Giovanna Mulas

 

Mater doloris

mama de sa suferentzia

 

 

"Io sono dolore"

 

 

Dall’ Autrice Nomination al Nobel per la Letteratura

_________________________________________

 

ROMANZO

Progetto grafico LP 21, ROMA

 

 

"In un batter d’occhio il mio animo muta. A volte un lieto raggio di vita torna a brillare, ahi! Per un istante solo!… Quando mi perdo in fantasticherie non posso scacciare questo pensiero: - Cosa capiterebbe, morisse Alberto? Tu saresti! Sì lei diventerebbe…-, e via sulle tracce di questa chimera fin sull’orlo di abissi donde mi ritraggo con un brivido.

Se prendo fuori porta la strada che presi la prima volta che accompagnai Lotte al ballo, come tutto è mutato! Tutto, tutto è svanito! Nessuna traccia di quel mondo, nessun palpito di quei miei sensi.

Mi sembra d’essere uno spettro che torna e trova distrutto dal fuoco il castello da lui costruito e ornato con ogni magnificenza quand’era fiorente principe; e che morendo aveva legato fiduciosamente al figlio prediletto."

 

J. W. GOETHE

 

"Che il numero abbia sempre goduto di grande rispetto è cosa nota. S.Agostino diceva: ‘nei numeri vi è quello che di sacro e di misterioso vi è nelle Scritture’. E Pitagora, e dopo di lui Platone, riteneva che il numero fosse l’ Essenza delle cose, la manifestazione dell’ Uno supremo. Ogni persona, attraverso la propria data di nascita ha in sé un numero; ogni numero ha un significato ed una vibrazione.

Il 6 è la psiche in tutte le sue accezioni, il 5 è il sesso, sia femminile che maschile, il 7 è introspezione, studio, meditazione, conoscenza e mistero. Il primo numero indica come si è visti dagli altri, il secondo numero indica come si è dentro, il terzo numero, l’anno di nascita, sommando le varie cifre indica il karma. La somma di tutti i numeri, in questo caso il 9, è il destino: indica l’Opera completa, che chiude un ciclo e apre un ciclo superiore."

( "Numbers & Destiny", Colombia Eyes, 1975 )

 

 

 

"-Che cos’è la sofferenza?- chiede la bambina alla madre.

La nonna, davanti al focolare, lavora d’uncinetto e sorride, ascolta.

-La sofferenza è l’ago che ti entra nelle carni e tu urli, figlia mia. Perché ti fa male.-.

-No,- le fa eco la nonna.

-La sofferenza è l’ago che ti entra nelle carni e tu apri la bocca. Ma non hai la voce per gridare il male.- ".

Giona Demura

 

Summum ius, summa iniuria.

 

 

 

PROLOGO

 

Sandy Ann serrò la porta della cantina alle sue spalle.

Sorrise alla donnina coi capelli rossi e diritti, di media lunghezza, tirati indietro dalla fronte bassa e piatta e al timido neomarito coi suoi occhiali d’osso dalla montatura esageratamente grande.

-Prego-, disse Ann e fece strada alla coppia lungo la rampa della scala a chiocciola.

Spense la luce.

Diede un’ultima, fuggente occhiata all’insieme e i tre uscirono all’esterno dove ad attenderli splendeva un rassicurante, placido sole di fine agosto e l’aria invasa dal frinire ritmico delle cicale, voli pindarici di libellule rosse.

Una morbida brezza increspò la superficie dorata del lago giù, tra un abete e l’altro.

La donnina tossicchiò, arrossendo di piacere.

-Bhè, la casa è davvero fantastica, signora McCarter.E tu che ne dici, Mark? Non è il luogo ideale per scrivere, questo?-

-Ecco…-

-Si, si. Sono certa che in questa meravigliosa casa creerai il romanzo che ci renderà ricchi e famosi, finalmente.

Mio marito scrive, sa? Però ancora nessun editore si è accorto del suo talento. Probabilmente avrà un successo post mortem, dico sempre io…non è così, Mark?- e giù una pacca sul petto gracile dell’uomo.

-Mi scusi, signora…se non sono indiscreta, posso sapere perché la vendete?-

-Mio marito ha una tenuta sulle coste della Cornovaglia. Abbiamo deciso di comune accordo di trasferirci a vivere laggiù-

-Ah.-. La donnina parve soddisfatta della risposta. Poi scrutò torva il marito.

-Hai sentito, Mark? Si trasferiscono. Tran-qui-lla-men-te, Mark. Si trasferiscono tranquillamente. Sapesse quante storie ha fatto quando gli ho detto che volevo vivere appena fuori Londra, lontano dallo stress cittadino. Lei mi capisce, signora McCarter.-

-Certo-

-Già. Ma lui è come un bambinone, non è così Mark caro? Ma io gli ho detto: se non andiamo a vivere in pace, lontano da mio padre e i miei fratelli e relative cognate (non fanno altro che chiedermi soldi, sa!) io non ti sposo. Alla fine l’ho convinto ed eccoci qui. Oh, la casa la compriamo noi naturalmente. Qualunque sia il prezzo. E’ fantastica, signora McCarter. Bhè…magari cambierò le tendine del bagno e anche in salotto che mi paiono molto tetre. E i miei trofei avranno

 

 

una vetrina tutta tutta per loro. Sono stata reginetta di bellezza per ben tre anni consecutivi, sa? Per andare al lavoro ti arrangerai in qualche maniera, Mark caro, non è così?-

-Si, amore-

-Bene. E’ un bambinone, signora McCarter.

A proposito di bambini- la donnina ammiccò bonaria al ventre prominente di Ann.

-Oh, manca poco ormai. Meno di un mese.-

-Fantastico! Hai sentito, Mark?

Quando mi ha chiesta in moglie gli ho detto: o ti azzardi a farmi fare quattro marmocchi oppure trovatene un’altra…ma sei capace a farmene fare quattro?-

Ann finse un sorriso scrutando l’uomo. Questo poveretto deve aver avuto una giornataccia, pensò suo malgrado. Porse alla donnina un mazzo di chiavi.

-Sono certa che vi troverete bene a Primrose Lake, signori Williams-.

Un tordo fece capolino da dietro un cespuglio, l’uomo s’infilò una mano in tasca e acchiappò un kleenex, si soffiò il naso.

***

MAMA

 

"Dovunque l’orizzonte è come una festa di monti, di colli, di balze che si alternano di giogaia in giogaia, come gigantesche onde che si incalzano sul mare.

Vi sono rocce brulle, sassose, capricciose, erte, facili, tagliate a picco, e colline incantevoli, verdeggianti, simmetriche come innalzate a belvedere sulle cerulee onde del mare (…)"

(Monsignor Emanuele Virgilio, Vescovo d’Ogliastra, da "Il pane quotidiano", 1913.)

 

 

" Questo pane (di ghiande) è una specialità della Sardegna, e , nella stessa Sardegna, del villaggio alpestre di Talana, e di alcuni altri villaggi poveri, nei quali il territorio granitico è assai avaro, per cui la produzione vi è stentata e insufficiente ai bisogni di quelle popolazioni prive, inoltre, di altre risorse economiche. In quei monti esiste una terra rossiccia, detta ivi trocco, la quale viene messa entro un pannolino, e questo immerso nell’acqua più e più volte, finchè non dà più segno di conservare sostanze terrose. L’acqua dell’ultimo bagno in cui rimane la parte più tenue della materia, cioè l’ossido di ferro, si mette a bollire con le ghiande sbucciate. Dopo una lunga bollitura, che la riduce ad una pasta, e che le fa perdere il saporaccio aspro, che essa conserva quando è ancora cruda, la si lascia raffreddare e, fatta a pezzi, la si mangia per pane. I talanesi se ne cibano nell’inverso. Usano pure pestare le ghiande e dopo cuocerle nell’acqua preparata a quel modo. In questa operazione non vi entra la panificazione eccetto che nella forma: vi entra bensì la chimica, che combinando l’acido gallico, il concimo della ghianda e l’ossido di ferro ne fa risultare una specie di tinta nera come la seppia, la quale costituisce,con la parte amidacea del frutto, una confettura assai dolce, nauseante come la manna, che gli indigeni mangiano di gusto e trovano molto saporita. Questo pane è, però, molto nutriente, fortificante e digeribile da quelli stomachi di ferro.".

(da LE CENTO CITTA’ D’ITALIA, Milano, 31 marzo 1902)

 

Thia Elvira serrò la porta della cantina alle sue spalle ed il cigolìo, saluto dei cardini rugginosi, conosciuti e soli amici in quel luogo di vedove e vergini; la confortò.Attraversando il corridoio stretto e buio, macchiato di muffa agli angoli di pareti gonfie, spoglie, stantìe ; fregò le mani sul grembiale di lavoro, sdrucito, nero di fuliggine e, facendo ingresso nella stanza fumosa, fredda, che fungeva da cucina e camera da letto assieme; s’accostò finalmente al focolare per buttare un mazzo di finocchietti selvatici acchiappati alla svelta da un catino colmo d’acqua, vicino alla catasta di bastoncini di legno di faggio e carta troppo umida per ardere ; dentro su caddargiu* adagiato in bollitura sopra us trebièse*, il fuoco crepitante attorno.Ecco, fuori della finestra piccola e quadrata, le urla bastarde* del ramaio di Isili*, col suo cavallo carico di recipienti da vendere: "E CHINI LEADA LABIOLOS E SARTAINAS? E CHINI CAMBIADA ARRAMINI ECCIU PO SU NOU?". Elvira Con la tulla* rimestò il contenuto, versò nella caldaia anche un ramoscello di palma benedetta per scongiurare is malifattus*. Segnandosi infine, a voce alta: "Su nomini de su babbu, de su Fillu, de su Spiritu Santu, amen Gesusu. Signore deo bos offergiu custu traballu, dagededdi sa Santa Benedizioni ‘ostra*".

In quell’istante; nell’invocazione, nello scatto lestro ed esperto del polso, chissà perché, Elvira pensò a lui.

A Serafino "su maccu", fizu de Manliu Manca* e Peppa Lai, sa fiza prus distinta* de compare ‘Ntoni Marras. Lo chiamavano Fenu da fenugu*, ch’ era alto e segaligno, dinoccolato, pareva eclissarsi ad ogni contrazione d’aria . Viveva fuori Lanusei; "all’agro", andava cincischiando lui, tronfio come un pavone al tempo degli amori. E non lavorava, Serafino. Sbarcava il lunario, incravattato e profumato di muschi irlandesi (boccia in vetro da mezzo litro con la stampa di un faccione di tigre proprio sotto il tappo di plastica dorata, donatagli dalla cugina Mariadele Floris, la studiata di famiglia, in occasione d’ un rientro in Sardegna per assistere ai funerali della pluricentenaria, povera nonna morta così, da un giorno all’altro -…Come da un giorno all’altro si nasce…povera nonna mea, meschina!-; cugina maritata a Dublino con un siciliano che, dicevano, era il ritratto sputato di Fenu), nonostante gli scarponi di lavoro bassi bassi, dal cappellotto logoro e la suola a buchi, badile e roncola sempre in pugno e la carriola rugginosa abbandonata nell’aia. S’indaffarava il Fenu in quel ritaglio di terra mangiato dai fusti di fico d’India e corbezzoli ch’era stato di suo padre, e suo nonno prima, e del nonno di suo nonno; dove, appresso ad un albero di mele golden invaso dai parassiti -…Ché quest’anno ha piovuto troppo e i parassiti, si sa, fanno la festa con le piogge…ah, malasorte lo pighidi, custu tempu maccu!*- le rose canine selvagge e selvatiche si sparpagliavano ad interrompere filari disordinati di cavolfiore e lattughe, prezzemolo e basilico e cipolle e patate. Campava e non si sapeva come campasse, con le pecore e il cavallo Fieramosca; melato, rignante e dall’andatura da parata, ammutinate capre caracollanti tra cespugli e rocce, e le galline e un gallo unico e altezzoso dallo schicchiriare petulante e la cresta ritta di gladiatore, grosso da padella. E ogni pecora ed ogni capra ed ogni gallina Serafino aveva battezzati, come fratelli, o figli. Leone, si chiamava il cane, un bastardino a chiazze nere sull’anca destra, sghimbescie, come lo schizzo rabbioso di un pittore frustrato.L’aveva trovato appallottolato a ustolare in mezzo ai cespugli di mirto, Serafino, -quel botolo di un paio di mesi appena troppo lamentoso e brutto,se brutto si può dire a un cane veramente brutto col muso schiacciato e rugoso- in una sera di fine agosto, all’imbrunire, quando il cielo si fa tutt’uno con la catena di Jenna de Bentu* ed il sole scompare, s’inchina, promette ai cristiani che si, ci sarà un altro giorno ancora, e ancora, e purtroppo o per fortuna; ancora. Aveva le gote rosse e scavate Serafino, e profilo ‘e cabaddu*, naso d’aquila corroborato da quel ciuffocriniera unico di capelli che non so dirvi se biondo o arancio di carota che partiva dalla nuca per arrivare al centro della testa, tra entrambi i lati perfettamente rasi sopra le orecchie; e per dileguarsi, allungarsi,dipanare e districarsi, barcamenarsi tra un occhio e l’altro, strabici quelli "pro mandai in afanculu su mundu"*, diceva lui. E quando il vento sardo soffiava forte, prepotente, tale da strusciare sulla terra brulla, assetata di Dio, l’odore e il colore del mare; i ciuffi di capelli unti di sudore da sonno, come i cespugli di mirto ed i loro frutti sugosi e minuscoli, ballavano, s’ergevano,piroettavano sos maccos* ed erano fulmini attorno alla testa dell’uomo, su chi gli posava lo sguardo sopra.Thiu* Frantziscu de Loceri, marito di Elvira, naraiat ch’ issu, Fenu*, aveva un dono speciale. Diceva piano (come che pure l’Arcangelo Michele in persona potesse ascoltarlo e bacchettarlo per la maldicenza) nelle sere d’inverno coi bambini acchiocciolati attorno a su foxile* e l’odore caldo di minestra di merca*, aglio e pistoccu* galleggiante su teste e le pance vuote, -thia Elvira; sa pobidda*, dopo aver controllato la cottura spinge il gatto lontano dall’orlo delle gonne con un colpo del piede, stringe il nodo al fazzoletto e, mani dalle dita vecchie, intrecciate al rosario di grani neri come i suoi capelli e la pelle pure corvina, olivastra; siede prossima al fuoco e recita in silenzio. Ogni preghieraparola,della Madre, ogni sillaba è un pensiero al fratello scomparso al fronte, in terra anzena*, all’unica vacca sterile e la sorella che tra pochi giorni dovrà partorire il suo primo figlio "e diciassette anni tiene e che il Signore l’assista,l’assista,l’assista,l’ass" , al figlio disgraziato di comare Mariedda che preferisce studiare da dottore che andare in campagna ad assistere su babbu e sas baccas*. Aggiusta la forcina di tartaruga, le pieghe della gonna opaca da vedova e gli occhi restano bassi, velo mai spogliato da Lei uguale al pensiero, vergine e impura come la grotta che l’ha partorita, la Madre, già dolorante per chissà quale stella* destinata e le nenje e le miserie…mama de sa suferentzia* ses tue, mama mea, mama ‘e su mundu, e su mundu est aintru sa entre tua, de abba e de lughelujente, de terra e de chelu ses Mama ( ma su fogu, malaitu, mannica sos omines)*. E se avessi potuto, mamma, vederne il futuro d’ogni testa che sobbalzava al riso, allora la schiena si sarebbe fatta curva ancora, come il capo, e la preghiera più continua, e forte, nè respirosospiro l’avrebbe interrotta (e che il signore e l’Janas* lo vogliano) fino a che lo stesso respiro t’abbandoni, fino a che, Mama, Dio ti colga finalmente e magari avesse colto te al posto dei Capitani Coraggiosi, te, impura ma vergine, al posto degl’agnelli e stelle che li tocchino ché ad ogni uomo, à s’omine, s’ischidi, ispetta un’istedda; manna o pitica*- che Fenu fiat maccu ma beneittu ‘e su Signore*.Custu, naraiat thiu Frantziscu de Loceri maritu meu*)- che parlava alle bestie, su Fenu.

E le bestie l’ascoltavano, e gli rispondevano.

Si diceva che, una volta, Serafino aveva lasciate le capre pascolare sul suo ritaglio di terra, quello che era stato di suo padre e di suo nonno prima, e del nonno del nonno. Tutti i giorni, le faceva pascolare, com’è giusto che sia… e voi non vi pascete tutti i giorni a casu, sartizza* e pistoccu?

…Le guardava con la cura e l’amore con cui si guarda un bambino, anzi di più, una moglie.Dicono che certa gente ami più le bestie dei cristiani; e nel suo egoismo la gente crede di fare del bene, alle bestie, amandole tanto. Ma non s’accorgono, quei miseri, che alle bestie di loro non importa nulla e se le cose fossero state rovesciate, (e già lo sono!) uomo come la bestia, e la bestia come l’uomo a camminare retto sulle due zampe e la cresta alta da vincitore; la bestia avrebbe avuto più senno nel capo dell’uomo, e pro traballare* l’avrebbe usato, non per mettergli il cappotto come ho visto fare ad una contessa in treno per Berlino, ai tempi buoni, a un cane grande quanto un soldo di cacio. Doviziano de Villanova Strisaili* va raccontando che Fenu è pure stato sposato, una volta.Una sempliciotta, grassa e grossa di fianchi e mammelle per figliare, una de Siliqua*, cussu locu ‘e maccos. Lì, dove il sole batte forte sempre e dà alla testa dei cristiani, si beve il vino bianco sempre, anche se si produce uva nera, dove si mangiano fave secche sempre, pure in estate quando ci sono fresche e fatte col formaggio filante di pecora, le favette, sono una meraviglia; roba da signori. Ecco perché la maureddina era andata a innamorarsi de Fenu Fenugu, dice Dovì.Dice pure che Fenu l’aveva conosciuta alla festa dei Santissimi Cosimo e Damiano, venuta in pellegrinaggio scalza con la madre vedova, era, per assolvere a un voto. In processione, la sera, lei gli passò la candela perché gliel’accendesse e gli sorrise da sotto il velo scuro.Dovì narat che è stata l’unica volta in cui at bidu cussu maccu de Fenu foeddare* ad un essere umano femmina e poi, diavoli, sapete come vanno queste cose, no? Si parla e si parla e ci si guarda e si parla. E lei era molto interessata a quel parlare di soldi e di poderi in Arbatax, non so se mi spiego. Poi Fenu parlò alla mamma, giù a Cagliari che chissà cosa le disse, e se la prese in isposa ché Fenu era benestante, sapete? Si, si. Oohh si. Non guardatelo ora, misero misero* e incravattato ma coi scarponi bucati fino al calcagno*; tronu a conca chi lu pighidi*.Bhè, Dovì racconta che la prima notte di nozze erano scodelle e pentoloni a volare fuori della finestra, assieme alle galline che, fino a quel momento, avevano diviso con Fenu anche la casa. Il mattino dopo vide s’isposa, e Dovì in persona era seduto in veranda ad arrotolare tabacco, uscire di casa con la sua bella valigia in una mano e il cappello da casteddaia nell’altra, montare sul carretto tirato da Fieramosca e dargli ordine di partire.

-Aiò, su cabaddu maccu!*- ordinò lei all’animale.

Dovì vide Fenu affacciarsi all’uscio e sorridere in silenzio.

-Aiòòòò- urlò la signora sputando veleno, -Custu cabaddu est prus maccu ‘e tue!*-

-Ascurta, Teresì*…-

-MUDU TUE, DISGRASIAU!*,SAS CABRAS PURU IN SU LETTU PRO TOTA SA VIDA, DEPO TERRERE DEO*?-

Il sorriso di Fenu non si spense. Camminò ciondolando come solo lui cammina fino al cavallo e gli accostò la bocca all’orecchio, poi gli soffiò in una narice.

Dovì narat, e io penso la stessa cosa, che chi ama troppo gli animali ha paura di rapportarsi ai cristiani; parla con le bestie perché sia che parli loro, sia che gli dia il bastone sulla zucca quelle tacciono e acconsentono.Ma i cristiani no.

Nessuno sa cosa disse Fenu, ma Fieramosca ebbe un fremito e nitrì in un’ acculata, s’imbizzarrì rovesciando carretto e valigia e cappello e la signora finì a pancia all’aria tra pianti e grida di civetta isterica.

Nessuno in paese la vide più ma dicono che stiano ancora mangiando, lei e la madre vedova, dai terreni di Serafino Fenu Fenugu. E che ne stiano mangiando meglio di lui.

Allora Fenu guardava capre e capretti pascolare. Dicono che s’ addormentò e le capre non se lo fecero ripetere due volte; saltarono steccato e muro e sconfinarono nel terreno vicino dove, brulica a destra e brulica a manca, fecero razzia dell’orto di thiu Badore Mulas…si, si. Quello che era stato all’Asinara per aver sparato sulle chiappe del fratello per una questione di eredità…una rosa di pallettoni così e così che non ti ho visto mai e dottor Piras dopo un bicchiere di quello buono ha giurato sulla testa della buon’anima di sua suocera* che gli è rimasto il segno, all’altro disgraziato; ogni volta che si siede saluta suo fratello.Grande e grosso era Badore, forte e bellu: su prus bellu de sa famiza Mulas, ma tontu che unu cuccu*.

Il caso dunque volle che l’omone fosse nella sua rimessa lì all’orto, a travasare olio da trattore. Quando ne uscì le capre avevano bello che digerito pomodori e patate e s’apprestavano a fare la festa alla vigna, i capretti già agli acini ci sgambettavano vicino.

-AH! CUSSU MALAITTU DE FENU…COMMO BIESE!*- ululò Badore a capre panciute e vento. Le bestiole, più avvezze a farlo che perchè realmente spaventate dalla minaccia, corsero per l’orto in ordine sparso finendo di distruggere quello che ancora restava in piedi e ooooopsh! Risaltarono lo steccato una ad una, in cerca di protezione presso il loro padrone.

Dicono che compare Mulas in mesu a sos irroccos* rientrò in rimessa ed imbracciò su fusile*, ché tiratore scelto era e lo teneva sempre carico, sai com’è; per l’evenienza.

E ogni volta che alzava il gomito – su inu bonu si lu faiada e sidhu bufada a sa sola*- si presentava l’evenienza. Sedeva in mezzo alla terra come un capo indiano a spiare il cielo e sparare a tutti gli uccelli che gli passavano sopra la testa. E con qualcuno il pasto gli era pure uscito.

L’omone comunque cussa borta fiada sabiu*, nella normalità insomma. S’affacciò a steccato e muro di sostegno e vide Fenu russare beato sotto quell’albero di mele che faceva schifo solo a guardarlo, tanto era mangiato dai parassiti e punto* dai picchi. E cussu mandrone inie a dromire comente unu maccu*.

-TUE! MACCU!- gridò furioso compare Mulas puntandogli il fucile contro, e Fenu si svegliò con capre e capretti attorno.Stirò schiena e gambe.

