Gianmario Lucini
Innovazione,
conservazione e
salvezza nella poesia
Nel mio “lavoro” di critico o che tale cerca di essere, spesso mi sono chiesto se esista un criterio di demarcazione fra quello che è poesia e quello che non lo è, fra quello che è innovazione poetica e ricerca linguistica e quello che è semplicemente abbaglio, fra innovazione e conservazione. Ovviamente è un’impresa disperata, quella di rispondere a domande come questa, se la risposta intendesse proporsi come verità; ha senso invece il porsi delle domande e vorrei qui dedicare alcune riflessioni a una di queste, ossia: perché questo scontro fra innovazione e conservazione, così aspro che non sembra trovare possibilità di dialogo, e che conseguenze ne possono derivare. Per alcuni la poesia quasi essenzialmente coincide con l’originalità delle soluzioni trovate (dal punto di vista dei contenuti, dello stile, del linguaggio, delle soluzioni metriche, dell'atteggiamento di rottura con le esperienze poetiche precedenti e coeve, ecc.) e per altri la poesia acquista un certo valore soltanto se, dal punto di vista stilistico, si avvicina ai canoni tradizionali. Fra questi poli estremi, vi sono poi molte soluzioni intermedie: ad esempio chi insieme a banalità di contenuti triti e ritriti da quasi un millennio, adotta soluzioni innovative e dinamiche sul piano stilistico; chi adotta uno stile tradizionale per esprimere contenuti originali e innovativi; chi pasticcia con i teoremi delle cosiddette “scuole”, chi cerca di avvicinarsi alla prosa, chi alla pittura, chi scambia le emozioni con esternazioni, ecc. Si potrebbe peraltro osservare che la ricerca di originalità, in ultima analisi, è solo paura della morte (psicologica) e dell’oblìo; che è connaturato nell’uomo il desiderio di lasciare qualcosa dopo di sé che superi la morte e che sia legato al suo nome, al suo ricordo. E' un'idea vecchia come il romanticismo e forse di più, ma sempre viva. Oppure si potrebbe ipotizzare che la ricerca di originalità espressiva appaga alcune istanze dell’Es, o un certo narcisismo intellettuale, o una certa visione estetica che considera sullo stesso piano il plagio e il “rifarsi a”, o mille altre spiegazioni, comprese alcune molto meno complesse di quelle fin qui addotte (ad esempio l’ignoranza della tradizione e del suo patrimonio). Insomma, si vede nella ricerca dell’originalità la ricerca di una “salvezza” della propria opera e, probabilmente, del proprio Io, un de-finirsi (che è anche un in-finire) nel tempo. Ma anche la ricerca di fondamenti certi, tipica dei “tradizionalisti” è, in ultima analisi, una ricerca di salvezza, un aggrapparsi a una regola indiscutibile che possa avvallare “obiettivamente” qualcosa - come l’arte - che sembra eludere ogni ragione obiettiva e sembra trovare soltanto giustificazioni soggettive, argomentazioni fin che si vuole acute e convincenti, ma non per questo verità indiscutibili. In questo caso la tradizione è una specie di riprova che, tutto sommato, scrivendo in un certo modo si scrive poesia, perché quel modo di scrivere ha ottenuto ampi consensi, e pertanto si impone d'auitorità. E’ così che, inviluppati in questi schemi, molti poeti paradossalmente si bloccano, mentalmente, non tanto perché smettono di scrivere, ma perché scrivono sempre le stesse cose o ripetono con parole diverse quei costrutti poetici che altri, al giusto momento, hanno prodotto in forma originale. Altri (gli avanguardisti) invece si sgonfiano perché, dopo l’orgia delle ideologie, al fondo del barile non rimaner più nulla e quando si tratta di fare l’inventario di quello che si è prodotto, i conti non sembrano mai tornare, nel senso che la rivoluzione è rimasta sulla carta e tutto procede come prima e forse peggio di prima - perché anch’essi, o di riffe o di raffe, in qualche modo entrano in questa “tradizione” che altri contestano, vedendosi appioppati anche l’etichetta di “traditori” di non si sa bene che cosa. E’ pertanto indispensabile che ogni poeta, prima o poi (ma meglio al più presto possibile) rifletta sul proprio modo di collocarsi nella antinomia innovazione/tradizione. Ossia: perché scrivo? Che cosa o chi, mi spinge a farlo? Rispondersi che non c’è un “perché”, a mio soggettivissimo parere, è un ulteriore mentire a se stessi, infantile e