La
ballata di Yossiph Shyryn
dello scrittore linguaglossese Santo Calì (1918- 1972),
pubblicata a Trapani nel 1980 a cura di Nat Scammacca, con
introduzione di Giuliano Manacorda e traduzione inglese di
Jack Hirschman a fronte, è stata recentemente rieditata a
cura dell’Arci Sicilia, con un’appendice delle 16 belle
tavole realizzate come illustrazioni pittoriche da
Sebastiano Milluzzo - amico e frequentatore della stessa
fucina d’arte che fu, in quegli anni, la tipografia
catanese di Vincenzo Di Maria - per la prima edizione del
lungo poemetto che vide la luce all’interno del primo
volume dell’Antigruppo 73. Orami introvabile in
libreria, la ripubblicazione dell’opera poetica più
matura del Calì, nel trentennale della morte, si colloca,
come scrive nella prefazione Giovanni Miraglia, a
"parziale risarcimento (…) nei confronti di un poeta
che gode di attenzione e rispetto presso lettori attenti e
importanti nel continente italiano e all’estero (…), ma
che, paradossalmente, è pressoché sconosciuto alle giovani
generazioni di lettori siciliani, perché, a ben vedere,
Calì è un autore niente affatto commerciale, difficile e
protestatario e la pubblicazione di una sua opera non può
non apparire diseconomica alle laccate e conformiste case
editrici italiane ".
Il
catalogo del catanese "Centro Culture Contemporanee ZŌ”,
dove è avvenuta la presentazione del volume, ha inquadrato
molto opportunamente l’iniziativa puntando sulla
straordinaria operazione linguistica della ballata "al
confine fra il linguaggio delle neo-avanguardie e l’utilizzo
del dialetto siciliano come una lingua dell’accoglienza
capace di descrivere una particolare condizione umana anche
attraverso i prestiti delle lingue altre (…) di un autore
che agiva localmente e pensava globalmente già cinquant’anni
addietro – fino ad esser notato dai beatniks di San
Francisco e ad essere tradotto e pubblicato negli Stati
Uniti ed in Inghilterra". E questa definizione di lingua
dell’accoglienza da parte di giovani intellettuali del
nostro tempo dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, la
grande attualità - e l’universalità - del linguaggio e
del messaggio poetico del Calì, la cui portata in tal senso
non pare aver nulla da invidiare ai classici.
Il
pastiche del linguaggio del poema che ha a
protagonista l’emigrato siculo-arabo Giuseppe Cirino,
operaio di Henry Ford, con le sue esilaranti contaminazioni
di siciliano, arabo, francese, tedesco, latino, americano, e
persino tahitiano - lingua delle nostre metropoli
occidentali colorite dai vu cumprà – è insieme l’espressione
di una satira che investe l’intero Occidente capitalistico
dell’epoca da Ford a Nixon e rimbomba, per noi lettori di
terzo millennio, sull’oggi del nostro pianeta globalizzato.
E,
dentro la satira politica, quella, a sangue, poetica contro
la neo-avanguardia del Gruppo 63 dei vari Pagliarani,
Scheiwiller, Balestrini, Sanguineti, Manganelli, Giuliani,
Leonetti, che, rifiutata l’ideologia come chiave
interpretativa della realtà, dissacrata come
"merce" la letteratura, ormai incapace di
significare e di comunicare, teorizzarono un linguaggio
poetico come mimesi del caos. Ne derivò un linguaggio
basato su asintattismi, nonsense, uso ludico del
significante, parola come corpo fonico, gioco intellettuale
e divertissement attraverso l’uso di anglismi e lingue
morte.
La
generazione di chi scrive che riempiva le università e i
cortei nel ’68-‘69 e che era stata allieva del
professorino rivoluzionario al Liceo non capì l’operazione
compiuta dal Calì con l’Antigruppo e, non senza
imbarazzo, ne bollò le posizioni come attardate e
provinciali, mentre non mancarono intellettuali della
statura di Calvino, che, polemizzando con le
neo-avanguardie, ebbero a contrapporre il logos al caos
e a diffidare dall’ "arrendersi al
labirinto", lanciando anzi un’idea di letteratura
come "sfida al labirinto". Si ergeva a difesa del
gruppo Angelo Guglielmi che, sul Menabò, criticava il
saggio di Calvino, scrivendo che il pastiche ha per
proprie virtù fisiologiche una forte carica svalorizzante
degli ingredienti di cui si alimenta, che diventa una carica
demistificante dei falsi significati della società attuale.
È lo stesso pastiche che, mutato di segno, il Calì
userà contro i loro teorizzatori, poeti
"borghesi", accusati di usare il "neobaccaglio
dei padroni". Sulla linea di resistenza per la
conquista dell’autenticità comunicativa della poesia si
colloca il Calì, non solo per l’alta concezione della
letteratura che gli deriva dalla profonda conoscenza del
patrimonio classico, ma per il suo essere costantemente ed
essenzialmente un poeta impegnato e, poichè gli ultimi
esistono ancora in ogni fase di capitalismo, sulle loro
sofferenze, sul loro sfruttamento, sulla loro sempre più
difficile possibilità di riscatto non è lecito giocare né
tacere. È questa la magistrale lezione che proviene da
questa ballata, una lezione come sempre antesignana e
attualissima in questa nostra società multietnica e
multiculturale. Ma la poesia, si sa, quando è autentica,
prevede e anticipa i tempi. Ed evidentemente quella di Santo
Calì è poesia autentica.