La
lampada di Aladino
Diario
di un viaggio a Lalibela
di
Marinella Fiume
È
lì, sulla consolle del salotto, un oggetto apparentemente
inutile, come i regali che spesso riceviamo, un vaso stilizzato
dalla forma inusuale vicina all’antica tradizione
mediterranea, modernamente e liberamente interpretata, profilato
d’argento e avvolto da un decoro a colori vivaci, che richiama
quello delle chiese rupestri della città di Lalibela, in
Etiopia, così chiamata dal re che ne fece la sua capitale nel
1185. Un oggetto misterioso come la storia che lo ha ispirato.
Barile, l’artigiano che lo ha
realizzato, lo ha chiamato così, “Lalibela”, e il
nome, tanto dell’artista, quanto dell’oggetto, sta scritto
sul certificato di autenticità, consegnatomi con l’oggetto al
momento del regalo.
Solo apparentemente inutile. Perché da quella forma, da quei
colori, dal suono di quel nome, mi nasceva dentro una strana
curiosità verso una città di cui non avevo fin lì sentito
parlare, culminata nell’avventura di un viaggio di soli nove
giorni in occasione dell’Epifania copta, anzi, un
pellegrinaggio, che mi avrebbe consentito l’accostamento ad
una misteriosa dimensione dello spirito da cui non si può, come
da un viaggio qualsiasi, fare ritorno. Mi portava a Lalibela
l’attrazione verso il mistero e verso istanze mistiche, magari
per razionalizzare l’uno e le altre, ma avrei scoperto che è
un luogo che non dà spiegazioni, piuttosto prende e affascina,
lasciando come sospesa la ragione i cui parametri si riconoscono
inadeguati a comprendere quelle pietre, quei paesaggi, quelle
atmosfere la cui storia non ha niente a che vedere con la
nostra, come la tecnica, la scienza, l’architettura di quel
luogo non ha corrispettivo con le nostre. Cosa, cosa faceva la
differenza? Cosa determinava lo spaesamento, il mistero e mi
metteva nello stato di grazia di accoglierlo senza più
chiedermi il come e il perché, solo partecipando dell’evento. È
la notte del Keterà, la vigilia del Timkat. Nel fossato intorno
alle chiese una folla immensa di pellegrini confluita da tutte
le parti del Paese, giunta dopo un’estenuante marcia a piedi,
uomini avvolti nei lunghi e pesanti shamma bianchi sopra gli
stretti pantaloni dello stesso colore per proteggersi dal freddo
intenso della notte insonne, donne con camici lunghi fino ai
piedi ornati di nastri colorati, vecchi e bambini, storpi e
malati, cantano interminabili e ossessive nenie, seguendo il
coro dei cantori disposti lungo le trincee, pregano e meditano
alla luce di flebili torce, al tintinnio dei sistri, i sonagli
dorati agitati dai preti copti. Sono
sveglia dall’alba, stanca morta per il viaggio, ho la sbornia
per la forte escursione termica tra l’afa del giorno e il
freddo notturno, ma il sonno non mi vince. Negli occhi lo
spettacolo del giorno, durante il quale ho assistito alle lunghe
e solenni processioni che hanno trasportato fino alla vasca del
battesimo, dopo averle prelevate dai Maqdas, i sacri recinti
delle basiliche, le reliquie delle Tabot, specie di
rappresentazioni simboliche dell’Arca dell’Alleanza,
l’urna sacra di legno e oro dentro la quale furono conservate
le Tavole della Legge, le pietre dove Dio scolpì, sul monte
Sinai, i Dieci Comandamenti che consegnò a Mosè. Ora,
accoccolata sotto una tenda precaria, osservo e medito
anch’io, aspettando con gli altri l’alba del Timkat,
l’epifania, l’ultima e la più grande festa del Natale copto,
che cade il 19 gennaio secondo quel calendario religioso;
Epifania che non ricorda, come nella tradizione cattolica,
l’adorazione dei Magi, ma il battesimo di Gesù ad opera di
Giovanni il Battista nelle acque del Giordano, e segue di 12
giorni il Natale, che cade il 7 Gennaio. In tutta l’Etiopia, i
