Francesca Santucci

Giuditta e Oloferne

 nell’interpretazione di Caravaggio

 

 

Fu col Caravaggio, uno dei personaggi più straordinari della storia dell’arte, prototipo d’un nuovo genere di artista, ribelle ad ogni tipo di convenzione, ma profondamente innovatore della pittura italiana fra il Cinquecento e il Seicento, che in pittura irruppero l’ombra ed il mistero.
L’intuizione fondamentale, la scintilla caravaggesca che rivoluzionò la pittura, fu, infatti, la nuova dualità luce-ombra, la luce (raggi diagonali che proiettano ombre molto scure sulle figure che, così, emergono dalla tenebra con drammatico rilievo) che squarcia la scena come un lampo, che penetra come una sciabolata nella materia pittorica, illuminando anche l’angolo più buio, un volto, una ruga, un panneggio, la piega d’una veste, proprio come il divino può illuminare la vita di quei diseredati così ben ritratti.,  
E forse fu proprio la sua vita maledetta, irrequieta, disperata e violenta, trasgressiva fino all’assassinio, a condurlo alla rappresentazione di tanti soggetti sacri raffigurati come poveri uomini, miseramente vestiti, dalle unghie sporche e dai piedi infangati, rendendo, in bisogno di cercare ed affermare la necessità della Grazia nella vita del peccatore e la presenza del divino nel ceto più umile, paradossalmente, proprio lui, vissuto ai margini, tanto lontano dalla Fede, profondamente religioso e, pittoricamente, fortemente espressivo della presenza di Dio, attraverso vere e proprie istantanee della Storia del Cristianesimo.
Caravaggio amò rappresentare temi biblici, ma amò anche la rappresentazione immediata, violenta, non edulcorata, attraverso un linguaggio di intenso realismo, come in “Giuditta e Oloferne”, in cui fissò sulla tela il momento culminante  (la decapitazione) della storia dell’eroina biblica che, per salvare Betulia, la sua città, dall’assedio, e difendere la fede, mozza la testa al capo delle truppe nemiche, precedentemente addormentato: il generale assiro Oloferne.
L’episodio di Giuditta e Oloferne in pittura è stato uno dei più rappresentati  dell’Antico testamento, perché l’immaginario dei maggiori artisti di ogni secolo proprio non poteva non essere colpito dalla drammaticità della storia della donna virtuosa che si macchia di tirannicidio per salvare il suo popolo oppresso, oltre che dall’eterno conflitto Bene/ Male (Giuditta simboleggia la fedeltà, e, in generale, il Bene; Oloferne, invece,  la potenza pagana accecata dall’orgoglio, dunque il Male).
Il tema del tirannicidio, già di per sé drammatico, fu variamente declinato ruotando sempre, come si evince già dai titoli delle composizioni (Giuditta al banchetto di Oloferne, Giuditta che uccide Oloferne, Giuditta insieme all’ancella, Il trionfo di Giuditta) intorno ai tre personaggi principali, Giuditta, Oloferne e la serva, ma la protagonista assoluta, anche se nell’iconografia tradizionale sovente è affiancata dall’ancella, come se condividere la scena  potesse in qualche modo smorzare  la violenza e l’orrore dell’efferato delitto, resta l’ideatrice ed esecutrice del tremendo progetto.

Mantegna, Giuditta con la testa di Oloferne


Nel 1490 Mantegna eseguì il dipinto Giuditta con la testa di Oloferne, perfettamente s’ispirato al passo biblico che riferisce come, eseguita la missione, Giuditta (che, più che difendere la sua città, difende Gerusalemme, il tempio e la fede del suo popolo; mentre Oloferne, combattendo contro Issale, in realtà combatte contro Dio) esca dalla tenda del generale e consegni la testa all’ancella, che la pone nella bisaccia. 
Costruito come una scena teatrale, immerso in un’atmosfera quasi astratta, in cui le figure spiccano contro il fondo scurissimo, sul quale s’intravedono il letto decorato (simbolo di ricchezza e prestigio, perché allora il letto faceva parte del mobilio dei re e dei ricchi, mentre i poveri dormivano per terra) ed un piede di Oloferne, c’è la tenda, che costituisce una specie di sipario simbolico attraversato da Giuditta che, livida in volto, terrea nelle carni, in posa distaccata, depone nella sacca offerta dall’ancella il capo del tiranno, volgendo il volto sul quale si staglia un’espressione fra l’addolorata e l’inorridita.
Nella composizione spiccano gli elementi macabri, il piede del cadavere, la testa recisa, la spada impugnata da Giuditta, ma è lo sguardo malinconico dell’eroina ad imprimere drammaticità alla rappresentazione.