-ITE BATA , CUMPA’*?-

-LE CAPRE!!! MANGIATO L’ORTO MIO SI HANNO-

-Ita bolit nai*?-

-MA-NNI-A-U! S’Ortu meu!!-

-Mmmmh.

Non bi creo-

-AAH?-

-Non ci credo.-.

-TUE …TUE SES MACCU E BASTA GAI !*-

-Le mie sono capre educate-.

Dicono che compare Mulas sollevò un sopracciglio ed il ringhio gli morì sulla bocca, grattò la pelata e abbassò il fucile. Poi lo rialzò, prus furiosu de prima.

-TU MI STAI A PRENDERE PER IL CULO! VIENI A VEDERE COI TUOI OCCHI SE NON CI CREDI, MACCU!-

-Le mie sono capre educate.E così i capretti, chè le mamme gliel’insegnano, l’educazione.

Più che a te, omine ‘e merda*-

Dicono che Badore, che non era tipo d’aspettare il cadavere del nemico passare sul fiume seduto sulla riva; cominciò a fumare rabbia dalle orecchie:sparò in aria e scavalcò il muretto di sostegno, avanzò come un toro verso lo steccato sempre puntandogli il fucile contro.

-IO T’AMMAZZO FENUGU MANDRONE!-

-Io non lo farei- gli disse Fenu senza mòversi d’un palmo.

L’orco saltò lo steccato e via un altro sparo in aria, pochi metri lo separavano dal compare.

-Non lo farei-, ripetè Fenu ma ce l’aveva già davanti.

-FENUGU MALAITTU!-, s’apprestò a sparargli sulla fronte Badore Mulas.

Allora dicono che Serafino fischiò solamente e Badore avvertì un colpo alla schiena che lo fece piegare in due dal dolore, grande com’era. Cadde col culo sulla terra ed il fucile quattro piedi lontano, Fieramosca con la zampa premuta sul torace di lui che se solo si fosse mosso di un millimetro gliel’avrebbe schiacciato lì, come un uomo schiaccia a una mosca. Quindi un altro fischio più lungo e capre e capretti a saltare attorno all’omone per incornarne le parti sane, su e giù e in mezzo e ecco le galline che fanno la parte loro e becchi e beccate esperte che al secondo bicchiere di quello buono il dottor Piras giurò sulla testa della moglie che in ambulatorio avevano dovuto usare il filo e l’ago per ricucirlo a Badore, mì*.

Ci aveva ragione quella volta, Badore Mulas …insomma, un po’ c’aveva ragione a infuriarsi.

Cal’atera considerazioni depeus fai?*

Dicono che da quella volta Badore Mulas ci pensò su tre volte, prima di andare ancora a disturbare il sonno ‘e cussu maccu de Serafino Fenu Fenugu.

E Thia Elvira, ancora Madre, pensò a fiza sua, sa manna* , la maggiore. Cogitò sull’agnello sacrificale, femina sarda in terra anzena po traballai, partia cun su pixjone ‘e ferru* (- Gesù Cristu in sa Gruxi fachet sa liberazioni nosta de sa sclavitudini de su dimoniu*-).

Pensò al nastro in raso colore corallo ad intarsi oro, lavorato per mesi dalle comari della madre, nonna di Anna ("oggi cuce Peppa sa eccia*,vedova Satta, chè col suo dolore allontani il dolore dalla sposa,domani Filumena, fresca sposa felice, chè cucendo di rassegnazione e cuore e speranza consegni al nastro la buona sorte, appresso Bastiana Murgia gravida e prena*, che ci dia fecondità e vita, Gesuina Maria chè ci vuole la vergine, pura e che puro sia sempre, in sangue e in carne chi il nastro si porta. Petali di rosa vengano sparsi in sul letto di chi parte, che secchino lì senza che anima li tocchi, fino ad ogni ritorno. E all’occorrenza i petali siano raccolti in una ciotola di terracotta, sempre la stessa , che passi di mano in mano di femmina, de bonu ogu à s’ateru* che gli facciano la guardia, di preghiera in preghiera. L’acqua santa sopra in croce. E sia così e così sia: per Gesù, e per Giuseppe, e per Maria.") che aveva tenuto i capelli di carbone dell’ Elvira il giorno del suo matrimonio e poi serbato apposta, destinato alla primogenita.

-Adesso spetta a te- Aveva detto Elvira prima che la figlia partisse, come che pure Anna stesse andando a maritare, lontana di casa e di famiglia, dai fratelli più piccoli e, per ora, più fortunati di lei. Alla ragazza aveva legato il nastro in una coda bassa e le aveva poggiato la mano sulla fronte baciandogliela al centro, benedicendola e segnandola a croce col pollice destro.

-Fiza, fiza mea ‘e su coro*-.

Le mani rugate di quarantacinque inverni ( fili di ragno erano quei tessuti alacri, su carni dimentiche di sole) abbandonarono il rosario nell’ìncavo tra i seni scesi da cagna d’allattamento, scivolarono sugli occhi e le palpebre socchiùse palpitarono ad ombra, vibrando del ritmo scellerato del cuore; nenja d’ancestri nuraghi.

 

Su caddargiu*= caldaia di rame, Us trebièse*= treppiede di ferro,Bastarde*= i ramai, girovaghi costretti dalla necessità; nei loro richiami imitavano il dialetto del paese in cui si trovavano,Isili*= località del nuorese, E chini…*= Chi vuole acquistare paioli e padelle? E chi cambia oggetti vecchi di rame per altri nuovi?,Is malifattus*= malocchio, La tulla*= mestolo di legno confezionato dagli artigiani del luogo,Su nomini…*= Il Nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, amen Gesù. Signore io Vi offro questo lavoro e Voi dategli la Vostra Santa Benedizione. Su maccu*= il matto, Fizu de… = figlio di… , Distinta*=diversa (bella), Fenugu*= finocchio, Malasorte lo…*= la disgrazia lo prenda, questo tempo matto, Jenna de Bentu*= Porta del vento (rif. Gennargentu), ‘E cabaddu*= da cavallo, Pro mandai in*= per mandare in…, Sos maccos*= i matti, Thiu*=zio, Naraiat ch’ issu*= diceva che lui, Su foxile*= il focolare, Merca*= formaggio stagionato, salato, Pistoccu*=carta da musica,tipico pane ogliastrino a sfoglia, Pobidda*= moglie,Terra anzena*=terra straniera, Su babbu ei sas baccas*=il babbo e le vacche, Mama de sa...*= Madre della sofferenza sei, madre mia,mamma del mondo,e il mondo è dentro il tuo ventre,d’acqua e LuceLucente di terra e cielo sei madre (ma il fuoco, maledetto, mangia gli uomini).,L’Janas*= minuscole fate della tradizione popolare sarda, A’ S’omine, s’ischidi…*=a ogni uomo, si sa, spetta una stella; piccola o grande., Che Fenu fiada…*=Che F. era matto, ma toccato (benedetto) dal Signore., Custu…*=questo, diceva mio marito, thiu F. di Loceri (paese del nuorese),Casu*= formaggio, Sartizza*= salsiccia, Traballai*=lavorare, Villanova Strisaili*=paese del nuorese, Campidanesa*=del campidano (CA), As bidu cussu…*= ha visto quel matto di F. parlare, Miseru*= sempliciotto, Calcagno*=tallone, Tronu a conca…*=un tuono in testa che lo colga, Casteddaia*=cagliaritana, Aiò, su cuaddu…*= Dài, forza, cavallo matto!,Custu cuaddu est…*= questo cavallo è più matto di te, Ascurta…*=ascolta, Teresina, Mudu tue…*=Zitto tu, disgraziato! Le capre pure nel letto devo tenere per tutta la vita?, Buon’anima*=defunta, Su prus bellu…*=il più bello della famiglia Mulas ma tonto come un gufo, Ah!Cussu…*=Ah!Quel maledetto…ora vedi!, Sos irroccos*=le maledizioni, bestemmie, Su fusile*=il fucile, Su inu onu…*= Il vino buono lo faceva e se lo beveva, Cussa borta…*=Quella volta era savio, Cussu mandrone…*=quello scansafatiche lì a dormire come un matto, Ite bata cumpà*=Che c’è compare (cosa vuoi?), Ita bolit nai?*= Cosa vuol dire?, Basta gai*= basta così, Mì*= ecco, Cal’atera…*= Quale altra considerazione dobbiamo fare in merito?, Sa manna*=La grande, Femina sarda in terra anzena pro…*=Donna sarda in terra straniera per lavorare, partita con l’uccello di ferro (rif. aereo), Gesù Cristo…*= Gesù Cristo in croce liberaci dalla schiavitù del demonio, Eccia*= la vecchia, Gravida e prena*= gravida, piena (incinta),De bonu ogu…*= da un occhio buono all’altro, Fiza mea…*= lett. "Figlia mia del cuore".

 

Che ora sarà?

Le tre, forse le quattro.

Forse.

Silenzio, troppo silenzio. E buio.

-Gesù-, biascicò Virginia con voce roca e tremolante, avvertendo un sapore metallico in bocca.

MA CHE BVAVA QUESTA BAMBINA, MA CHE BVAVA CHE E’ LA MIA BAMBINA.

-GesùGesùGes-, ripetè. Un rivolo di sudore ghiacciato colò dalla tempia e lungo lo zigomo scolpito dalla magrezza fino al lato destro delle labbra contratte.

-Gesù, fa che NON RITORNI!-

(il buio)

MA CHE BVAVA QUESTA BAMBINA, MA CHE BVAVA CHE E’ LA MIA BAMBINA.

-E’ tornata…-.

(che ora sarà?).

Virginia girò la faccia verso la parete glabra. Notò una crepa accanto al quadro di quell’orribile paesaggio inglese con due damine che prendono il the sedute in mezzo ad un prato scolorito; una crepa che pareva

(non dire idiozie!)

si, pareva proprio sorriderle

(Gesù, sei proprio partita. Una crepa che SORRIDE.Hey, friends; avete mai sentito parlare della famosa crepa che sorride? Quella che sghignazza sul muro e ti prende)

-E’ tornata.-.

(ti prende per i fondelli, Virgi cara. La crepa, si.Ti sta prendendo per i fondelli.Fossi in te gliela farei vedere io, a quella bastarda d’una crepa)

-Bastarda fottuta-, disse Virginia e lo disse piano, scandendo le parole perché la crepa non potesse sentirla.

-Ba-star-da fo-ttu-ta d’u-na cre-pa!-, sibilò.

Allungò una mano fuori del letto ferroso per acchiappare un libro dal comodino.

(potreste trovare un Modus Vivendi tu e la crepa, Virgi)

Holy Bible.

Quell’accidenti di libro copertinato in pelle che ogni santissimo giorno sua madre le leggeva. Ogni momento era buono per leggere la bibbia.

Ti leggo qualche vevsetto, Vivginia cava

Fottetevi, pensò Virginia; la mamma, la Bibbia e la cvepa e Amen.

Con un improvviso scatto del polso lanciò il volume in direzione del muro; diritto sopra la crepa, che Dio l’abbia in gloria. E si sentì straordinariamente meglio, soprattutto quando anche l’odioso quadro delle damine beote su sfondo scolorito, cadde sul pavimento. Virginia non udì nessun suono ma lo vide chiaramente, il suono; lo vide nello spaccarsi della cornice in quattro pezzi storti di compensato nocciola e nel frantumarsi del vetro in infinite schegge asimmetriche. La stampa volò meglio d’un aereo delle linee svizzere, ai piedi del letto.

Virginia sorrise e una damina rispose al suo sorriso.

-Vuoi del the, cara?- le chiese, mostrando denti affilati come

(è tornata)

schegge di vetro asimmetriche.

La felicità di Virginia mutò in orrore puro; spalancò la bocca lasciando uscire un singhiozzo gracchiante e poi gridò, gridò con quanto fiato aveva in gola. Coprì gli occhi con le mani. Espirò ed inspirò piano, riprese il controllo. Spostò le dita creando una fessura tra queste e le pupille dilatate. Rifissò la stampa. La damina inglese era nuovamente al suo posto nel prato, sorseggiando the al sole d’un pomeriggio di fine aprile. Virginia frugò sotto il cuscino foderato di morbido cotone, raccolse una boccetta. L’aprì. Tentò di raccattare il contenuto con la lingua tremolante ma non vi riuscì.

Ecco…bene. Ancora uno sforzo, bambina.

Sollevò la boccetta, ingollò tutto.

Le membra divennero pietra, la testa il macigno più difficile da sostenere.

Virginia serrò gli occhi aspettando, ancora e finalmente, il buio.

 

* * * *

 

Sandy Ann spense la radio.

Immediatamente la musica, che fino a pochi istanti prima aveva invaso l’intera palestra di ginnastica aerobica si estinse; morì nelle casse nere degli altoparlanti.

-Okay, ragazze. Anche per oggi abbiamo finito.-.

Una donna sulla cinquantina e notevolmente in sovrappeso, dalla prima fila sbuffò un ansante "GrazieaIddio!" e con un saltello goffo riunì le gambe divaricate per l’esercizio. Scrutò la vicina di tappeto che, in cuor suo, aveva sempre considerato un anemone anoressico e stillò un sorrisetto di circostanza.

-Domattina non riuscirò a sollevare le chiappe dal water-, borbottò. Sandy Ann dal posto di comando scoppiò a ridere –Ci riuscirà, signora Cleary. Le assicuro che, giocoforza, ci riuscirà se davvero vuole tornare in forma per quest’estate. Ora scusatemi tutte ma ho un appuntamento per le sette e conto di esserci. A mercoledì, alla solita ora-.

Le donne si raggrupparono sparse per la palestra. Ann tolse l’elastico che teneva fermi i lunghi riccioli in una coda di cavallo dai riflessi di mogano e li liberò sulle spalle da atleta ed il seno alto e florido, ravvivò le ciocche con le dita. Doveva fare in fretta. L’ultima cosa che voleva era andare ad un appuntamento puzzando di sudore come uno scaricatore di porto. Con tutto il rispetto per gli scaricatori di porto. Si diresse verso le docce. Jim al telefono le era parso strano. Molto strano. Diverso ecco, si. Diverso era la parola giusta. Da cinque anni che lo conosceva mai e poi mai si sarebbe aspettata di sentire Jim McCarter diverso dal solito. Un impiegato di banca perfetto e scrupoloso, ecco cos’era Jim McCarter. L’uomo con cui Ann aveva acquistato l’attico affacciato su Kensington Park. L’uomo che le aveva regalato il pianoforte "anche se non lo sai suonare ma ti piace come arreda la sala da pranzo". E i fiori? I fiori ad ogni festa comandata. Sempre rose. Sempre rosse. "Che le rose rosso passione ti piacciono tanto". Due anni prima l’anello. Un vero anello di fidanzamento ed un bacio sul dito medio, prima d’infilarlo. "Al nostro futuro".

Jim McCarter era il perfetto fidanzato quasi marito. Si era sempre domandata perché ogni volta che facevano l’amore lui teneva i calzini. Rigorosamente bianchi, come s’addice ad ogni perfetto impiegato di banca fidanzato quasi marito. I calzini bianchi. Se a tredici anni a Sandy Ann avessero detto che avrebbe avuto le prime esperienze sessuali con un uomo che adorava tenere i calzini bianchi a letto, bhè, si sarebbe sicuramente schernita. Calzette bianche? My God, Parbleu! A me? Dite a me? No. Mai. Amo i tipi selvaggi, io.Quelli che cavalcano lungo la brughiera nebbiosa senza paura di azzoppare lo stallone su qualche masso sporgente. Un tipicino alle Cime Tempestose, per intenderci. Non da perfetto impiegato di banca fidanzato quasi marito attento ai particolari anche quando fa l’amore. Avrebbe riso, Sandy Ann, a tredici anni. Ma adesso di anni ne aveva trenta e si sa, l’ esistenza fa in fretta a scivolare tra le dita. Una donna fa in fretta a passare dai box di single a quelli di zitella eppoi, Dio salvi la regina, non c’è lifting o crema antirughe che tenga. "Quando le chiappe iniziano a cedere", avrebbe detto la signora Cleary, "…chi ti salva più dal cedimento del cervello". Ma se alle spalle hai un attico spudoratamente affacciato su Kensington ed un pianoforte a coda dove poggiare le brave rose rosso passione prima che diventino bianche, ad ogni festa comandata, bhè; certi cedimenti li affronti decisamente meglio. Parola mia. Soprattutto se il precisino impiegato di banca fidanzato quasi marito lo ami come non hai mai amato nessuno prima d’ora, e pazienza per le calze.

Ann tirò la tenda della doccia, roteò il pomello dell’acqua calda. Il getto regolare l’avvolse dandole una curiosa sensazione di déjà vu.

Certo che hai già vu, stupida. Tutte le volte che, in vita tua, hai fatto la doccia e fortunatamente per te e chi ti traffica vicino sono state tante.

No.

Quella era stata la volta di una doccia diversa.

Ciao, Virgi. Come stai?Dio. E’ una vita che non ci sentiamo, da quando… vabbè.Tu lo sai.E sei mia sorella, Cristossanto. Sorella gemella, Cristossanto. E scusate se è poco.

Come stai? Mi manchi tanto, Virgi.Neanche tu sai quanto. Soprattutto in questo periodo, quando l’autunno declina in inverno. Quante corse in riva al nostro lago, Primrose Lake, ricordi?

Sei sempre stata così delicata .E vulnerabile, con la tua eccessiva sensibilità. Vulnerabile tu, Virginia, colle tue trecce svolazzanti come aquiloni.

Chissà che combini, adesso. Cosa fai, Virgi? Dài, facciamo il gioco del pensiero. Quello dove io riesco a capire ciò che ti passa per la testa senza che tu apri bocca…rammenti la volta di Sondra Lee? Al tre fàlle lo sgambetto che io la spingo nel lago. Uno, due…E TRE!!! Un bel tuffo, Gesù. E tutte le risate del gruppo erano state per lei, per Miss Puzzetta Sotto Il Naso. Biondina con la puzza sotto il naso, così la chiamavamo.

Voglio chiudere col passato, Virgi.

Ho chiuso col passato, adesso.

Sono una donna realizzata, adesso. Istruttrice di aerobica con una palestra modestamente tutta mia ed un futuro marito impiegato di banca candidato alla direzione, uno in gamba coi computers al contrario di me che perdo sempre la pazienza e non so riconoscere la differenza tra un file e un’e-mail. Ma per essere una brava moglie non serve, il computer. Sarò una brava moglie, lo so Virgi. Soprattutto voglio essere una brava madre.Lo spero. Cercherò d’esserlo ma voglio rivederti, prima.

Perché il passato mi ha lasciato una porta aperta in fondo al cuore. E quella porta sei tu. Facciamo il gioco del pensiero?

L’acqua da calda che era, divenne gelida; Sandy Ann rabbrividì da capo a piedi. Tentennò con occhi chiusi alla ricerca del pomello della doccia.

-Maledetto pom…- MA CHE BVAVA QUESTA BAMBINA, MA CHE BVAVA CHE E’ LA MIA BAMBINA.

La mano di Ann si contraette, rimase sospesa a mezz’aria sotto il fiotto algido dell’acqua ora d’un rosso porpora acceso, vivo. Reprimette un grido e fu un attimo; il flash, com’era venuto, passò. L’acqua riprese il suo normale calore, e colore.

La donna portò una mano sulla fronte, socchiuse gli occhi, li riaprì.

Si lasciò dunque bagnare languida, lavata di tutto.

Anche dei pensieri.

  • * * *

  •  

    Era in un corridoio.

    Ne vedeva (percepiva?) l’inizio ma, nonostante si sforzasse, non riusciva a comprendere dove poteva essere celata la fine.

    Virginia tentò di muovere una gamba ma quella era troppo pesante per una donna di trent’anni costretta a letto da quasi un mese. Con sforzo enorme riuscì a fare un passo. Un altro

    (dov’è la fine?)

    ed un altro ancora

    (Gesù, non c’è fine e)

    nel buio

    sta tornando.

    Dalle ombre si staccò una più scura, potente e minacciosa.

    Virginia sussultò. Avvertì il corpo farsi finalmente leggero, il cervello finalmente governabile, finalmente per poco totalmente suo.

    Aprì gli occhi. Il corridoio era scomparso, dalle persiane abbassate filtrava un debole raggio di luce giallo purpurea. Tossì. Puntò i gomiti sul letto, rizzò lentamente a sedere. Le insegne intermittenti dei neon sulla strada riflettevano zebrate sui vetri; una ad una come lucciole chiamate in rassegna.

    NEON JOY, DICHIARI LA SUA PRESENZA.

    OKAY. NEON JACKSON!

    LEI E’ SEMPRE IN RITARDO, JACKSON; NON SI LAMENTI SE A FINE ANNO NON AVRA’ I RISULTATI CHE SI ASPETTA. LI CONOSCO I PICCOLI BASTARDI COME LEI, JACKSON. PICCOLI MALEDETTI NEON BASTARDI CHE CREDONO DI SAPERE COME GIRA IL MONDO. MA ALLA FINE IL MONDO SE LI MANGIA. EH SI, JACKSON. E MANGERA’ ANCHE LEI, A FINE ANNO.

    Che vai pensando, Virgi? Hai proprio il cervello ridotto ad una frittata striminzita. Di quelle che faceva la mamma.

    O il signor Benson.

    Un attacco di tosse violenta la scosse tutta.

    Avrei voglia di un bicchiere di the. Anzi, una tazza. Una bella tazza di the di quelle che prepara la mia amica damina beota stesa laggiù, nel suo bel prato scolorito sotto il mio letto.

    Ma Virginia non osò guardare in direzione della stampa. Non aveva voglia di sorrisi taglienti, in quel momento. Berrò dopo, si disse, se ci sarebbe stato un dopo, si disse, e se ne fece una ragione.

    Silenzio.

    Ultimamente c’era troppo silenzio, in quel luogo. Le ricordava la sua casa. E pensare che quando aveva trovato quelle due stanze male assemblate nel quartiere che aveva visto tempi migliori era comunque rimasta impressionata dalla "vita" dei numerosi negozi, dai pub agli antiques agli hard-discount, ai neon sparsi qua e là sulla strada i neon Joy & Jackson.

    I bambini. Dio quanti bambini tutti assieme. Pareva che ogni famiglia ne avesse almeno cinque o sei, a giudicare dall’allegro frastuono che proveniva quotidianamente dal ritaglio di terra adibito a parco giochi di fronte alla sua finestra.

    Ora non si sentivano neanche loro. E non adesso che, si sa, ogni madre che sia degna di questo nome non lascia i propri figli giocare soli. E’ tardi. E’ buio.

    Virginia non li sentiva giocare. Né di giorno né di notte. Ma forse, semplicemente, era che non voleva sentirli perché associava i bambini alla vita.

    E a Virginia, per ora, la vita aveva dato scacco matto.