cristiani che non possono raggiungere in pellegrinaggio il luogo
sacro di Lalibela, la Gerusalemme africana, si recano presso un
qualunque corso d’acqua, una sorgente, una vasca, per
riperpetuare il rito del battesimo. Guardando
qua e là tra i crocicchi più prossimi, a volte ho
l’impressione di vedere qualcuno addormentato, però il ritmo
del respiro e l’espressione del viso mi
dicono che non è così, ma
è la meditazione profonda a farlo cadere in
trance, lo stato in cui il suo spirito si prepara
all’“epifania”, la manifestazione dell’evento. Le
luci dell’alba preannunciano col silenzio e i raggi di un sole
che sorge smagliante dalle alte montagne del Lasta e scioglie le
fredde ombre e le nenie notturne l’inizio del Timkat. Gli
sguardi della folla si drizzano allora improvvisi verso un
punto, il luogo da dove l’Abuna, il vescovo della tradizione
cristiana copta, darà il segnale. Egli si staglia in piedi
ieratico sui bordi di una grande vasca ricolma d’acqua ed ecco
fare un cenno solenne d’assenso ai diaconi, quindi alza al
cielo una croce d’oro che, con rapido movimento, immerge
nell’acqua della vasca, nella quale, subito dopo, i diaconi
spengono lunghe candele e gettano petali di fiori rossi. L’Abuna
consacra l’acqua movendovi dentro la croce e benedicendola. Alla
benedizione segue l’esplosione mistica dell’euforia,
l’ebbrezza collettiva e la gioia orgiastica del bagno santo:
l’acqua è gettata sulla folla, le madri la gettano sui
capelli dei loro figli, i bambini si tuffano dentro la vasca, i
ragazzi si lanciano secchi d’acqua, i giovani si rincorrono
gettandosi buste di plastica colme d’acqua - piccola spia di
un invasivo mondo usa e getta che a Lalibela acquista persino
una sua dignità -. L’acqua preziosa benedice la terra e gli
uomini in quella che è la stagione più secca di una terra
martoriata dalle guerre, dalle carestie e dalla siccità. Ovunque
si odono grida di gioia, di giubilo, come quelle
lanciate dalla madre del piccolo predestinato attaccato
da uno sciame di api, dopo pochi giorni dalla sua nascita nel
villaggio di Roha, segno del futuro di quel bambino regale della
dinastia salomonica cui fu imposto il nome di Lalibela, che
significa appunto: “ le api riconoscono il suo potere”. E fu
così che, compiuti 19 anni, nel 1160, egli fu costretto a
rifugiarsi a Gerusalemme, da dove ritornò nel 1185, depose
Harbay che allora regnava sulla sua stessa dinastia Zagwe, prese
il potere e iniziò la costruzione del complesso delle chiese
che, nelle intenzioni, doveva simbolicamente rappresentare
Gerusalemme; elesse Lalibela capitale d’Etiopia e lì regnò,
come pare, fino al 1211. Un altro segno il sovrano visionario lo
ricevette quando, essendogli stato somministrato del cibo
avvelenato da rivali al trono senza scrupoli, Dio lo salvò dopo
tre giorni di coma, durante i quali, in sogno, ricevette
l’ordine di costruire basiliche che nessuno al mondo aveva mai
visto, secondo un’architettura mai da alcuni concepita.< br>Questa
la leggenda e l’origine mitica della città sacra scolpita
nelle montagne in quella regione aspra e selvaggia,
irraggiungibile, dove architetti e maestranze senza nome
costruirono il più straordinario complesso di basiliche
interamente scavate nella roccia, un capolavoro di conoscenza,
abilità, pazienza e arte, i cui lavori, durati un quarto di
secolo, sarebbero serviti principalmente – secondo una
tradizione - a nascondere ai Musulmani le chiese, mentre –
secondo un’altra tradizione – scavare nel tufo bruno
rossiccio della roccia sarebbe stato l’unico modo per ovviare
alla mancanza di materiale da costruzione. Le
11 chiese della città santa sono, infatti, monolitiche,