 Botticelli, Il ritorno di Giuditta a Betulia

 Botticelli, Oloferne trovato ucciso


Nel 1472 anche Sandro Botticelli compose sul tema due tempere su tavola: Il ritorno di Giuditta a Betulia e Oloferne trovato ucciso. Nella prima è rappresentata Giuditta, giovane, bella e malinconica, la scimitarra nella mano destra, un ramoscello d’ulivo, simbolo di pace,  nella sinistra, che, seguita dall’ancella con  la bisaccia contenente la testa di Oloferne adagiata sul capo, ritorna vittoriosa verso la città natale, mentre sullo sfondo i suoi concittadini preparano l’attacco all’esercito nemico; nella seconda la scena è ambientata all’interno della tenda del generale, dove, collocato in primo piano, c’è il corpo decapitato, che viene ritrovato dai  soldati sconvolti, il mattino dopo l’uccisione, avvenuta eccezionalmente di notte, durante il sonno, poiché gli antichi semiti evitavano di uccidere di notte, ritenendola sacra.
Nel 1530 Cranach il Vecchio, nel quadro Giuditta con la testa di Oloferne, raffigurò, contro un fondo nero, Giuditta sfarzosamente abbigliata secondo la moda del tempo, con un elegante cappello piumato. La raffinata fisionomia  della donna contrasta con l’orrore destato dalla testa recisa del nemico, dipinta con macabro realism,o sia nei tratti irregolari del volto dal livido pallore, sia nella descrizione del collo reciso.
Agostino Carracci, fratello del più famoso fratello Annibale e cugino di Ludovico, con i quali spesso lavorò,  fra il 1557 e il 1662,  compose il Ritratto di donna in veste di Giuditta, una sorprendente tela in cui l’eroina biblica è dipinta con la testa dell’uomo ucciso, rappresentazione questa che in pittura, soprattutto in ambito veneto, intendeva alludere alle pene d’amore inflitte dalla donna all’innamorato.
Secondo le argomentazioni di  J. Anderson, questo dipinto potrebbe essere, però,  il Ritratto di Olimpia Luna Zoppi (la veste nel quadro ha tante piccole lune che alluderebbero, appunto, al nome della donna), moglie del letterato Melchiorre Zoppi, eseguito da Agostino dopo la morte avvenuta nel 1592; il capo che la donna tiene fra le mani sarebbe proprio il ritratto del marito.

Veronese, Giuditta e Oloferne


Nel 1581 pure il Veronese dipinse una tela intitolata Giuditta e Oloferne in cui, contro uno sfondo scuro, risaltano, in  forte contrasto, quasi a voler far dimenticare l’orrendo soggetto,  la bella e giovane Giuditta, bionda, dalla carnagione  chiara, elegantemente vestita, che regge fra le mani il capo reciso del tiranno, e la schiava dalla pelle scura.

 