    -Non sono mai stata brava nel gioco degli scacchi-, si scusò Virginia con voce roca.

    -Già. Non sei mai stata una bvava bambina-, disse ancora Virginia ma con un’altra voce. Un’altra. Che le sorgeva dal profondo delle viscere.

    E probabilmente la nuova intrusa le piacque parecchio perché Virginia Vivgi per gli amici accennò un ghigno strabico.

    -non sei mai stata una bvava bambina, vivginia maddy johnsonn.

    Quanto valium hai inguvgitato ieri

    (era…ieri? O quando? Quando è stata l’ultima volta in cui hai scolato la bottiglietta del Valium come fosse succo d’arancia?)

    sei fuori, baby. E il bello e’ che questa

    -ZITTAAAAAA!!!-, gridò Viginia con la voce da bvava bambina

    IL BELLO BABY E’ CHE QUESTA PAvTITA à DEUX TI PIACE DA MATTI. E STA APPENA COMINCIANDO

    -Non è vero-

    SIIIIIIII CHE E’ VEvO, BABY VIvGINIA VIVGI PEv GLI AMICI. TI PIACE PROPvIO TANTO TANTO. COME TI PIACEVA TOvTUvAvE PSICOLOGICAMENTE TUO FIGLIO. vICORDI LE PAvOLE DI DOC HAvvISON? "TOvTUvAvE PSICOLOGICAMENTE"

    -Non…non è vero-

    SIIIIIIIII CHE è VERO, VIRGINIA BABY. TI PIACEVA VEDERLO GRIDARE, IMPLORARE DI LASCIARLO VIVERE, VEDERLO PIANG…

    -BASTA!-

    NON SEI PER NIENTE UNA BVAVA BAMBINA, BABY. MI SPIACE PER TE MA NON LO SEI. AMAVI VEDERE ROBERT PIANGERE.

    Virginia chiuse gli occhi e la voce da Bambina Cattiva parve chetarsi in un angolo della mente.

    ("devo parlarti, mamma")

    non è stata colpa tua, Virgi. Non è stata colpa di NESSUNO.

    ("E’ una cosa molto importante per me, mamma")

    eri una ragazzina quando hai avuto Robert. Tredici anni, Virgi.Tredici.E Dio solo sa cosa voglia dire avere un bambino a tredici anni e assumersene le responsabilità senza qualcuno che ti stringa la mano nei momenti di sconforto.Dio solo sa cosa voglia dire alzarsi tre, quattro volte per notte a controllargli la temperatura, cambiargli il pannolino ed allattarlo senza avere latte da dargli. A tredici anni. La mattina lavorando in un pub per pagarti l’affitto. E la notte sveglia col pensiero come gli anni che vola fuori dal cervello e schizza per cercare un’uscita ma rimbalza sulla gomma di quei quattro muri sudici.A tredici anni. Ad allattare un bambino che non hai voluto.Forse.

    -Lo amavo-, bisbigliò Virginia ed una lacrima sgorgò dagli occhi tumidi, rigò la guancia.

    PERò NON HAI FATTO LA BVAVA BAMBINA, VIVGI BABY, rispose per lei l’altra voce tornata alla ribalta, più ringalluzzita che mai

    -Amavo Robert. Era tutta la mia vita.-

    ("Vado a vivere con Alan, mamma"

    "Alan Smith? ALAN SMITH, ROBERT? Stai scherzando, vero?"

    "Non sono mai stato così serio. Io e Alan ci amiamo".

    Virginia aveva guardato quel ragazzone di un metro e novanta, coi capelli d’ebano e gli occhi verdi di quel bastardo di suo padre. L’aveva guardato come se lo vedesse per la prima volta e lo straccio che teneva in un pugno nell’atto di spolverare l’unico mobile del bilocale l’aveva gettato stizzita nel lavabo. S’era sforzata di non perdere la calma. In una situazione del genere l’ultima cosa da fare era perdere la calma e Virginia se ne rendeva conto perfettamente. UNO DUE TRE, E LA CALMA TORNA A ME. Conta fino a tre eppoi passa tutto. Vedrai, è solo una ragazzata. Non aveva detto così il padre di Robert quando eri rimasta incinta? Mio Dio è hai fatto una ragazzata. Ma alle ragazzate ci si pone rimedio. Tu potevi abortire, per esempio Ma non l’hai fatto.Non VOLEVI farlo . Robert ha sedici anni è molto più maturo della sua età.Lo è come ogni giovane uomo cresciuto sulla strada e senza un padre. Fammi finire,baby. Robert, il tuo bellissimo Robert che è il ritratto sputato di quel bastardo di suo padre accidenti a lui, ha sedici anni ed è gay. Questa è proprio una ragazzata alla quale non si può porre rimedio.

    Ne sei sicura, Vivgi cara?

    Ha sedici anni. E’ minorenne. E’ ancora sotto la tua tutela, fino a prova contraria. Sotto la tua tutela; che gli piaccia oppure no.

    Si amano.Loro si…

    Lui e Alan Smith? Non farmi ridere. Un gay. Omosessuale. E’ tutta colpa di Alan, ci metterei la mano sul fuoco se soltanto ne avessi una. Robert non ha nessuna colpa per Dio. No.

    "Lei, signora, sta torturando psicologicamente suo figlio. Robert è un ragazzo palesemente influenzabile; anche a causa della giovane età, certo"

    Un ragazzo palesemente influenzabile. L’ha detto anche Doc Harrison e se l’ha detto lui, siori e siore, potete scommetterci che è così. Non è un doc che rischia di sputtanarsi in giro contando balle, doc Harrison, oh si.

    "Mamma?"

    Gay.

    Robert è gay. Con tutte le teenagers che brulicano la faccia della terra otto donne per ogni uomo lui ha il coraggio di essere gay

    uomo con gli ormoni fuori di tangenziale

    Coraggio e affronto, Virginia Vivgi baby.

    Affronto.

    Alle ragazzate ci si pone rimedio.

    "No, Rob", si era infine pronunciata Virginia, evitando di guardare il figlio negli occhi. Aveva riacchiappato il suo bravo straccio dal lavabo e dopo averci spruzzato sopra per l’ennesima volta in quella mattina una sottomarca di Dixan Detersivo Liquido all’essenza di citronella, si era data alla pulizia minuziosa del tavolo in ferro.

    "Categoricamente no"

    "Che vuol dire no? CHE VUOLE DIRE NO, MAMMA?"

    "Vuole dire che fino a che sei min…"

    "Forse non te ne sei accorta, ma oltre che minorenne sono già uomo fatto, mamma. Ed io andrò a vivere con Alan; che tu lo voglia oppure no. Se mi vuoi bene e se VUOI IL MIO BENE non impedirmelo, mamma. Non puoi tagliarmi fuori dal mondo per sempre"

    "E’ una ragazzata", aveva tagliato corto Virginia continuando a spolverare. Lui, con mano forte e nervosa s’era spostato una ciocca ribelle dalla fronte alta e Virginia ne aveva ammirato il gesto di sòttècchi. Il mio bambino. E’ bellissimo ed è il mio bambino. Solo mio. Né del padre e neppure di quel…quel… Alan Smith. Rob è mio.

    ("forse non te ne sei accorta ma oltre che minorenne sono già un uomo fatto,mamma")

    E’ una ragazzata

    ("Se vuoi il MIO BENE, mamma")

    Robert è mio. E non permetterò a nessuno di portarmelo via.

    "Lo sai bene che non è una ragazzata, come la chiami tu. Lavoro già da un paio d’anni allo Spaghetti’S House di Linda Houston. Ho qualche soldo da parte, non ti chiedo nulla se non di capire che…"

    "CHE COSA? COSA DEVO CAPIRE ROB?". Ora la collera trattenuta da Virginia esplodeva come un fiume in piena, completamente rotti gli argini.

    "S…Cr…S…" Virginia divenne paonazza per la rabbia. Ultimamente le capitava troppo frequentemente di balbettare al culmine delle sue esplosioni di rabbia. Colpa delle frequenti esplosioni di rabbia. Delle ragazzate di Rob. Tirò un sospiro. Uno due e tre e la calma torna a me.

    "Mamma, senti…"

    "BASTA COSI’!PER QUANTO MI RIGUARDA IL DISCORSO E’ CHIUSO, ROB. E FINGIAMO CHE NON SIA MAI COMINCIATO. CONTINUA PURE A FREQUENTARE QUELL’ALAN SMITH, SE VUOI. SPOSATELO PURE, SE VUOI. MA LA SERA TI RIVOGLIO A CASA CON ME. E’ CHIARO?"

    "S…SEI UNA MALEDETTA EGOISTA! IO AMO ALAN…LO SAI COSA VUOL DIRE AMARE, MAMMA?"

    Lì era partito lo schiaffo.Veloce, furioso, infido. Subito, sulla guancia destra di Robert, era apparsa l’impronta rosso fuoco delle cinque dita di Virginia.

    "Rob…oh, Rob scusa…scusami bambino io non…"

    "Non mi toccare. Non ti darò mai più motivo di toccarmi,mamma.Te lo giuro.".

    L’aveva fulminata con lo sguardo.

    E’ una ragazzata.Non temere Vivgi baby.E’ per il suo bene.

    ("se vuoi il mio bene, mamma")

    Cosa ho fatto? Non dovevo schiaffeggiarlo, no.Non è bene che

    (è per il SUO bene, Vivgi baby. Per evitargli altre ragazzate)

    ed era uscito di casa sbattendo la porta con violenza. Virginia era impallidita avvertendo l’inquietudine nel cuore.

    Quella era stata l’ultima volta in cui aveva visto suo figlio vivo.).

     

    Virginia si rigirò nel letto.

    I fumi del valium stavano disperdendosi in quel labirinto senza uscita che era la mente della donna. Azzardò un’occhiata obliqua alla bottiglia semivuota di vodka sulla sedia accanto al letto.Vodka. Chissà poi perché aveva scelto di darsi all’alcool proprio con la vodka. Forse le piaceva l’odore. O il colore. Ma i russi. I russi sono russi, che cribbio. Non le piacevano i russi e il loro colore, ecco. Da quando, poi, aveva letto in quel trafiletto del Times che nei mercati rionali RussiRossi

    Circolavano polpette di carne umana spacciata per comune maiale, bhè; Virginia poteva asserire con sicurezza che le piacevano sempre meno. Polpette di carne umana. Meglio cavolo crudo per un mese di fila che mangiare polpette d’uomo. Meglio non mangiare.

    O mangiare. Rob.

    Quante volte aveva pensato d’amare così tanto suo figlio da…mangiarlo?

    Ma sono cose che qualunque madre pensa, sciocca. PENSA. Sai che significa PENSARE? Oppure hai talmente perse le biglie che non sai più cosa significhi anche quello? Si tratta di semplici metafore, modi di dire e pensare, allegoria, immagine ecco. Tutto qui.

    Tutto qui.

    E mettiti il cuore in pace, Virgi. Fai la bvava bambina.

    Polpette di carne umana. Polpette di uomo.

    Polpette di Rob.

    ("Se mi vuoi bene, mamma".)

    Gettò la testa all’indietro ed un crampo improvviso al polpaccio sinistro la fece gemere di un dolore sordo, fisico e d’animo;

    una pulsazione che

    lo sapeva, le sarebbe rimasta tutta la notte.

    Un’emicrania terribile. Dalla busta della spesa sbucava un gambo di sedano ed una confezione di pasta d’importazione. Virginia salì i suoi bravi dieci scalini giornalieri

    (a pranzo farò pasta e ceci. Ho preso i ceci? Si.Anche la pasta precotta, così non perdo tempo in pentola e fornello. A Rob piace tanto. Al ritorno dal pub gli parlerò… voglio farlo ragionare, quel benedetto ragazzino; io ho rinunciato a tutto per lui, per crescerlo come un bambino…normale. Si, è un ragazzino e la sua è la classica ragazzata adolescenziale. Ma è così sensibile. Troppo.).

    Lo vide entrando in casa, Rob. O meglio, di lui inquadrò un particolare: i piedi. Buffo. Lo sguardo di Virginia puntò diritto ai piedi nudi e a quel cadenzato, ritmico ciondolare;risalì lento sondando un metro e novanta di pelle e muscoli in tensione e peli, polpacci, ginocchia,fianchi, torace,collo in curiosa simbiosi con la corda, la trave ed il gancio della lampadina, la testa piegata di lato e la lingua violacea ("se mi vuoi bene") , gonfia e sporgente, gli occhi spalancati ("Se vuoi il MIO bene, mamma") e vitrei .Virginia aprì la bocca senza emettere suono,la busta con la spesa le cadde di mano e non se ne accorse.

    -B…b…bambino!- riuscì a squittire, -Bambino!-, ripetè. Poi, visto che il bambino da lassù le faceva il dispetto di non voler né scendere nè rispondere, Virginia lasciò il corpo dov’era in silenzio, rispettando la sua decisione di non risponderle. Sedette davanti alla TV a sgranocchiare Pop Corn e aspettando che lui si decidesse a scendere per farle compagnia. Non aveva più voglia di preparare la pasta e ceci e anzi, aveva deciso che quando Rob sarebbe sceso gli avrebbe parlato. Si.Gli avrebbe detto che ci aveva ripensato e poteva andare a vivere col suo Alan. Senza rancore, né per lui né per Alan.Però ogni tanto le avrebbe fatto piacere averli a pranzo, per una pasta e ceci improvvisata lì per lì magari, con la pasta precotta. Comunque la pasta e ceci che doveva preparare in QUEL giorno l’avrebbe cucinata il giorno dopo, si. C’era tempo per preparare la pasta e ceci; tutto il tempo di cui Virginia aveva bisogno. Si addormentò guardando un film di John Waine. Verso le due di notte avvertì lo stimolo di andare in bagno ma piuttosto che disturbare il suo piccolo Rob dal sonno riparatore accendendo la luce se la sarebbe fatta addosso. E così fece. Alle quattro circa si trascinò, al buio, dalla poltrona al letto, evitando di gettare pure un’occhiata furtiva alle sue spalle, alla sagoma ciondolante dal soffitto. Furono i vicini, tre giorni dopo, a chiamare la polizia per l’insopportabile ODORE ("Proprio così, Agente Terns. Un odore insopportabile. Non vorrei fosse accaduto qualcosa di spiacevole alla signorina Virginia perché sa, è una così brava ragazza. Certo, la gente mormora e quel suo bravo ragazzo pare abbia amicizie…pendenti all’altra sponda, capisce agente? Ma tant’è. Finché non danno fastidio alle persone perbene. Lui non l’ho più visto e neppure quel suo amico strambo coi capelli arancioni e l’orecchino che quando l’ha incontrato mia figlia Mary in ascensore –sa agente, la moglie del pescivendolo all’angolo con la sesta; Il "Merluzzi D’Oro & C.." di Billy De Vita…si, Billy De Vita è mio genero, si, un italiano, si, dalla Sicilia e vedesse i miei nipotini! Cinque marmocchi tutti la madre!- l’ha scambiato per una di quelle vestita da maschio. Forse il ragazzo, Rob intendo, ha litigato con la madre. Li sento gridare spesso…Provate a bussare ancora, si…eeeh, questi giovani! Ma sentite il tanfo, agente?! Terribile!

    Oh! MrS Jones! Parlavamo della cara signorina Virginia..Anch’io non la vedo da giorni…ha sentito agente?C’è qualcosa di strano…questi giovani non sono mai contenti di ciò che Dio ha dato loro…al quarto piano, su…c’è una ragazza, un’australiana e vedesse agente! Uno diverso ogni sera! E non importa il colore o la razza! E pensare che ai miei tempi non potevo neppure guardarlo, un ragazzo, senza che mio padre mi mollasse una cinghiata! Ho conosciuto il mio Sigmund, biblicamente intendo, solo dopo il matrimonio…un mese dopo! Volete buttare giù la porta? Ooooh, si, mi sposto…stia attenta MrS Jones, venga da questa parte…")

    che proveniva dall’appartamento.

    Quando l’agente Terns irruppe in casa, la signorina Virginia s’accingeva a preparare la pasta e ceci sotto gli occhi spalancati, vuoti e attenti del figlio nudo, impiccato ad una trave del soffitto.

    * * * *

    Il taxi nero che aveva fatto gloriosamente il suo tempo s’arrestò con uno stridìo di gomme davanti all’ingresso del Chéz Maxim Restaurant. Sandy Ann aveva smesso da tempo di domandarsi il perché Jim amasse tanto cenare nei locali più esclusivi della capitale; era semplicemente cresciuto frequentandoli e sarebbe invecchiato frequentandoli. Lei, al contrario, aveva abitudini "magre" in tal senso; adorava le trattorie italiane, quelle di periferia con le tovaglie grandi quanto un lenzuolo a due piazze a quadri rossi ed il fiasco di vinello toscano vicino all’immancabile Evian o, meglio, la Perlier. Al massimo poteva concedersi una Cola dietetica. Amava mangiare a lume di candela con una madre spettinata e isterica che strilla dal tavolo vicino al suo bambino perché le olive non si tirano addosso agli altri e un cameriere grasso con calvizie incipiente che mastica tabacco che ti chiede con piccato accento siciliano come vuoi la pizza o la cotoletta o gli spaghetti annotando gli ordini su di un taccuino orrendamente macchiato di salsa al pomodoro.

    Eppure deve esserci un significato in questa differenza di gusti tra me ed il fidanzato quasi marito.

    Non fare la sciocca,Ann. Non può esistere un significato per TUTTO. E’ così e basta.

    Jim è semplicemente, maledettamente cresciuto nella bambagia, accidenti a lui.Tu ora devi solamente comportarti

    (da bvava bambina)

    Devi solamente comportarti "da ciò che sei"; la Sandy Ann che lui ama.La futura moglie di un uomo che ama cenare al Chéz Maxim Restaurant e si pulisce la bocca in "adorabili ritagli di seta", come definisce Jim i tovaglioli di noi comuni mortali. Caviale e champagne e che sia del migliore, mi raccomando a Lei Monsieur Maxim.

    Come sempre signore; solo il meglio.

    Ora, Ann cara, pensa che il tuo fidanzato quasi marito sta condividendo con te metà della sua nuvola quotidiana.

    -Anche se quando la divide ha le calzette bianche?-, sussurrò Sandy Ann, e le scappò da ridere.

    Il taxista coreano la squadrò dallo specchietto retrovisore.

    -Prego, signora?- buttò giù, come che la cosa non gl’interessasse veramente.

    -Niente. Scusi.

    Quanto le devo?-.

    Saldò il conto all’autista che ripartì sgommando. Si strinse nello spolverino Chanel e tacchettò verso l’ingresso illuminato a giorno, ben attenta a non incespicare nelle pozzanghere fangose, fastidiosi souvenirs della pioggia di un’ora prima.

    Sei bella ugualmente, avrebbe detto Jim.

    Bella.

    Bella Sandy Ann lo era davvero. Come un tempo lo era stata sua madre; Selena Howard in Johnsonn.

    Una bella bambina.

    Una bvava bambina.

     

     

    LA FAVOLA DI SELENA

     

    Era sempre stata bella, Selena Howard in Johnsonn. Sin da bambina quando sua madre le acconciava i capelli in setosi boccoli biondi e forcine dorate con la farfallina raffigurata alle due estremità. E i vestiti. Per la piccola contessina dovevano essere impeccabili ed esclusivamente d’alta sartoria; magari italiani visto che gli italiani, almeno per cucinare spaghetti, suonare mandolini e creare vestiti d’alta sartoria erano i migliori.Ogni giorno, alle cinque del pomeriggio, la madre convocava la dolce Selena perché le piaceva come la bambina faceva l’inchino alla sua vista.

    -Buongiorno, buon pomeriggio e buona sera, madre.Buona notte, madre.-, diceva Selena agitando i boccoli da una parte all’altra come una bambolina meccanica.

    -Avrei tanta voglia di ascoltare una fiaba, madre.-.

    Ho soltanto bisogno di un cachet per quest’emicrania che non mi lascia respirare, bambina. Ma se hai voglia di una fiaba non c’è problema. Ti accompagnerà a letto la tata Clotilde e la favola la leggerà lei.E che sia una bella favola, mi raccomando Clotilde.Non voglio che la piccola ne sia turbata.

    Non si turberà, signora Johnsonn, glielo assicuro.Nulla al mondo potrebbe turbare la vita della contessina.Nulla al mondo.

    Tranne forse le urla che aleggiavano come fantasmi la notte, nella sontuosa dimora inglese dei Johnsonn. Parevano partire dalle bianche scogliere di Dover, quelle grida, per estendersi su, più su, per tutta la brughiera e bucare le nebbie e finalmente giungere a grattare le mura della villa, ticchettare piano ed insinuarsi nelle nascoste crepe dell’animo, districare i pensieri e confondere le menti. Selena, durante quelle lunghe notti,si raggomitolava sotto le coltri e singhiozzava in un chioccolìo sommesso, le manine a premere sulle orecchie e i denti serrati per non gridare anche lei. Ma era proibito gridare.Perché una contessina non grida. Selena Johnsonn non DEVE gridare. A volte le urla erano come squittii lunghi, intermittenti, seguiti da uno scalpiccio per i corridoi dell’Howard’S House; i bisbiglii e l’agitazione della servitù, le luci ballerine giù, nel cortile.E Selena sapeva che il mattino dopo, a colazione, sua madre non sarebbe stata presente.Ed in un certo qual modo la bambina ne era (felice?) soddisfatta perché ultimamente le capitava di sognarla, sua madre la contessa e non le piaceva per niente il modo in cui la vedeva in sogno.Era altera, si, ma altera lo era davvero coi suoi colletti bianchi alti e rigidi, inamidati di fresco ed i capelli costretti in uno chignon perfetto; senza un solo ricciolo fuori posto. Selena ricordava una sera in cui, di nascosto della contessa, si era intrufolata nella camera da letto dei genitori.Ed era bellissima, quella camera; legnosa e piena di porcellane e argenti e libri,e antichi arabeschi e i letti separati e Tromp L’Oeil in stile rinascimentale.Selena amava prendere tra le manine lo specchio ricco d’intarsi della sua mamma; agitare la testina con aria civettuola come non poteva fare davanti a lei,assolutamente.Si specchiava e sorrideva al riflesso e tingeva le dita nella boccetta di cristallo dell’acqua di lavanda e si dava un tocco lì, appena dietro il lobo destro, lì dietro il sinistro e nell’incavo dei polsi come aveva visto fare una volta alla cameriera Rose prima che corresse in paese all’appuntamento col suo ragazzo, medico condotto figlio di allevatori di galline da quattro generazioni.Quella famosa sera, dunque, s’erano sentiti i soliti passi frettolosi per il corridoio e Selena si era nascosta (subito, subito! Nasconditi fra i cespugli che sta arrivando il Lupo Cattivo!) dentro il guardaroba.La contessa era entrata in camera come una furia, aveva sbattuta violentemente la porta. Selena la sentiva passeggiare su e giù per la camera.Poi, di colpo, non l’aveva più sentita.Allora la sua curiosità bambina aveva avuto il sopravvento sul terrore d’essere scoperta e aveva aperto un minuscolo spiraglio tra il guardaroba e l’esterno; invisibile finestra su quella creatura tanto amata ma temuta.

