I Turchi al castello

 degli schiavi

di

Marinella Fiume

 

 Il castello, una villa barocca di campagna costruita sui ruderi di una villa romana, ha quattro torrette agli angoli dove sono scolpiti occhi e orecchie di pietra lavica per ricordare ai picciotti che lavorano nel feudo che i padroni ovunque li vedono e perciò non si mettessero a cantare e babbiàre aspettando di vedere calare l’ombra proiettata sulla falce dal dito medio della mano che la impugna. Dalle inferriate delle balconate che poggiano su cagnòli di pietra lavica pendono, per rischiarare l’atrio la sera, minne di vacca sospese tra strofe di campadaria dai fiori ciclamino. Nel piano superiore, dalla loggia, si affacciano due statue di corsari mori, prigionieri dei castellani, loro che una volta, ancorata la galera nei pressi del fiume per l’acquata, fecero irruzione nel castello. “Focu, focu ranni!” gridarono le donne atterrite, cercando un posto dove andarsi a impertugiare coi loro allévi per nascondersi al castìo di Dio, travolgendo nella corsa le graste della menta e dei gigli del sacro cuore striati di bianco e vermiglio. I massari e i contadini accorsero, misero mano ai forconi, ai bastoni, alle scopette; ma quelli si fecero strada con le scimitarre, entrarono nelle stalle, rovesciarono le giare di olio, i sacchi di farina, si allipparono alle botti di castagno, tagliarono i colli alle anatre, sbudellarono i maialetti più teneri, fecero scorrere vino e sangue.
Donna Ada, al piano nobile, sentì giunta la sua ora, si vide scannata come ciarella, sprimacciata nella stia della nave sotto il fetore selvaggio e il lardo affumicato della mandria ottomana, gettata ai pesci del mare o venduta schiava, lei e i suoi figli, sangue suo, destinati a pagare per lei. Si lasciò cadere sul cuscino ricamato dell’inginocchiatoio, strinse il rosario di madreperla tra le mani di cera e chiese perdono della sua carne sensuale maritata troppo giovane, dei suoi pensieri torbidi, delle lunghe cacciate del barone nelle notti in cui si era perduta tra il profumo del gelsomino arabico penetrato dal balcone, insieme a quello, aspro e maschio, del giovane taorminese. Ah, come mille volte di più avrebbe preferito morire per mano del marito, riscattando almeno col sacrificio diretto la sua colpevole passione e placando infine quel cane del rimorso allippato nel cuore! Non di meno era il momento di rendere conto dei propri peccati: “Oh Madonna della lettera, vergine pura come giglio, se è vero il mio pentimento, perdonatemi, salvatemi, e io mai più… mai più… ve lo prometto, ve lo giuro per quel vostro figlio crocifisso senza macchia come questi miei sventurati figli. Mai più… dovessi patire le pene dell’inferno…”.
Non aveva finito il suo atto di contrizione, che avvertì, acuto, un profumo di gelsomino arabico misto a uno aspro, di maschio. Nello Corvaya, dalle alture di Taormina, mentre spasimava davanti a quel lume acceso nella camera da qualche giorno inaccessibile della baronessa, aveva visto il vascello e, raccolta una banda di uomini, si era precipitato al castello giusto in tempo per sbarrare ai corsari la strada verso il fiume e liberare gli schiavi.
Non ebbe cuore la spergiura di mantenere il voto, ma alla Madonna della lettera miracolosa fece edificare la chiesetta attigua al castello col bell’altare di marmo rosa di Taormina.