Francesca Santucci

ISABELLA MORRA

(1520-1546)

 

 

                         

Degno il sepolcro, se fu vil la cuna…

 

Breve e infelicissima, legata a storie di sangue e di barbarie, fu la vicenda terrena della poetessa Isabella Morra, uccisa dai fratelli a soli ventisei anni, nel 1546, nel castello di Morra, e la cui esistenza, troncata dal tragico finale, sembra racchiudere tutti gli elementi di un romanzo romantico.
Nacque da famiglia patrizia nel 1520 a Favale, l’odierna Valsinni, un piccolo suggestivo borgo arroccato su un’estrema propaggine del Pollino, tra Lucania e Calabria, dov’era il feudo familiare, così descritto da Benedetto Croce:

Il piccolo abitato è aggrappato e come conficcato nelle falde del ripido colle, che il castello sovrasta: il castello, anch’esso scosceso per tre lati e inaccessibile […] Dal lato verso borea, che è quello dell’ingresso, si vede dai suoi spalti svolgersi a valle in lungo nastro il Sinni, che ha qui il suo corso più stretto, e qui si gonfia torbido e impetuoso, e il suo mormorio accompagna l’unica vista dei monti tra i quali è rinserrato, tutti nereggianti di elci e di querce. Quella vista aveva davanti agli occhi immutabile, quel mormorio udiva incessante la giovane Isabella […].

Per sottrarsi ad un processo, suo padre, il barone Gian Michele di Morra, partigiano dei Francesi, incorso nell’inimicizia col principe di Salerno, era stato costretto a emigrare prima a Roma, poi in Francia, alla corte di Francesco I, del quale era grande sostenitore, insieme al figlio Scipione, colto e di animo gentile, al quale Isabella (sua gemella) era molto legata, lasciando la moglie, Luisa Brancaccio, ed i figli (Isabella ancora bambina), nelle terre di famiglia, sul fiume Sinni in Lucania.
Isabella crebbe, dunque, chiusa nella solitudine del denigrato sito, (il castello paterno), collocato a picco sul mare (sull’infelice lito), sotto la tutela dei fratelli rozzi, incolti e sempre più imbarbariti nel loro isolamento, che la detestavano e la tenevano segregata nel sinistro maniero, trovando unico riparo alla sua solitudine, unico conforto alla sua sofferenza, nelle letture dei classici e nelle fantasticherie, componendo versi, ma lontana dalla società letteraria del Regno di Napoli (del quale faceva parte anche la Lucania).

 

I FIERI ASSALTI DI CRUDEL FORTUNA

I fieri assalti di crudel Fortuna

scrivo, piangendo la mia verde etate,

me che 'n si vili ed orride contrate

spendo il mio tempo senza loda alcuna.

Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,

vo procacciando con le Muse amate,

e spero ritrovar qualche pietate

malgrado de la cieca aspra importuna;

e, col favor de le sacrate Dive,

se non col corpo, almen con l'alma sciolta,

esser in pregio a più felici rive.

Questa spoglia, dove or mi trovo involta,

forse tale alto re nel mondo vive,

che 'n saldi marmi la terrà sepolta.

 

A lungo attese il ritorno del padre e del fratello, nella speranza che potessero andare a prenderla per portarla in Francia, ma invano: suo padre era morto, ed il fratello, che viveva a corte, era ormai dimentico di lei.
Un precettore, spinto dall’affetto e dalla pietà per il suo destino di solitudine, favorì la conoscenza e la corrispondenza di Isabella col trovatore Diego Sandoval de Castro (castellano spagnolo e governatore di Taranto che, occasionalmente, soggiornava presso il feudo di Bollita, poco lontano da Favale), il quale, appreso della triste condizione della giovane, per alleviare le sue pene, cominciò ad inviarle lettere e componimenti poetici, avvalendosi del nome della moglie, Antonia Caracciolo, con la quale Isabella probabilmente era in contatto.
I fratelli, ignoranti e possessivi, scoperta la corrispondenza, e convinti che tra i due ci fosse una relazione amorosa, infuriati per essere stati oltraggiati nell’onore di padroni e custodi della sorella, ed anche smaniosi di punire il nemico spagnolo, attuarono una tremenda vendetta: uccisero prima il precettore che li aveva aiutati, poi, nel timore che rivelasse i loro delitti, pugnalarono Isabella, ed infine diedero la morte anche al Sandoval, attirandolo in un tranello nel bosco di Nola, dove lo assassinarono con la complicità di due zii. Circa sei anni dopo la morte di Isabella, il suo esiguo “Canzoniere” fu reso noto (1652) a Venezia da Ludovico Dolce in una raccolta antologica: da allora mai è venuto meno l’interesse per la sua sventurata esistenza barbaramente troncata e per i suoi dolenti versi.

Anima ardente, se altra mai, arde ancora tutta nei superstiti suoi versi. Questa immediatezza passionale, questo abbandono al sentimento, è la virtù della migliore poesia femminile, e ne è anche d’ordinario il limite… Ma la giovane donna, che soffriva e desiava e sognava e si dibatteva in quel selvaggio angolo della Basilicata, e aveva nel cuore l’anelito alla bellezza dell’arte, più volte si solleva sull’èmpito degli affetti e rappresenta da poeta.
(Benedetto Croce)