lavorate dall’esterno e scavate in un solo blocco di roccia,
traforate per ottenere porte e finestre, archi e colonne, a
pianta a croce greca, e sembrano affiorare dal suolo nella loro
occulta collocazione ipogea. Per questo una tradizione vuole
costruito questo monumento litico unico al mondo dai Templari in
difesa della Cristianità, mentre, come accade davanti allo
straordinario che suole spingere lo spirito a rivolgersi al
soprannaturale, una leggenda tramanda che il re Lalibela fu
aiutato dagli Angeli nell’impresa miracolosa. E certo è
inevitabile che la ragione si smarrisca davanti al mistero di
questa straordinaria città sotterranea, fatta di cunicoli,
gallerie, trincee, nella quale le basiliche affrescate sono
distribuite su due siti: nel primo, quelle di Biet Golgotha and
Salassie, che ospita al suo interno la tomba del Re, di Maryam,
la più antica, di Masqual, di Dengel o Casa delle Vergini, in
ricordo del martirio delle donne del monastero femminile
di Edessa uccise nel IV secolo per ordine dell’imperatore
Giuliano l’Apostata, e di Medhame Alem (il “Redentore del mondo”); nel
secondo, quelle di Biet Emmanuel, Abba Libanos, Merqurios
Gabriel. Mentre, isolata e appartata, completamente incassata
nel suolo per 12 metri, c’è Biet Giyorgis, la più
monumentale, che sale dalle viscere della terra riaffiorando tra
tappeti di licheni, in questo ombelico del pianeta in cui trova
estrema sintesi la religiosità etiope, l’esoterismo dei
Templari e il mistero dell’Arca dell’Alleanza. Lalibela,
un po’ più a sud di Axum, costituisce il vertice di un ideale
triangolo con Gondar e Bahar Dar, sul lago Tana, da dove nasce
il Nilo Azzurro. Proprio dall’ex capitale di Axum, costruita
intorno al 100 a.C., la prima a convertirsi al Cristianesimo,
partì l’evoluzione culturale del Paese. Secondo il Vecchio
Testamento, la città è il luogo di nascita della regina di
Saba, la sposa di re Salomone, del cui palazzo si possono ancora
ammirare le rovine. E la leggenda vuole che gli Etiopi
discendano dalla regina di Saba, la quale si recò a Gerusalemme
per far visita al re Salomone, si unì a lui e partorì Menelik,
il cui nome significa “figlio del saggio”, capostipite della
dinastia degli imperatori d’Etiopia. Chiude
il cerchio magico del mio pellegrinaggio la visita di Axum,
capitale degli Axumiti, famosa per le sue misteriose stele
monolitiche. Qui vide i natali la regina di Saba, il cui regno
si estendeva dalla penisola indarabica all’Africa orientale,
allo Zimbawe, area di scambi tra Oriente e Occidente di merci
preziose - profumi, spezie, oro, gemme, tessuti, avorio – la
cui fama fu pari a quella di Roma, Bisanzio e della Persia.
Sulla scorta di conoscenze ed emozioni suscitate da questi
luoghi di lunga memoria, hai bisogno di credere anche tu, come
tutti, che le pietre che stai calpestando sono quelle del
palazzo e del bagno della regina e che le porte chiuse di quella
costruzione moderna rinserrano l’originale dell’Arca
dell’Alleanza, custodito da un vecchio guardiano. Quando
l’aereo mi riporta a casa, dopo le effusioni sfrenate dei miei
due cani impazziti dalla gioia del mio ritorno, approfitto di un
attimo di solitudine per avvicinarmi a quello strano vaso
decorato che
giace ancora,
apparentemente inerte, sulla consolle del salotto e da cui,
come
il Genio dalla lampada di Aladino, è promanata l’originaria
fascinazione di Lalibela. Mi rendo conto che è cambiato
qualcosa in me dalla partenza, perché non da tutti i viaggi si
fa ritorno, e penso
che ora, forse, posso ripetere il gesto del Genio che rientra
nella lampada dopo avere esaudito il desiderio di chi l’ha
sfregata.
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