    (ora le farò una sorpresa,una bellissima sorpresa che quando mi vedrà fare tanto tanto la bambolina sono sicura che non mi sgriderà per niente proprio no sarà contenta e sono sicura che…)

    Sono sicura… che.

    La madre, che aveva disciolti i lunghi capelli davanti al riflesso della specchiera dorata, quella coi putti appesi attorno alla cornice, scioglieva i riccioli (stirava i capelli, li stirava con la spazzola e con le mani) stirava i capelli forte, troppo forte (stai attenta mamma così ti fai male quelle ciocche di capelli fra le mani e il sangue che hai Oddio ti fai male,così) e la bocca della madre, raggrinzita in uno spasmo (un ghigno da strega..La Brutta Strega Cattiva che mangia i bambini in un solo boccone gnam-gnam tieni tutti questi bei dolci e fammi sentire il tuo ditino se è diventato più grasso) strano, e diverso.

    -Maledetti tutti quanti siete, maledetti voi che volete solo il mio male ma il Signore vi punirà. Tutti quanti-, mormorava in una cadenza di ninna nanna la contessa stirandosi i capelli. Selena lentamente aveva richiuso la sua finestra sulla creatura. S’era accntucciata fra cappotti, pellicce e cappelliere di varie misure.

    -Uscirò dopo-, aveva pensato con occhioni spalancati da cerbiatto sparuto.Ed erano ricominciate le urla, ululati forti e continui di rabbia e dolore e rancore e odio assieme in un unico , alieno suono. Selena era rimasta nascosta dentro l’armadio pregando la fata buona (perché io so che esisti e so anche che quella signora là fuori che grida tanto non è la mia mamma la mia mamma è diversa è sempre composta la mia mamma e i capelli li ha raccolti bene non così…così. Ti prego fata buona vieni qui e portami via portami in un posto lontano dove posso chiamare mamma la mia mamma e non madre e lei non urla perché deve urlare se abbiamo tutto nella vita lo dice sempre anche Clotilde che abbiamo tante cose belle e sono una bambina fortunata ma portami via di qui, fata buona.).La fata buona non era arrivata (non avrà sentito che la chiamavo) e Selena s’era addormentata piangendo. Al risveglio, le urla erano cessate e la bambina,intirizzita dal freddo, sgranchiti alla meglio gli arti era sgattaiolata finalmente dalla camera dei genitori (vuota, è vuota.E buia) alla sua.Il mattino,la mamma era presente.Almeno fisicamente.Contemplava assorta il vaso Baccarat ricolmo di magnolie posto su uno dei due trumeaux Luigi XV accanto alle alte finestre drappeggiate di rosso tiziano e crema, il conte Howard era assorto nella lettura delle Confessioni di Rousseau, sprofondato nella poltrona di pelle nera (la preferita) quando Selena a capo chino, pallida e smunta, aveva fatto il suo ingresso in sala, accompagnata da Clotilde.La tata salutando aveva fatto un inchino grazioso ed inverosimile per la grossa mole e s’era ritirata alle proprie faccende.La contessa, senza degnare la tata di risposta alcuna, aveva impercettibilmente sollevato un sopracciglio.

    -Buongiorno, Selena-

    -Buongiovno, madve-.

    Quella mattina era cominciato il difetto di pronunzia della bambina. Non grave, certo.Ma era un’imperfezione e ciò ch’era imperfetto dava fastidio alla contessa Johnsonn in Howard.

    -Devi parlare bene, piccola strega…come ti è stato insegnato a fare-

    -Pevdonami, madve-

    -Queste IMPERFEZIONI mi mandano in bestia, Frank-

    -E’ una bambina, Laurel cara.Bisogna avere pazienza e sono sicuro che questa IMPERFEZIONE sparirà-

    -Pevdonami, madve-

    -Non ce la faccio più con quella bambina.La tata mi ha riferito che ieri pomeriggio l’ha trovata davanti alla MIA specchiera che annusava i MIEI profumi-

    -Abbi pazienza, Laurel cara.Crescendo cambierà.-.

    -Pevdonami, madve.-.

    -Oramai Selena ha l’età giusta ; ho pensato ad Oxford, Frank-

    -Mah…abbiamo sempre parlato d’una istruzione di tipo privato, Laurel cara-

    -Sono convinta che il contatto quotidiano con altri giovani della sua età le farà bene.E farà bene anche alla sua IMPERFEZIONE.

    Ti trovi in accordo con la mia proposta, Selena?-

    -Mi tvovo in pevfetto accovdo,madve-.

    Quello stesso anno, Selena ne aveva sedici,durante una lezione di letteratura francese il rettore in persona la mandò a chiamare.

    Come sta,Miss Howard? Segga, segga. Non abbiamo mai avuto dubbi sul fatto che l’antica e onorata tradizione dell’Oxford non poteva che esserle congeniale.

    E’ pevfetta, grazie signove.

    So che è una delle migliori allieve del corso, Miss Howard.

    Faccio del mio meglio, grazie, signove.

    Dunque, signorina… .Spetta a me, purtroppo, il doloroso compito di darle una brutta notizia.

    Mi dica, signove.

    Si tratta di sua madre,la cara contessa Laurel tanto stimata ed ammirata da noi tutti.Ecco… purtroppo la notte scorsa ha avuto uno spiacevole incidente.

    Cosa è successo

    Bhè, penso sia meglio che sia proprio suo padre il conte Howard al metterla al corrente dell’accaduto e…

    E’ movta?

    MISS HOWARD!? Oh Signore, no, cosa va a pensare! No, non è morta.Comunque le verranno concessi venticinque giorni di permesso. Può tornare all’Howard’S House, signorina, e porti i miei sinceri cordogli per l’accaduto al conte suo padre.

    Pvoddedevò, grazie signove.

    Buongiorno, e buon viaggio.

    Buongiorno, signove.La ringvazio.

    L’aria era umida e soffice, nel cielo splendevano ancora le ultime stelle quando la Rolls di famiglia aveva imboccato il viale d’ingresso alla dimora degli Howard; punteggiato da cipressi ed olmi potati a regola d’arte. A Selena era andata incontro la vecchia e saggia Rose, ogni anno più rugosa, curva e rigorosamente zitella ("Io sposarmi ?Oh, Signore, cosa le passa per la testa, contessina?!Oh Signore…no, non potrei mai abbandonare l’Howard’S House per…per un uomo!").

    -Buongiovno, Vose-

    -Bambina mia!Che il Signore la benedica…è talmente bella!-

    -La ringrazio, Vose.Mio padre?-

    Gli occhi della governante s’erano velati un attimo.

    -E’ in biblioteca.Lo faccio chiamare subito.Ma venga contessina, venga dentro al caldo chè qui manca poco a piovere ancora…ha piovuto tanto, quest’anno.Ha piovuto troppo e questo intristisce gli animi già provati dal dolore. SERGE! Porta su le valigie della contessina, avanti, giovane pelandrone! Eeeeh, questi ragazzetti di brughiera! Tutti birra rossa,fumo e sale da ballo di paese.Su, su! Nella camera degli ospiti-

    -Come?- domandò infastidita Selena ma senza perdere il controllo. La vecchia governante sospirò. –La sua camera è…ecco,ordini tassativi da parte del conte suo padre. Nella camera non è possibile soggiornarvi, al momento.Ma mi segua contessina, le servo subito una bella tazza di the caldo,al bergamotto, il suo preferito.Ho anche fatto preparare dalle cuoche quelle cialde che amava tanto,le ricorda?-

    -I miei gusti sono cambiati ova, Vose-.

    -Ah… .Comprendo, contessina. Perdoni il mio ardire-

    -Nulla di che, Vose.-.

    Selena carezzò con mano guantata di bianco il lungo pianoforte a coda e colse un rametto delle immancabili magnolie dal capiente vaso cinese sulla mensola del camino in pietra. Sciolse il nastro di seta nero del cappellino in paglia e lo lasciò volare sopra il divano.

    La figura del padre, in vestaglia da camera terra bruciata, s’inquadrò sulla soglia.

    -Bentornata, cara Selena-, disse in un soffio e alla ragazza non sfuggirono gli occhi gonfi e cerchiati nero dietro gli occhiali da lettura, l’incarnato cereo e le tempie d’argento.

    -Il Vettore m’incavica di espvimevti il suo profondo cordoglio pev…-

    -Non mi chiedi come sta tua madre?-

    -Cevto.Come sta?-

    -Siedi, figliola.

    Mi addolora immensamente questa tua freddezza nei nostri confronti, Selena.In questi anni mai una lettera se non alle feste comandate,mai una telefonata o una visita-

    -Lo studio vichiede impegno, padve cavo.

    Posso sapeve cosa è capitato?-

    -Ecco…si. E’ giusto che tu sappia. Hai sempre sospettato, credo della… cagionevole salute di tua madre, della sua grande sensibilità-

    (della sua pazzia)

    -Si-.

    -Bene.-

    (Ti è così difficile dirlo, padre? PAZZIA? E’ una parola troppo difficile per te. Siete sempre stati così bene, tu e lei. E tu ti accontentavi del tuo immenso e disperato amore a senso unico pur di averla vicino. Anch’io andavo bene per voi fino a che non disturbavo, fino a che ero PERFETTA)

    Selena pensò e non disse, solamente guardò suo padre.E l’uomo non resse lo sguardo.

    Virò vacuo alla vasta vetrata, gli alberi fuori e l’erba tagliata a fresco, le fronde d’una vite americana arrubinate dall’autunno e saltate dal vento.

    -La notte scorsa tua madre ha avuta una crisi più forte delle altre. Si trovava nella tua camera,quando è successo. Lei è… è stata colta da un infarto e…una semiparesi e…oh, Sant’Iddio!-

    Il conte Howard non riuscì a proseguire. Trascinò le membra sopra la sua poltrona di pelle nera, vi s’accasciò esausto.

    Sospirò, roco, fissando le proprie mani nodose e torturandone le dita.

    -I medici che ho consultato dicono che sia una fortuna che l’infarto non l’abbia portata via ma il suo volto, Selena…Sant’Iddio, il suo bellissimo volto!-

    Di colpo l’uomo riacquistò (cercò di riacquistare) il consueto contegno. Noblesse oblige.Tastò un sigaro, assorto.

    -Vai su a trovare tua madre,Selena. Sono sicuro che le farà piacere.-

    -Come desidevi-

    -Selena?-

    -Mmmh?-

    -Perdonala. Perdonaci.

    E’ una preghiera la mia, Selena-.

    E Selena sorrise di un sorriso malevolo, vendicativo. Un sorriso che non era già più il suo.

    -Non lo so-, disse sicura. E lasciò la sala.

    Restava aggrappata al corrimano come fosse l’unica cosa sensata da fare in quell’istante; come fosse l’ultimo battello libero in un mare in tempesta, mentre la nave affondava alle sue spalle.Doveva attraversare il corridoio buio per arrivare alla camera di sua madre. E non ci riusciva, era più forte di lei e le mancava l’aria, avvisava le forze venirle meno come pure i pensieri.

    -Contessina?-. Era Rose, giù, sull’ultimo gradino di granito ricoperto parzialmente da una passatoia di velluto rosso e oro.

    -Tutto bene, cara?-

    -S…si, gvazie. Una piccola vevtigine, ma è passata-.

    Lasciò andare il corrimano che ora bruciava sotto le dita e, finalmente, giunse dinanzi la porta della camera.Bussò una, due volte. Non ebbe risposta, entrò.

    Nella penombra la colpì una zaffata aspra d’alcool e penicilline e colonia di lavanda inglese.

    Come conosceva bene quella camera! Il letto e la specchiera (il guardaroba) e i vasi Baccarat di magnolie sempre fresche (e il guardaroba) i comò legnosi e l’icona di un Cristo appena sopra uno dei letti, il catino e la brocca di preziosa fattura veneziana nel loro sostegno in ferro battuto, decorato a foglia d’oro.Il paesaggio campestre lì, sulla parete ovest e la caccia alle volpi su quella est, la collezione di quasi duecento bambole di fine porcellana Bisquit in abiti d’epoca nella vetrina di fianco alla specchiera, piatti e tazze in miniatura appartenenti al settecento francese. E il pouf rivestito di broccato rosso come le tende,dove la mamma soleva sedersi per spazzolare (tirare? Strap…pare?) i capelli. Si.Tutto era uguale come lo ricordava.. Tutto. Solo la figura accartocciata tra le coltri era diversa. Non era sua madre, la SUA bellissima Laurel quella; ne era solo la patetica e tragica controfigura, storta,la bocca bloccata in un ghigno da maschera greca e la pupilla dilatata, la mano storpia e anchilosata. Dormiva con la palpebra sollevata, a quanto pare. Per fortuna dormiva. Selena la fissò per un lunghissimo istante. S’avvicinò al letto senza toccarla,trattenendo il respiro. Poi tornò sui suoi passi, fece per uscire ma sorrise. S’arrestò davanti la specchiera, sedette sul pouf. Sciolse i capelli biondo cenere. Raccolse la spazzola d’argento, la passò sui riccioli una, due, tre, quattro volte. Arrivò fino a cento; fino a che i riccioli s’arresero al liscio. Selena intinse il dito indice ed il medio nella boccetta di colonia alla lavanda, profumò il collo e appena dietro i lobi delle orecchie; su gl’incavi dei polsi, la base del collo. Bagnò il piumino della cipria per spolverarsi guance e naso e con un tocco di rosso ciliegia umettò le labbra pallide. Ecco. Perfetto. Ora manca solo una cosa. Cosa manca cara? Tu sei IMPERFETTA, ricordalo sempre. E anche se tenti di somigliarmi sei imperfetta lo stesso e non ci riuscirai mai. Guardati il naso per esempio. Stai zitta, madve. Guardati le labbra, sono più fini delle mie, io le ho morbide e carnose, naturalmente rosee anche senza il rosso ciliegia. Stai zitta madve. E il naso, il naso ha una gobbettina dove il mio non ce l’ha; lo vedi?

    No madve.

    Selena aprì il guardaroba, levò la vestaglia preferita da Laurel; in cachemire nero con l’effigie della famiglia intarsiata in oro sopra il seno. La indossò sulla divisa del college. Perfetta. Era davvero perfetta, adesso. Così conciata tornò ad accostarsi al letto dove la madre ancora dormiva. Ova mamma sono come te.Sono pevfetta.

    "Sono pevfetta, madve", volle dirle. Ma non la svegliò; era troppo diversa, troppo…IMPERFETTA, lei. Lo sguardo virò alla specchiera. Ecco, quella era sua madre. La riconosceva bene, lei e i suoi capelli lunghi e lisci e le sue labbra e le sue guance e la sua vestaglia di cachemire nero con l’effigie della famiglia Howard proprio sopra il seno.

    -sono davvero pevfetta-.

    -Sant’Iddio- era sfuggito sommessamente dalle labbra del conte Howard, di fianco alla giovane infermiera che aveva in cura sua moglie.

    Selena era trasalita.

    -LEVATI SUBITO QUELLA ROBA. TU NON SEI TUA MADRE!-
    (e non lo sarai mai)

    (e non lo sarai)

    (MAI!)

    Selena era arrossita fino alla punta dei capelli ed in quel la donna immobilizzata nel vasto letto legnoso s’era svegliata.

    -C…che ac…c…cade?- aveva biascicato in un mormorio sfibrato e storto. Selenee pupille erano scivolate da lei al soffitto,dal soffitto alla parete di fronte e, roteando su sé stessa in una nuvola di tessuti, la giovane era caduta in terra priva di sensi.

    Il conte s’era limitato a punteggiare un’occhiata di ghiaccio sull’ infermiera spaventata.

    -La soccorra pure-, le aveva sibilato, -Ma non faccia mai parola con nessuno di ciò che ha visto e sentito. Sono stato chiaro?-

    Un sospiro mozzo.

    -si, signore-.

     

    "Ninna nanna, ninna oh

    Questa bimba a chi la do

    La davò all’uomo nevo

    Che la tiene un anno intevo

    La davò alla sua mamma

    Ninna nanna ninna oh

    La mia Vivgi a chi la do."

    (-Sei una bvava bambina, Vivgi cava.

    Non come Sandy Ann. La piccola Sandy Ann è una bambina disobbediente e cattiva imperfetta che non si lascia mai pettinare dalla sua mamma.).

    Virginia tornò alla realtà. Aprì gli occhi.

    Luce.

    Li richiuse, strizzandoli. Se il buio potesse prendermi con sé una volta per tutte.Definitivamente.

    Ma no. Non andava bene. A quanto pare il Creatore, se un Signore là in alto c’era a spiare e muovere i destini del mondo; bhè quel Signore, volenti o nolenti, non voleva saperne di prendersi la sua anima. O forse, come predicava da anni in TV Fratello Lawrence, l’anima di Virgi era sempre stata Sua dall’inizio, continuava a farle pagare l’affitto giorno per giorno un affitto molto CARO e per ora gli bastava così, al Signore Burlone.

    Si era attaccata morbosamente al SUO Rob smettila, Virgi dimenticando, tralasciando che un figlio non è una proprietà. Non è il riscatto degli errori passati Rob lo era stato, non è così Virgi cara? .

    Virginia allungò la mano verso il comò, raccolse il bicchiere con l’acqua. Protese con sforzo enorme busto e bacino, portò il bicchiere alle labbra screpolate e tremanti e bevve avidamente facendo cadere quasi metà del contenuto sulla coperta di lana pachwork. Restò un istante così, il bicchiere stretto tra le mani e la testa dolorante d’una emicrania che non accennava a darle pace. Il campanello dabbasso prese a suonare insistentemente , tanto da far riaffiorare Virginia dai pensieri brumosi. Scrutò oltre le imposte.C’era il sole, fuori. Forse era il ragazzo coi volantini pubblicitari del detersivo per lavatrice. O Misty Senior per il vuoto del latte di qualche giorno prima quanti…giorni prima? . Okay. Chiunque sia e accidenti a lui, smetterà pure di suonare No, Virgi…non farlo smettere. NON DEVE smettere perché tu sei quassù che ti lasci morire. Questo nessuno lo sa. Virginia avvertì una nuova fitta al polpaccio. La damina della stampa inglese sollevò il braccio con espressione corrucciata.

    Eeeeeeh, Virginia. Già, già.Mi sa che stavolta è la volta buona

    -Torna a bere il tuo the-, rispose Virginia alla damina.

    Credo che una bella tazza di THE farebbe bene anche a TE, Virgi baby. Dài, ammiccò quella, parlami di te.Ormai possiamo dire tranquillamente di essere diventate amiche, non credi? Non è da tutti essere mia amica, signorina.

    -Credo tu dica la verità, Madame Butterfly, e ne capisco il motivo-

    OooooooH! Senti senti che bel nome mi hanno dato, AndreW!

    La damina si rivolse ad un cavaliere che giungeva in quel preciso istante nel prato, coi capelli biondi al vento ed il frustino tra le mani robuste.

    La senti, AndreW? Mi ha chiamata Madama Butterfly!Non è romantico?!Oh Signore, che nome carino…come dicono a Paris? Trés, trés chic!

    « JOLIE ! », s’intromise l’altra dama seduta sull’erba, « Si dice jolie ! »

    Oh, merci. "Jolie". Madame Butterfly…Signora Farfalla.Io adoro le farfalle, lo sai Andy ?

    Il vento soffiò con maggiore forza e la mantellina di pizzo della dama seduta volò via.

    A Virginia arrivò una zaffata d’aria odorosa di primule selvatiche e trifoglio. Madame Butterfly fece per accomodarsi le gonne, poggiò la tazza del The in un angolo della tovaglia sul prato.

    Allora, signorina Virgi cara, vuoi parlare con me? Ti converrebbe parecchio.Io non costo nulla.Eppoi non cercherei una spiegazione razionale in tutto quello che dici, come fa qualche strizzacervelli di tua conoscenza.Te lo giuro, Virginia cara. Non ti chiuderò in nessun maledetto istituto per malattie mentali, IO. No, cara che non lo farò.Non lo farei mai, io.Non sono tua madre, IO.Vuoi credermi?

    La damina sorrise e gli occhi ebbero uno scintillìo sinistro.

    Vuoi credermi, Virginia?

    * * * *

     

    -Vuoi credermi, Virginia?-

    -N…non lo so, Ann-.

    -Ricordati sempre che io e te siamo legate,Virgi. Lo dicono tutti che essere gemelli è una cosa diversa, rara. E’ speciale. E perciò, se io mi fido di te e ti credo tu devi fare lo stesso. Dài, giura-

    -Non so se facciamo la cosa giusta, ecco-.

    Sandy Ann raccolse un bastoncino dalla sabbia. Tracciò una figura astratta. La cancellò col pugno e disegnò un sole grande, i raggi lunghi e sparsi. –Sei sempre la solita fifona-, mormorò spazientita, -E aggiustati la bretella della tuta chè se ti vede così mamma passi tutta la notte in cantina, al buio-.

    Virginia rabbrividì, sistemò la bretella rossa con movimento lesto, guardandosi attorno. Sandy Ann frugò nella tasca della gonna a quadri scozzesi. Levò un piccolo cubo multicolore.

    -Cos’è?- domandò Virginia.

    -L’ho fatto ieri notte, in cantina. L’ho fatto tutto da sola sai, coi pezzetti di cartone colorato che c’erano sul pavimento-

    -Al buio?-

    -Già. Al buio. Ma era come se vedessi tutto quello che facevo, Virgi. Usavo l’immaginazione. Tieni. Prendilo. Lo puoi usare, se vuoi.

    Si chiama "scatola cinese"-

    -Perché "cinese"?-

    -L’avranno inventato i cinesi, bhò. E Sandy Ann l’ha brevettato. Prendi-.

    La sorella rise gioiosa –E’ bellissima! Sono una dentro l’altra!!-

    -Si.-.

    Sandy Ann riprese a tracciare cerchi sulla sabbia. In lontananza, sul lago dorato dal tramonto di fine estate, un modesto gruppo di canoisti procedeva vogando lentamente, con scatti meccanici.

    Sandy Ann spiò la sorella che, con immensa meraviglia, faceva uscire tutte le scatoline e le poneva in fila indiana sopra un grande masso. Suo malgrado non riuscì a sentirsi felice.

    -Ci sono i topi, in cantina-, sussurrò. Si morse il labbro inferiore.

    Le manine di Virginia s’arrestarono a mezz’aria.