Caravaggio, Giuditta e Oloferne


Decisamente diversa fu la rappresentazione del tema offerta dal Caravaggio: cruda, violenta, diretta, senza mediazioni.
Nel settembre del 1599 un’esecuzione aveva turbato il popolo di Roma;  di fronte a Ponte Sant’Angelo, dopo essere stata arrestata e torturata, insieme ai suoi complici, la matrigna ed un fratello, dagli sbirri di papa Clemente VIII, era stata decapitata una giovane nobildonna romana di ventidue anni, Beatrice Cenci, accusata di aver ucciso il padre, il  ricco e potente Francesco Cenci, uomo violento e dissoluto,  per vendicarsi delle violenze fisiche, psicologiche e sessuali da lui subite. I romani, però, erano stati da subito solidali con la fanciulla, considerando quel delitto come una legittima difesa, ed avevano affollato commossi le strade fino a tarda notte, piangendo e deponendo fiori e candele davanti al cadavere della giovane.
Fu in quello stesso anno che Caravaggio eseguì Giuditta e Oloferne, un olio su tela  oggi conservato a Roma, alla Galleria Nazionale d’Arte antica, Palazzo Barberini.
La precisione realistica della terribile decapitazione, corretta dal punto di vista anatomico e fisiologico fin nei minimi particolari, compresa la violenza degli schizzi del sangue, ha fatto ipotizzare che il dipinto sia stato realizzato sotto l'impressione delle esecuzioni romane di fine secolo, e che probabilmente, trovandosi in quel tempo nell’Urbe, abbia assistito proprio alla decapitazione di Beatrice Cenci e riportato l’orrore nel suo dipinto.
Fino ad allora nell’iconografia  tradizionale l’eroina ebrea  era stata generalmente raffigurata con in mano il capo reciso di Oloferne, ma Caravaggio, in approfondimento degli studi leonardeschi e della tradizione lombarda,  investigando su “i moti dell’animo”, cioè sulle deformazioni delle espressioni causate da sentimenti estremi come la paura, il dolore, l’ira, la gioia, catturò l’istantanea dell’azione.
Con questo primo quadro d’azione cruenta, in cui avviava  la composizione di una  lunga serie di temi nei quali approfondire il significato tragico della vita ed il rapporto fra oppressori e vittime, cogliendo, in ricerca dell’attimo, l’acme dell’azione violenta, inaugurò il genere più emozionante del risveglio di Oloferne mentre la scimitarra gli reseca il collo, preferendo rappresentare l’orrore diretto della morte violenta con la raffigurazione del momento dell’uccisione.
In questo quadro tutto l’orrore della decapitazione è, forse, più che sul volto e sulla bocca del tiranno, che ha la bocca spalancata nell’urlo,  sullo sforzo fisico di Giuditta accigliata,  concentrata  nell’azione, anche stupita e disgustata della violenza e rapidità del suo tremendo gesto, sotto lo sguardo attento della serva (dipinta, in opposizione fra giovinezza e vecchiaia, vecchia e  rugosa, contro la bellezza della giovane, per la cui rappresentazione l’artista si servì della modella Fillide Pelandroni, cortigiana spesso presente nei quadri di Caravaggio, sia nelle vesti di eroina che di santa) che,  con lo sguardo terrorizzato, assiste, tenendo fra le mani la bisaccia nella quale è  pronta ad accogliere la testa mozzata.
La scena, che colpisce per l’impatto immediato e volutamente brutale,  è intrisa di acceso realismo, fra sangue e terrore, illuminata da una luce precisa e ferma che mette in evidenza ogni più macabro particolare.
Sul volto dell’uomo decapitato (testa mozzata e sangue erano temi costanti nella produzione caravaggesca, con effetti di alta tragedia, addirittura nella Decollazione del Battista, l’unica firma dell’Artista a noi nota è scritta con il ‘sangue’ del santo) è impressa una smorfia di dolore, gli occhi sono dilatati, per lo stupore e la sofferenza, dalla bocca semiaperta  s’intravedono gli incisivi superiori, il braccio destro è appoggiato sul letto, il corpo è nell’atteggiamento di chi si ritrae,  copioso è il fiotto di sangue.
Altri artisti ebbero un temperamento impetuoso, audace, come quello del Caravaggio, ma nessuno seppe imprimere come lui un’espressività così intensa, che poté esplicitarsi al massimo nella trattazione di soggetti biblici, poiché la sua arte andava ad innestarsi su una certa tradizione del pensiero estetico nell’ambito della Controriforma; infatti, in base ai principi didattici propugnati dalla Chiesa post-tridentina,  per favorire al massimo la partecipazione dei fedeli si preferiva la raffigurazione delle eventi dei Vangeli il più possibile realistica, ed anche in ciò l’Artista seppe raggiungere vette eccezionali.



 

BIBLIOGRAFIA

Chiara De Capoa, Episodi e personaggi della Bibbia, seconda parte,  Electa (Pomezia) Roma, 2004.

Stefano Zuffi, Caravaggio, Arnoldo Mondadori Arte, Milano, 1991.

Caravaggio, Rizzoli/Skira, Milano, 2003.

S. Bottari, Caravaggio, Sadea/ Sansoni, editori, Firenze, 1966.

Mina Gregori, Caravaggio,Banco Ambrosiano Veneto, Electa, Milano, 1993.

I grandi pittori, Seicento, De Agostini, Novara, 1987.