenuto, "stavo a lungo in apnea", "il mare sconfinato" , " le onde", in cui si perde l'io narrante, il torace paragonato ad uno scrigno, ancor più prezioso degli altri scrigni, perché racchiude il motore pulsante della vita biologica ed affettiva, e poi l'espressione "l'aria profumata della primavera" che sembra insufflare la poesia in un evento che nulla ha di poetico, mentre resta sempre ben vigile la scientificità dello studente che annota, registra, valuta. Infine, quando lo sguardo risale sul corpo del morto per guardare davvero in faccia la morte, sollevando il "pietoso" lembo verde e facendo l'atroce scoperta, l'ultima considerazione appartiene al poeta, non al medico: "gli avevano rubato anche i pensieri"; più che una lezione di anatomia mi è sembrata una lezione di umiltà: l'uomo perplesso, stupito, inchinato dinanzi al mistero della vita e della morte. Francesca Santucci
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