    -Mmmh. Lo so. Speravo che…non te ne accorgessi. Hanno fatto il nido nel canterano della nonna, quello che quando apri gli sportelli diventa un altare-. (…)

     

    MATER DOLORIS

    mama de sa suferentzia

     

    "Io sono dolore"

     

     

    Dall’ Autrice Nomination al Nobel per la Letteratura

    _________________________________________

     

    ROMANZO

    Progetto grafico LP 21, ROMA

     

     

    "In un batter d’occhio il mio animo muta. A volte un lieto raggio di vita torna a brillare, ahi! Per un istante solo!… Quando mi perdo in fantasticherie non posso scacciare questo pensiero: - Cosa capiterebbe, morisse Alberto? Tu saresti! Sì lei diventerebbe…-, e via sulle tracce di questa chimera fin sull’orlo di abissi donde mi ritraggo con un brivido.

    Se prendo fuori porta la strada che presi la prima volta che accompagnai Lotte al ballo, come tutto è mutato! Tutto, tutto è svanito! Nessuna traccia di quel mondo, nessun palpito di quei miei sensi.

    Mi sembra d’essere uno spettro che torna e trova distrutto dal fuoco il castello da lui costruito e ornato con ogni magnificenza quand’era fiorente principe; e che morendo aveva legato fiduciosamente al figlio prediletto."

     

    J. W. GOETHE

    "Che il numero abbia sempre goduto di grande rispetto è cosa nota. S.Agostino diceva: ‘nei numeri vi è quello che di sacro e di misterioso vi è nelle Scritture’. E Pitagora, e dopo di lui Platone, riteneva che il numero fosse l’ Essenza delle cose, la manifestazione dell’ Uno supremo. Ogni persona, attraverso la propria data di nascita ha in sé un numero; ogni numero ha un significato ed una vibrazione.

    Il 6 è la psiche in tutte le sue accezioni, il 5 è il sesso, sia femminile che maschile, il 7 è introspezione, studio, meditazione, conoscenza e mistero. Il primo numero indica come si è visti dagli altri, il secondo numero indica come si è dentro, il terzo numero, l’anno di nascita, sommando le varie cifre indica il karma. La somma di tutti i numeri, in questo caso il 9, è il destino: indica l’Opera completa, che chiude un ciclo e apre un ciclo superiore."

    ( "Numbers & Destiny", Colombia Eyes, 1975 )

     

     

     

    "-Che cos’è la sofferenza?- chiede la bambina alla madre.

    La nonna, davanti al focolare, lavora d’uncinetto e sorride, ascolta.

    -La sofferenza è l’ago che ti entra nelle carni e tu urli, figlia mia. Perché ti fa male.-.

    -No,- le fa eco la nonna.

    -La sofferenza è l’ago che ti entra nelle carni e tu apri la bocca. Ma non hai la voce per gridare il male.- ".

    Giona Demura

     

     

    Summum ius, summa iniuria.

     

     

     

    PROLOGO

     

    Sandy Ann serrò la porta della cantina alle sue spalle.

    Sorrise alla donnina coi capelli rossi e diritti, di media lunghezza, tirati indietro dalla fronte bassa e piatta e al timido neomarito coi suoi occhiali d’osso dalla montatura esageratamente grande.

    -Prego-, disse Ann e fece strada alla coppia lungo la rampa della scala a chiocciola.

    Spense la luce.

    Diede un’ultima, fuggente occhiata all’insieme e i tre uscirono all’esterno dove ad attenderli splendeva un rassicurante, placido sole di fine agosto e l’aria invasa dal frinire ritmico delle cicale, voli pindarici di libellule rosse.

    Una morbida brezza increspò la superficie dorata del lago giù, tra un abete e l’altro.

    La donnina tossicchiò, arrossendo di piacere.

    -Bhè, la casa è davvero fantastica, signora McCarter.E tu che ne dici, Mark? Non è il luogo ideale per scrivere, questo?-

    -Ecco…-

    -Si, si. Sono certa che in questa meravigliosa casa creerai il romanzo che ci renderà ricchi e famosi, finalmente.

    Mio marito scrive, sa? Però ancora nessun editore si è accorto del suo talento. Probabilmente avrà un successo post mortem, dico sempre io…non è così, Mark?- e giù una pacca sul petto gracile dell’uomo.

    -Mi scusi, signora…se non sono indiscreta, posso sapere perché la vendete?-

    -Mio marito ha una tenuta sulle coste della Cornovaglia. Abbiamo deciso di comune accordo di trasferirci a vivere laggiù-

    -Ah.-. La donnina parve soddisfatta della risposta. Poi scrutò torva il marito.

    -Hai sentito, Mark? Si trasferiscono. Tran-qui-lla-men-te, Mark. Si trasferiscono tranquillamente. Sapesse quante storie ha fatto quando gli ho detto che volevo vivere appena fuori Londra, lontano dallo stress cittadino. Lei mi capisce, signora McCarter.-

    -Certo-

    -Già. Ma lui è come un bambinone, non è così Mark caro? Ma io gli ho detto: se non andiamo a vivere in pace, lontano da mio padre e i miei fratelli e relative cognate (non fanno altro che chiedermi soldi, sa!) io non ti sposo. Alla fine l’ho convinto ed eccoci qui. Oh, la casa la compriamo noi naturalmente. Qualunque sia il prezzo. E’ fantastica, signora McCarter. Bhè…magari cambierò le tendine del bagno e anche in salotto che mi paiono molto tetre. E i miei trofei avranno

     

     

    una vetrina tutta tutta per loro. Sono stata reginetta di bellezza per ben tre anni consecutivi, sa? Per andare al lavoro ti arrangerai in qualche maniera, Mark caro, non è così?-

    -Si, amore-

    -Bene. E’ un bambinone, signora McCarter.

    A proposito di bambini- la donnina ammiccò bonaria al ventre prominente di Ann.

    -Oh, manca poco ormai. Meno di un mese.-

    -Fantastico! Hai sentito, Mark?

    Quando mi ha chiesta in moglie gli ho detto: o ti azzardi a farmi fare quattro marmocchi oppure trovatene un’altra…ma sei capace a farmene fare quattro?-

    Ann finse un sorriso scrutando l’uomo. Questo poveretto deve aver avuto una giornataccia, pensò suo malgrado. Porse alla donnina un mazzo di chiavi.

    -Sono certa che vi troverete bene a Primrose Lake, signori Williams-.

    Un tordo fece capolino da dietro un cespuglio, l’uomo s’infilò una mano in tasca e acchiappò un kleenex, si soffiò il naso.

  • * * * 

  • MAMA

     

    "Dovunque l’orizzonte è come una festa di monti, di colli, di balze che si alternano di giogaia in giogaia, come gigantesche onde che si incalzano sul mare.

    Vi sono rocce brulle, sassose, capricciose, erte, facili, tagliate a picco, e colline incantevoli, verdeggianti, simmetriche come innalzate a belvedere sulle cerulee onde del mare (…)"

    (Monsignor Emanuele Virgilio, Vescovo d’Ogliastra, da "Il pane quotidiano", 1913.)

     

     

    " Questo pane (di ghiande) è una specialità della Sardegna, e , nella stessa Sardegna, del villaggio alpestre di Talana, e di alcuni altri villaggi poveri, nei quali il territorio granitico è assai avaro, per cui la produzione vi è stentata e insufficiente ai bisogni di quelle popolazioni prive, inoltre, di altre risorse economiche. In quei monti esiste una terra rossiccia, detta ivi trocco, la quale viene messa entro un pannolino, e questo immerso nell’acqua più e più volte, finchè non dà più segno di conservare sostanze terrose. L’acqua dell’ultimo bagno in cui rimane la parte più tenue della materia, cioè l’ossido di ferro, si mette a bollire con le ghiande sbucciate. Dopo una lunga bollitura, che la riduce ad una pasta, e che le fa perdere il saporaccio aspro, che essa conserva quando è ancora cruda, la si lascia raffreddare e, fatta a pezzi, la si mangia per pane. I talanesi se ne cibano nell’inverso. Usano pure pestare le ghiande e dopo cuocerle nell’acqua preparata a quel modo. In questa operazione non vi entra la panificazione eccetto che nella forma: vi entra bensì la chimica, che combinando l’acido gallico, il concimo della ghianda e l’ossido di ferro ne fa risultare una specie di tinta nera come la seppia, la quale costituisce,con la parte amidacea del frutto, una confettura assai dolce, nauseante come la manna, che gli indigeni mangiano di gusto e trovano molto saporita. Questo pane è, però, molto nutriente, fortificante e digeribile da quelli stomachi di ferro.".

    (da LE CENTO CITTA’ D’ITALIA, Milano, 31 marzo 1902)

     

    Thia Elvira serrò la porta della cantina alle sue spalle ed il cigolìo, saluto dei cardini rugginosi, conosciuti e soli amici in quel luogo di vedove e vergini; la confortò.Attraversando il corridoio stretto e buio, macchiato di muffa agli angoli di pareti gonfie, spoglie, stantìe ; fregò le mani sul grembiale di lavoro, sdrucito, nero di fuliggine e, facendo ingresso nella stanza fumosa, fredda, che fungeva da cucina e camera da letto assieme; s’accostò finalmente al focolare per buttare un mazzo di finocchietti selvatici acchiappati alla svelta da un catino colmo d’acqua, vicino alla catasta di bastoncini di legno di faggio e carta troppo umida per ardere ; dentro su caddargiu* adagiato in bollitura sopra us trebièse*, il fuoco crepitante attorno.Ecco, fuori della finestra piccola e quadrata, le urla bastarde* del ramaio di Isili*, col suo cavallo carico di recipienti da vendere: "E CHINI LEADA LABIOLOS E SARTAINAS? E CHINI CAMBIADA ARRAMINI ECCIU PO SU NOU?". Elvira Con la tulla* rimestò il contenuto, versò nella caldaia anche un ramoscello di palma benedetta per scongiurare is malifattus*. Segnandosi infine, a voce alta: "Su nomini de su babbu, de su Fillu, de su Spiritu Santu, amen Gesusu. Signore deo bos offergiu custu traballu, dagededdi sa Santa Benedizioni ‘ostra*".

    In quell’istante; nell’invocazione, nello scatto lestro ed esperto del polso, chissà perché, Elvira pensò a lui.

    A Serafino "su maccu", fizu de Manliu Manca* e Peppa Lai, sa fiza prus distinta* de compare ‘Ntoni Marras. Lo chiamavano Fenu da fenugu*, ch’ era alto e segaligno, dinoccolato, pareva eclissarsi ad ogni contrazione d’aria . Viveva fuori Lanusei; "all’agro", andava cincischiando lui, tronfio come un pavone al tempo degli amori. E non lavorava, Serafino. Sbarcava il lunario, incravattato e profumato di muschi irlandesi (boccia in vetro da mezzo litro con la stampa di un faccione di tigre proprio sotto il tappo di plastica dorata, donatagli dalla cugina Mariadele Floris, la studiata di famiglia, in occasione d’ un rientro in Sardegna per assistere ai funerali della pluricentenaria, povera nonna morta così, da un giorno all’altro -…Come da un giorno all’altro si nasce…povera nonna mea, meschina!-; cugina maritata a Dublino con un siciliano che, dicevano, era il ritratto sputato di Fenu), nonostante gli scarponi di lavoro bassi bassi, dal cappellotto logoro e la suola a buchi, badile e roncola sempre in pugno e la carriola rugginosa abbandonata nell’aia. S’indaffarava il Fenu in quel ritaglio di terra mangiato dai fusti di fico d’India e corbezzoli ch’era stato di suo padre, e suo nonno prima, e del nonno di suo nonno; dove, appresso ad un albero di mele golden invaso dai parassiti -…Ché quest’anno ha piovuto troppo e i parassiti, si sa, fanno la festa con le piogge…ah, malasorte lo pighidi, custu tempu maccu!*- le rose canine selvagge e selvatiche si sparpagliavano ad interrompere filari disordinati di cavolfiore e lattughe, prezzemolo e basilico e cipolle e patate. Campava e non si sapeva come campasse, con le pecore e il cavallo Fieramosca; melato, rignante e dall’andatura da parata, ammutinate capre caracollanti tra cespugli e rocce, e le galline e un gallo unico e altezzoso dallo schicchiriare petulante e la cresta ritta di gladiatore, grosso da padella. E ogni pecora ed ogni capra ed ogni gallina Serafino aveva battezzati, come fratelli, o figli. Leone, si chiamava il cane, un bastardino a chiazze nere sull’anca destra, sghimbescie, come lo schizzo rabbioso di un pittore frustrato.L’aveva trovato appallottolato a ustolare in mezzo ai cespugli di mirto, Serafino, -quel botolo di un paio di mesi appena troppo lamentoso e brutto,se brutto si può dire a un cane veramente brutto col muso schiacciato e rugoso- in una sera di fine agosto, all’imbrunire, quando il cielo si fa tutt’uno con la catena di Jenna de Bentu* ed il sole scompare, s’inchina, promette ai cristiani che si, ci sarà un altro giorno ancora, e ancora, e purtroppo o per fortuna; ancora. Aveva le gote rosse e scavate Serafino, e profilo ‘e cabaddu*, naso d’aquila corroborato da quel ciuffocriniera unico di capelli che non so dirvi se biondo o arancio di carota che partiva dalla nuca per arrivare al centro della testa, tra entrambi i lati perfettamente rasi sopra le orecchie; e per dileguarsi, allungarsi,dipanare e districarsi, barcamenarsi tra un occhio e l’altro, strabici quelli "pro mandai in afanculu su mundu"*, diceva lui. E quando il vento sardo soffiava forte, prepotente, tale da strusciare sulla terra brulla, assetata di Dio, l’odore e il colore del mare; i ciuffi di capelli unti di sudore da sonno, come i cespugli di mirto ed i loro frutti sugosi e minuscoli, ballavano, s’ergevano,piroettavano sos maccos* ed erano fulmini attorno alla testa dell’uomo, su chi gli posava lo sguardo sopra.Thiu* Frantziscu de Loceri, marito di Elvira, naraiat ch’ issu, Fenu*, aveva un dono speciale. Diceva piano (come che pure l’Arcangelo Michele in persona potesse ascoltarlo e bacchettarlo per la maldicenza) nelle sere d’inverno coi bambini acchiocciolati attorno a su foxile* e l’odore caldo di minestra di merca*, aglio e pistoccu* galleggiante su teste e le pance vuote, -thia Elvira; sa pobidda*, dopo aver controllato la cottura spinge il gatto lontano dall’orlo delle gonne con un colpo del piede, stringe il nodo al fazzoletto e, mani dalle dita vecchie, intrecciate al rosario di grani neri come i suoi capelli e la pelle pure corvina, olivastra; siede prossima al fuoco e recita in silenzio. Ogni preghieraparola,della Madre, ogni sillaba è un pensiero al fratello scomparso al fronte, in terra anzena*, all’unica vacca sterile e la sorella che tra pochi giorni dovrà partorire il suo primo figlio "e diciassette anni tiene e che il Signore l’assista,l’assista,l’assista,l’ass" , al figlio disgraziato di comare Mariedda che preferisce studiare da dottore che andare in campagna ad assistere su babbu e sas baccas*. Aggiusta la forcina di tartaruga, le pieghe della gonna opaca da vedova e gli occhi restano bassi, velo mai spogliato da Lei uguale al pensiero, vergine e impura come la grotta che l’ha partorita, la Madre, già dolorante per chissà quale stella* destinata e le nenje e le miserie…mama de sa suferentzia* ses tue, mama mea, mama ‘e su mundu, e su mundu est aintru sa entre tua, de abba e de lughelujente, de terra e de chelu ses Mama ( ma su fogu, malaitu, mannica sos omines)*. E se avessi potuto, mamma, vederne il futuro d’ogni testa che sobbalzava al riso, allora la schiena si sarebbe fatta curva ancora, come il capo, e la preghiera più continua, e forte, nè respirosospiro l’avrebbe interrotta (e che il signore e l’Janas* lo vogliano) fino a che lo stesso respiro t’abbandoni, fino a che, Mama, Dio ti colga finalmente e magari avesse colto te al posto dei Capitani Coraggiosi, te, impura ma vergine, al posto degl’agnelli e stelle che li tocchino ché ad ogni uomo, à s’omine, s’ischidi, ispetta un’istedda; manna o pitica*- che Fenu fiat maccu ma beneittu ‘e su Signore*.Custu, naraiat thiu Frantziscu de Loceri maritu meu*)- che parlava alle bestie, su Fenu.

    E le bestie l’ascoltavano, e gli rispondevano.

    Si diceva che, una volta, Serafino aveva lasciate le capre pascolare sul suo ritaglio di terra, quello che era stato di suo padre e di suo nonno prima, e del nonno del nonno. Tutti i giorni, le faceva pascolare, com’è giusto che sia… e voi non vi pascete tutti i giorni a casu, sartizza* e pistoccu?

    …Le guardava con la cura e l’amore con cui si guarda un bambino, anzi di più, una moglie.Dicono che certa gente ami più le bestie dei cristiani; e nel suo egoismo la gente crede di fare del bene, alle bestie, amandole tanto. Ma non s’accorgono, quei miseri, che alle bestie di loro non importa nulla e se le cose fossero state rovesciate, (e già lo sono!) uomo come la bestia, e la bestia come l’uomo a camminare retto sulle due zampe e la cresta alta da vincitore; la bestia avrebbe avuto più senno nel capo dell’uomo, e pro traballare* l’avrebbe usato, non per mettergli il cappotto come ho visto fare ad una contessa in treno per Berlino, ai tempi buoni, a un cane grande quanto un soldo di cacio. Doviziano de Villanova Strisaili* va raccontando che Fenu è pure stato sposato, una volta.Una sempliciotta, grassa e grossa di fianchi e mammelle per figliare, una de Siliqua*, cussu locu ‘e maccos. Lì, dove il sole batte forte sempre e dà alla testa dei cristiani, si beve il vino bianco sempre, anche se si produce uva nera, dove si mangiano fave secche sempre, pure in estate quando ci sono fresche e fatte col formaggio filante di pecora, le favette, sono una meraviglia; roba da signori. Ecco perché la maureddina era andata a innamorarsi de Fenu Fenugu, dice Dovì.Dice pure che Fenu l’aveva conosciuta alla festa dei Santissimi Cosimo e Damiano, venuta in pellegrinaggio scalza con la madre vedova, era, per assolvere a un voto. In processione, la sera, lei gli passò la candela perché gliel’accendesse e gli sorrise da sotto il velo scuro.Dovì narat che è stata l’unica volta in cui at bidu cussu maccu de Fenu foeddare* ad un essere umano femmina e poi, diavoli, sapete come vanno queste cose, no? Si parla e si parla e ci si guarda e si parla. E lei era molto interessata a quel parlare di soldi e di poderi in Arbatax, non so se mi spiego. Poi Fenu parlò alla mamma, giù a Cagliari che chissà cosa le disse, e se la prese in isposa ché Fenu era benestante, sapete? Si, si. Oohh si. Non guardatelo ora, misero misero* e incravattato ma coi scarponi bucati fino al calcagno*; tronu a conca chi lu pighidi*.Bhè, Dovì racconta che la prima notte di nozze erano scodelle e pentoloni a volare fuori della finestra, assieme alle galline che, fino a quel momento, avevano diviso con Fenu anche la casa. Il mattino dopo vide s’isposa, e Dovì in persona era seduto in veranda ad arrotolare tabacco, uscire di casa con la sua bella valigia in una mano e il cappello da casteddaia nell’altra, montare sul carretto tirato da Fieramosca e dargli ordine di partire.

    -Aiò, su cabaddu maccu!*- ordinò lei all’animale.

    Dovì vide Fenu affacciarsi all’uscio e sorridere in silenzio.

    -Aiòòòò- urlò la signora sputando veleno, -Custu cabaddu est prus maccu ‘e tue!*-

    -Ascurta, Teresì*…-

    -MUDU TUE, DISGRASIAU!*,SAS CABRAS PURU IN SU LETTU PRO TOTA SA VIDA, DEPO TERRERE DEO*?-

    Il sorriso di Fenu non si spense. Camminò ciondolando come solo lui cammina fino al cavallo e gli accostò la bocca all’orecchio, poi gli soffiò in una narice.

    Dovì narat, e io penso la stessa cosa, che chi ama troppo gli animali ha paura di rapportarsi ai cristiani; parla con le bestie perché sia che parli loro, sia che gli dia il bastone sulla zucca quelle tacciono e acconsentono.Ma i cristiani no.

    Nessuno sa cosa disse Fenu, ma Fieramosca ebbe un fremito e nitrì in un’ acculata, s’imbizzarrì rovesciando carretto e valigia e cappello e la signora finì a pancia all’aria tra pianti e grida di civetta isterica.

    Nessuno in paese la vide più ma dicono che stiano ancora mangiando, lei e la madre vedova, dai terreni di Serafino Fenu Fenugu. E che ne stiano mangiando meglio di lui.

    Allora Fenu guardava capre e capretti pascolare. Dicono che s’ addormentò e le capre non se lo fecero ripetere due volte; saltarono steccato e muro e sconfinarono nel terreno vicino dove, brulica a destra e brulica a manca, fecero razzia dell’orto di thiu Badore Mulas…si, si. Quello che era stato all’Asinara per aver sparato sulle chiappe del fratello per una questione di eredità…una rosa di pallettoni così e così che non ti ho visto mai e dottor Piras dopo un bicchiere di quello buono ha giurato sulla testa della buon’anima di sua suocera* che gli è rimasto il segno, all’altro disgraziato; ogni volta che si siede saluta suo fratello.Grande e grosso era Badore, forte e bellu: su prus bellu de sa famiza Mulas, ma tontu che unu cuccu*.

    Il caso dunque volle che l’omone fosse nella sua rimessa lì all’orto, a travasare olio da trattore. Quando ne uscì le capre avevano bello che digerito pomodori e patate e s’apprestavano a fare la festa alla vigna, i capretti già agli acini ci sgambettavano vicino.

    -AH! CUSSU MALAITTU DE FENU…COMMO BIESE!*- ululò Badore a capre panciute e vento. Le bestiole, più avvezze a farlo che perchè realmente spaventate dalla minaccia, corsero per l’orto in ordine sparso finendo di distruggere quello che ancora restava in piedi e ooooopsh! Risaltarono lo steccato una ad una, in cerca di protezione presso il loro padrone.

    Dicono che compare Mulas in mesu a sos irroccos* rientrò in rimessa ed imbracciò su fusile*, ché tiratore scelto era e lo teneva sempre carico, sai com’è; per l’evenienza.

    E ogni volta che alzava il gomito – su inu bonu si lu faiada e sidhu bufada a sa sola*- si presentava l’evenienza. Sedeva in mezzo alla terra come un capo indiano a spiare il cielo e sparare a tutti gli uccelli che gli passavano sopra la testa. E con qualcuno il pasto gli era pure uscito.

    L’omone comunque cussa borta fiada sabiu*, nella normalità insomma. S’affacciò a steccato e muro di sostegno e vide Fenu russare beato sotto quell’albero di mele che faceva schifo solo a guardarlo, tanto era mangiato dai parassiti e punto* dai picchi. E cussu mandrone inie a dromire comente unu maccu*.

    -TUE! MACCU!- gridò furioso compare Mulas puntandogli il fucile contro, e Fenu si svegliò con capre e capretti attorno.Stirò schiena e gambe.