dannoso. Non voglio qui avanzare nessuna ipotesi e, per dirla schietta, anche chi scrive non ha mai chiuso questo argomento e periodicamente si trova a scontrarsi con problematiche che pensava di aver risolto da tempo. Considero la questione irrisolvibile, perché mi rendo conto che, da un lato, se non ci fosse la tradizione non ci sarebbe la poesia stessa, e se non ci fosse innovazione non potrebbe esserci la tradizione stessa (che, a rigor di logica, non è altro che il frutto delle novità che si sono sedimentate nella storia della poesia, divenendo tradizione). Non ci sarebbe stato un Dante senza i poeti latini, la poesia provenzale e siciliana, i contemporanei stessi che egli superò come innovatore. Ma, parimenti, non avremmo avuto questa nostra letteratura senza Dante. E, sempre a rigor di logica, non è possibile pensare a nessuna avanguardia senza una tradizione che faccia da capro espiatorio alle bordate dell’avanguardia - quasi tutte le avanguardie hanno infatti avuto una certa vitalità fino a quando hanno potuto scagliarsi contro questo o quell’elemento della tradizione, per il solo fatto che era un elemento della tradizione; bruciata questa paglia, le avanguardie sono sempre state velocemente riassorbite e spente, lasciando peraltro dei vuoti paurosi di motivazione nei poeti che hanno visto in esse un punto di riferimento teorico. Ma se anche la questione è irrisolvibile, non per questo è una questione oziosa. E’ la dimensione della ricerca e della critica dalla quale può nascere qualcosa di veramente personale, perché la critica per sua natura tende a superare proprio il momento esteriore, appariscente del fenomeno, per cercare di spiegarne la natura più profonda e ricca di implicazioni. Soltanto dalla critica può nascere una personale poetica, ossia un gioco di regole linguistiche e di soluzioni estetiche che il poeta costruisce da se stesso nel tempo, sperimentandone l’effetto. Senza una poetica non si può ascoltare la propria poesia, ma si ascolterà sempre quella di qualcun altro, e sicuramente prima o poi ci si troverà nella più totale confusione, in una impasse creativa che non ha la caratteristica di quelle crisi di ispirazione che a volte molestano l’artista (e che prima o poi si risolvono) ma di una confusione intellettuale irrefrenabile. Se ne vede molta, di poesia siffatta, su Internet (e, ovviamente, non soltanto su Internet). Peggiore della brutta poesia (che può sempre, in qualche modo, emendarsi) e insieme tracotante e perentoria, la poesia della confusione e dell’a-poeticità (che a volte viene definita come dilettantismo, che però è un altro fenomeno, a mio avviso non negativo come questo di cui stiamo parlando) mette sotto accusa il mondo intero, si erge e predica, si propone in modo vatico e allucinato, come se l’essere vate e allucinato sia, di per se stesso, una garanzia di poeticità. Una poesia dunque, che è anche ribellione contro tutto e contro tutti, che non di rado si erge ad anti-poesia, sull’onda di una irrefrenabile febbre speculativa e che, lungi dal sottoporre essa stessa a doverosa critica, si lascia alla foga della passione distruttiva in versi che durano il tempo di una scintilla. La poesia viene così asservita ad altri scopi, che sono altrettanto leciti (come la polemica, la critica, la dissertazione) ma non sono poesia, perché troppo collocabili in uno specifico tempo e luogo, mentre la poesia tende a superare i limiti temporali e spaziali, perché nasce da una essenza dell’umano-simbolico che è da sempre e parla a tutte le ere e a tutte le età, ed è la voce immediata di questa relazione dell’umano col mondo, vedendosi in esso come evento. Viviamo in un tempo che sembra voler dimenticare questo rapporto - che non c’entra nulla con la tradizione, ma con l’essenza stessa della poesia, con la sua ontologia - ed è pertanto necessario che la poesia cominci a curarsi di se stessa non tanto spiegando ad altri cosa essa sia, ma ritrovando la sua vera voce, la sua sapienza, il modo genuino di rapportarsi col mondo, lo stesso che ha attraversato i secoli dai poemi assiro-babilonesi sino ai giorni nostri. Una voce che è dentro ogni poeta, diversa per ogni poeta, originale e unica, come la personalità di ogni singolo essere umano.
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