Della produzione di Isabella Morra, rivalutata nel ‘900 da Benedetto Croce che, incuriosito dalla particolarità dei suoi versi, ne riconobbe il valore di poesia immortale e addirittura si recò in Basilicata per indagare personalmente sulla vita della sventurata poetessa, restano miracolosamente un esile canzoniere, le “Rime”, tredici componimenti, dieci sonetti e cinque canzoni, che rappresentano l’impetuosa autobiografia e ne rivelano l’indole malinconica e appassionata, ma sono anche testimonianza della sua dotta e raffinata cultura.
Dimostrando di aver ben assimilato la lezione del Petrarca, considerato sommo maestro da tutti i lirici cinquecenteschi, per Isabella, definita la Saffo lucana, il petrarchismo resta solo un vago punto di riferimento, e rivela sensibilità e suggestioni tassiane ed anche leopardiane (il natio borgo selvaggio e l'invettiva alla crudel fortuna), con la trasfigurazione lirica del paesaggio, che diventa partecipe dei suoi stati d’animo, e con la tragicità e la potenza delle immagini con cui esprime il suo tormento.
Nelle “Rime”, in cui non si ritrova traccia della tematica amorosa (indizio questo che avvalorerebbe il fatto che la corrispondenza col Sandoval fosse solo letteraria, e non una tresca amorosa come sospettarono i fratelli) e che vertono sulla sua vicenda esistenziale, sull’ansia di libertà, sulla volubilità della fortuna, sull’avversa sorte, sulla vana ed ansiosa attesa del ritorno del padre lontano, Isabella lamenta la drammatica condizione di reclusa e protesta contro il destino sfavorevole ma, nei componimenti di ispirazione religiosa, sembra accettare, in accorata esaltazione mistica, l’infelice destino terreno.

 

D'UN ALTO MONTE ONDE SI SCORGE IL MARE

 

D' un alto monte onde si scorge il mare

miro sovente io, tua figlia Isabella,

s'alcun legno spalmato in quello appare,

che di te, padre, a me doni novella.

Ma la mia adversa e dispietata stella

non vuol ch'alcun conforto possa entrare

nel tristo cor, ma, di pietà rubella,

ha salda speme in piano fa mutare;

ch'io non veggo nel mar remo nè vela

(così deserto è l'infelice lito)

che l'onde fenda o che la gonfi il vento.

Contra Fortuna allor spargo querela,

ed ho in odio il denigrato sito,

come sola cagion del mio tormento.

 

Il sonetto  D' un alto monte onde si scorge il mare  è un dialogo col padre lontano, nell’attesa vana di un messaggio che arrivi dal mare.
Dall’alto del monte in cui si trova il castello, nei versi iniziali  Isabella, in nome di un vincolo di consanguineità fortemente affermato, sottolineando continuamente la condizione filiale (io, tua figlia Isabella, dite, padre, a me), si rivolge al padre; dalla seconda quartina, però, al dialogo si sostituisce il soliloquio, passando dall’autocommiserazione, all’amara constatazione della solitudine e dell’assenza, alla protesta contro il denigrato sito, il luogo odiato che è l’unica cagion del suo tormento.

 

TORBIDO SIRI, DEL MIO MAL SUPERBO

 

Torbido Siri, del mio mal superbo,

or ch'io sento da presso il fine amaro,

fa' tu noto il mio duolo al padre caro,

se mai qui 'l torna il suo destino acerbo.

Dilli com'io, morendo, disacerbo

l'aspra fortuna e lo mio fato avaro,

e, con esempio miserando e raro,

nome infelice e le tue onde io serbo.

Tosto ch'ei giunga a la sassosa riva

(a che pensar m'adduci, o fiera stella,

come d'ogni mio ben son cassa e priva!),

inqueta l'onda con crudel procella,

e dì: - M'accrebber sì, mentre fu viva,

non gli occhi no, ma i fiumi d'Isabella.

 

Famosissimo è il sonetto Torbido Siri, del mio mal superbo, dialogo col padre lontano, nell’attesa vana del suo ritorno.
E’ questo l’estremo messaggio - maturato probabilmente con la consapevolezza dell’imminente fine cruenta, di Isabella al padre lontano, esule in terra di Francia, del quale attende il ritorno-affidato al fiume Sinni, il torbido Siri, testimone dell'infelicità e del pianto di Isabella, così copioso che accresce il torbido corso del fiume, tanto che gli occhi dell’angosciata creatura si mutano addirittura in corsi d’acqua, i fiumi di Isabella, e memoria della sua triste vicenda.
Nonostante la reiterata lamentazione per la propria sorte infelice, definita aspra fortuna, fato avaro, fiera stella, comune a tutte le donne vittime di una realtà ostile, che impedisce loro la libera espressione di sé, nei versi Isabella ostenta fiero compiacimento per il proprio io, simbolo di sventura.
La poesia di Isabella Morra da sempre conquista immediatamente in virtù della romantica vicenda alla quale rinviano i suoi versi, tuttavia sarebbe ingiusto considerarla esclusivamente una testimonianza autobiografica, perché la sua voce poetica non è solo illuminante della personale storia di segregazione, solitudine e violenta morte. L’espressione del suo tormento e del suo dolore trascende il privato, offrendo occasioni di meditazione e riflessioni universali che la rendono degna di essere ascritta nella storia del petrarchismo.

 

Bibliografia

Baldacci L., Lirici del Cinquecento, Longanesi, Milano, 1975.

Croce B, Isabella di Morra e Diego Sandoval De Castro, Sellerio, Palermo, 1983.

Grignani M. A., Introduzione alle Rime di Isabella di Morra, Salerno Editrice, Roma, 2000.

Montesano P., Isabella di Morra Storia di un paese e di una poetessa, con l'inedito carteggio Croce-Guarino, Altrimedia Edizioni, Matera-Roma, 1999.

Cambria A., Isabella. la triste storia di Isabella Morra. Venosa, Osanna, 1997.

Santucci F., Donna non sol ma torna musa all’arte, Il Foglio, Piombino, 2003.