    -ITE BATA , CUMPA’*?-

    -LE CAPRE!!! MANGIATO L’ORTO MIO SI HANNO-

    -Ita bolit nai*?-

    -MA-NNI-A-U! S’Ortu meu!!-

    -Mmmmh.

    Non bi creo-

    -AAH?-

    -Non ci credo.-.

    -TUE …TUE SES MACCU E BASTA GAI !*-

    -Le mie sono capre educate-.

    Dicono che compare Mulas sollevò un sopracciglio ed il ringhio gli morì sulla bocca, grattò la pelata e abbassò il fucile. Poi lo rialzò, prus furiosu de prima.

    -TU MI STAI A PRENDERE PER IL CULO! VIENI A VEDERE COI TUOI OCCHI SE NON CI CREDI, MACCU!-

    -Le mie sono capre educate.E così i capretti, chè le mamme gliel’insegnano, l’educazione.

    Più che a te, omine ‘e merda*-

    Dicono che Badore, che non era tipo d’aspettare il cadavere del nemico passare sul fiume seduto sulla riva; cominciò a fumare rabbia dalle orecchie:sparò in aria e scavalcò il muretto di sostegno, avanzò come un toro verso lo steccato sempre puntandogli il fucile contro.

    -IO T’AMMAZZO FENUGU MANDRONE!-

    -Io non lo farei- gli disse Fenu senza mòversi d’un palmo.

    L’orco saltò lo steccato e via un altro sparo in aria, pochi metri lo separavano dal compare.

    -Non lo farei-, ripetè Fenu ma ce l’aveva già davanti.

    -FENUGU MALAITTU!-, s’apprestò a sparargli sulla fronte Badore Mulas.

    Allora dicono che Serafino fischiò solamente e Badore avvertì un colpo alla schiena che lo fece piegare in due dal dolore, grande com’era. Cadde col culo sulla terra ed il fucile quattro piedi lontano, Fieramosca con la zampa premuta sul torace di lui che se solo si fosse mosso di un millimetro gliel’avrebbe schiacciato lì, come un uomo schiaccia a una mosca. Quindi un altro fischio più lungo e capre e capretti a saltare attorno all’omone per incornarne le parti sane, su e giù e in mezzo e ecco le galline che fanno la parte loro e becchi e beccate esperte che al secondo bicchiere di quello buono il dottor Piras giurò sulla testa della moglie che in ambulatorio avevano dovuto usare il filo e l’ago per ricucirlo a Badore, mì*.

    Ci aveva ragione quella volta, Badore Mulas …insomma, un po’ c’aveva ragione a infuriarsi.

    Cal’atera considerazioni depeus fai?*

    Dicono che da quella volta Badore Mulas ci pensò su tre volte, prima di andare ancora a disturbare il sonno ‘e cussu maccu de Serafino Fenu Fenugu.

    E Thia Elvira, ancora Madre, pensò a fiza sua, sa manna* , la maggiore. Cogitò sull’agnello sacrificale, femina sarda in terra anzena po traballai, partia cun su pixjone ‘e ferru* (- Gesù Cristu in sa Gruxi fachet sa liberazioni nosta de sa sclavitudini de su dimoniu*-).

    Pensò al nastro in raso colore corallo ad intarsi oro, lavorato per mesi dalle comari della madre, nonna di Anna ("oggi cuce Peppa sa eccia*,vedova Satta, chè col suo dolore allontani il dolore dalla sposa,domani Filumena, fresca sposa felice, chè cucendo di rassegnazione e cuore e speranza consegni al nastro la buona sorte, appresso Bastiana Murgia gravida e prena*, che ci dia fecondità e vita, Gesuina Maria chè ci vuole la vergine, pura e che puro sia sempre, in sangue e in carne chi il nastro si porta. Petali di rosa vengano sparsi in sul letto di chi parte, che secchino lì senza che anima li tocchi, fino ad ogni ritorno. E all’occorrenza i petali siano raccolti in una ciotola di terracotta, sempre la stessa , che passi di mano in mano di femmina, de bonu ogu à s’ateru* che gli facciano la guardia, di preghiera in preghiera. L’acqua santa sopra in croce. E sia così e così sia: per Gesù, e per Giuseppe, e per Maria.") che aveva tenuto i capelli di carbone dell’ Elvira il giorno del suo matrimonio e poi serbato apposta, destinato alla primogenita.

    -Adesso spetta a te- Aveva detto Elvira prima che la figlia partisse, come che pure Anna stesse andando a maritare, lontana di casa e di famiglia, dai fratelli più piccoli e, per ora, più fortunati di lei. Alla ragazza aveva legato il nastro in una coda bassa e le aveva poggiato la mano sulla fronte baciandogliela al centro, benedicendola e segnandola a croce col pollice destro.

    -Fiza, fiza mea ‘e su coro*-.

    Le mani rugate di quarantacinque inverni ( fili di ragno erano quei tessuti alacri, su carni dimentiche di sole) abbandonarono il rosario nell’ìncavo tra i seni scesi da cagna d’allattamento, scivolarono sugli occhi e le palpebre socchiùse palpitarono ad ombra, vibrando del ritmo scellerato del cuore; nenja d’ancestri nuraghi.

     

     

     

     

    Su caddargiu*= caldaia di rame, Us trebièse*= treppiede di ferro,Bastarde*= i ramai, girovaghi costretti dalla necessità; nei loro richiami imitavano il dialetto del paese in cui si trovavano,Isili*= località del nuorese, E chini…*= Chi vuole acquistare paioli e padelle? E chi cambia oggetti vecchi di rame per altri nuovi?,Is malifattus*= malocchio, La tulla*= mestolo di legno confezionato dagli artigiani del luogo,Su nomini…*= Il Nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, amen Gesù. Signore io Vi offro questo lavoro e Voi dategli la Vostra Santa Benedizione. Su maccu*= il matto, Fizu de… = figlio di… , Distinta*=diversa (bella), Fenugu*= finocchio, Malasorte lo…*= la disgrazia lo prenda, questo tempo matto, Jenna de Bentu*= Porta del vento (rif. Gennargentu), ‘E cabaddu*= da cavallo, Pro mandai in*= per mandare in…, Sos maccos*= i matti, Thiu*=zio, Naraiat ch’ issu*= diceva che lui, Su foxile*= il focolare, Merca*= formaggio stagionato, salato, Pistoccu*=carta da musica,tipico pane ogliastrino a sfoglia, Pobidda*= moglie,Terra anzena*=terra straniera, Su babbu ei sas baccas*=il babbo e le vacche, Mama de sa...*= Madre della sofferenza sei, madre mia,mamma del mondo,e il mondo è dentro il tuo ventre,d’acqua e LuceLucente di terra e cielo sei madre (ma il fuoco, maledetto, mangia gli uomini).,L’Janas*= minuscole fate della tradizione popolare sarda, A’ S’omine, s’ischidi…*=a ogni uomo, si sa, spetta una stella; piccola o grande., Che Fenu fiada…*=Che F. era matto, ma toccato (benedetto) dal Signore., Custu…*=questo, diceva mio marito, thiu F. di Loceri (paese del nuorese),Casu*= formaggio, Sartizza*= salsiccia, Traballai*=lavorare, Villanova Strisaili*=paese del nuorese, Campidanesa*=del campidano (CA), As bidu cussu…*= ha visto quel matto di F. parlare, Miseru*= sempliciotto, Calcagno*=tallone, Tronu a conca…*=un tuono in testa che lo colga, Casteddaia*=cagliaritana, Aiò, su cuaddu…*= Dài, forza, cavallo matto!,Custu cuaddu est…*= questo cavallo è più matto di te, Ascurta…*=ascolta, Teresina, Mudu tue…*=Zitto tu, disgraziato! Le capre pure nel letto devo tenere per tutta la vita?, Buon’anima*=defunta, Su prus bellu…*=il più bello della famiglia Mulas ma tonto come un gufo, Ah!Cussu…*=Ah!Quel maledetto…ora vedi!, Sos irroccos*=le maledizioni, bestemmie, Su fusile*=il fucile, Su inu onu…*= Il vino buono lo faceva e se lo beveva, Cussa borta…*=Quella volta era savio, Cussu mandrone…*=quello scansafatiche lì a dormire come un matto, Ite bata cumpà*=Che c’è compare (cosa vuoi?), Ita bolit nai?*= Cosa vuol dire?, Basta gai*= basta così, Mì*= ecco, Cal’atera…*= Quale altra considerazione dobbiamo fare in merito?, Sa manna*=La grande, Femina sarda in terra anzena pro…*=Donna sarda in terra straniera per lavorare, partita con l’uccello di ferro (rif. aereo), Gesù Cristo…*= Gesù Cristo in croce liberaci dalla schiavitù del demonio, Eccia*= la vecchia, Gravida e prena*= gravida, piena (incinta),De bonu ogu…*= da un occhio buono all’altro, Fiza mea…*= lett. "Figlia mia del cuore".

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    Che ora sarà?

    Le tre, forse le quattro.

    Forse.

    Silenzio, troppo silenzio. E buio.

    -Gesù-, biascicò Virginia con voce roca e tremolante, avvertendo un sapore metallico in bocca.

    MA CHE BVAVA QUESTA BAMBINA, MA CHE BVAVA CHE E’ LA MIA BAMBINA.

    -GesùGesùGes-, ripetè. Un rivolo di sudore ghiacciato colò dalla tempia e lungo lo zigomo scolpito dalla magrezza fino al lato destro delle labbra contratte.

    -Gesù, fa che NON RITORNI!-

    (il buio)

    MA CHE BVAVA QUESTA BAMBINA, MA CHE BVAVA CHE E’ LA MIA BAMBINA.

    -E’ tornata…-.

    (che ora sarà?).

    Virginia girò la faccia verso la parete glabra. Notò una crepa accanto al quadro di quell’orribile paesaggio inglese con due damine che prendono il the sedute in mezzo ad un prato scolorito; una crepa che pareva

    (non dire idiozie!)

    si, pareva proprio sorriderle

    (Gesù, sei proprio partita. Una crepa che SORRIDE.Hey, friends; avete mai sentito parlare della famosa crepa che sorride? Quella che sghignazza sul muro e ti prende)

    -E’ tornata.-.

    (ti prende per i fondelli, Virgi cara. La crepa, si.Ti sta prendendo per i fondelli.Fossi in te gliela farei vedere io, a quella bastarda d’una crepa)

    -Bastarda fottuta-, disse Virginia e lo disse piano, scandendo le parole perché la crepa non potesse sentirla.

    -Ba-star-da fo-ttu-ta d’u-na cre-pa!-, sibilò.

    Allungò una mano fuori del letto ferroso per acchiappare un libro dal comodino.

    (potreste trovare un Modus Vivendi tu e la crepa, Virgi)

    Holy Bible.

    Quell’accidenti di libro copertinato in pelle che ogni santissimo giorno sua madre le leggeva. Ogni momento era buono per leggere la bibbia.

    Ti leggo qualche vevsetto, Vivginia cava

    Fottetevi, pensò Virginia; la mamma, la Bibbia e la cvepa e Amen.

    Con un improvviso scatto del polso lanciò il volume in direzione del muro; diritto sopra la crepa, che Dio l’abbia in gloria. E si sentì straordinariamente meglio, soprattutto quando anche l’odioso quadro delle damine beote su sfondo scolorito, cadde sul pavimento. Virginia non udì nessun suono ma lo vide chiaramente, il suono; lo vide nello spaccarsi della cornice in quattro pezzi storti di compensato nocciola e nel frantumarsi del vetro in infinite schegge asimmetriche. La stampa volò meglio d’un aereo delle linee svizzere, ai piedi del letto.

    Virginia sorrise e una damina rispose al suo sorriso.

    -Vuoi del the, cara?- le chiese, mostrando denti affilati come

    (è tornata)

    schegge di vetro asimmetriche.

    La felicità di Virginia mutò in orrore puro; spalancò la bocca lasciando uscire un singhiozzo gracchiante e poi gridò, gridò con quanto fiato aveva in gola. Coprì gli occhi con le mani. Espirò ed inspirò piano, riprese il controllo. Spostò le dita creando una fessura tra queste e le pupille dilatate. Rifissò la stampa. La damina inglese era nuovamente al suo posto nel prato, sorseggiando the al sole d’un pomeriggio di fine aprile. Virginia frugò sotto il cuscino foderato di morbido cotone, raccolse una boccetta. L’aprì. Tentò di raccattare il contenuto con la lingua tremolante ma non vi riuscì.

    Ecco…bene. Ancora uno sforzo, bambina.

    Sollevò la boccetta, ingollò tutto.

    Le membra divennero pietra, la testa il macigno più difficile da sostenere.

    Virginia serrò gli occhi aspettando, ancora e finalmente, il buio.

     

    * * * *

     

    Sandy Ann spense la radio.

    Immediatamente la musica, che fino a pochi istanti prima aveva invaso l’intera palestra di ginnastica aerobica si estinse; morì nelle casse nere degli altoparlanti.

    -Okay, ragazze. Anche per oggi abbiamo finito.-.

    Una donna sulla cinquantina e notevolmente in sovrappeso, dalla prima fila sbuffò un ansante "GrazieaIddio!" e con un saltello goffo riunì le gambe divaricate per l’esercizio. Scrutò la vicina di tappeto che, in cuor suo, aveva sempre considerato un anemone anoressico e stillò un sorrisetto di circostanza.

    -Domattina non riuscirò a sollevare le chiappe dal water-, borbottò. Sandy Ann dal posto di comando scoppiò a ridere –Ci riuscirà, signora Cleary. Le assicuro che, giocoforza, ci riuscirà se davvero vuole tornare in forma per quest’estate. Ora scusatemi tutte ma ho un appuntamento per le sette e conto di esserci. A mercoledì, alla solita ora-.

    Le donne si raggrupparono sparse per la palestra. Ann tolse l’elastico che teneva fermi i lunghi riccioli in una coda di cavallo dai riflessi di mogano e li liberò sulle spalle da atleta ed il seno alto e florido, ravvivò le ciocche con le dita. Doveva fare in fretta. L’ultima cosa che voleva era andare ad un appuntamento puzzando di sudore come uno scaricatore di porto. Con tutto il rispetto per gli scaricatori di porto. Si diresse verso le docce. Jim al telefono le era parso strano. Molto strano. Diverso ecco, si. Diverso era la parola giusta. Da cinque anni che lo conosceva mai e poi mai si sarebbe aspettata di sentire Jim McCarter diverso dal solito. Un impiegato di banca perfetto e scrupoloso, ecco cos’era Jim McCarter. L’uomo con cui Ann aveva acquistato l’attico affacciato su Kensington Park. L’uomo che le aveva regalato il pianoforte "anche se non lo sai suonare ma ti piace come arreda la sala da pranzo". E i fiori? I fiori ad ogni festa comandata. Sempre rose. Sempre rosse. "Che le rose rosso passione ti piacciono tanto". Due anni prima l’anello. Un vero anello di fidanzamento ed un bacio sul dito medio, prima d’infilarlo. "Al nostro futuro".

    Jim McCarter era il perfetto fidanzato quasi marito. Si era sempre domandata perché ogni volta che facevano l’amore lui teneva i calzini. Rigorosamente bianchi, come s’addice ad ogni perfetto impiegato di banca fidanzato quasi marito. I calzini bianchi. Se a tredici anni a Sandy Ann avessero detto che avrebbe avuto le prime esperienze sessuali con un uomo che adorava tenere i calzini bianchi a letto, bhè, si sarebbe sicuramente schernita. Calzette bianche? My God, Parbleu! A me? Dite a me? No. Mai. Amo i tipi selvaggi, io.Quelli che cavalcano lungo la brughiera nebbiosa senza paura di azzoppare lo stallone su qualche masso sporgente. Un tipicino alle Cime Tempestose, per intenderci. Non da perfetto impiegato di banca fidanzato quasi marito attento ai particolari anche quando fa l’amore. Avrebbe riso, Sandy Ann, a tredici anni. Ma adesso di anni ne aveva trenta e si sa, l’ esistenza fa in fretta a scivolare tra le dita. Una donna fa in fretta a passare dai box di single a quelli di zitella eppoi, Dio salvi la regina, non c’è lifting o crema antirughe che tenga. "Quando le chiappe iniziano a cedere", avrebbe detto la signora Cleary, "…chi ti salva più dal cedimento del cervello". Ma se alle spalle hai un attico spudoratamente affacciato su Kensington ed un pianoforte a coda dove poggiare le brave rose rosso passione prima che diventino bianche, ad ogni festa comandata, bhè; certi cedimenti li affronti decisamente meglio. Parola mia. Soprattutto se il precisino impiegato di banca fidanzato quasi marito lo ami come non hai mai amato nessuno prima d’ora, e pazienza per le calze.

    Ann tirò la tenda della doccia, roteò il pomello dell’acqua calda. Il getto regolare l’avvolse dandole una curiosa sensazione di déjà vu.

    Certo che hai già vu, stupida. Tutte le volte che, in vita tua, hai fatto la doccia e fortunatamente per te e chi ti traffica vicino sono state tante.

    No.

    Quella era stata la volta di una doccia diversa.

    Ciao, Virgi. Come stai?Dio. E’ una vita che non ci sentiamo, da quando… vabbè.Tu lo sai.E sei mia sorella, Cristossanto. Sorella gemella, Cristossanto. E scusate se è poco.

    Come stai? Mi manchi tanto, Virgi.Neanche tu sai quanto. Soprattutto in questo periodo, quando l’autunno declina in inverno. Quante corse in riva al nostro lago, Primrose Lake, ricordi?

    Sei sempre stata così delicata .E vulnerabile, con la tua eccessiva sensibilità. Vulnerabile tu, Virginia, colle tue trecce svolazzanti come aquiloni.

    Chissà che combini, adesso. Cosa fai, Virgi? Dài, facciamo il gioco del pensiero. Quello dove io riesco a capire ciò che ti passa per la testa senza che tu apri bocca…rammenti la volta di Sondra Lee? Al tre fàlle lo sgambetto che io la spingo nel lago. Uno, due…E TRE!!! Un bel tuffo, Gesù. E tutte le risate del gruppo erano state per lei, per Miss Puzzetta Sotto Il Naso. Biondina con la puzza sotto il naso, così la chiamavamo.

    Voglio chiudere col passato, Virgi.

    Ho chiuso col passato, adesso.

    Sono una donna realizzata, adesso. Istruttrice di aerobica con una palestra modestamente tutta mia ed un futuro marito impiegato di banca candidato alla direzione, uno in gamba coi computers al contrario di me che perdo sempre la pazienza e non so riconoscere la differenza tra un file e un’e-mail. Ma per essere una brava moglie non serve, il computer. Sarò una brava moglie, lo so Virgi. Soprattutto voglio essere una brava madre.Lo spero. Cercherò d’esserlo ma voglio rivederti, prima.

    Perché il passato mi ha lasciato una porta aperta in fondo al cuore. E quella porta sei tu. Facciamo il gioco del pensiero?

    L’acqua da calda che era, divenne gelida; Sandy Ann rabbrividì da capo a piedi. Tentennò con occhi chiusi alla ricerca del pomello della doccia.

    -Maledetto pom…- MA CHE BVAVA QUESTA BAMBINA, MA CHE BVAVA CHE E’ LA MIA BAMBINA.

    La mano di Ann si contraette, rimase sospesa a mezz’aria sotto il fiotto algido dell’acqua ora d’un rosso porpora acceso, vivo. Reprimette un grido e fu un attimo; il flash, com’era venuto, passò. L’acqua riprese il suo normale calore, e colore.

    La donna portò una mano sulla fronte, socchiuse gli occhi, li riaprì.

    Si lasciò dunque bagnare languida, lavata di tutto.

    Anche dei pensieri.

    * * *

     

    Era in un corridoio.

    Ne vedeva (percepiva?) l’inizio ma, nonostante si sforzasse, non riusciva a comprendere dove poteva essere celata la fine.

    Virginia tentò di muovere una gamba ma quella era troppo pesante per una donna di trent’anni costretta a letto da quasi un mese. Con sforzo enorme riuscì a fare un passo. Un altro

    (dov’è la fine?)

    ed un altro ancora

    (Gesù, non c’è fine e)

    nel buio

    sta tornando.

    Dalle ombre si staccò una più scura, potente e minacciosa.

    Virginia sussultò. Avvertì il corpo farsi finalmente leggero, il cervello finalmente governabile, finalmente per poco totalmente suo.

    Aprì gli occhi. Il corridoio era scomparso, dalle persiane abbassate filtrava un debole raggio di luce giallo purpurea. Tossì. Puntò i gomiti sul letto, rizzò lentamente a sedere. Le insegne intermittenti dei neon sulla strada riflettevano zebrate sui vetri; una ad una come lucciole chiamate in rassegna.

    NEON JOY, DICHIARI LA SUA PRESENZA.

    OKAY. NEON JACKSON!

    LEI E’ SEMPRE IN RITARDO, JACKSON; NON SI LAMENTI SE A FINE ANNO NON AVRA’ I RISULTATI CHE SI ASPETTA. LI CONOSCO I PICCOLI BASTARDI COME LEI, JACKSON. PICCOLI MALEDETTI NEON BASTARDI CHE CREDONO DI SAPERE COME GIRA IL MONDO. MA ALLA FINE IL MONDO SE LI MANGIA. EH SI, JACKSON. E MANGERA’ ANCHE LEI, A FINE ANNO.

    Che vai pensando, Virgi? Hai proprio il cervello ridotto ad una frittata striminzita. Di quelle che faceva la mamma.

    O il signor Benson.

    Un attacco di tosse violenta la scosse tutta.

    Avrei voglia di un bicchiere di the. Anzi, una tazza. Una bella tazza di the di quelle che prepara la mia amica damina beota stesa laggiù, nel suo bel prato scolorito sotto il mio letto.

    Ma Virginia non osò guardare in direzione della stampa. Non aveva voglia di sorrisi taglienti, in quel momento. Berrò dopo, si disse, se ci sarebbe stato un dopo, si disse, e se ne fece una ragione.

    Silenzio.

    Ultimamente c’era troppo silenzio, in quel luogo. Le ricordava la sua casa. E pensare che quando aveva trovato quelle due stanze male assemblate nel quartiere che aveva visto tempi migliori era comunque rimasta impressionata dalla "vita" dei numerosi negozi, dai pub agli antiques agli hard-discount, ai neon sparsi qua e là sulla strada i neon Joy & Jackson.

    I bambini. Dio quanti bambini tutti assieme. Pareva che ogni famiglia ne avesse almeno cinque o sei, a giudicare dall’allegro frastuono che proveniva quotidianamente dal ritaglio di terra adibito a parco giochi di fronte alla sua finestra.

    Ora non si sentivano neanche loro. E non adesso che, si sa, ogni madre che sia degna di questo nome non lascia i propri figli giocare soli. E’ tardi. E’ buio.

    Virginia non li sentiva giocare. Né di giorno né di notte. Ma forse, semplicemente, era che non voleva sentirli perché associava i bambini alla vita.

    E a Virginia, per ora, la vita aveva dato scacco matto.

    -Non sono mai stata brava nel gioco degli scacchi-, si scusò Virginia con voce roca.

    -Già. Non sei mai stata una bvava bambina-, disse ancora Virginia ma con un’altra voce. Un’altra. Che le sorgeva dal profondo delle viscere.

    E probabilmente la nuova intrusa le piacque parecchio perché Virginia Vivgi per gli amici accennò un ghigno strabico.

    -non sei mai stata una bvava bambina, vivginia maddy johnsonn.

    Quanto valium hai inguvgitato ieri

    (era…ieri? O quando? Quando è stata l’ultima volta in cui hai scolato la bottiglietta del Valium come fosse succo d’arancia?)

    sei fuori, baby. E il bello e’ che questa

    -ZITTAAAAAA!!!-, gridò Viginia con la voce da bvava bambina

    IL BELLO BABY E’ CHE QUESTA PAvTITA à DEUX TI PIACE DA MATTI. E STA APPENA COMINCIANDO

    -Non è vero-

    SIIIIIIII CHE E’ VEvO, BABY VIvGINIA VIVGI PEv GLI AMICI. TI PIACE PROPvIO TANTO TANTO. COME TI PIACEVA TOvTUvAvE PSICOLOGICAMENTE TUO FIGLIO. vICORDI LE PAvOLE DI DOC HAvvISON? "TOvTUvAvE PSICOLOGICAMENTE"

    -Non…non è vero-

    SIIIIIIIII CHE è VERO, VIRGINIA BABY. TI PIACEVA VEDERLO GRIDARE, IMPLORARE DI LASCIARLO VIVERE, VEDERLO PIANG…

    -BASTA!-

    NON SEI PER NIENTE UNA BVAVA BAMBINA, BABY. MI SPIACE PER TE MA NON LO SEI. AMAVI VEDERE ROBERT PIANGERE.

    Virginia chiuse gli occhi e la voce da Bambina Cattiva parve chetarsi in un angolo della mente.

    ("devo parlarti, mamma")

    non è stata colpa tua, Virgi. Non è stata colpa di NESSUNO.

    ("E’ una cosa molto importante per me, mamma")

    eri una ragazzina quando hai avuto Robert. Tredici anni, Virgi.Tredici.E Dio solo sa cosa voglia dire avere un bambino a tredici anni e assumersene le responsabilità senza qualcuno che ti stringa la mano nei momenti di sconforto.Dio solo sa cosa voglia dire alzarsi tre, quattro volte per notte a controllargli la temperatura, cambiargli il pannolino ed allattarlo senza avere latte da dargli. A tredici anni. La mattina lavorando in un pub per pagarti l’affitto. E la notte sveglia col pensiero come gli anni che vola fuori dal cervello e schizza per cercare un’uscita ma rimbalza sulla gomma di quei quattro muri sudici.A tredici anni. Ad allattare un bambino che non hai voluto.Forse.

    -Lo amavo-, bisbigliò Virginia ed una lacrima sgorgò dagli occhi tumidi, rigò la guancia.

    PERò NON HAI FATTO LA BVAVA BAMBINA, VIVGI BABY, rispose per lei l’altra voce tornata alla ribalta, più ringalluzzita che mai

    -Amavo Robert. Era tutta la mia vita.-

    ("Vado a vivere con Alan, mamma"

    "Alan Smith? ALAN SMITH, ROBERT? Stai scherzando, vero?"

    "Non sono mai stato così serio. Io e Alan ci amiamo".

    Virginia aveva guardato quel ragazzone di un metro e novanta, coi capelli d’ebano e gli occhi verdi di quel bastardo di suo padre. L’aveva guardato come se lo vedesse per la prima volta e lo straccio che teneva in un pugno nell’atto di spolverare l’unico mobile del bilocale l’aveva gettato stizzita nel lavabo. S’era sforzata di non perdere la calma. In una situazione del genere l’ultima cosa da fare era perdere la calma e Virginia se ne rendeva conto perfettamente. UNO DUE TRE, E LA CALMA TORNA A ME. Conta fino a tre eppoi passa tutto. Vedrai, è solo una ragazzata. Non aveva detto così il padre di Robert quando eri rimasta incinta? Mio Dio è hai fatto una ragazzata. Ma alle ragazzate ci si pone rimedio. Tu potevi abortire, per esempio Ma non l’hai fatto.Non VOLEVI farlo . Robert ha sedici anni è molto più maturo della sua età.Lo è come ogni giovane uomo cresciuto sulla strada e senza un padre. Fammi finire,baby. Robert, il tuo bellissimo Robert che è il ritratto sputato di quel bastardo di suo padre accidenti a lui, ha sedici anni ed è gay. Questa è proprio una ragazzata alla quale non si può porre rimedio.

    Ne sei sicura, Vivgi cara?

    Ha sedici anni. E’ minorenne. E’ ancora sotto la tua tutela, fino a prova contraria. Sotto la tua tutela; che gli piaccia oppure no.

    Si amano.Loro si…

    Lui e Alan Smith? Non farmi ridere. Un gay. Omosessuale. E’ tutta colpa di Alan, ci metterei la mano sul fuoco se soltanto ne avessi una. Robert non ha nessuna colpa per Dio. No.

    "Lei, signora, sta torturando psicologicamente suo figlio. Robert è un ragazzo palesemente influenzabile; anche a causa della giovane età, certo"

    Un ragazzo palesemente influenzabile. L’ha detto anche Doc Harrison e se l’ha detto lui, siori e siore, potete scommetterci che è così. Non è un doc che rischia di sputtanarsi in giro contando balle, doc Harrison, oh si.

    "Mamma?"

    Gay.

    Robert è gay. Con tutte le teenagers che brulicano la faccia della terra otto donne per ogni uomo lui ha il coraggio di essere gay

    uomo con gli ormoni fuori di tangenziale

    Coraggio e affronto, Virginia Vivgi baby.

    Affronto.

    Alle ragazzate ci si pone rimedio.

    "No, Rob", si era infine pronunciata Virginia, evitando di guardare il figlio negli occhi. Aveva riacchiappato il suo bravo straccio dal lavabo e dopo averci spruzzato sopra per l’ennesima volta in quella mattina una sottomarca di Dixan Detersivo Liquido all’essenza di citronella, si era data alla pulizia minuziosa del tavolo in ferro.

    "Categoricamente no"

    "Che vuol dire no? CHE VUOLE DIRE NO, MAMMA?"

    "Vuole dire che fino a che sei min…"

    "Forse non te ne sei accorta, ma oltre che minorenne sono già uomo fatto, mamma. Ed io andrò a vivere con Alan; che tu lo voglia oppure no. Se mi vuoi bene e se VUOI IL MIO BENE non impedirmelo, mamma. Non puoi tagliarmi fuori dal mondo per sempre"

    "E’ una ragazzata", aveva tagliato corto Virginia continuando a spolverare. Lui, con mano forte e nervosa s’era spostato una ciocca ribelle dalla fronte alta e Virginia ne aveva ammirato il gesto di sòttècchi. Il mio bambino. E’ bellissimo ed è il mio bambino. Solo mio. Né del padre e neppure di quel…quel… Alan Smith. Rob è mio.

    ("forse non te ne sei accorta ma oltre che minorenne sono già un uomo fatto,mamma")

    E’ una ragazzata

    ("Se vuoi il MIO BENE, mamma")

    Robert è mio. E non permetterò a nessuno di portarmelo via.

    "Lo sai bene che non è una ragazzata, come la chiami tu. Lavoro già da un paio d’anni allo Spaghetti’S House di Linda Houston. Ho qualche soldo da parte, non ti chiedo nulla se non di capire che…"

    "CHE COSA? COSA DEVO CAPIRE ROB?". Ora la collera trattenuta da Virginia esplodeva come un fiume in piena, completamente rotti gli argini.

    "S…Cr…S…" Virginia divenne paonazza per la rabbia. Ultimamente le capitava troppo frequentemente di balbettare al culmine delle sue esplosioni di rabbia. Colpa delle frequenti esplosioni di rabbia. Delle ragazzate di Rob. Tirò un sospiro. Uno due e tre e la calma torna a me.

    "Mamma, senti…"

    "BASTA COSI’!PER QUANTO MI RIGUARDA IL DISCORSO E’ CHIUSO, ROB. E FINGIAMO CHE NON SIA MAI COMINCIATO. CONTINUA PURE A FREQUENTARE QUELL’ALAN SMITH, SE VUOI. SPOSATELO PURE, SE VUOI. MA LA SERA TI RIVOGLIO A CASA CON ME. E’ CHIARO?"

    "S…SEI UNA MALEDETTA EGOISTA! IO AMO ALAN…LO SAI COSA VUOL DIRE AMARE, MAMMA?"

    Lì era partito lo schiaffo.Veloce, furioso, infido. Subito, sulla guancia destra di Robert, era apparsa l’impronta rosso fuoco delle cinque dita di Virginia.

    "Rob…oh, Rob scusa…scusami bambino io non…"

    "Non mi toccare. Non ti darò mai più motivo di toccarmi,mamma.Te lo giuro.".

    L’aveva fulminata con lo sguardo.

    E’ una ragazzata.Non temere Vivgi baby.E’ per il suo bene.

    ("se vuoi il mio bene, mamma")

    Cosa ho fatto? Non dovevo schiaffeggiarlo, no.Non è bene che

    (è per il SUO bene, Vivgi baby. Per evitargli altre ragazzate)

    ed era uscito di casa sbattendo la porta con violenza. Virginia era impallidita avvertendo l’inquietudine nel cuore.

    Quella era stata l’ultima volta in cui aveva visto suo figlio vivo.).

     

    Virginia si rigirò nel letto.

    I fumi del valium stavano disperdendosi in quel labirinto senza uscita che era la mente della donna. Azzardò un’occhiata obliqua alla bottiglia semivuota di vodka sulla sedia accanto al letto.Vodka. Chissà poi perché aveva scelto di darsi all’alcool proprio con la vodka. Forse le piaceva l’odore. O il colore. Ma i russi. I russi sono russi, che cribbio. Non le piacevano i russi e il loro colore, ecco. Da quando, poi, aveva letto in quel trafiletto del Times che nei mercati rionali RussiRossi

    Circolavano polpette di carne umana spacciata per comune maiale, bhè; Virginia poteva asserire con sicurezza che le piacevano sempre meno. Polpette di carne umana. Meglio cavolo crudo per un mese di fila che mangiare polpette d’uomo. Meglio non mangiare.

    O mangiare. Rob.

    Quante volte aveva pensato d’amare così tanto suo figlio da…mangiarlo?

    Ma sono cose che qualunque madre pensa, sciocca. PENSA. Sai che significa PENSARE? Oppure hai talmente perse le biglie che non sai più cosa significhi anche quello? Si tratta di semplici metafore, modi di dire e pensare, allegoria, immagine ecco. Tutto qui.

    Tutto qui.

    E mettiti il cuore in pace, Virgi. Fai la bvava bambina.

    Polpette di carne umana. Polpette di uomo.

    Polpette di Rob.

    ("Se mi vuoi bene, mamma".)

    Gettò la testa all’indietro ed un crampo improvviso al polpaccio sinistro la fece gemere di un dolore sordo, fisico e d’animo;

    una pulsazione che

    lo sapeva, le sarebbe rimasta tutta la notte.

    Un’emicrania terribile. Dalla busta della spesa sbucava un gambo di sedano ed una confezione di pasta d’importazione. Virginia salì i suoi bravi dieci scalini giornalieri

    (a pranzo farò pasta e ceci. Ho preso i ceci? Si.Anche la pasta precotta, così non perdo tempo in pentola e fornello. A Rob piace tanto. Al ritorno dal pub gli parlerò… voglio farlo ragionare, quel benedetto ragazzino; io ho rinunciato a tutto per lui, per crescerlo come un bambino…normale. Si, è un ragazzino e la sua è la classica ragazzata adolescenziale. Ma è così sensibile. Troppo.).

    Lo vide entrando in casa, Rob. O meglio, di lui inquadrò un particolare: i piedi. Buffo. Lo sguardo di Virginia puntò diritto ai piedi nudi e a quel cadenzato, ritmico ciondolare;risalì lento sondando un metro e novanta di pelle e muscoli in tensione e peli, polpacci, ginocchia,fianchi, torace,collo in curiosa simbiosi con la corda, la trave ed il gancio della lampadina, la testa piegata di lato e la lingua violacea ("se mi vuoi bene") , gonfia e sporgente, gli occhi spalancati ("Se vuoi il MIO bene, mamma") e vitrei .Virginia aprì la bocca senza emettere suono,la busta con la spesa le cadde di mano e non se ne accorse.

    -B…b…bambino!- riuscì a squittire, -Bambino!-, ripetè. Poi, visto che il bambino da lassù le faceva il dispetto di non voler né scendere nè rispondere, Virginia lasciò il corpo dov’era in silenzio, rispettando la sua decisione di non risponderle. Sedette davanti alla TV a sgranocchiare Pop Corn e aspettando che lui si decidesse a scendere per farle compagnia. Non aveva più voglia di preparare la pasta e ceci e anzi, aveva deciso che quando Rob sarebbe sceso gli avrebbe parlato. Si.Gli avrebbe detto che ci aveva ripensato e poteva andare a vivere col suo Alan. Senza rancore, né per lui né per Alan.Però ogni tanto le avrebbe fatto piacere averli a pranzo, per una pasta e ceci improvvisata lì per lì magari, con la pasta precotta. Comunque la pasta e ceci che doveva preparare in QUEL giorno l’avrebbe cucinata il giorno dopo, si. C’era tempo per preparare la pasta e ceci; tutto il tempo di cui Virginia aveva bisogno. Si addormentò guardando un film di John Waine. Verso le due di notte avvertì lo stimolo di andare in bagno ma piuttosto che disturbare il suo piccolo Rob dal sonno riparatore accendendo la luce se la sarebbe fatta addosso. E così fece. Alle quattro circa si trascinò, al buio, dalla poltrona al letto, evitando di gettare pure un’occhiata furtiva alle sue spalle, alla sagoma ciondolante dal soffitto. Furono i vicini, tre giorni dopo, a chiamare la polizia per l’insopportabile ODORE ("Proprio così, Agente Terns. Un odore insopportabile. Non vorrei fosse accaduto qualcosa di spiacevole alla signorina Virginia perché sa, è una così brava ragazza. Certo, la gente mormora e quel suo bravo ragazzo pare abbia amicizie…pendenti all’altra sponda, capisce agente? Ma tant’è. Finché non danno fastidio alle persone perbene. Lui non l’ho più visto e neppure quel suo amico strambo coi capelli arancioni e l’orecchino che quando l’ha incontrato mia figlia Mary in ascensore –sa agente, la moglie del pescivendolo all’angolo con la sesta; Il "Merluzzi D’Oro & C.." di Billy De Vita…si, Billy De Vita è mio genero, si, un italiano, si, dalla Sicilia e vedesse i miei nipotini! Cinque marmocchi tutti la madre!- l’ha scambiato per una di quelle vestita da maschio. Forse il ragazzo, Rob intendo, ha litigato con la madre. Li sento gridare spesso…Provate a bussare ancora, si…eeeh, questi giovani! Ma sentite il tanfo, agente?! Terribile!

    Oh! MrS Jones! Parlavamo della cara signorina Virginia..Anch’io non la vedo da giorni…ha sentito agente?C’è qualcosa di strano…questi giovani non sono mai contenti di ciò che Dio ha dato loro…al quarto piano, su…c’è una ragazza, un’australiana e vedesse agente! Uno diverso ogni sera! E non importa il colore o la razza! E pensare che ai miei tempi non potevo neppure guardarlo, un ragazzo, senza che mio padre mi mollasse una cinghiata! Ho conosciuto il mio Sigmund, biblicamente intendo, solo dopo il matrimonio…un mese dopo! Volete buttare giù la porta? Ooooh, si, mi sposto…stia attenta MrS Jones, venga da questa parte…")

    che proveniva dall’appartamento.

    Quando l’agente Terns irruppe in casa, la signorina Virginia s’accingeva a preparare la pasta e ceci sotto gli occhi spalancati, vuoti e attenti del figlio nudo, impiccato ad una trave del soffitto.

    * * * *

    Il taxi nero che aveva fatto gloriosamente il suo tempo s’arrestò con uno stridìo di gomme davanti all’ingresso del Chéz Maxim Restaurant. Sandy Ann aveva smesso da tempo di domandarsi il perché Jim amasse tanto cenare nei locali più esclusivi della capitale; era semplicemente cresciuto frequentandoli e sarebbe invecchiato frequentandoli. Lei, al contrario, aveva abitudini "magre" in tal senso; adorava le trattorie italiane, quelle di periferia con le tovaglie grandi quanto un lenzuolo a due piazze a quadri rossi ed il fiasco di vinello toscano vicino all’immancabile Evian o, meglio, la Perlier. Al massimo poteva concedersi una Cola dietetica. Amava mangiare a lume di candela con una madre spettinata e isterica che strilla dal tavolo vicino al suo bambino perché le olive non si tirano addosso agli altri e un cameriere grasso con calvizie incipiente che mastica tabacco che ti chiede con piccato accento siciliano come vuoi la pizza o la cotoletta o gli spaghetti annotando gli ordini su di un taccuino orrendamente macchiato di salsa al pomodoro.

    Eppure deve esserci un significato in questa differenza di gusti tra me ed il fidanzato quasi marito.

    Non fare la sciocca,Ann. Non può esistere un significato per TUTTO. E’ così e basta.

    Jim è semplicemente, maledettamente cresciuto nella bambagia, accidenti a lui.Tu ora devi solamente comportarti

    (da bvava bambina)

    Devi solamente comportarti "da ciò che sei"; la Sandy Ann che lui ama.La futura moglie di un uomo che ama cenare al Chéz Maxim Restaurant e si pulisce la bocca in "adorabili ritagli di seta", come definisce Jim i tovaglioli di noi comuni mortali. Caviale e champagne e che sia del migliore, mi raccomando a Lei Monsieur Maxim.

    Come sempre signore; solo il meglio.

    Ora, Ann cara, pensa che il tuo fidanzato quasi marito sta condividendo con te metà della sua nuvola quotidiana.

    -Anche se quando la divide ha le calzette bianche?-, sussurrò Sandy Ann, e le scappò da ridere.

    Il taxista coreano la squadrò dallo specchietto retrovisore.

    -Prego, signora?- buttò giù, come che la cosa non gl’interessasse veramente.

    -Niente. Scusi.

    Quanto le devo?-.

    Saldò il conto all’autista che ripartì sgommando. Si strinse nello spolverino Chanel e tacchettò verso l’ingresso illuminato a giorno, ben attenta a non incespicare nelle pozzanghere fangose, fastidiosi souvenirs della pioggia di un’ora prima.

    Sei bella ugualmente, avrebbe detto Jim.

    Bella.

    Bella Sandy Ann lo era davvero. Come un tempo lo era stata sua madre; Selena Howard in Johnsonn.

    Una bella bambina.

    Una bvava bambina.

     

     

    LA FAVOLA DI SELENA

     

    Era sempre stata bella, Selena Howard in Johnsonn. Sin da bambina quando sua madre le acconciava i capelli in setosi boccoli biondi e forcine dorate con la farfallina raffigurata alle due estremità. E i vestiti. Per la piccola contessina dovevano essere impeccabili ed esclusivamente d’alta sartoria; magari italiani visto che gli italiani, almeno per cucinare spaghetti, suonare mandolini e creare vestiti d’alta sartoria erano i migliori.Ogni giorno, alle cinque del pomeriggio, la madre convocava la dolce Selena perché le piaceva come la bambina faceva l’inchino alla sua vista.

    -Buongiorno, buon pomeriggio e buona sera, madre.Buona notte, madre.-, diceva Selena agitando i boccoli da una parte all’altra come una bambolina meccanica.

    -Avrei tanta voglia di ascoltare una fiaba, madre.-.

    Ho soltanto bisogno di un cachet per quest’emicrania che non mi lascia respirare, bambina. Ma se hai voglia di una fiaba non c’è problema. Ti accompagnerà a letto la tata Clotilde e la favola la leggerà lei.E che sia una bella favola, mi raccomando Clotilde.Non voglio che la piccola ne sia turbata.

    Non si turberà, signora Johnsonn, glielo assicuro.Nulla al mondo potrebbe turbare la vita della contessina.Nulla al mondo.

    Tranne forse le urla che aleggiavano come fantasmi la notte, nella sontuosa dimora inglese dei Johnsonn. Parevano partire dalle bianche scogliere di Dover, quelle grida, per estendersi su, più su, per tutta la brughiera e bucare le nebbie e finalmente giungere a grattare le mura della villa, ticchettare piano ed insinuarsi nelle nascoste crepe dell’animo, districare i pensieri e confondere le menti. Selena, durante quelle lunghe notti,si raggomitolava sotto le coltri e singhiozzava in un chioccolìo sommesso, le manine a premere sulle orecchie e i denti serrati per non gridare anche lei. Ma era proibito gridare.Perché una contessina non grida. Selena Johnsonn non DEVE gridare. A volte le urla erano come squittii lunghi, intermittenti, seguiti da uno scalpiccio per i corridoi dell’Howard’S House; i bisbiglii e l’agitazione della servitù, le luci ballerine giù, nel cortile.E Selena sapeva che il mattino dopo, a colazione, sua madre non sarebbe stata presente.Ed in un certo qual modo la bambina ne era (felice?) soddisfatta perché ultimamente le capitava di sognarla, sua madre la contessa e non le piaceva per niente il modo in cui la vedeva in sogno.Era altera, si, ma altera lo era davvero coi suoi colletti bianchi alti e rigidi, inamidati di fresco ed i capelli costretti in uno chignon perfetto; senza un solo ricciolo fuori posto. Selena ricordava una sera in cui, di nascosto della contessa, si era intrufolata nella camera da letto dei genitori.Ed era bellissima, quella camera; legnosa e piena di porcellane e argenti e libri,e antichi arabeschi e i letti separati e Tromp L’Oeil in stile rinascimentale.Selena amava prendere tra le manine lo specchio ricco d’intarsi della sua mamma; agitare la testina con aria civettuola come non poteva fare davanti a lei,assolutamente.Si specchiava e sorrideva al riflesso e tingeva le dita nella boccetta di cristallo dell’acqua di lavanda e si dava un tocco lì, appena dietro il lobo destro, lì dietro il sinistro e nell’incavo dei polsi come aveva visto fare una volta alla cameriera Rose prima che corresse in paese all’appuntamento col suo ragazzo, medico condotto figlio di allevatori di galline da quattro generazioni.Quella famosa sera, dunque, s’erano sentiti i soliti passi frettolosi per il corridoio e Selena si era nascosta (subito, subito! Nasconditi fra i cespugli che sta arrivando il Lupo Cattivo!) dentro il guardaroba.La contessa era entrata in camera come una furia, aveva sbattuta violentemente la porta. Selena la sentiva passeggiare su e giù per la camera.Poi, di colpo, non l’aveva più sentita.Allora la sua curiosità bambina aveva avuto il sopravvento sul terrore d’essere scoperta e aveva aperto un minuscolo spiraglio tra il guardaroba e l’esterno; invisibile finestra su quella creatura tanto amata ma temuta.

    (ora le farò una sorpresa,una bellissima sorpresa che quando mi vedrà fare tanto tanto la bambolina sono sicura che non mi sgriderà per niente proprio no sarà contenta e sono sicura che…)

    Sono sicura… che.

    La madre, che aveva disciolti i lunghi capelli davanti al riflesso della specchiera dorata, quella coi putti appesi attorno alla cornice, scioglieva i riccioli (stirava i capelli, li stirava con la spazzola e con le mani) stirava i capelli forte, troppo forte (stai attenta mamma così ti fai male quelle ciocche di capelli fra le mani e il sangue che hai Oddio ti fai male,così) e la bocca della madre, raggrinzita in uno spasmo (un ghigno da strega..La Brutta Strega Cattiva che mangia i bambini in un solo boccone gnam-gnam tieni tutti questi bei dolci e fammi sentire il tuo ditino se è diventato più grasso) strano, e diverso.

    -Maledetti tutti quanti siete, maledetti voi che volete solo il mio male ma il Signore vi punirà. Tutti quanti-, mormorava in una cadenza di ninna nanna la contessa stirandosi i capelli. Selena lentamente aveva richiuso la sua finestra sulla creatura. S’era accntucciata fra cappotti, pellicce e cappelliere di varie misure.

    -Uscirò dopo-, aveva pensato con occhioni spalancati da cerbiatto sparuto.Ed erano ricominciate le urla, ululati forti e continui di rabbia e dolore e rancore e odio assieme in un unico , alieno suono. Selena era rimasta nascosta dentro l’armadio pregando la fata buona (perché io so che esisti e so anche che quella signora là fuori che grida tanto non è la mia mamma la mia mamma è diversa è sempre composta la mia mamma e i capelli li ha raccolti bene non così…così. Ti prego fata buona vieni qui e portami via portami in un posto lontano dove posso chiamare mamma la mia mamma e non madre e lei non urla perché deve urlare se abbiamo tutto nella vita lo dice sempre anche Clotilde che abbiamo tante cose belle e sono una bambina fortunata ma portami via di qui, fata buona.).La fata buona non era arrivata (non avrà sentito che la chiamavo) e Selena s’era addormentata piangendo. Al risveglio, le urla erano cessate e la bambina,intirizzita dal freddo, sgranchiti alla meglio gli arti era sgattaiolata finalmente dalla camera dei genitori (vuota, è vuota.E buia) alla sua.Il mattino,la mamma era presente.Almeno fisicamente.Contemplava assorta il vaso Baccarat ricolmo di magnolie posto su uno dei due trumeaux Luigi XV accanto alle alte finestre drappeggiate di rosso tiziano e crema, il conte Howard era assorto nella lettura delle Confessioni di Rousseau, sprofondato nella poltrona di pelle nera (la preferita) quando Selena a capo chino, pallida e smunta, aveva fatto il suo ingresso in sala, accompagnata da Clotilde.La tata salutando aveva fatto un inchino grazioso ed inverosimile per la grossa mole e s’era ritirata alle proprie faccende.La contessa, senza degnare la tata di risposta alcuna, aveva impercettibilmente sollevato un sopracciglio.

    -Buongiorno, Selena-

    -Buongiovno, madve-.

    Quella mattina era cominciato il difetto di pronunzia della bambina. Non grave, certo.Ma era un’imperfezione e ciò ch’era imperfetto dava fastidio alla contessa Johnsonn in Howard.

    -Devi parlare bene, piccola strega…come ti è stato insegnato a fare-

    -Pevdonami, madve-

    -Queste IMPERFEZIONI mi mandano in bestia, Frank-

    -E’ una bambina, Laurel cara.Bisogna avere pazienza e sono sicuro che questa IMPERFEZIONE sparirà-

    -Pevdonami, madve-

    -Non ce la faccio più con quella bambina.La tata mi ha riferito che ieri pomeriggio l’ha trovata davanti alla MIA specchiera che annusava i MIEI profumi-

    -Abbi pazienza, Laurel cara.Crescendo cambierà.-.

    -Pevdonami, madve.-.

    -Oramai Selena ha l’età giusta ; ho pensato ad Oxford, Frank-

    -Mah…abbiamo sempre parlato d’una istruzione di tipo privato, Laurel cara-

    -Sono convinta che il contatto quotidiano con altri giovani della sua età le farà bene.E farà bene anche alla sua IMPERFEZIONE.

    Ti trovi in accordo con la mia proposta, Selena?-

    -Mi tvovo in pevfetto accovdo,madve-.

    Quello stesso anno, Selena ne aveva sedici,durante una lezione di letteratura francese il rettore in persona la mandò a chiamare.

    Come sta,Miss Howard? Segga, segga. Non abbiamo mai avuto dubbi sul fatto che l’antica e onorata tradizione dell’Oxford non poteva che esserle congeniale.

    E’ pevfetta, grazie signove.

    So che è una delle migliori allieve del corso, Miss Howard.

    Faccio del mio meglio, grazie, signove.

    Dunque, signorina… .Spetta a me, purtroppo, il doloroso compito di darle una brutta notizia.

    Mi dica, signove.

    Si tratta di sua madre,la cara contessa Laurel tanto stimata ed ammirata da noi tutti.Ecco… purtroppo la notte scorsa ha avuto uno spiacevole incidente.

    Cosa è successo

    Bhè, penso sia meglio che sia proprio suo padre il conte Howard al metterla al corrente dell’accaduto e…

    E’ movta?

    MISS HOWARD!? Oh Signore, no, cosa va a pensare! No, non è morta.Comunque le verranno concessi venticinque giorni di permesso. Può tornare all’Howard’S House, signorina, e porti i miei sinceri cordogli per l’accaduto al conte suo padre.

    Pvoddedevò, grazie signove.

    Buongiorno, e buon viaggio.

    Buongiorno, signove.La ringvazio.

    L’aria era umida e soffice, nel cielo splendevano ancora le ultime stelle quando la Rolls di famiglia aveva imboccato il viale d’ingresso alla dimora degli Howard; punteggiato da cipressi ed olmi potati a regola d’arte. A Selena era andata incontro la vecchia e saggia Rose, ogni anno più rugosa, curva e rigorosamente zitella ("Io sposarmi ?Oh, Signore, cosa le passa per la testa, contessina?!Oh Signore…no, non potrei mai abbandonare l’Howard’S House per…per un uomo!").

    -Buongiovno, Vose-

    -Bambina mia!Che il Signore la benedica…è talmente bella!-

    -La ringrazio, Vose.Mio padre?-

    Gli occhi della governante s’erano velati un attimo.

    -E’ in biblioteca.Lo faccio chiamare subito.Ma venga contessina, venga dentro al caldo chè qui manca poco a piovere ancora…ha piovuto tanto, quest’anno.Ha piovuto troppo e questo intristisce gli animi già provati dal dolore. SERGE! Porta su le valigie della contessina, avanti, giovane pelandrone! Eeeeh, questi ragazzetti di brughiera! Tutti birra rossa,fumo e sale da ballo di paese.Su, su! Nella camera degli ospiti-

    -Come?- domandò infastidita Selena ma senza perdere il controllo. La vecchia governante sospirò. –La sua camera è…ecco,ordini tassativi da parte del conte suo padre. Nella camera non è possibile soggiornarvi, al momento.Ma mi segua contessina, le servo subito una bella tazza di the caldo,al bergamotto, il suo preferito.Ho anche fatto preparare dalle cuoche quelle cialde che amava tanto,le ricorda?-

    -I miei gusti sono cambiati ova, Vose-.

    -Ah… .Comprendo, contessina. Perdoni il mio ardire-

    -Nulla di che, Vose.-.

    Selena carezzò con mano guantata di bianco il lungo pianoforte a coda e colse un rametto delle immancabili magnolie dal capiente vaso cinese sulla mensola del camino in pietra. Sciolse il nastro di seta nero del cappellino in paglia e lo lasciò volare sopra il divano.

    La figura del padre, in vestaglia da camera terra bruciata, s’inquadrò sulla soglia.

    -Bentornata, cara Selena-, disse in un soffio e alla ragazza non sfuggirono gli occhi gonfi e cerchiati nero dietro gli occhiali da lettura, l’incarnato cereo e le tempie d’argento.

    -Il Vettore m’incavica di espvimevti il suo profondo cordoglio pev…-

    -Non mi chiedi come sta tua madre?-

    -Cevto.Come sta?-

    -Siedi, figliola.

    Mi addolora immensamente questa tua freddezza nei nostri confronti, Selena.In questi anni mai una lettera se non alle feste comandate,mai una telefonata o una visita-

    -Lo studio vichiede impegno, padve cavo.

    Posso sapeve cosa è capitato?-

    -Ecco…si. E’ giusto che tu sappia. Hai sempre sospettato, credo della… cagionevole salute di tua madre, della sua grande sensibilità-

    (della sua pazzia)

    -Si-.

    -Bene.-

    (Ti è così difficile dirlo, padre? PAZZIA? E’ una parola troppo difficile per te. Siete sempre stati così bene, tu e lei. E tu ti accontentavi del tuo immenso e disperato amore a senso unico pur di averla vicino. Anch’io andavo bene per voi fino a che non disturbavo, fino a che ero PERFETTA)

    Selena pensò e non disse, solamente guardò suo padre.E l’uomo non resse lo sguardo.

    Virò vacuo alla vasta vetrata, gli alberi fuori e l’erba tagliata a fresco, le fronde d’una vite americana arrubinate dall’autunno e saltate dal vento.

    -La notte scorsa tua madre ha avuta una crisi più forte delle altre. Si trovava nella tua camera,quando è successo. Lei è… è stata colta da un infarto e…una semiparesi e…oh, Sant’Iddio!-

    Il conte Howard non riuscì a proseguire. Trascinò le membra sopra la sua poltrona di pelle nera, vi s’accasciò esausto.

    Sospirò, roco, fissando le proprie mani nodose e torturandone le dita.

    -I medici che ho consultato dicono che sia una fortuna che l’infarto non l’abbia portata via ma il suo volto, Selena…Sant’Iddio, il suo bellissimo volto!-

    Di colpo l’uomo riacquistò (cercò di riacquistare) il consueto contegno. Noblesse oblige.Tastò un sigaro, assorto.

    -Vai su a trovare tua madre,Selena. Sono sicuro che le farà piacere.-

    -Come desidevi-

    -Selena?-

    -Mmmh?-

    -Perdonala. Perdonaci.

    E’ una preghiera la mia, Selena-.

    E Selena sorrise di un sorriso malevolo, vendicativo. Un sorriso che non era già più il suo.

    -Non lo so-, disse sicura. E lasciò la sala.

    Restava aggrappata al corrimano come fosse l’unica cosa sensata da fare in quell’istante; come fosse l’ultimo battello libero in un mare in tempesta, mentre la nave affondava alle sue spalle.Doveva attraversare il corridoio buio per arrivare alla camera di sua madre. E non ci riusciva, era più forte di lei e le mancava l’aria, avvisava le forze venirle meno come pure i pensieri.

    -Contessina?-. Era Rose, giù, sull’ultimo gradino di granito ricoperto parzialmente da una passatoia di velluto rosso e oro.

    -Tutto bene, cara?-

    -S…si, gvazie. Una piccola vevtigine, ma è passata-.

    Lasciò andare il corrimano che ora bruciava sotto le dita e, finalmente, giunse dinanzi la porta della camera.Bussò una, due volte. Non ebbe risposta, entrò.

    Nella penombra la colpì una zaffata aspra d’alcool e penicilline e colonia di lavanda inglese.

    Come conosceva bene quella camera! Il letto e la specchiera (il guardaroba) e i vasi Baccarat di magnolie sempre fresche (e il guardaroba) i comò legnosi e l’icona di un Cristo appena sopra uno dei letti, il catino e la brocca di preziosa fattura veneziana nel loro sostegno in ferro battuto, decorato a foglia d’oro.Il paesaggio campestre lì, sulla parete ovest e la caccia alle volpi su quella est, la collezione di quasi duecento bambole di fine porcellana Bisquit in abiti d’epoca nella vetrina di fianco alla specchiera, piatti e tazze in miniatura appartenenti al settecento francese. E il pouf rivestito di broccato rosso come le tende,dove la mamma soleva sedersi per spazzolare (tirare? Strap…pare?) i capelli. Si.Tutto era uguale come lo ricordava.. Tutto. Solo la figura accartocciata tra le coltri era diversa. Non era sua madre, la SUA bellissima Laurel quella; ne era solo la patetica e tragica controfigura, storta,la bocca bloccata in un ghigno da maschera greca e la pupilla dilatata, la mano storpia e anchilosata. Dormiva con la palpebra sollevata, a quanto pare. Per fortuna dormiva. Selena la fissò per un lunghissimo istante. S’avvicinò al letto senza toccarla,trattenendo il respiro. Poi tornò sui suoi passi, fece per uscire ma sorrise. S’arrestò davanti la specchiera, sedette sul pouf. Sciolse i capelli biondo cenere. Raccolse la spazzola d’argento, la passò sui riccioli una, due, tre, quattro volte. Arrivò fino a cento; fino a che i riccioli s’arresero al liscio. Selena intinse il dito indice ed il medio nella boccetta di colonia alla lavanda, profumò il collo e appena dietro i lobi delle orecchie; su gl’incavi dei polsi, la base del collo. Bagnò il piumino della cipria per spolverarsi guance e naso e con un tocco di rosso ciliegia umettò le labbra pallide. Ecco. Perfetto. Ora manca solo una cosa. Cosa manca cara? Tu sei IMPERFETTA, ricordalo sempre. E anche se tenti di somigliarmi sei imperfetta lo stesso e non ci riuscirai mai. Guardati il naso per esempio. Stai zitta, madve. Guardati le labbra, sono più fini delle mie, io le ho morbide e carnose, naturalmente rosee anche senza il rosso ciliegia. Stai zitta madve. E il naso, il naso ha una gobbettina dove il mio non ce l’ha; lo vedi?

    No madve.

    Selena aprì il guardaroba, levò la vestaglia preferita da Laurel; in cachemire nero con l’effigie della famiglia intarsiata in oro sopra il seno. La indossò sulla divisa del college. Perfetta. Era davvero perfetta, adesso. Così conciata tornò ad accostarsi al letto dove la madre ancora dormiva. Ova mamma sono come te.Sono pevfetta.

    "Sono pevfetta, madve", volle dirle. Ma non la svegliò; era troppo diversa, troppo…IMPERFETTA, lei. Lo sguardo virò alla specchiera. Ecco, quella era sua madre. La riconosceva bene, lei e i suoi capelli lunghi e lisci e le sue labbra e le sue guance e la sua vestaglia di cachemire nero con l’effigie della famiglia Howard proprio sopra il seno.

    -sono davvero pevfetta-.

    -Sant’Iddio- era sfuggito sommessamente dalle labbra del conte Howard, di fianco alla giovane infermiera che aveva in cura sua moglie.

    Selena era trasalita.

    -LEVATI SUBITO QUELLA ROBA. TU NON SEI TUA MADRE!-
    (e non lo sarai mai)

    (e non lo sarai)

    (MAI!)

    Selena era arrossita fino alla punta dei capelli ed in quel la donna immobilizzata nel vasto letto legnoso s’era svegliata.

    -C…che ac…c…cade?- aveva biascicato in un mormorio sfibrato e storto. Selenee pupille erano scivolate da lei al soffitto,dal soffitto alla parete di fronte e, roteando su sé stessa in una nuvola di tessuti, la giovane era caduta in terra priva di sensi.

    Il conte s’era limitato a punteggiare un’occhiata di ghiaccio sull’ infermiera spaventata.

    -La soccorra pure-, le aveva sibilato, -Ma non faccia mai parola con nessuno di ciò che ha visto e sentito. Sono stato chiaro?-

    Un sospiro mozzo.

    -si, signore-.

     

    "Ninna nanna, ninna oh

    Questa bimba a chi la do

    La davò all’uomo nevo

    Che la tiene un anno intevo

    La davò alla sua mamma

    Ninna nanna ninna oh

    La mia Vivgi a chi la do."

    (-Sei una bvava bambina, Vivgi cava.

    Non come Sandy Ann. La piccola Sandy Ann è una bambina disobbediente e cattiva imperfetta che non si lascia mai pettinare dalla sua mamma.).

    Virginia tornò alla realtà. Aprì gli occhi.

    Luce.

    Li richiuse, strizzandoli. Se il buio potesse prendermi con sé una volta per tutte.Definitivamente.

    Ma no. Non andava bene. A quanto pare il Creatore, se un Signore là in alto c’era a spiare e muovere i destini del mondo; bhè quel Signore, volenti o nolenti, non voleva saperne di prendersi la sua anima. O forse, come predicava da anni in TV Fratello Lawrence, l’anima di Virgi era sempre stata Sua dall’inizio, continuava a farle pagare l’affitto giorno per giorno un affitto molto CARO e per ora gli bastava così, al Signore Burlone.

    Si era attaccata morbosamente al SUO Rob smettila, Virgi dimenticando, tralasciando che un figlio non è una proprietà. Non è il riscatto degli errori passati Rob lo era stato, non è così Virgi cara? .

    Virginia allungò la mano verso il comò, raccolse il bicchiere con l’acqua. Protese con sforzo enorme busto e bacino, portò il bicchiere alle labbra screpolate e tremanti e bevve avidamente facendo cadere quasi metà del contenuto sulla coperta di lana pachwork. Restò un istante così, il bicchiere stretto tra le mani e la testa dolorante d’una emicrania che non accennava a darle pace. Il campanello dabbasso prese a suonare insistentemente , tanto da far riaffiorare Virginia dai pensieri brumosi. Scrutò oltre le imposte.C’era il sole, fuori. Forse era il ragazzo coi volantini pubblicitari del detersivo per lavatrice. O Misty Senior per il vuoto del latte di qualche giorno prima quanti…giorni prima? . Okay. Chiunque sia e accidenti a lui, smetterà pure di suonare No, Virgi…non farlo smettere. NON DEVE smettere perché tu sei quassù che ti lasci morire. Questo nessuno lo sa. Virginia avvertì una nuova fitta al polpaccio. La damina della stampa inglese sollevò il braccio con espressione corrucciata.

    Eeeeeeh, Virginia. Già, già.Mi sa che stavolta è la volta buona

    -Torna a bere il tuo the-, rispose Virginia alla damina.

    Credo che una bella tazza di THE farebbe bene anche a TE, Virgi baby. Dài, ammiccò quella, parlami di te.Ormai possiamo dire tranquillamente di essere diventate amiche, non credi? Non è da tutti essere mia amica, signorina.

    -Credo tu dica la verità, Madame Butterfly, e ne capisco il motivo-

    OooooooH! Senti senti che bel nome mi hanno dato, AndreW!

    La damina si rivolse ad un cavaliere che giungeva in quel preciso istante nel prato, coi capelli biondi al vento ed il frustino tra le mani robuste.

    La senti, AndreW? Mi ha chiamata Madama Butterfly!Non è romantico?!Oh Signore, che nome carino…come dicono a Paris? Trés, trés chic!

    « JOLIE ! », s’intromise l’altra dama seduta sull’erba, « Si dice jolie ! »

    Oh, merci. "Jolie". Madame Butterfly…Signora Farfalla.Io adoro le farfalle, lo sai Andy ?

    Il vento soffiò con maggiore forza e la mantellina di pizzo della dama seduta volò via.

    A Virginia arrivò una zaffata d’aria odorosa di primule selvatiche e trifoglio. Madame Butterfly fece per accomodarsi le gonne, poggiò la tazza del The in un angolo della tovaglia sul prato.

    Allora, signorina Virgi cara, vuoi parlare con me? Ti converrebbe parecchio.Io non costo nulla.Eppoi non cercherei una spiegazione razionale in tutto quello che dici, come fa qualche strizzacervelli di tua conoscenza.Te lo giuro, Virginia cara. Non ti chiuderò in nessun maledetto istituto per malattie mentali, IO. No, cara che non lo farò.Non lo farei mai, io.Non sono tua madre, IO.Vuoi credermi?

    La damina sorrise e gli occhi ebbero uno scintillìo sinistro.

    Vuoi credermi, Virginia?

    * * * *

     

    -Vuoi credermi, Virginia?-

    -N…non lo so, Ann-.

    -Ricordati sempre che io e te siamo legate,Virgi. Lo dicono tutti che essere gemelli è una cosa diversa, rara. E’ speciale. E perciò, se io mi fido di te e ti credo tu devi fare lo stesso. Dài, giura-

    -Non so se facciamo la cosa giusta, ecco-.

    Sandy Ann raccolse un bastoncino dalla sabbia. Tracciò una figura astratta. La cancellò col pugno e disegnò un sole grande, i raggi lunghi e sparsi. –Sei sempre la solita fifona-, mormorò spazientita, -E aggiustati la bretella della tuta chè se ti vede così mamma passi tutta la notte in cantina, al buio-.

    Virginia rabbrividì, sistemò la bretella rossa con movimento lesto, guardandosi attorno. Sandy Ann frugò nella tasca della gonna a quadri scozzesi. Levò un piccolo cubo multicolore.

    -Cos’è?- domandò Virginia.

    -L’ho fatto ieri notte, in cantina. L’ho fatto tutto da sola sai, coi pezzetti di cartone colorato che c’erano sul pavimento-

    -Al buio?-

    -Già. Al buio. Ma era come se vedessi tutto quello che facevo, Virgi. Usavo l’immaginazione. Tieni. Prendilo. Lo puoi usare, se vuoi.

    Si chiama "scatola cinese"-

    -Perché "cinese"?-

    -L’avranno inventato i cinesi, bhò. E Sandy Ann l’ha brevettato. Prendi-.

    La sorella rise gioiosa –E’ bellissima! Sono una dentro l’altra!!-

    -Si.-.

    Sandy Ann riprese a tracciare cerchi sulla sabbia. In lontananza, sul lago dorato dal tramonto di fine estate, un modesto gruppo di canoisti procedeva vogando lentamente, con scatti meccanici.

    Sandy Ann spiò la sorella che, con immensa meraviglia, faceva uscire tutte le scatoline e le poneva in fila indiana sopra un grande masso. Suo malgrado non riuscì a sentirsi felice.

    -Ci sono i topi, in cantina-, sussurrò. Si morse il labbro inferiore.

    Le manine di Virginia s’arrestarono a mezz’aria.

    -Mmmh. Lo so. Speravo che…non te ne accorgessi. Hanno fatto il nido nel canterano della nonna, quello che quando apri gli sportelli diventa un altare-. (…)

     

     

     

     

     

     

     

     

     


     

     

    :